V Domenica di Pasqua -
Anno B – 3 maggio 2015
Rito Romano
At 9,26-31; Sal 21; 1
Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
Rito Ambrosiano
At
7, 2-8. 11-12a. 17. 20-22. 30-34. 36-42a. 44-48a. 51-54; Sal 117;
1Cor 2,6-12; Gv 17,1b-11
1)Rimanere in ….
Nel Vangelo di oggi
Cristo dice di se stesso che è la Vite e invita i discepoli - di
allora e di oggi - a rimanere in Lui come Lui rimane in noi.
La prima risposta a questo invito è di chiederGli di darci la
grazia di essere degni del fatto che Lui abiti in noi. L’audacia di
questa domanda ha il suo fondamento in ciò che è stato detto da Dio
stesso: Lui ha promesso di abitare, di rimanere nel cuore di
chi è retto e sincero. “Un cuore che nessuna
intenzione equivoca può sviare; un cuore fermo che resiste ad ogni
avversità; un cuore libero che nessuna passione violenta può
soggiogare” (cfr San Tommaso d’Aquino).
Il verbo “rimanere”1
è un verbo chiave del quarto vangelo e significa prendere dimora,
fondare un legame stabile, abitare.
Questo è il disegno
di Dio: noi creature piccole, incoerenti e peccatrici, siamo chiamate
ad essere la dimora di Dio.
Viene alla mente la
meraviglia di re Salomone quando consacrò il tempio di Gerusalemme
ed esclamò: “Ma è proprio vero che Dio abita in una casa sulla
terra?” (1 Re 8, 27).
La meraviglia di
Salomone non è niente di fronte allo stupore del cristiano per il
fatto che Dio sceglie come sua dimora, come sua casa il nostro cuore,
la nostra vita.
Questa decisione di
Dio di farci sua dimora è stupenda, ma l’immensità dell’amore
di Dio non può entrare nel nostro cuore, se Lui stesso non ci desse
la grazia di accoglierlo. Quindi, non ci resta che domandare un cuore
come quello di Maria, la Vergine Madre, l’umile Serva di Dio, la
quale più di tutti ha fatto spazio nella sua vita al Signore,
diventando anche fisicamente la Sua dimora di Dio.
L’importante è
avere un cuore retto e sincero, come quello della Madonna, cioè un
cuore che non ha altro desiderio, se non quello di essere una cosa
sola con il Figlio di Dio venuto tra noi.
Per essere cristiani
bisogna avere un grande e santo desiderio. È necessario desiderare
con tutte le nostre forze di essere niente meno che il luogo in cui
Dio abita, per poter noi stessi abitare in lui e, rimanendo in lui,
avere i la sicurezza, la gioia, la misericordia e la pace.
Per dare un’immagine
del rimanere, Gesù usa la metafora della vite e dei tralci: “Io
sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto
frutto, perché senza di me non potete far nulla [...]. Se rimanete
in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi
sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto
frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15,4-8). Il rimanere non è
sterile, si riconosce dal fatto che porta frutto e questo frutto è
l’amore e l’amore produce gioia. Quindi credo sia giusto
affermare che il vero frutto, segno della presenza di Dio, è la
gioia. Appunto, la vite che produce il vino è il segno della gioia,
dell’amore, del frutto che tutti dobbiamo produrre.
2)
La vera Vite: Cristo, e noi in Lui.
L’affermazione di
Gesù: “Io sono la vite” introduce una novità rispetto
all'Antico Testamento, dove si afferma che Dio ha una vigna2
e si lamenta con la sua vite, cioè con il suo popolo: “Ma cosa ho
fatto? Forse ho sbagliato qualcosa? Forse non ho avuto abbastanza
cura di te? Perché mi fai questo e non produci i frutti?”.
Nell'Antico Testamento
si parla di una vigna e di una vite che non sono all’altezza delle
attese di Dio. Nel Nuovo Testamento si dice che Dio stesso è la
vite. Nel Vangelo è insegnato che la vite è finalmente all’altezza
delle attese di Dio, perché Gesù è la vite.
La vera vite è quella
che produce frutto. Questa vite si contrappone alla vigna “falsa”,
sterile, che non produce frutto.
E’ il dramma di
Dio, non ha trovato un uomo che rispondesse al suo amore. Il primo
uomo che risponde all’amore è il Figlio, il Figlio suo che diventa
Figlio dell’uomo e lui è la vite, è il primo uomo che produce il
frutto desiderato da Dio, che produce l’uva vera: il frutto dolce
che è l’amore. Cristo è la vite che produce il frutto dell’amore
del Padre e dei fratelli. Per questo è la vite vera.
E’ un dramma per Dio
che questa vite non risponda alle sue cure, e si chiede: “Cosa
dovevo fare che non abbia fatto?? E’ un vero dramma per Dio ed è
questo dramma che verrà fuori anche nella parabola dei vignaioli
come ci è raccontata da Marco al capitolo 12 e paralleli.
Questo dramma in Gesù
si risolve, perché Lui è la vite, come Lui è la vita così Lui è
la vite e produce frutto.
“Io sono la vite,
voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché
senza di me non potete far nulla [...]. Se rimanete in me e le mie
parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In
questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e
diventiate miei discepoli”. (Gv 15,4-8).
Il rimanere non è
sterile, si riconosce dal fatto che porta frutti. I frutti principali
sono il cambiamento e la gioia che lo stesso rimanere gratuitamente
provoca.
Il rimanere con Gesù
implica - come dovere a livello di coerenza, ma prima e innanzitutto
come conseguenza a livello dell’essere - vivere come Gesù: “Chi
dice di dimorare in Lui, deve comportarsi come Lui si è comportato”
(1 Gv 2,6). A questo punto, sorge una domanda ovvia: “Come
è possibile comportarsi come Cristo, vero uomo ma anche vero Dio,
l’Innocente che muore per i colpevoli?”. Restando attaccati a
Lui, come tralci alla vite. In effetti, Gesù dice anche a noi:
“Io-Sono la vite, voi i tralci”. Quindi se restiamo attaccati a
Lui, allora portiamo molto frutto, cioè il suo stesso frutto,
abbiamo la sua a stessa vita di Figlio, il suo stesso amore per il
Padre, il suo stesso amore per i fratelli. Se restiamo uniti a Lui
continuiamo la sua opera e la sua opera è dare vita e dare amore; se
ci separiamo da Lui distruggiamo la sua opera e diamo frutti di
morte.
Ma allora, come
rimanere in lui? Come perseverare in questa adesione a Lui, vincendo
la fragilità della nostra povera natura umana ferita ed infedele?.
Prima di tutto,
chiedendo questo dono di “rimanere il lui”, Amore che diventa la
nostra casa. Se non chiediamo, se non siamo mendicanti dell’Amore,
non possiamo riceverlo in dono.
In secondo luogo, se
cresciamo nella consapevolezza che per vivere in questa casa,
dobbiamo abitarvi con il cuore pieno di riconoscenza. Dunque il
sentimento da coltivare è la gratitudine, perché un cuore grato è
un cuore fedele, lieto di essere amato da Dio e di amare i fratelli,
lieto di essere amico di Cristo, che non vuole servi ma amici. Ed
essere amici di Gesù vuol dire accettare la sua Persona, vuol dire
accettare il suo amore per noi, vuol dire amarLo e amare il nostro
prossimo.
Un esempio speciale di
questa accettazione di Cristo, di questa adesione a Lui è quello
delle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne sono chiamate ad
essere nel mondo testimoni della fedeltà di Dio che è il custode
della loro.
Fedeli
alla Parola rivolta a loro da Dio fin dal giorno del battesimo e che
nel tempo ha preso la forma di una chiamata a vivere la vocazione
cristiana nella forma particolare della consacrazione verginale.
Fedeli
come spose al loro Sposo, perché la caratteristica delle dell’Ordo
Virginum è quella di vivere il loro essere spose di Cristo nella
vigilante custodia della promessa di Gesù: “Sì, vengo presto!”
(Ap 22,20) e nell’essere voce che, nella gratuità, responsabilità
e libertà pura delle relazioni, grida alla Chiesa e al mondo: “Ecco
lo Sposo! Andategli incontro!” (Mt 25,6).
Fedeli
a Cristo, le donne dell’Ordo Virginum sono portatrici della
Parola dell’Amato. E’ dall'amore sempre fedele di Dio che esse
attingono forza nel perseverare nell’abbraccio la verginità per il
Regno dei cieli (Mt 19,12) e si impegnano a vivere ogni giorno con
autenticità e concretezza quell'Amore che manifesta il volto di Dio.
1
Il verbo rimanere (μένειν,
menein,)
s’incontra 118 volte nel Nuovo Testamento, di cui soltanto 12 nei
Vangeli sinottici, 17 in Paolo e ben 67 nel Vangelo e nelle Lettere
di Giovanni. Il termine appare il più delle volte (43 dei 67 casi)
nell’espressione composta rimanere
in. Direi che si possono
distinguere tre modalità dell’uso del verbo rimanere e delle
espressioni ad esso collegate: innanzitutto l’uso semplicemente
biografico-spaziale, connesso alla descrizione degli spostamenti di
Gesù nella sua missione pubblica. In secondo luogo le espressioni
che ricorrono nei racconti degli incontri evangelici, come quelli
con Giovanni e Andrea (Gv 1,38-39) e con i samaritani (Gv 4,40-42).
E infine le formule contenute nei discorsi di Gesù o nelle Lettere:
si tratta di inviti rivolti ai discepoli a rimanere in Lui,
rimanendo nella sua parola e nel suo amore. Ci sono affermazioni in
cui è indicato insieme il rapporto di Gesù con i discepoli e il
rapporto di Gesù con il Padre e la comunione con il Padre e con il
Figlio che è sperimentata dai discepoli.
Lettura Patristica
Sant’Ambrogio,
Vescovo di Milano,
Exameron III, V,
12, 49-52
La vite simbolo
della nostra fecondità spirituale
Saprai
certamente che, come hai in comune con i fiori una sorte caduca, così
hai in comune la letizia con le viti da cui si ricava il vino che
rallegra il cuore dell’uomo (Ps
103,15).
E magari tu imitassi, o uomo, un simile esempio, in modo da
procurarti letizia e giocondità. In te si trova la dolcezza della
tua amabilità, da te sgorga, in te rimane, è insita in te; in te
stesso devi cercare la gioia della tua coscienza. Perciò la
Scrittura dice: "Bevi
l’acqua dai tuoi vasi e dalla fonte dei tuoi pozzi"
(Pr
5,15).
Anzitutto nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, se è
vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda
che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. Inoltre,
chi non proverebbe meraviglia al vedere che dal vinacciolo di un
acino la vite prorompe fino alla sommità dell’albero che protegge
come con un amplesso e avvince tra le sue braccia e circonda in una
stretta rigorosa, riveste di pampini e cinge di una corona di
grappoli? Essa, ad imitazione della nostra vita, prima affonda la sua
radice viva nel terreno; poi, siccome per natura è flessibile e non
sta ritta, stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi
viticci quasi fossero braccia e, reggendosi per mezzo di questi, sale
in alto.
Del
tutto simile è il popolo fedele che viene piantato, per così dire,
mediante la radice della fede e frenato dalla propaggine dell’umiltà.
Di essa dice bene il profeta: "Hai
trasportato la vite dall’Egitto e ne hai piantato le radici e la
terra ne è stata riempita. La sua ombra ha ricoperto i monti e i
suoi viticci i cedri del Signore. Stese i suoi rami fino al mare e
fino al fiume le sue propaggini"
(Ps
79,9-12).
E il Signore stesso parlò per bocca d’Is dicendo: "Il
mio diletto acquistò una vigna su un colle, in un luogo fertile, e
la circondai d’un muro e vangai tutt’attorno la vigna di Sorec e
nel mezzo vi innalzai una torre"
(Is
5,1-2).
La circondò infatti come con la palizzata dei comandamenti celesti e
con la scolta degli angeli. Infatti "l’angelo
del Signore si accamperà attorno a quanti lo temono"
(Ps
33,8).
Pose nella Chiesa come la torre degli apostoli, dei profeti, dei
dottori, che sogliono vigilare per la pace della Chiesa. La vangò
tutt’intorno, quando la liberò dal peso delle cure terrene; nulla
infatti grava la mente più delle preoccupazioni di questo mondo e
dell’avidità di denaro o di potere. Ciò ti viene mostrato nel
Vangelo quando leggi che quella donna, che uno spirito teneva
inferma, era così curva da non poter guardare in alto. Era curva la
sua anima che, rivolta ai guadagni, non vedeva la grazia celeste.
Gesù la guardò, la chiamò, e subito la donna depose i pesi
terreni. Egli mostra che da simili brame erano gravati coloro ai
quali dice: "Venite
a me tutti voi che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò"
(Mt
11,28).
L’anima di quella donna, come se le avessero scavato intorno la
terra, poté respirare e si raddrizzò.
Ma
anche la vite, quando intorno le è stato zappato il terreno, viene
legata e tenuta diritta affinché non si pieghi verso terra. Alcuni
tralci si tagliano, altri si fanno ramificare: si tagliano quelli che
ostentano un’inutile esuberanza, si fanno ramificare quelli che
l’esperto agricoltore giudica produttivi. Perché dovrei descrivere
l’ordinata disposizione dei pali di sostegno e la bellezza dei
pergolati, che insegnano con verità e chiarezza come nella Chiesa
debba essere conservata l’uguaglianza, sicché nessuno, se ricco, e
ragguardevole, si senta superiore e nessuno, se povero, e di oscuri
natali, si abbatta o si disperi? Nella Chiesa ci sia per tutti
un’unica e uguale libertà, con tutti si usi pari giustizia e
identica cortesia. Perciò nel mezzo si innalza una torre, per
mostrare tutt’intorno l’esempio di quei contadini, di quei
pescatori che meritano di occupare la rocca della virtù. Sul loro
esempio i nostri sentimenti si elevino, non giacciano a terra
spregevoli ed abietti; ma ciascuno innalzi l’animo a ciò che sta
sopra di noi e abbia il coraggio di dire: "Ma
la nostra cittadinanza è nei cieli"
(Ph
3,20).
Quindi, per non essere piegato dalle burrasche del secolo e travolto
dalla tempesta, ognuno, come fa la vite con i suoi viticci e le sue
volute, si stringe a tutti quelli che gli sono vicini quasi in un
abbraccio di carità e unito ad essi si sente tranquillo. È la
carità che ci unisce a ciò che sta sopra di noi e ci introduce in
cielo. "Se
uno rimane nella carità, Dio rimane in lui"
(1Jn
4,16).
Perciò anche il Signore dice: "Rimanete
in me ed io in voi. Come il tralcio non può produrre frutto da solo,
se non resta unito alla vite, così anche voi, se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci"
(Jn
15,4-5).
Manifestamente
il Signore ha indicato che l’esempio della vite deve essere
richiamato quale regola per la nostra vita. Sappiamo che quella,
riscaldata dal tepore primaverile, dapprima comincia a gemmare, poi
manda fuori il frutto dagli stessi nodi dei tralci, dai quali
nascendo l’uva prende forma e, a poco a poco sviluppandosi,
conserva l’asprezza del prodotto immaturo e non può diventare
dolce se non raggiunge la maturazione sotto l’azione del sole.
Quale spettacolo è più gradevole, quale frutto più dolce che
vedere i festoni pendenti come monili di cui si adorna la campagna in
tutto il suo splendore, cogliere i grappoli rilucenti d’un colore
dorato o simili alla porpora? Crederesti di veder scintillare le
ametiste e le altre gemme, balenare le pietre indiane, risplendere
l’attraente eleganza delle perle, e non ti accorgi che tutto ciò
ti ammonisce a stare in guardia perché il giorno supremo non trovi
immaturi i tuoi frutti, il tempo dell’età nella sua pienezza non
produca opere di scarso valore. Il frutto acerbo suole essere
senz’altro amaro e non può essere dolce se non ciò che è
cresciuto sino alla perfetta maturità. A quest’uomo perfetto
solitamente non nuoce né il freddo della morte con il suo brivido né
il sole dell’iniquità, perché lo protegge con la sua ombra la
grazia divina e spegne ogni incendio di cupidigie mondane e di
lussuria carnale e ne tiene lontani gli ardori. Ti lodino tutti
coloro che ti vedono e ammirino le schiere dei cristiani come
ghirlande di tralci, contempli ciascuno i magnifici ornamenti delle
anime fedeli, tragga diletto dalla maturità della loro prudenza,
dallo splendore della loro fede, dalla dignità della loro
testimonianza, dalla bellezza della loro santa vita, dall’abbondanza
della loro misericordia, così che ti possano dire: "La
tua sposa è come vite ricca di grappoli nell’interno della tua
casa"
(Ps
127,3),
perché con l’esercizio di una generosa liberalità riproduci
l’opulenza d’una vite carica di grappoli.
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