venerdì 23 febbraio 2018

Trasfigurazione di Cristo per trasfigurare lo sguardo umano rendendolo capace di vedere la presenza di Dio nella carne del Crocifisso.


Rito Romano – II Domenica di Quaresima - Anno B – 25 febbraio 2018
Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Sal 115; Rm 8,31-34; Mc 9,2-10




Rito Ambrosiano
Dt 5, 1-2. 6-21; Sal 18; Ef 4, 1-7; Gv 4, 5-42
Domenica della Samaritana – II Domenica di Quaresima



1) Tentazione e Trasfigurazione.
Nella prima domenica di Quaresima, abbiamo contemplato Cristo superare la prova della fame. Non si trattò solo di una fame corporale, come ogni essere umano Gesù ebbe tre tipi di fame:
  1. fame di vita, che tenta l’uomo al possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali. Per questo il demonio gli chiese di trasformare le pietre in pane;
  2. fame di relazioni umane, che possono essere d’amicizia o di potere. Il diavolo tenta Cristo di soddisfare questa fame offrendogli potere;
  3. fame di onnipotenza, che spinge a soffocare il desiderio di Dio cioè l’anelito di infinito e di libertà senza limiti, inducendo alla tentazione di progettare la propria esistenza secondo i criteri umani della facilità, del successo, del potere, dell’apparenza, cedendo alla tentazione di adorare il Menzognero (il diavolo) invece di adorare il vero Amore provvidente.
Il Messia vinse la tentazione di questi tre tipi di fame, usando come criterio di discernimento quello della fedeltà al progetto di Dio, a cui aderiva pienamente e di cui Lui è Parola fatta carne per redimerci. 

Imitiamo l’esempio di Cristo, “usando” la Parola di Dio come strumento che ci è messo a disposizione per capire la volontà di Dio e vincere la tentazione di questi tre tipi di fame: di vita, di amore e di potere e relazioni e di Dio: “Quando sei colto dai morsi della fame - e possiamo aggiungere anche della tentazione - lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita, lascia che Cristo sia il tuo Pane di Vita” (Sant’Agostino d’Ippona),
Dal deserto – il luogo della prova, della ribellione, dove abita il tentatore, l’accusatore (I domenica di Quaresima) – al monte della trasfigurazione, al luogo della manifestazione di Dio, della sua rivelazione, della sua santità. Questo è il cammino che la seconda domenica di Quaresima apre davanti a noi.
Dal deserto, che ricorda che la vita umana è un esodo, un ritorno a casa che passa per il deserto, luogo della prova e dell’incontro con Dio, oggi arriviamo al Monte Tabor, il luogo della trasfigurazione, che manifesta la verità splendente di Cristo, per permettere a chi lo segue di arrivare alla Pasqua, non nonostante la Croce ma attraverso la Croce.
Gesù, infatti, ci dice: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). Ci dice, cioè, che per giungere con Lui alla luce e alla gioia della risurrezione, alla vittoria della vita, dell’amore, del bene, anche noi dobbiamo prendere la croce di ogni giorno, come ci esorta una bella pagina dell’Imitazione di Cristo: “Prendi, dunque, la tua croce e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce (Gv 19,17) ed è morto per te, affinché anche tu portassi la tua croce e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto con lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria” (L. 2, c. 12, n. 2).
Dunque, meditiamo insieme i fatti presentati da queste due domeniche, perché anticipano il mistero pasquale: la lotta di Gesù col tentatore anticipa il grande duello finale della Passione, mentre la luce del suo Corpo trasfigurato anticipa la gloria della Risurrezione. Da una parte vediamo Gesù pienamente uomo, che condivide con noi persino la tentazione. Dall’altra, lo contempliamo Figlio di Dio, che divinizza la nostra umanità.


2) Esodo di Trasfigurazione.
Oggi, dunque, l’esodo, cioè il cammino di liberazione che siamo chiamati a compiere, è quello della contemplazione. Grazie alla contemplazione la preghiera diventa sguardo e il nostro cuore, che è il “centro” della nostra anima, si apre alla luce dell’amore di Cristo.
In questo modo possiamo comprendere quale è il cammino che ci indica la liturgia di questa domenica: quello di un pellegrino che compie l’esodo che lo conduce alla Terra promessa: la Vita eterna con Cristo.
Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di coloro che hanno il cuore ferito dall’amato, e colmo di luce perché “la ‘luminosità’, che caratterizza l'evento straordinario della trasfigurazione, ne simboleggia lo scopo: illuminare le menti e i cuori dei discepoli affinché possano comprendere chiaramente chi sia il loro Maestro. È uno sprazzo di luce che si apre improvviso sul mistero di Gesù e illumina tutta la sua persona e tutta la sua vicenda” (Papa Francesco).
E’ vero che seguire il Signore è essere con Lui crocifissi. E’ vero che ad ogni passo le ferite del dolore ci trapassano il cuore. E’ vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: “Nella passione di Cristo l’esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine Ma proprio in quel volto sfigurato appare l'autentica, estrema Bellezza dell’Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza.
Un esempio di come cogliere questa bellezza trasfigurata ci viene dalla vergini consacrate. In modo speciale queste donne testimoniano tre aspetti specifici del cristiano.
Il primo è quello donarsi in completo abbandono a Cristo perché si fidano amorosamente del suo Amore, “che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare in questo modo la Verità della Bellezza” (Joseph Ratzinger).  Con la verginità consacrata queste donne annunciano proprio la bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza che è la nostra vera bellezza.
Il secondo è quello di testimoniare, nella propria esistenza verginalmente vissuta, la necessità di discendere dal Monte per tornare alla missione evangelizzatrice del Signore, missione che passa per la Croce e proclama la Resurrezione che altro non è se non la Trasfigurazione resa eterna nell’Umanità del Signore.
Il terzo è quello di mostrare che l’ascolto è la dimensione principale del discepolo di Cristo. Il Vangelo di oggi riporta: “ Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7).
In un mondo che ha l’abitudine di dire tante parole (sarebbe meglio dire chiacchiere), queste donne si mettono in costante ascolto della Parola e, sull’esempio della Vergine Maria, diventano “vergini dell’ascolto e madri della Parola”.
A tutti il Padre chiede di essere ascoltatori della Parola, le cui parole sono parole di vita perché, attraverso la Croce, purificano da ogni opera morta e uniscono a Dio ed ai fratelli.
Questa Parola ha bisogno di un luogo (il nostro cuore), ha bisogno di scendere in fondo, e, lì, morire, come un seme, per mettere radice, per crescere e germogliare, e resistere dinnanzi alle bufere e alle intemperie, come una casa costruita sulla Roccia.
Questa parola per essere ascoltata, oltre che di attenzione, ha bisogno di silenzio. E' necessario il silenzio interiore ed esteriore perché tale parola possa essere udita. E questo è un punto particolarmente difficile per noi nel nostro tempo. Infatti, la nostra è un’epoca in cui non si favorisce il raccoglimento; anzi a volte si ha l’impressione che ci sia paura a staccarsi, anche per un istante, dal fiume di parole e di immagini che segnano e riempiono le giornate.
La vita riservata delle vergini consacrate mostra come sia importante educarci al valore del silenzio perché si accoglie la Parola di Dio nella vita personale ed ecclesiale, valorizzando il raccoglimento e la calma interiore. Senza silenzio non si sente, non si ascolta, non si riceve la Parola e quello che essa dice. Vale sempre l’osservazione di sant’Agostino: Verbo crescente, verba deficiunt – “Quando il Verbo di Dio cresce, le parole dell'uomo vengono meno” (cfr Sermo 288,5: PL 38,1307; Sermo 120,2: PL38,677)




Lettura patristica
San Leone Magno (390 circa – 461)
Sermo 38, 4-8


       Per gli apostoli, che invero avevano bisogno di essere rafforzati nella fede e di essere iniziati alla conoscenza di ogni cosa, da quel miracolo scaturisce un altro insegnamento. In effetti, Mosè ed Elia, ossia la Legge e i Profeti, apparvero intrattenendosi con il Signore: ciò affinché si compisse perfettamente, attraverso la presenza di cinque persone, quanto è scritto: "
Ogni parola è certa, se pronunciata in presenza di due o tre testimoni" (Dt 19,15; Mt 18,16). Per proclamarla, la duplice tromba dell’Antico e del Nuovo Testamento risuona in pieno accordo e tutto ciò che serviva a darle testimonianza nei tempi antichi si ricongiunge con l’insegnamento del Vangelo! Le pagine dell’una e dell’altra Alleanza, infatti, si confermano vicendevolmente, e colui che gli antichi simboli avevano promesso sotto il velo dei misteri, lo sfolgorio della sua gloria presente lo mostra manifesto e certo: si è che - come afferma san Giovanni -: "La legge fu data da Mosè, ma la grazia e la verità ci sono venute da Gesù Cristo" (Jn 1,17), nel quale si sono compiuti tanto le promesse delle figure profetiche, tanto il significato dei precetti della Legge; infatti, con la sua presenza, egli insegna la verità della profezia, e, con la sua grazia, rende possibile la pratica dei comandamenti.
       Animato dalla rivelazione dei misteri e preso dal disprezzo e dal disgusto delle terrene cose, l’apostolo Pietro era come rapito in estasi nel desiderio di quelle eterne, e, ripieno del gaudio di tutta quella visione, desiderava abitare con Gesù là dove la di lui gloria si era manifestata, costituendo la sua gioia. Ecco perché disse: "Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia" (Mt 17,4). Ma il Signore non rispose a tale suggerimento, certo non per mostrare che quel desiderio era cattivo, bensì per significare che era fuori posto, non potendo il mondo essere salvato senza la morte di Cristo; così, l’esempio del Signore invitava la fede dei credenti a capire che, senza alcun dubbio nei confronti della felicità promessa, dobbiamo nondimeno, in mezzo alle prove di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria; la felicità del Regno non può, infatti, precedere il tempo della sofferenza.
       Ed ecco che, mentre ancora parlava, una nube luminosa li avvolse e una voce dalla nube diceva: "Questi è il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto, ascoltatelo" (Mt 17,5). Il Padre, senza alcun dubbio era presente nel Figlio e, in quella luce che il Signore aveva misuratamente mostrato ai discepoli, l’essenza di colui che genera non era separata dall’Unigenito generato, ma, per evidenziare la proprietà di ciascuna persona, la voce uscita dalla nube annunciò il Padre alle orecchie, così come lo splendore diffuso dal corpo rivelò il Figlio agli occhi. All’udire la voce, i discepoli caddero bocconi, molto spaventati, tremando non solo davanti alla maestà del Padre, ma anche davanti a quella del Figlio: per un moto di più profonda intelligenza, infatti, essi compresero che unica era la Divinità di entrambi, e poiché non vi era esitazione nella fede non vi fu discrezione nel timore. Quella divina testimonianza fu dunque ampia e molteplice e il potere delle parole fece capire più del suono della voce. Infatti, quando il Padre dice: "Questi è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo", non si doveva forse intendere chiaramente: "Questi è il mio Figlio", per il quale essere da me e essere con me è una realtà che sfugge al tempo? Infatti, né Colui che genera è anteriore al Generato, né il Generato è posteriore a Colui che lo genera. "Questi è il mio Figlio", che da me non separa la divinità, non divide la potenza, non distingue l’eternità. Questi è il mio Figlio, non adottivo, ma proprio; non creato d’altronde, ma da me generato; non di natura diversa e reso a me simile, ma della mia stessa essenza e nato uguale a me. "Questi è il mio Figlio per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla è stato fatto" (Jn 1,3), il quale, tutto ciò che io faccio egli del pari lo compie (Jn 5,19) e quanto io opero, egli opera con me senza differenza. Nel Padre infatti è il Figlio e nel Figlio il Padre (Jn 10,38), e la nostra unità mai si separa. E quantunque io che genero sia altro da colui che ho generato, non vi è tuttavia permesso avere a suo riguardo opinione diversa da quella che vi è possibile avere di me. "Questi è il mio Figlio", che non considerò bottino di rapina l’uguaglianza che ha con me (Ph 2,6), né se ne appropriò usurpandola; ma, pur restando nella condizione della sua gloria, egli, per portare a termine il disegno di restaurazione del genere umano, umiliò fino alla condizione di servo l’immutabile Divinità.
       Quegli, dunque, in cui ripongo tutta la mia compiacenza, e il cui insegnamento mi manifesta, la cui umiltà mi glorifica, ascoltatelo senza esitazione; egli, infatti, è verità e vita (Jn 14,6); egli è mia potenza e mia sapienza (1Co 1,24). "Ascoltatelo", lui che i misteri della Legge hanno annunciato, che la voce dei profeti ha cantato. "Ascoltatelo", lui che ha riscattato il mondo con il suo sangue, che ha incatenato il diavolo e gli ha rapito le spoglie (Mt 12,29), che ha lacerato il chirografo del debito (Col 2,14) e il patto della prevaricazione. "Ascoltatelo", lui che apre la via del cielo e, con il supplizio della croce, vi prepara la scalinata per salire al Regno. Perché avete paura di essere riscattati? Perché temete di essere sciolti dalle vostre catene? Avvenga pure ciò che, come anch’io lo voglio, Cristo vuole. Buttate via il timore carnale e armatevi della costanza che la fede ispira; è indegno di voi, infatti, temere nella Passione del Salvatore ciò che per suo aiuto, non temerete nella vostra morte.
       Queste cose, o carissimi, non furono dette soltanto per utilità di coloro che le intesero con le proprie orecchie; bensì, nella persona dei tre apostoli, è tutta la Chiesa che apprende ciò che essi videro con i loro occhi e percepirono con le loro orecchie. Si rafforzi dunque la fede di tutti secondo la predicazione del santo Vangelo, e nessuno arrossisca della croce di Cristo, per la quale il mondo è stato riscattato. Di conseguenza, nessuno abbia paura di soffrire per la giustizia (1P 3,14), né dubiti di ricevere la ricompensa promessa, poiché è attraverso la fatica che si accede al riposo, e alla vita attraverso la morte. Egli, infatti, si è presa in carico tutta la debolezza propria alla nostra bassezza; egli, nel quale, se rimaniamo (Jn 15,9) nella di lui confessione e nel suo amore, siamo vincitori di ciò che egli ha vinto e riceveremo ciò che egli ha promesso.
       Si tratti allora di praticare i comandamenti o si tratti di sopportare le avversità della vita, la voce del Padre che si è fatta udire deve sempre risuonare alle nostre orecchie: "Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo"; lui che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

venerdì 16 febbraio 2018

La Quaresima di Gesù e la nostra Quaresima.


Rito Romano – I Domenica di Quaresima - Anno B – 18 febbraio 2018
Gn 9,8-15; Sal 24; 1Pt 3,18-22; Mc 1,12-15

Rito Ambrosiano
Is 57,15-58,4a; Sal 50; 2Cor 4,16b-5,9; Mt 4,1-11
Domenica all’inizio della Quaresima


1) Convertirsi alla verità dell’amore.
La prima Domenica di Quaresima – Anno B - ci offre il racconto della tentazione di Gesù nel deserto secondo il Vangelo di San Marco che, rispetto a quello di San Matteo e di San Luca, è caratterizzato da una grande brevità. Con lo stile sobrio e conciso di san Marco, il Vangelo ci introduce nel clima di questo tempo liturgico: “Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1,12) e servito dagli Angeli (cfr. Mc 1,13)
In questi due versetti troviamo sintetizzati i due aspetti della concezione biblica del deserto. Da una parte, il deserto è visto come il luogo della tentazione quando si dice che lo Spirito sospinse Gesù nel deserto, dove rimase quaranta giorni (come i quarant'anni del popolo nel deserto) tentato da Satana. D’altra parte, il riferimento al deserto come al luogo privilegiato di esperienza dell’Alleanza, cioè dell’amore del Signore, i cui angeli servono Cristo. Senza dubbio ricordano le parole del profeta Osea: “Ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (2, 16).
Nel giardino di pietre che è il deserto, nuovo giardino dell'Eden reso luogo di morte dal peccato, Gesù vince il vecchio, spento sguardo sulle cose che seducono e ci aiuta a guardare alla vita con occhi nuovi, santi e pieni di amore.
Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù entra nel deserto1 condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio.
In quel luogo solitario, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.
A questi uomini Cristo dice la buona notizia: Dio è vicino, “convertitevi e credete nel Vangelo”. Credete nell’amore.
All’inizio di Quaresima, queste parole “convertitevi e credete nel Vangelo” sono rivolte a ciascuno di noi. Non si tratta di una ingiunzione che nasce dall’arbitrio, ma una indicazione che sgorga dall’amore.
Gesù viene per annunciare la legge della libertà, non per denunciare secondo una legge di schiavitù. Il suo annuncio è un “sì” che crea un’alleanza nuova di vita, e non un “no” che punisce con la morte. Se al suo sì rispondiamo con il nostro sì, vivremo una vita buona, bella e felice come la sua.
Per poter dire questo “sì”, dobbiamo convertirci e credere a Vangelo. Questo sì ci mette con Cristo sulla strada della carità. Non dimentichiamo però che per imboccare e vivere la via dell’amore, è condizione indispensabile una unica cosa, convertirsi, cioè abbandonare la volontà propria, attraverso l’umiltà. San Bernardo di Chiaravalle lo scoprì leggendo il Vangelo, là dove Gesù raccomanda ai discepoli: “ In verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18,3). E che altro significa divenire bambini – si domanda San Bernardo – se non “divenire umili”? (Sulla quaresima II,1). Convertirsi si riduce, quindi, ad apprendere la difficile arte dell’umiltà.
La conversione è il “sì umile” e totale di chi consegna la sua esistenza al Vangelo, rispondendo liberamente a Cristo che per primo si offre all’uomo come via, verità e vita, come colui che solo lo libera e lo salva. Proprio questo è il senso delle prime parole con cui, secondo l’evangelista Marco, Gesù apre la predicazione del “Vangelo di Dio”: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15). 

2) Penitenza e conversione2.
Convertirsi significa cambiare direzione nel cammino della vita: non, però, con un piccolo aggiustamento, ma con un ritorno a casa come ha fatto il figlio prodigo.
Convertirsi è volgere mente e cuore a Dio che in Cristo si è fatto vicino.
Convertirsi è accogliere il dono della vicinanza di Dio. Secondo me la parola più forte e carica di significato che Gesù pronuncia oggi nel Vangelo è questa: il Regno di Dio è vicino. Che significa: la signoria di Dio è presente nella persona e nell’opera di Gesù Cristo ed è vicina perché è iniziata e cresce in mezzo agli uomini con la presenza di Gesù. La conversione è avvicinarsi a questa presenza, è farsi raggiungere dallo Spirito perché ci si sente lontani, orfani di Dio.
In questi quaranta giorni la Chiesa ci chiede di vivere con intensa preghiera, con sincera penitenza nella contrizione e con la generosa elemosina che fa sì che la compassione non verso i poveri non sia solo un’emozione ma una condivisione di beni.
Le opere di quaresima che la Chiesa ci chiede sono tre: preghiera, penitenza ed elemosina. Oggi, mi soffermerò sulla penitenza, per aiutare ad arrivare a celebrare il grande mistero della Pasqua del suo Figlio, purificati e completamente rinnovati nella mente e nello spirito.
La penitenza ha due elementi essenziali: la contrizione del cuore e la mortificazione del corpo. Non va dimenticato che se è il cuore dell’uomo a volere il male, spesso è il corpo l’ha aiutato a commetterlo.
  Ma il principio della vera penitenza sta nel cuore: lo impariamo dal Vangelo negli esempi del figlio prodigo, della peccatrice che lava i piedi a Cristo con le sue lacrime, di Zaccheo il pubblicano e di san Pietro, che offrì a Cristo il suo dolore e Cristo lo confermò nel suo amore.
Durante la Quaresima, il cristiano deve esercitarsi nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti propri di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni che essa ispira.
Il Salvatore non si accontenta di gemere e di piangere sui nostri peccati. Li espia con la sofferenza del proprio corpo. La Chiesa, sua sicura interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza il mercoledì delle ceneri e nei venerdì di quaresima e del digiuno, il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo. Il diavolo tenta a partire dalla sensualità e dalla gola, per questo che durante la Quaresima ci è chiesto di praticare non solo la preghiera, ma l’astinenza e il digiuno.
A questo punto è legittimo chiedersi quale penitenza fare, quale sacrificio offrire al Signore per vivere bene questo periodo quaresimale, in particolare, e quello della vita di ogni giorno in generale per espiare i propri peccati e camminare con Cristo.
La risposta, che ci viene dalla Bibbia e dalla Tradizione, è questa: “Fare in tutto, sempre e in modo perfetto la Volontà di Dio”. Chi offre un digiuno offre al Signore una parte di sé. Chi offre al Signore l'adesione della propria alla sua volontà, invece, gli offre tutto se stesso. E in ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate. Queste donne donandosi anima e corpo a Cristo, compiono un atto di di amore perfetto. Ciascuna di loro dice “Signore io amo ciò che Tu ami e odio ciò che tu odi. Amo la virtù, odio il peccato”. Ma loro mostrano che ciò non basta. Loro amano come Dio vuole, con un amore autentico, gioioso e grato.
In effetti, se l’amore anima questa autenticità, il Signore regna nella persona con la sua gioia (cfr. Papa Francesco). Inoltre la vita della consacrata esprime nella concretezza l’importanza di dare tutto a Dio con gioia e semplicità. Infine, testimoniano che il donarsi a Dio con gratitudine è segno di maturità perché sono riconoscenti di fare esperienza che Dio le sostiene con la luce del Suo volto. Mostrano che un cuore grato è un cuore fedele.


1  In Terra Santa, ad ovest del fiume Giordano e dell’oasi di Gerico, si trova il deserto di Giuda, che per valli pietrose, superando un dislivello di circa mille metri, sale fino a Gerusalemme. Dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, Gesù si addentrò in quella solitudine condotto dallo stesso Spirito Santo, che si era posato su di Lui consacrandolo e rivelandolo quale Figlio di Dio. Nel deserto, luogo della prova, come mostra l’esperienza del popolo d’Israele, appare con viva drammaticità la realtà della kenosi, dello svuotamento di Cristo, che si è spogliato della forma di Dio (cfr Fil 2,6-7). Lui, che non ha peccato e non può peccare, si sottomette alla prova e perciò può compatire la nostra infermità (cfr Eb 4,15). Si lascia tentare da Satana, l’avversario, che fin dal principio si è opposto al disegno salvifico di Dio in favore degli uomini.


2  Il termine greco che San Marco mette sulla bocca di Cristo per invitare alla conversione, è metanoia (letteralmente “cambiamento di mentalità”) non indica un semplice cambio di opinione, ma un mutamento radicale della vita, imposto dalla presenza del regno di Dio, e la richiesta più impegnativa è quella della fede.



Lettura Patristica
San Girolamo
Comment. in Marc., 1-2


Gesù e lo Spirito Santo

       "E subito lo Spirito lo spinse nel deserto" (Mc 1,12). È lo Spirito che era disceso sotto forma di colomba. «Vide - dice Marco - i cieli aperti e lo Spirito come colomba discendere e fermarsi su di lui». Considerate quanto dice: fermarsi, cioè restare con lui, non sostare e poi andarsene. Giovanni stesso dice in un altro Vangelo: "E chi mi ha mandato mi ha detto: - Colui sul quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito Santo" (Jn 1,33). Lo Spirito Santo discese su Cristo e si fermò su di lui: quando invece discende sugli uomini non sempre si ferma. Infatti nel libro di Ezechiele, che raffigura in immagine il Salvatore (nessun altro profeta, e mi riferisco ai maggiori, viene chiamato «Figlio dell’uomo», come Ezechiele), si legge: "La parola del Signore fu diretta a Ezechiele profeta" (Ez 1,3). Qualcuno dirà: - Perché tanto spesso citi il profeta? Perché lo Spirito Santo discendeva sul profeta, ma di nuovo se ne allontanava. Quando si dice che «la parola del Signore fu diretta» si intende chiaramente che lo Spirito Santo di nuovo tornava dopo essersene andato. Quando siamo colti dall’ira, quando offendiamo qualcuno, quando siamo presi da tristezza mortale, quando i nostri pensieri sono prigionieri della carne, crediamo forse che lo Spirito Santo rimanga in noi? Possiamo forse sperare che lo Spirito Santo sia in noi quando odiamo il nostro fratello, o quando meditiamo qualche ingiustizia? Dobbiamo invece sapere che, quando ci applichiamo ai buoni pensieri o alle buone opere, allora abita in noi lo Spirito Santo: ma quando al contrario siamo colti da un pensiero malvagio, è segno che lo Spirito Santo ci ha abbandonato. Per questa ragione, a proposito del Salvatore sta scritto: «Colui sul quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito Santo, quegli è...».
       «E subito lo Spirito lo spinse nel deserto». È lo Spirito Santo che spinge nel deserto i monaci che vivono con i loro parenti, se tale Spirito è sceso e si è fermato su di loro. È lo Spirito Santo che li spinge a uscire dalla casa e li conduce nella solitudine. Lo Spirito Santo non abita volentieri laddove c’è folla e ci sono discussioni e risse: lo Spirito Santo ha la sua dimora nella solitudine. Per questo il nostro Signore e Salvatore, quando voleva pregare, "solo" - dice Luca -, "si ritirava sul monte e ivi pregava tutta la notte" (Lc 6,12). Di giorno stava con i discepoli, di notte dedicava la sua preghiera al Padre per noi. Perché ho detto tutto questo? Perché parecchi fratelli sono soliti dire: - Se resterò nel convento, non potrò pregare da solo. Forse che nostro Signore mandava via i discepoli? No, egli stava sempre con i discepoli, ma quando voleva pregare più intensamente si ritirava da solo. Anche noi, se vogliamo pregare più intensamente di quanto facciamo assieme ad altri, abbiamo a nostra disposizione la cella, abbiamo i campi, abbiamo il deserto. Possiamo fruire della compagnia e delle virtù dei fratelli, ma possiamo anche godere della solitudine...
       "Dopo la cattura di Giovanni ritornò Gesù in Galilea" (Mc 1,14). Il racconto è noto, e appare chiaro agli ascoltatori, anche senza la nostra spiegazione. Preghiamo però colui che ha la chiave di David, colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre (Ap 3,7), affinché ci apra la recondita via del Vangelo, ed anche noi si possa dire insieme a David: "Mostrati ai miei occhi, e io contemplerò le bellezze della tua legge" (Ps 118,18). Alle folle il Signore parlava in parabole, e parlava esteriormente. Non parlava nell’intimo, cioè nello spirito; parlava con il linguaggio esteriore, secondo la lettera. Preghiamo noi il Signore, affinché ci introduca nei suoi misteri, ci faccia entrare nel suo segreto abitacolo, e possiamo anche noi dire, insieme con la sposa del Cantico dei Cantici: "Il re mi ha introdotto nel suo ricettacolo" (Ct 1,3). L’apostolo dice che un velo fu posto sugli occhi di Mosè (2Co 3,13). Io dico che non soltanto nella legge, ma anche nel Vangelo c’è un velo sugli occhi di chi non sa. Il giudeo lo ascoltò, ma non lo capì: per lui c’era un velo sul Vangelo. I gentili ascoltano, ascoltano gli eretici, ma anche per loro c’è il velo. Abbandoniamo la lettera insieme ai giudei, e seguiamo lo spirito con Gesù: e non perché dobbiamo condannare la lettera del Vangelo (tutto ciò che fu scritto s’è avverato), ma per poter salire gradualmente verso le cose più elevate.
       «Dopo la cattura di Giovanni, ritornò Gesù in Galilea». Domenica scorsa dicemmo che Giovanni è la legge, mentre Gesù è il Vangelo. Giovanni infatti dice: "Viene dopo di me uno che è più forte di me, e io non sono degno, abbassandomi, di sciogliergli la correggia dei calzari". E altrove: "Egli deve crescere, io scemare" (Jn 3,30). Il paragone tra Giovanni e Gesù, è il paragone tra la legge e il Vangelo. Dice ancora Giovanni: "Io battezzo con acqua" (ecco la legge), mentre "egli vi battezzerà nello Spirito Santo" (Mc 1,8): questo è il Vangelo. Dunque Gesù torna, perché Giovanni è stato chiuso in carcere. La legge è rinchiusa, non ha più la passata libertà: ma dalla legge noi passiamo al Vangelo. State attenti a quanto dice Marco: «Dopo la cattura di Giovanni ritornò Gesù in Galilea». Non andò in Giudea né a Gerusalemme, ma nella Galilea dei gentili. Gesù torna, insomma, in Galilea: Galilea nella nostra lingua traduce il greco Katakyliste. Perché prima dell’avvento del Salvatore non vi era in quella regione niente di elevato, ma, anzi, ogni cosa precipitava in basso: dilagava la lussuria, l’abiezione, l’impudicizia e gli uomini erano preda dei vizi e dei piaceri bestiali.
       "Predicando la buona novella del regno di Dio" (Mc 1,14). Per quanto io mi ricordo, non ho mai sentito parlare del regno dei cieli nella legge, nei profeti, nei salmi, ma soltanto nel Vangelo. È infatti dopo l’avvento di colui che ha detto: "E il regno di Dio è tra voi" (Lc 17,21), che il regno di Dio è aperto per noi. Gesù venne dunque predicando la buona novella del regno di Dio. "Dai giorni di Giovanni Battista il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti se ne fanno padroni" (Mt 11,12): prima dell’avvento del Salvatore e prima della luce del Vangelo, prima che Cristo aprisse al ladrone la porta del paradiso, tutte le anime dei santi erano condotte all’inferno. Dice Giacobbe: "Piangendo e gemendo discenderò all’inferno" (Gn 37,35). Chi non va all’inferno, se Abramo è all’inferno? (Lc 16,22). Nella legge, Abramo è condotto all’inferno: nel Vangelo, il ladrone va in paradiso. Noi non disprezziamo Abramo, nel cui seno tutti desidereremmo riposare: ma ad Abramo preferiamo Cristo, alla legge preferiamo il Vangelo. Leggiamo che, dopo la risurrezione di Cristo, molti santi apparvero nella città santa. Il nostro Signore e Salvatore ha predicato in terra e ha predicato all’inferno: e quando è morto, è disceso all’inferno per liberare le anime che laggiù erano prigioniere.
       "Predicando la buona novella del regno di Dio e dicendo: È compiuto" il tempo della legge, viene il principio del Vangelo, "si avvicina il regno di Dio" (Mc 1,14-15). Non disse: è già venuto il regno di Dio; ma disse che il regno si avvicinava. E cioè: Prima che io soffra la passione, prima che io versi il mio sangue, non si aprirà il regno di Dio; per questo, esso ora si avvicina, ma non è qui perché ancora non ho sofferto la passione.
       "Pentitevi e credete alla buona novella" (Mc 1,15): non credete più alla legge, ma al Vangelo, o, meglio, credete al Vangelo per mezzo della legge, così come sta scritto: "Dalla fede alla fede" (Rm 1,17). La fede nella legge rafforza la fede nel Vangelo.

venerdì 9 febbraio 2018

Implorare di essere purificati


Rito Romano – VI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B – 11 febbraio 2018
Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45


Rito Ambrosiano
Is 54,5-10; Sal 129; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14
Ultima domenica dopo l’Epifania – detta “del perdono”



1) Signore: “Purificami”
Il brano di vangelo di questa domenica ci propone la guarigione di un malato di lebbra1. L’evangelista San Marco anche con questo miracolo vuol far comprendere agli ascoltatori di allora e di oggi che Gesù Cristo è Figlio di Dio.
In effetti, il lebbroso per essere sanato non usa il verbo “guariscimi”, ma si mette in ginocchio, come si fa davanti a un Signore e lo supplica dicendo: “Se vuoi, purificami”. Chiede di essere purificato, cioè di vedere la sua pelle e la sua carne integra, ma anche di essere perdonato dai suoi peccati, liberato da tutto ciò che lo tiene lontano da Dio e dagli uomini.
Questo atteggiamento è da avere solo con Dio, che solo può purificare dal peccato provocato dalla malattia.
Per capire questa affermazione, che può sembrare assurda, prendiamo brevemente in esame la prima lettura della Messa di oggi. Il brano scelto propone una parte del capitolo 13 del Levitico. In questo capitolo, è descritta la tipologia della lebbra, includendo in maniera piuttosto larga forme diverse di malattie della pelle, di cui molte guaribili. Nel capitolo 14 è presentato il rituale della purificazione dei lebbrosi e delle case infette.
Dunque, da una parte, il Levitico afferma che i Sacerdoti erano i competenti ad esaminare l'ammalato e a diagnosticarne il contagio dichiarandolo “immondo” (Lev 13, 3), d’altra parte in questo libro, nel capitolo 14, lo stesso sacerdote è poi preposto a certificare l’eventuale guarigione (Lev 14, 1-4). Nelle società antiche le norme precauzionali erano effettivamente l’unica difesa possibile verso malattie contagiose, soprattutto se inguaribili; di qui le dure norme esposte nei vv. 45-46: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: - Immondo! Immondo! - Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento”.
Il lebbroso è dunque un impuro, colpito da Dio a causa di un’impurità fisica e morale: lui è un intoccabile e deve vivere al bando della società.
Ciò fa capire perché, al tempo di Gesù, i lebbrosi erano davvero degli “inavvicinabili”, degli intoccabili – un’immagine di ciò che il peccato fa nell’uomo. Davanti al grido di aiuto del lebbroso, che riconosce in Gesù l’inviato di Dio per curare anche i lebbrosi, Gesù risponde con la sua “compassione” divina: tende la mano, lo tocca – diventando Lui stesso impuro secondo la legge – e gli dice: “Lo voglio, sii purificato”.
È su questo sfondo che il racconto evangelico acquista un significato preciso: Gesù tocca un intoccabile. Il Regno di Dio non tiene conto delle barriere del puro e dell'impuro: le supera. Non esistono uomini da accogliere e uomini da evitare, uomini vicini e uomini lontani, uomini con diritti e uomini senza diritti. Tutti sono amati da Dio. Tutti sono chiamati, e la prassi evangelica deve essere il segno di questo amore divino che non fa differenze.


2) La purezza.
Qual è la concezione biblica della purezza? Per non annoiare con un lungo esame dei testi biblici a questo riguardo, mi soffermo ancora sulla prima lettura presa da Levitico2, nella quale si dice in cosa incorre chi diventa impuro. In questo libro come ho accennato nel primo paragrafo, quando qualcuno manifestava dei sintomi che potevano essere ricondotti alla lebbra, proprio perché la lebbra è una malattia infettiva, immediatamente veniva dichiarato dal sacerdote “impuro”. La conseguenza era che doveva stare solo, fuori dall'accampamento.
Gli ebrei, come gli antichi popoli orientali, consideravano “puro” tutto ciò che apparteneva all’ambito del sacro e favoriva il culto a Dio. Ritenevano invece “impuro” tutto ciò che si opponeva al sacro ed era di ostacolo al culto. Una simile distinzione non riguardava però la sfera morale della persona, ma solo le condizioni necessarie per essere ritenuti idonei o no al culto e per essere inseriti nella vita della comunità (un lebbroso ne era escluso).
Al tempo della vita terrena di Gesù, era in vigore questa distinzione tra puro e impuro, sostenuta dal gruppo dei farisei. Ma Cristo insegna a dare il primato alla purezza interiore, che ha il suo centro nel cuore dell’uomo, da dove può uscire ciò che veramente contamina la sua esistenza (Cfr Mt 15,10-20; Mc 7,14-23). Anche noi, sull’esempio di Gesù, dobbiamo privilegiare la purezza interiore e morale: la purezza del cuore
Essere puri di cuore vuol dire, soprattutto, essere santi e sinceri.
Il santo non è un superuomo. Il santo è un uomo vero, restituito alla sua verità perché purificato dal peccato. Il santo è una persona vera, che si mette in ginocchio davanti a Cristo, ne riconosce la sua divinità, implora di essere purificato dalla sua misericordia e vive del suo amore puro che condivide con il prossimo. Santo è colui che – nonostante le sue debolezze, anzi proprio a causa di esse e per la consapevolezza del proprio nulla – sa di aver bisogno di essere convertito e rialzato, guarito e salvato da Cristo, ogni giorno. Per questo il santo è colui che Lo segue con perseveranza e con cuore saggio ed intelligente lungo il cammino. Lungo la via che è Cristo stesso.
Santo è colui che segue Cristo con sincerità.
La sincerità è lo specchio di verità delle altre virtù. La persona santa manifesta la sua verità nella sincerità. Questa è la virtù che garantisce la verità delle relazioni con Dio e con il prossimo.  La sincerità è la trasparenza del cuore.  La mancanza di sincerità oscura la nostra vocazione di servitori di Dio. Il fondamento della sincerità è stare alla presenza di Dio che è la trasparenza della Verità. Gesù era sincero. Le persone sapevano come era il suo cuore. “Sappiamo che sei veritiero” (Mt 22,16). La sua sincerità era stampata nei suoi occhi.
Dunque imitiamo Cristo nella sua sincerità e con semplicità e lealtà siamo fedeli al suo Cuore che custodisce il nostro cuore e facciamo nostra questa preghiera: “O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora” (Colletta della VI domenica per anno).

3) Sincerità e verginità.
“Che dolce gioia pensare che il buon Dio è giusto, cioè che tiene conto delle nostre debolezze,  conosce perfettamente la fragilità della nostra natura. Di che cosa dunque dovrei avere paura?” (Santa Teresa di Gesù Bambino, Vergine e Dottore della Chiesa)
“La castità è sincerità, perciò la migliore protezione per la castità è non nascondere nulla” (Santa Madre Teresa di Calcutta)
Una testimonianza attuale della verità delle affermazione delle due Sante è la vita delle vergini consacrate. Queste donne si donano completamente a Cristo e il loro amore purificato e santificato dalla consacrazione diventa la visibilità dell’amore di Dio. Come Dio ama sinceramente, senza secondi fini, senza chiedere niente in cambio, perché Lui ama la gioia di donare, così le vergini consacrate amano sinceramente Dio e il prossimo, per donarsi a Dio e per donare castamente al prossimo l’Amore santo di cui vivono.
“Totalmente consacrate a Dio, sono totalmente consegnate ai fratelli, per portare la luce di Cristo là dove più fitte sono le tenebre e per diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati. Le persone consacrate sono segno di Dio nei diversi ambienti di vita, sono lievito per la crescita di una società più giusta e fraterna, sono profezia di condivisione con i piccoli e i poveri. Così intesa e vissuta, la vita consacrata ci appare proprio come essa è realmente: è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo” (Papa Francesco).


1  Al giorno d’oggi facciamo fatica a capire la tragicità della lebbra. Questa malattia oggi è curabile, tuttavia  ancora ogni anno circa 211.000 nuove persone di cui 19.000 bambini sono colpiti. Vale a dire che c’è una contaminazione ogni due minuti. Questa malattia è ancora presente nel mondo con 700-800 mila casi. Per la sua tragica devastazione del corpo, causa deformità delle mani e dei piedi, cecità ed altro, e le sue conseguenze sociali di esclusione dalla comunità civile e religiosa, la lebbra era ed è anche oggi considerata, in molte parti, una maledizione divina.


2  Nel libro del Levitico (il libro della Bibbia che si interessa alla vita religiosa del popolo di Israele), troviamo un’ampia sezione, racchiusa nei capitoli 11-15, interamente dedicata alla distinzione tra ciò che è puro e ciò che è impuro (noi diremmo, oggi, tra sacro e profano). In questa sezione viene presentata la distinzione tra animali puri (di cui ci si può cibare, come pecore, vitelli, agnelli) e animali impuri (di cui è proibito cibarsi, come il cammello e il maiale) e viene considerata come fonte di contaminazione (o impurità) la sfera legata al parto, alla nascita, alla morte, alle relazioni sessuali e alla malattia (in particolare la lebbra). Chi era incorso nell’impurità originata da una di queste condizioni, prima di dedicarsi al culto, doveva sottoporsi a particolari riti di purificazione (come lavarsi in acqua corrente e offrire un sacrificio di espiazione).



Lettura patristica
Cromazio di Aquileia (tra 335 e il 340 –  407 o 408) 
In Matth. Tract., 38, 10

       Grande la fede di questo lebbroso e perfetta la sua professione! Per primo, infatti, adorò, quindi disse: «Signore, se vuoi, puoi guarirmi» (Mt 8,2-4). In ciò che egli adorò, mostrò di aver creduto a quel Dio che egli adorò, poiché la legge prescriveva che non si deve adorare se non un solo Dio.

       Quando, col dire: 
«Signore, se vuoi, puoi guarirmi» prega la sua onnipotenza e la natura della divina potestà sotto l’influsso della sua volontà affinché voglia soltanto il Signore, come rimedio, poiché sapeva che il potere della virtù divina, si sottometteva alla sua volontà. Per conseguenza poiché credette che al Figlio di Dio soltanto il volere significava (era) potere, e il potere, volere, per questo disse: «Signore, se vuoi, puoi guarirmi».

       Non senza ragione, il Signore conoscendo l’animo devoto e fedele del lebbroso che credeva in sé, per confermare la sua fede subito lo ricompensò del dono della sanità, dicendo: 
«Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,2-4). Quindi, «stendendo la mano, lo toccò. E istantaneamente la lebbra scomparve» (Mt 8,3).

       E così facendo pubblicamente si dichiarò il Signore del potere assoluto come già aveva creduto il lebbroso. Immediatamente e come volle, la virtù del suo manifesta la sua volontà. Così, infatti, disse: 
«Voglio, sii guarito. E subito la sua lebbra scomparve». E Gesù gli disse: «Guardati dal dirlo a qualcuno, ma va’, presentati al sacerdote, e poi fa’ l’offerta che Mosè prescrisse in testimonianza ad essi» (Mt 8,3-4). Il Signore comanda a colui al quale aveva guarito la lebbra e di presentarsi al sacerdote e di offrire sacrifici per sé prescritti nella legge. E in questo volle manifestare compiuti da sé i misteri (le adempienze) della legge, e accusare l’infedeltà dei sacerdoti, affinché constatando il lebbroso guarito che né la legge, né i sacerdoti avevano potuto mondare, o credessero che Egli era il Figlio di Dio e riconoscessero che Egli stesso era il padrone della legge; a causa della giustizia e della fede del lebbroso e della testimonianza della sua stessa opera, ricevessero la condanna della loro infedeltà.

       Chi, infatti, avrebbe potuto col potere della propria virtù guarire il lebbroso, che la legge non poté mondare, se non colui che è il padrone della legge, e che è il Signore di tutte le virtù, del quale leggiamo scritto: 
«Il Signore delle virtù è con noi chi ci accoglie è il Dio di Giacobbe» (Ps 45,8-12), anche prima che fosse mondato, credette con religiosa professione di fede che il Figlio di Dio era Dio; i sacerdoti, invece, neppure dopo il prodigio della divina virtù vollero credere.

       In verità se (riusciamo a capire) comprendiamo che per questo il Signore aveva comandato a colui che aveva liberato dalla lebbra, affinché offrisse sacrifici prescritti nella legge per sé, mostrasse con questo che egli era l’autore del precetto dato, e per gli stessi misteri adempiuti nella verità, che erano stati in antecedenza manifestati come figure.


venerdì 2 febbraio 2018

Il Cristo libera dal male per rendere capaci di amare servendo.


Rito Romano – V Domenica del Tempo Ordinario - Anno B – 4 febbraio 2018
Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39


Rito Ambrosiano
Os 6,1-6; Sal 50; Gal 2,19-3,7; Lc 7,36-50
Penultima Domenica dopo l’Epifania– detta “della divina clemenza”


1) Annunciare, guarire e pregare
Anche nel Vangelo di questo domenica vediamo che Cristo cammina per le strade di Galilea accompagnato dai primi quattro Apostoli che lui ha chiamato: Pietro e Andrea, Giovanni e Giacomo. Più che di cammino potremmo parlare di pellegrinaggio del Dio fatto uomo, che è venuto su questa terra per portare in cielo l’uomo. Il cammino si distingue dal vagabondaggio perché ha una meta, il pellegrinaggio si distingue dal cammino perché la meta è un santuario, che è la Casa di Dio.
Nella prima scena del vangelo di oggi, vediamo che Gesù entra “pellegrino” nella casa di famiglia di Pietro, e noi sappiamo che la casa è una chiesa domestica. In questa casa c’è anche la suocera di Pietro, che è a letto gravemente malata. Il Messia la prende per mano, la risana e la fa alzare.
Nella seconda scena di questo vangelo, San Marco ci mostra che portano in pellegrinaggio da Cristo tutti i malati di Cafarnao, provati nel corpo, nella mente e nello spirito, e Lui “ne guarisce molti… e scaccia molti demoni” (cfr. Mc 1,34).
E’, questo, un segno evidente che l’evangelizzazione è promozione umana. Il Vangelo è annuncio che salva e sana. Su questa affermazione sono concordi tutti e quattro gli Evangelisti che attestano che la liberazione da malattie e infermità di ogni genere costituì, insieme con la predicazione, la principale attività di Gesù nella sua vita pubblica. In effetti, le malattie sono un segno dell’azione del Male nel mondo e nell’uomo, mentre le guarigioni dimostrano che il Regno di Dio, Dio stesso è vicino. Gesù Cristo è venuto a sconfiggere il Male alla radice, e le guarigioni sono un anticipo della sua vittoria, ottenuta con la sua Morte e Risurrezione. Insomma, Cristo annuncia il  Regno di Dio parlando con autorità e guarendo l’uomo per ridonargli la sua libertà di figlio.
Va, però, tenuto presente che se l’evangelizzazione è condivisione della Parola che si fa carne e si prende cura di tutto l’uomo e di ogni uomo perché la carità di Dio non ha barriere, la preghiera è l’anima di questo apostolato, tant’è vero che le due scene, di cui parla San Marco, sono racchiuse tra due momenti di preghiera: quello nella sinagoga (cfr. il vangelo di domenica scorsa) e quello in un luogo solitario e di notte, prima che il sole sorga (cfr. il vangelo di oggi). “E’ molto più fecondo parlare a Dio degli uomini che non di Dio agli uomini” (Santa Caterina di Siena). Dunque, anche noi andiamo con Gesù almeno nell’eremo1 del nostro cuore, come Cristo “si ritira in un luogo deserto al mattino presto” per pregare. Con la preghiera diventiamo con Gesù pellegrini dell’Assoluto e la preghiera incessante è illuminata dall’aurora della Pasqua, è il grembo da cui nasce ogni missione.
Senza questa preghiera ciascuno di noi sbaglierà tempi e parole. Si tratta invece di “alzarsi” (in greco è usato il verbo che vuol dire risuscitare), cioè risuscitare con Cristo ogni giorno “quando” per il mondo “è ancora buio”. Perché Dio ci doni questa grazia di alzarci con e verso lui, ripetiamo spesso questo inno:

Nel primo chiarore del giorno,
vestite di luce e silenzio,
le cose si destan dal buio,
com'era al principio del mondo.

E noi che di notte vegliamo,
attenti alla fede del mondo,
protesi al ritorno di Cristo,
or verso la luce guardiamo.

O Cristo splendore del Padre,
vivissima luce divina, 

in Te ci vestiam di speranza, 
viviamo di gioia e d'amore.

Al Padre cantiamo la lode,
al Figlio che è luce da luce
e gloria allo Spirito Santo,
che è fonte eterna di vita. Amen”.

2) Il Vangelo della speranza
Ogni notte prepara al nuovo giorno. E così con la speranza nel cuore che il domani sarà migliore si accetta con coraggio ogni prova della vita. Ma l’inno sopracitato ci insegna qualcosa di più. Ci dice di rivestirci in Cristo di speranza, vivendo il battesimo che abbiamo ricevuto.
In questo sacramento Cristo ci dona i suoi vestiti e questi non sono una cosa esterna. Significa che entriamo in una comunione esistenziale con Lui. Vuol dire che il suo e il nostro essere confluiscono, si compenetrano a vicenda. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) così San Paolo descrive l’avvenimento del suo battesimo. Cristo ha indossato i nostri vestiti: il dolore e la gioia dell’essere uomo, la fame, la sete, la stanchezza, le speranze e le delusioni, la paura della morte, tutte le nostre angustie fino alla morte. E ha dato a noi i suoi “vestiti”. Vestiti dell’amore a cui siamo chiamati a credere.
Credere all’amore è viverne.
Se, poi, qualcuno mi chiedesse come vivere d’amore, proporrei di accogliere come risposta questa preghiera di Santa Teresa del Bambin Gesù: “Vivere d’Amore è custodire Te, Verbo Increato, Parola del mio Dio! Tu sai che ti amo, Gesù divino! Lo Spirito d’Amore tutta m’infiamma. E’ amando Te che io attiro il Padre: il debole mio cuore lo trattiene. O Trinità, tu ormai sei prigioniera del mio Amore! Vivere d’Amore è di tua vita vivere, Re glorioso, delizia degli eletti. Tu nascosto nell’ostia per me vivi: e io voglio per te, Gesù, nascondermi! Pur occorre agli amanti solitudine, un cuore a cuore che duri notte e giorno. Il tuo sguardo è per me beatitudine: vivo d’Amore!...Vivere d’Amore non è mai qui in terra un piantare la tenda in vetta al Tabor: è salire invece con Gesù il Calvario, è nella Croce scorgere un tesoro! A me gioire sarà dato in Cielo, ove per sempre esclusa è la prova; ma nell'esilio voglio col soffrire vivere d’Amore… Vivere d’Amore è, mentre Gesù dorme, trovar riposo sui tempestosi flutti. Non temere, Signor, che io ti svegli! In pace attendo il celeste approdo. Presto la Fede squarcerà il suo velo; la Speranza per me è vederti un giorno: Carità è una vela gonfia che mi spinge: Vivo d’Amore!” ( Santa Teresa del Bambin Gesù, Dottore della Chiesa, Opere – Febbraio 1897)
Credere nell’amore implica il farci portatori di speranza.
Come? Guardando la Croce ed aiutando gli altri a guardarla perché anche loro in Cristo trovino “chi per primo ci ha amati. Gesù in Croce ci ama e ci lava nel Sangue che è fuoco. Guardiamo a Cristo, Amore infinito, Amore che dona l’Amore” (Clemente Rebora) . L’amore vive dentro nel cuore ed apre alla speranza.
Se avere fede nell’amore significa credere che l’amore è la cosa più importante, porre la speranza nell’amore significa:
  • scegliere di costruire la vita sull’amore,
  • credere che effettivamente noi siamo salvati attraverso l’amore e che questo amore rimane eterno,
  • credere che l’amore che Dio nutre per noi è più forte di tutto il male che ci può raggiungere,
  • credere che possiamo vivere d’amore e che l’amore ci può bastare.


3) Le Vergini consacrate testimoni della speranza.
Per testimoniare la speranza che è Gesù risorto dandole piena cittadinanza nel mondo, alcune donne si consacrano verginalmente a Cristo. Come queste donne testimoniano la speranza nella storia e nella vita quotidiana? Raccontando con la loro vita quotidiana di consacrate le grandi opere del Signore, secondo lo spirito del Magnificat.
Con il lavoro nel mondo e la preghiera verginale diventano lampade che irradiano nel mondo la speranza portata da Cristo o meglio, irradiano Cristo speranza nostra e del mondo intero come insegna Sant’Agostino Sia il Signore Iddio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti da Dio sperano qualcosa al di fuori di lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio… Egli sarà il tuo amore”. Il Vescovo di Ippona prosegue Qual è allora l’oggetto della nostra speranza… Qual è? È la terra? No. Qualcosa che deriva dalla terra, come l’oro, l’argento, l’albero, la messe, l’acqua? Niente di queste cose. Qualcosa che voli nello spazio? L’anima lo respinge. È forse il cielo così bello e ornato di astri luminosi? Tra queste cose visibili che c’è infatti di più dilettevole, di più bello? No, non è neppure questo. E cos’è? Queste cose piacciono, sono belle queste cose, sono buone queste cose: ricerca chi le ha fatte, egli è la tua speranza… Digli: tu sei la mia speranza”.

1Il vangelo usa il testo greco “eremo”, la cui traduzione letterale è “luogo solitario”.

Lettura patristica
Cromazio di Aquileia (335 il 340 – 407/408)
In Matth., Tract., 40, 1-4


       "E venuto nella casa di Pietro, lo serviva" (Mt 8,14-15). Entrato nella casa di Pietro, il Signore e Salvatore nostro guarì col solo contatto della sua mano la suocera di lui ammalata gravemente, ed in questo prodigio mostrò di essere l’autore di ogni sanità, l’autore della medicina celeste, che nel passato aveva parlato a Mosè dicendo: "Io sono il Signore che ti guarisco" (Is 60,16). Ma in questo, poiché donò la guarigione col contatto della mano, fu segno non di impotenza ma di grazia. In realtà, anche se precedentemente aveva guarito il paralitico soltanto con una parola, senz’altro facilmente avrebbe potuto anche ora fare scomparire le febbri con una parola, ma attraverso il contatto della sua mano mostrò il dono della sua benevolenza e si manifestò come colui del quale era stato scritto: "Per il contatto della sua mano presto ridona la sanità", poiché capiamo che è stato adempiuto in questa stessa opera. Immediatamente, infine, per il contatto della mano del Signore, la febbre scomparve, la guarigione ritorna con la fede alla credente, egli che scruta i reni e il cuore [degli uomini] dona i benefici della sanità, e quelle cose di cui bisognava per il servizio altrui, e restituita alla salute precedente, cominciò in persona a servire il Signore. Per queste prodigiose azioni senza dubbio si approva chiaramente la divinità del Cristo.


       "Venuta, poi, la sera gli presentarono molti, e curò le loro infermità" (Mt 8,16-17).

       Il Signore delle virtù ed autore della salvezza degli uomini, elargiva a tutti, come pio e misericordioso. Dio, il rimedio della medicina celeste, liberava i posseduti dal demonio, scacciava gli spiriti immondi, faceva scomparire anche tutte le malattie ed infermità del corpo con la parola del suo divino potere, affinché mostrasse di essere venuto per la salvezza del genere umano, e dimostrasse fino all’evidenza di essere Dio attraverso un così gran numero di azioni prodigiose, perché questi così grandi segni miracolosi non li può effettuare se non Dio solo.

       "Affinché si adempisse, disse, ciò che è stato detto per il profeta Isaia: Poiché egli stesso si addossò le nostre infermità, e portò le nostre malattie" (Mt 8,17).

       Inoltre il Figlio di Dio si addossò le infermità del genere umano, affinché rendesse noi, una volta deboli, forti e ben radicati nella sua fede; per questo prese un corpo da una razza peccatrice, per cancellare i nostri peccati col mistero della sua carne. Di sera poi ciò che conferì secondo l’intelligenza dello spirito, fu mostrato come sacramento della passione del Signore, quando lo stesso Figlio di Dio, che è chiamato sole di giustizia per la nostra salvezza accettò la pena di morte.

       E dopo la sua passione tutti quelli che si sono offerti al Signore, o che si offrono, liberati dalle diverse malattie dei peccati, e dai vari legami del demonio, ottengono dal Signore e Salvatore nostro ed eterno medico, la salvezza eterna: a Lui la lode e la gloria nei secoli dei secoli. Amen.