sabato 28 maggio 2022

Ascensione nella profondità del Cuore di Dio

 

Rito Romano - Anno C – 29 maggio 202

At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28;10,19-23; Lc 24,46-53


Rito Ambrosiano

At 1, 6-13a; Sal 46; Ef 4, 7-13; Lc 24, 36b-53




  1. Ascensione: elevazione, innalzamento, esaltazione.

Per celebrare la festa dell'Ascensione, la Liturgia per l’ Anno C ci propone il racconto di San Luca che descrive questo evento con il verbo “essere portato su”, cioè “elevato”, quindi “esaltato”.

Seguendo l’insegnamento di questo Evangelista, comprendiamo che l’Ascensione ha un doppio aspetto. Il primo è quello del salire in alto verso il Padre (“Veniva portato su verso il cielo”), precisando così che la risurrezione di Gesù non è un ritorno alla vita di prima, quasi un passo all'indietro, ma l’entrata in una condizione nuova, un passo in avanti, nella gloria di Dio. Il secondo è quello della partenza: l’Ascensione è presentata quindi anche come un distacco (“Si staccò da loro”). Gesù ritira la sua presenza visibile, sostituendola con una presenza nuova, invisibile, che tuttavia è più profonda. Si tratta di una presenza che si coglie nella fede, nell’ascolto della Parola, nella frazione del pane (cioè la Messa) e nella fraternità.

Come ho fatto notare all’inizio di queste riflessioni, San Luca narra il fatto dell’ascensione, presentadola come l’“esaltazione” di Gesù (cfr Lc 24,50-53 e At 1,1-11). Questo innalzamento verso il cielo è –secondo me- strettamente connesso con l’elevazione di Cristo sulla Croce, che diventa il trono della sua esaltazione. In entrambi i casi, Cristo dice parola di misericordia, perdono e benedizione.

In tutte e due le elevazioni non si tratta della fine della relazione tra Gesù e i suoi discepoli, e tutte due sono fonte di gioia. Certo la gioia provocata dal Cristo “portato su” la croce venne dopo tre giorni, mentre quella di oggi è immediata. Tutte e due gli innalzamenti mostrano bene lo scopo redentivo di Cristo: l’Amore vince la morte, perdona il peccato e apre il Paradiso: il cuore del Padre è la dimora del Figlio e dei figli nel Figlio.

Gesù, il Verbo di Dio, si è incarnato per portare Dio e il suo amore sulla Terra. Questo amore è come la calamita che attira Dio all’uomo e l’uomo a Dio: “Chi mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre e io verremo a lui e prenderemo la nostra dimora presso di lui, in lui” (Gv 14, 24). A questa “discesa” fa seguito l’ “ascesa” del Figlio di Dio che ritorna nella dimora del Padre. Con l’ascensione, l’umanità di Cristo è trasferita nel cuore delle divinità. “Immersa nell’essere della divinità questa umanità ora prende parte alle proprietà di Dio, così come un ferro incandescente partecipa alle proprietà del fuoco” (H.U. von Balthasar).

Come l’ascensione-elevazione di Cristo non fu per i discepoli di circa duemila anni uno spettacolo, ma un avvenimento in cui loro stessi furono inseriti, così oggi per noi l’innalzamento di Cristo è un sursum corda, cioè un “in alto i nostri cuori”, un movimento verso l’alto, a cui tutti siamo chiamati. Si tratta di un evento che ci dice che l’essere umano può vivere davvero quando è rivolto verso l’alto. L’essere umano è capace dell’altezza, e l'altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso. Ed è per questo che la colletta della Messa di oggi ci fa pregare così:”Concedi, o Dio onnipotente, a noi i quali crediamo che il tuo unico Figlio, nostro Redentore, è oggi salito al cielo, che pure noi possiamo dimorarvi con il nostro spirito”.

Ancora una volta la Liturgia ci pone dinanzi il primato di Dio. Papa Francesco ha detto: “L’Ascensione di Gesù al cielo ci fa conoscere questa realtà così consolante per il nostro cammino: in Cristo, vero Dio e vero uomo, la nostra umanità è stata portata presso Dio; lui ci ha aperto il passaggio; è come un capo cordata quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a sé conducendoci a Dio”.

Quindi l’ascensione per gli apostoli e, ora, per noi, è prima di tutto uno sguardo contemplativo all’amore che unisce il Padre ed il Figlio. La frase di San Luca nel vangelo di oggi: “Gesù fu portato su verso il cielo” ci fa fissare lo sguardo su questo evento: il Figlio torna al Padre che è in cielo. Il cielo è “immagine” del Padre, è il luogo della sua casa, della sua presenza, della sua comunione. Il Figlio Risorto non può che andare innanzitutto dal Padre. E noi figli nel Figlio impariamo che la salvezza non consiste in una propria presunta maggior grandezza o importanza, ma in questo esodo, in questo ritorno di amore su, in alto, verso Dio.


2) Missione come testimonianza, cioè come martirio.

Il compito dei discepoli, quelli di allora e noi oggi, non si riduce a guardare il cielo o conoscere i tempi e i momenti nascosti nel segreto di Dio. Il compito dei discepoli fino alla fine dei tempi è di portare la testimonianza di Cristo fino ai confini della terra.

Il Figlio di Dio, che ha comunione con il Padre, non la tiene come geloso possesso per sé, anzi la offre ai discepoli e li invita ad essere testimoni di essa fino agli estremi confini della terra. L’ascensione non è la fine la storia, ma la apre ad una fecondità inaspettata, perché diventi, per grazia divina e azione umana, il grembo della nuova vita di comunione con Dio.

L’ascensione ci annuncia che la vera questione non consiste nel prolungare la storia, bensì nel salire con Cristo verso il Padre, consapevoli che ognuno di noi “abita non dove sta il corpo, ma dove sta il cuore” (Sant’Agostino d’Ippona).

Per questo gli apostoli non rimasero sul monte a guardare il cielo, ma ubbidendo al comando amoroso di Cristo si fecero testimoni della comunione trinitaria che dà forma e vita alla comunione degli uomini fra di loro, in cammino per raggiungere il cielo.

Non dimentichiamo che Il testimone (in greco marturos= martire) è chi è in grado di fare una deposizione, cioè di raccontare il fatto al quale ha assistito di persona. Dunque, l’ambiente originario della testimonianza è il dibattito processuale. Gli Apostoli hanno personalmente visto gli eventi di Gesù (“queste cose”) e sono perciò in grado di testimoniarli. La parola “testimone” ha però allargato il suo significato. Ora non indica più soltanto chi parla di un fatto a cui ha assistito. Il termine “testimone” è usato spesso per indicare una persona che dà il buon esempio, ma il Vangelo chiede di essere testimoni affermando coraggiosamente una cosa in cui crede profondamente, pronti ad affermarla anche con il sacrificio di se stessi. In questo senso, il vero testimone è il martire che attesta con il dono della vita la verità che ha incontrato e amato.

Dunque, il testimone (=martire) è caratterizzato da un profondissimo legame a Cristo, che è per eccellenza il Martire dell’amore e della verità: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). L’amore è la causa che ha spinto il Redentore a dare la sua vita (cfr 1 Gv 4,8). Verità e amore sono inseparabili, perché l’amore diventa autentico soltanto se è vero. E la forza della verità si svolge nell’amore. Questa doppia dimensione è molto presente nella testimonianza dei martiri. Cristo si è rivelato come la verità (cfr Gv 14,6) e questa verità diventa credibile attraverso l’amore (cfr Gv 15,13).

A questo riguardo, credo utile ricordare che se il martire è il discepolo, che si rende simile al Maestro perché accetta liberamente la morte per la salvezza dei fratelli e sorelle in umanità, la verginità può essere considerata una forma di martirio. In effetti, la verginità consacrata implica in modo ordinario –non straordinario come nel martirio di sangue- una vita totalmente identificata con l’offerta di Cristo, Agnello immacolato.

La vergine consacrata nel mondo rende testimonianza a Cristo Signore con il dono del propria vita quotidianamente rinnovato e vissuto nel quotidiano lavoro nel e per il mondo. Con la sua consacrazione la vergine nel mondo dice l’assoluto di Dio nel frammento dell’amore quotidianamente vissuto nella lode a Dio e nel servizio di misericordia per i poveri.

La vergine consacrata offre il suo corpo come “cielo” per Cristo e si fa tabernacolo vivente di chi ha fatto il cielo.

La vergine consacrata rende particolarmente vera questa preghiera di San Gregorio di Nazianzo: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.



Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)

Discorso sull’Ascensione del Signore

PLS 2, 494-495


Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo

Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.

Ascoltiamo l’apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.

Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25, 35).

Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l’amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).

Questa affermazione fu pronunciata per sottolineare l’unità tra lui nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell’uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.

Così si esprime l’Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12, 12). L’Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.

Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l’unità del corpo non sia separata dal capo.


sabato 21 maggio 2022

Obbedire è amare

 

Rito Romano

VI Domenica di Pasqua – Anno C – 22 maggio 2022

At 15,1-2.22-29; Sal 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29


 


Rito Ambrosiano

At 21,40b-22,22; Sal 66; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22


1) Il cammino delle sei Domeniche di Pasqua.

Nel periodo di Pasqua, la Liturgia della Chiesa ci fa ricordare (nel senso biblico del termine: rendere presente) Cristo risorto concretamente presente e veramente vivente. Per questo durante le Messe delle prime tre Domeniche di Pasqua ci sono stati proposti i brani del Vangelo in cui sono raccontati gli incontri del Risorto con Maria Maddalena, con i discepoli di Emmaus, con gli Apostoli e con San Tommaso e alla fine con Pietro, che viene confermato nell’amore perché ha presentato a Cristo il suo dolore.

Nella IV domenica ci è stato ricordato che Cristo è il buon Pastore ed è presente come guida attraverso i sacerdoti e i vescovi. Nella V Domenica ci è stato ricordato che Gesù risorto è presente nell'amore concretamente vissuto e reciprocamente donato nella comunità dei cristiani, che hanno “come” esempio il Cristo stesso.

Oggi, l’insegnamento delle Domeniche precedenti arriva al culmine. Nella VI Domenica di Pasqua, infatti, il Vangelo ci fa ascoltare Gesù non si accontenta di abitare in mezzo a noi, ma chiede di essere ascoltato (di osservare la sua parola) per potere “dimorare” in noi. Cristo dunque non è più semplicemente uno con noi, uno tra di noi, anche se è il migliore: Lui ora è in noi con il suo Spirito.

A noi credenti che ascoltiamo la sua parola e ai quali dona lo Spirito Santo perché ci dia la pace e “richiami al nostro cuore tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato e ci renda capaci di testimoniarlo con le parole e con le opere” (cfr. la Colletta della VI Domenica di Pasqua).

Sapere e fare esperienza dell’amore di Dio in noi e per noi è pace confortante e gioiosa, ma è anche responsabilità grande e quotidiana.


 

2) Osservare la Parola, che è dono dell’amore.

Dalla meditazione del passo odierno del Vangelo di Giovanni (14,23-29) emergono due temi: l’amore obbediente per Gesù e il dono dello Spirito.

In effetti, in questo brano evangelico, il Figlio di Dio presenta il legame indissolubile tra l’amore a Lui e l’osservanza della Sua Parola. A questo riguardo, va tenuto presente che il termine greco usato da San Giovanni: “Logos” secondo i vari contesti può significare: la “Parola” che è Cristo, il Verbo di Dio, la “parola” che Cristo rivolge ai suoi interlocutori, e il “comandamento” dato per amore e da osservare con amore. Questo terzo significato non è poi così strano perché se uno ama prende così sul serio la “parola” dell’amato da portarla nel cuore, da custodirla osservandola. Cioè se amiamo il Signore, vuol dire che Lo portiamo nel cuore, custodendo (osservando) le sue parole, perché vogliamo vivere come Lui, vogliamo che Lui diventi la nostra vita. In effetti, se si ama una persona, quella persona diventa la nostra vita e l’ascoltiamo mettendo in pratica quello che dice.

Dunque la prova che si ama veramente il Signore è l’obbedienza. E’ vero che il verbo “amare” dice anche desiderio, affetto, amicizia, appartenenza, ma qui si sottolinea che non si può parlare di vero amore se manca l’osservanza dei comandamenti: “Se uno mi ama osserverà la mia parola” (Gv 14, 23). E, subito, sempre nello stesso v. 23, Gesù aggiunge e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Id 14, 23). In questo modo, il Figlio di Dio sottolinea un’altra caratteristica dell’amore: quella di essere il luogo dell'incontro con l’amore del Padre. Anzi è il luogo in cui il Padre e Gesù pongono la loro dimora.

L’icona, cioè l’immagine più bella di questa dimora “costruita” dall’obbedienza amorosa è la Maria, Vergine e Madre. La Madonna accolse nella fede e nella carne Gesù, il Figlio di Dio, in piena obbedienza alla Parola di Dio.

L’obbedienza a Dio e alla sua azione nella fede include anche l’elemento dell’oscurità. La relazione dell’essere umano con Dio non cancella la distanza tra Creatore e creatura, non elimina quanto afferma l’apostolo Paolo davanti alle profondità della sapienza di Dio: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Ma proprio chi - come Maria – è aperto in modo totale a Dio, giunge ad accettare il volere divino, anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l’anima, come il profeta Simeone disse a Maria, quando insieme con Giuseppe presentò Gesù al Tempio (cfr Lc 2,35).

Il cammino di fede implica la gioia di ricevere il dono di amore, ma anche il momento dell’oscurità, dovuta alle sofferenze della vita, alle croci delle vita. Così fu per Maria, la cui fede le fece vivere la gioia dell’Annunciazione, ma passare senza cedere attraverso il buio della crocifissione del Figlio, per poter giungere fino alla luce della Risurrezione.

Per gli Apostoli, allora, e per ciascuno di noi, oggi, il cammino di obbedienza nella fede non è diverso: incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche tempi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore. Questo però significa uscire da sé stessi e dai propri progetti, perché la Parola di Dio, osservata con amore, sia la lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni.

Come ha potuto la Madre di Dio vivere il suo cammino accanto al Figlio con una fede così salda, anche nelle oscurità, senza perdere la piena fiducia nell’azione della Provvidenza? E questa domanda vale anche per gli Apostoli: “Come hanno potuto perseverare nel cammino con Cristo e dare la vita per il Suo vangelo, cioè per la sua Parola buona e lieta che porta alla gioia della vita vera attraverso la croce.

Maria e gli apostoli hanno obbedito all’amore, hanno osservato la parola che era donata a loro, che stava davanti a loro. Hanno “dialogato” con Cristo, custodendo, osservando la Sua parola. Maria e gli Apostoli hanno riflettuto sul significato della parola di Cristo e ne hanno concluso che non potevano lasciarlo, perché solo Lui ha parola di vita eterna. Il termine greco usato nel Vangelo, per definire questo “riflettere”, “dielogizeto”, richiama la radice della parola “dialogo”. Questo significa che noi credenti, osservanti “uditori della Parola”, dobbiamo perseverare nel dialogo con la Parola di Dio che ci è detta, lasciandola penetrare nella mente e nel cuore per comprendere ciò che il Signore vuole da ciascuno di noi.


3) Il dono dello Spirito.

Nel Vangelo di oggi ascoltiamo pure: “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 25-26).

Che cosa vuol dire Gesù in questi due versetti? Il Risorto vuol dire ai suoi discepoli ieri e di oggi, di sempre che Lui non ci lascia soli, ci manda il Consolatore, lo Spirito Santo, lo Spirito della verità che dà la vita di Dio e la vita di Dio è l’amore. E’ questo amore che ci farà conoscere ciò che Gesù ha detto, progressivamente e più lo conosciamo più lo ami; più lo amiamo più lo conosciamo e avanti all’infinito e per sempre.

L'insegnamento dello Spirito è ancora l’insegnamento di Gesù. Non c’è contrasto tra i due. Compito dello Spirito è insegnare e ricordare. Si tratta sempre dell'insegnamento di Gesù, ma colto e compreso nella sua pienezza: “Vi insegnerà ogni cosa”. Non si tratta di aggiungere qualcosa all'insegnamento di Gesù, quasi fosse incompleto. “Ogni cosa” significa la pienezza, la sua radice, la sua ragione profonda. E anche la memoria, dono dello Spirito, non è ricordo ripetitivo, ma ricordo che attualizza. Lo Spirito mantiene aperta la storia di Gesù, rendendola perennemente attuale e salvifica. Quindi il dono dello Spirito che Gesù ci fa sulla croce e che fa nella storia ed è la sua presenza costante nella storia, è lo Spirito d’amore che ci fa capire e ci fa fare ciò che lui ha detto ed ha fatto. Lo Spirito non ci insegna o ispira cose strane, ci fa capire quello che Cristo ha detto e fatto, dandoci la forza di viverlo perché è solo l’amore che ci fa capire e ci fa fare.

Naturalmente tutti riceviamo il dono dello Spirito, la cui azione in noi ci fa “ricordare” (cioè ridare al cuore) e "rende presente" sempre di nuovo il Cristo. Ma in modo particolare va invocato sulle Vergini consacrate nel mondo, le quali sono, nella Chiesa, il segno visibile del mistero della Chiesa stessa, che è insieme vergine e sposa (cfr. 2 Cor 11,2; Ef 5, 25 – 27). Se da una parte la verginità annuncia fin da ora ciò che sarà la vita futura (cfr. Mt 22,30): la vita simile a quella degli angeli, essa (la verginità) ha anche un significato nuziale come nel Rituale di consacrazione è indicato mediante la consegna delle insegne della consacrazione, cioè il velo e l’anello, accompagnata da questa preghiera: “Ricevete il velo e l’anello, segno della vostra consacrazione nuziale. Sempre fedeli a Cristo, vostro Sposo, non dimenticate mai che vi siete donate totalmente lui e al suo corpo che è la Chiesa” (REV, n 19 e n. 88).


Lettura Patristica

Bernardo di Chiaravale

In Cant. Cant., Sermo 74, 6



Gli effetti della presenza di Cristo in me


       Vivo e attivo è lui, e appena è entrato ha destato l’anima mia assopita; ha commosso, reso molle e ferito il mio cuore, poiché era duro e di sasso, e insensato. Ha cominciato anche a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, a irrigare ciò che era arido, a illuminare ciò che era tenebroso, a spalancare ciò che era chiuso, a riscaldare ciò che era freddo, e così pure a raddrizzare ciò che era storto, e a cambiare le asperità in vie piane, affinché l’anima mia, e tutto ciò che è in me, benedicesse il Signore e il suo santo nome. Entrando così più volte in me il Verbo, mio sposo, non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio. Nessun gesto suo insomma lo ha fatto scoprire, nessuno dei miei sensi si è accorto che penetrava nel mio intimo soltanto dal moto del cuore, come ho detto prima ho sentito ia sua presenza; dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dallo scuotimento e dalla riprensione delle mie colpe nascoste, ho ammirato la profondità della sua sapienza; dalla sia pur piccola correzione delle mie abitudini, ho sperimentato la bontà della sua mitezza, dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto comunque l’idea della sua bellezza; e nel contempo dall’esame di tutte queste cose, ho avuto timore delle sue grandezze senza numero.

sabato 14 maggio 2022

Un comandamento antico: Amare, che diventa nuovo, perché ha Cristo come modello.

 

Rito Romano

V Domenica di Pasqua – Anno C – 15 maggio 2022

At 14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35

 


Rito Ambrosiano

At 14,21-27; Sal 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35



1) Un comando nuovo ed antico.

Nella Liturgia della Parola di questa V Domenica di Pasqua c’è un aggettivo che vi ricorre più volte: “nuovo, nuova”. Nelle prime due letture della Messa si parla di “un nuovo cielo e una nuova terra”, della “nuova Gerusalemme”, di Dio che fa “nuove tutte le cose” e, nel Vangelo, del “comandamento nuovo”: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34).

Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo. Gesù parla di un “comandamento nuovo”. Ma qual è la sua novità? Già nell’Antico Testamento Dio aveva dato il comando dell’amore; ora, però, questo comandamento è diventato nuovo in quanto Gesù vi apporta un’aggiunta molto importante: Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri». Ciò che è nuovo è proprio questo “amare come Gesù ha amato”. Tutto il nostro amare è preceduto dal suo amore e si riferisce a questo amore, si inserisce in questo amore, si realizza proprio per questo amore. L’Antico Testamento non presentava alcun modello di amore, ma formulava soltanto il precetto di amare. Gesù invece ci ha dato se stesso come modello e come fonte di amore. Si tratta di un amore senza limiti, universale, in grado di trasformare anche tutte le circostanze negative e tutti gli ostacoli in occasioni per progredire nell’amore.

Possiamo precisare questa novità facendoci aiutare da Sant’Agostino il quale afferma che Gesù definisce “nuovo” il comando dell’amore fraterno e reciproco perché rinnova, ci fa nuovi, trasforma tutto e tutti. In effetti “l’amore di Cristo ci rinnova, rendendoci uomini nuovi, eredi del Testamento nuovo, cantori del cantico nuovo” (Sant’Agostino). Se dovessimo mettere delle parole in bocca all’amore, potremmo usare le parole che Dio pronuncia nella seconda lettura di oggi: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21, 5). Dunque, il comando dell’amore è nuovo in senso attivo, dinamico. È fonte di novità.

Ma in che cosa consiste la novità di questa volontà di Cristo? Di per sé il comando dell’amore è antico1, come dice San Giovanni nella sua prima lettera (cfr. 1Gv 1, 7 – 10). E’ un comando “antico” come Dio. E già l’Antico Testamento (cfr. Dt 6) invitava ad amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi.

Dunque, la novità di cui Gesù parla non è legata al tempo ma alla modalità: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 35). E il “come” non indica la quantità dell’amore (chi potrebbe amare come il Figlio di Dio) ma la modalità. Cristo non dice amatevi “quanto” io vi ho amati, ma “come” io vi ho amati. Per noi, poveri esseri limitati la sua misura senza limiti è impossibile. E possibile seguirlo, imitarlo nella sua modalità di amare. Per esempio lavare i piedi come a fatto Lui, partendo da chi è più povero. Lavando i piedi agli Apostoli, Cristo indicò come sia importante praticare la carità come amore umile che sta con gli amici, che serve gli amici. Si tratta di un modo di vivere, di un dono di sé che non può essere oscurato da quel desiderio di impossessarsi di tutto, anche dei poveri, per accomodarci nella retorica di un aiuto caritatevole.

L’amore fraterno e vicendevole è la novità della vita di Dio che irrompe nel nostro vecchio mondo, rigenerandolo. Ed è l’anticipo della vita futura a cui aspiriamo e garanzia di quella presente perché “abbiamo tutti bisogno di molto amore per vivere bene” (Jacques Maritain).

L’amore tra i discepoli, fratelli di Cristo e tra di loro, è un amore che tende alla reciprocità: “amatevi gli uni gli altri” (Gv 13, 35) è ripetuto più volte. Ma se vogliamo che il nostro amore reciproco sia come quello di Cristo, questo amore deve nascere dalla gratuità ed aprirsi a tutti i fratelli in umanità. Deve quindi essere una carità reciproca e aperte. “Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli”(Id.). L'amore cristiano – proprio quando se ne sottolinea la reciprocità – non cessa di essere aperto, anzi si apre a tutti: è universale. L'amore scambievole è per l'uomo movimento, vita, uscire dal chiuso, dall'odio, dall'egoismo e dall'indifferenza per respirare a pieni polmoni. San Giovanni, il discepolo prediletto, scrive: “Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli, chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,14). “Amarsi reciprocamente” non è un’ imposizione, ma una direttiva amorosa che salvaguarda e promuove la vita umana. In questa volontà d’amore dove sono riassunti il destino del mondo e la sorte di ognuno di noi.


2) Amare: un comando che è un dono.

L’Apostolo che Cristo prediligeva scrive ancora: “In questo consiste l’amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi”, anzi sono leggeri e fonte di gioia: sono un dono” (1 Gv 5,3). Il comandamento dell'amore è chiamato da San Giovanni un dono (il verbo dare è troppo debole, meglio tradurre donare). Può sembrare assurdo affermare che un comandamento sia un dono può sembrare paradossale, ma è conforme a tutta l’insegnamento biblico. La legge di Dio è un dono, perché quello che dice indica la natura di Dio e il nostro futuro, la nostra vocazione più profonda. Per esempio, il comandamento: “Non uccidere” vuol dire che la natura di Dio è vita e che noi siamo chiamati alla vita.

Quando Dio “comanda” di amare vuol dire che Lui è Amore e che siamo chiamati all’Amore.

Ma che cos’è l’Amore? Uno esiste in quanto amato, se no, non esiste. Sappiamo anche che Dio è amore, ma come si fa a conoscere che Dio è amore? Ecco, Gesù l’ha manifestato: l’amore è lavare i piedi a Pietro che lo rinnega, l’amore è dare se stesso a Giuda che lo consegna e lo tradisce. è sapere amare in un modo assoluto e incondizionato l’altro come altro, prescindendo anche dai suoi meriti. Come il genitore ama il figlio non per i meriti che ha, perché se uno facesse nascere un figlio in base ai meriti che il figlio ha questo figlio non nascerebbe mai e se lo facesse crescere in base ai meriti che ha non crescerebbe mai. L’essere amati é la condizione per vivere e per condividere l’amore ricevuto.

Nel solco del suo predecessore, Benedetto XVI, che ha spiegato teologicamente l’amore nella sua Enciclica “Deus caritas est” Papa Francesco da pastore autentico dice: “Che cos’è l’amore? E’ la telenovela, padre? Quello che vediamo nei teleromanzi?” Alcuni pensano che sia quello l’amore. Parlare dell’amore è tanto bello, si possono dire cose belle, belle, belle. Ma l’amore ha due assi su cui si muove, e se una persona, un giovane non ha questi due assi, queste due dimensioni dell’amore, non è amore. Prima di tutto, l’amore è più nelle opere che nelle parole: l’amore è concreto … Non è amore soltanto dire: “Io ti amo, io amo tutta la gente”. No. Cosa fai per amore? L’amore si dà. Pensate che Dio ha incominciato a parlare dell’amore quando si è coinvolto con il suo popolo, quando ha scelto il suo popolo, ha fatto alleanza con il suo popolo, ha salvato il suo popolo, ha perdonato tante volte – tanta pazienza ha Dio! –: ha fatto, ha fatto gesti di amore, opere di amore. E la seconda dimensione, il secondo asse sul quale gira l’amore è che l’amore sempre si comunica, cioè l’amore ascolta e risponde, l’amore si fa nel dialogo, nella comunione: si comunica”.


3) Il Pellicano come immagine di Cristo-Amore.

Dalla tradizione medievale ci viene un’immagine che può essere utile a capire che cos’è l’amore: è l’immagine di Gesù Cristo rappresentato come un Pellicano, che si apre il petto con il becco e prende il suo cuore per dare da magiare ai suoi piccoli, poiché non ha trovato pesci da dare loro da mangiare. L’origine di questa immagine eucaristica viene da un’antica leggenda, ma rappresenta bene l’amore concreto del Figlio di Dio che si comunica dando la vita per dare il cibo di Vita.

Tutti i cristiani devono avere un rapporto profondo con Cristo-Eucaristia, ma va tenuto presente che il mistero eucaristico dell’amore manifesta un rapporto intrinseco con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo. Infatti la vergini consacrate accolgono Cristo-Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia le vergini consacrate nel mondo trovano ispirazione e alimento per la loro piene dedizione a Cristo (cfr Sacramentum caritatis, n 81) .

Le vergini consacrate sono appassionate nel loro amore per l’Eucaristia, accogliendo Cristo come loro ispirazione e lor cibo da condividere. La loro consacrazione verginale non è una rinuncia all’amore, anzi le rende sempre pronte a ricevere l’amore intimo del Signore e a ricambiarlo con la preghiera e il servizio al prossimo amato d’amore verginale come quello di Cristo. Queste donne consacrate seguono, cioè imitano l’Agnello nello splendore della verginità. “Voi dunque - dice loro S. Agostino - seguite l'Agnello conservando con perseveranza ciò che avete consacrato a Lui con ardore (S. Virg. 29,29) .

La verginità impreziosita dalla consacrazione verginale, è quotidianamente rivitalizzata dalla sponsalità eucaristica dove si respira l’amicizia di Gesù: amicizia di similitudine,: “Come il Padre ha amato me, io amo voi” (Gv 15,9). Il precetto “amatevi come io vi ho amati, nel mio amore” (Gv 13,34; 15,9 ss.) è chiave interpretativa della donazione mediante il sacramento della presenza amica del Signore risorto.

1 Si tratta di un comandamento “antico” e “nuovo”. Antico perché risale a Dio stesso che è Amore dall'eternità e nell'amore conferma tutti i suoi figli; nuovo per il fatto che il criterio di comportamento, l’attitudine e l’attendibilità di chi dice di dimorare in Cristo dovrà configurarsi nell'amore verso i fratelli scongiurando ogni sorta di odio, di ritrosia e di sospetto: il distintivo del cristiano deve essere la capacità di amare anche al di sopra delle proprie forze e fino a negare se stesso.

Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)

Comment. in Ioann., 65, 1-3



Uomini nuovi in virtù del comandamento nuovo


       Cristo ci ha dunque dato un nuovo comandamento, nel senso che ha detto di amarci l’un l’altro, così come egli ci ha amati. È questo amore che ci rinnova, affinché diveniamo uomini nuovi, eredi del Nuovo Testamento, cantori di un nuovo cantico. Questo amore, fratelli, ha rinnovato anche i giusti dei tempi antichi, i patriarchi e i profeti, come più tardi ha rinnovato i beati apostoli. Esso ora rinnova tutte le genti, e, di tutto il genere umano che è diffuso ovunque sulla terra, fa, riunendolo, un sol popolo nuovo, il corpo della nuova sposa del Figlio unigenito di Dio, della quale il Cantico dei Cantici dice: "Chi è colei che si alza splendente di candore?" (Ct 8,5 , secondo i LXX). Essa è splendente di candore perché è rinnovata: da che cosa, se non dal nuovo comandamento? Ecco perché i suoi membri sono solleciti l’uno per l’altro e se uno soffre, soffrono con lui tutti; se uno è glorificato, gioiscono con lui tutti gli altri (1Co 12,25-26). Essi ascoltano e praticano quanto dice il Signore: «Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri», ma non come si amano quelli che cercano la corruzione, né come si amano gli uomini in quanto hanno la stessa natura umana, ma come si amano coloro che sono dèi e figli dell’Altissimo, e che mirano a divenire fratelli dell’unico Figlio suo, che si amano a vicenda dell’amore del quale egli li ha amati, che li porterà a giungere a quella meta dove egli sazierà tutti i loro desideri, nell’abbondanza di tutte le delizie (Ps 102,5). Allora, ogni desiderio sarà soddisfatto, quando Dio sarà tutto in tutti (1Co 15,28). Una tale meta non conoscerà fine. Nessuno muore là dove nessuno può giungere se prima non è morto per questo mondo, e non della comune morte nella quale il corpo è abbandonato dall’anima, ma della morte degli eletti. Quella morte che, mentre ancora siamo in questa carne mortale, eleva il cuore in alto nei cieli. È di questa morte che l’Apostolo dice: "Perché voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio" (Col 3,3). Forse per la stessa ragione sta scritto: "L’amore è forte come la morte" (Ct 8,6).


       È grazie a questo amore che, pur restando ancora prigionieri di questo corpo corruttibile, noi moriamo per questo mondo, e la nostra vita si nasconde con Cristo in Dio; o, meglio, questo stesso amore è la nostra morte per il mondo, ed è vita con Dio. Se infatti parliamo di morte quando l’anima esce dal corpo, perché non dobbiamo parlare di morte quando il nostro amore esce da questo mondo? L’amore è quindi davvero forte come la morte. Che cosa è più forte di questo amore che vince il mondo?


       Ma non crediate, fratelli, che il Signore dicendo: «Vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri», abbia dimenticato quell’altro comandamento che ci è stato dato, che amiamo il Signore Dio nostro con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutto il nostro spirito. Può sembrare che egli lo abbia dimenticato, in quanto dice soltanto: «che vi amiate gli uni gli altri», come se il primo comandamento non avesse rapporti con quello che ordina di amare "il prossimo tuo come te stesso" (Mt 12,37-40).


       A "questi due comandamenti" - disse il Signore, come narra Matteo - "si riduce tutta la legge e i profeti (Mt 22,40)". Ma per chi bene li intende, ciascuno dei due comandamenti si ritrova nell’altro. Infatti, chi ama Dio non può disprezzare Dio stesso quando egli ordina di amare il prossimo; e colui che ama il prossimo di un amore spirituale, chi ama in lui se non Dio? Questo è quell’amore liberato da ogni affetto terreno, che il Signore caratterizza aggiungendo le parole: «come io ho amato voi». Che cosa, se non Dio, il Signore amò in noi? Non perché già lo possedessimo, ma perché lo potessimo possedere; per condurci, come poco prima ho detto, là dove Dio sarà tutto in tutti. È in questo senso che, giustamente, si dice che il medico ama i suoi malati: e cosa ama in essi, se non quella salute che desidera ripristinare, e non certo la malattia che si sforza di scacciare?


       Amiamoci dunque l’un l’altro, e, per quanto possiamo, a vicenda aiutiamoci a possedere Dio nei nostri cuori. Questo amore ci dona colui che ci dice: “Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri” (Jn 13,34). Egli ci ha amati per renderci capaci di amarci a vicenda; questo ci ha concesso amandoci, che ci stringiamo con mutuo amore e, uniti quali membra da un sì dolce vincolo, siamo il corpo di un tanto augusto capo.


       "In questo appunto tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Jn 13,35). È come se avesse detto: Coloro che non sono miei discepoli, hanno in comune con voi altri doni, oltre la natura umana, la vita, i sensi, la ragione e tutti quei beni che sono propri anche degli animali; essi hanno anche il dono della conoscenza delle lingue, il potere di dare i sacramenti, quello di fare profezie; il dono della scienza o quello della fede, la capacità di distribuire ai poveri tutti i loro beni, e quella di sacrificare il loro corpo nelle fiamme. Ma se essi non hanno la carità, sono soltanto dei cembali squillanti: non sono niente, e tutti questi doni a loro niente giovano (1Co 13,1-3). Non è dunque in queste grazie, sia pure eccellenti, e che possono esser date anche a chi non è mio discepolo, ma è «in questo che tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».


sabato 7 maggio 2022

Il vero e buon Pastore dà la vita per le sue pecore, non solo in un tempo passato. Ogni giorno nella Messa Lui dona se stesso a noi attraverso le nostre mani.

 

Rito Romano

IV Domenica di Pasqua o della divina Misericordia – Anno C – 8 maggio 2022

At 13,14.43-52; Sal 99; Ap 7,9.14-17; Gv 10, 27-30


Rito Ambrosiano

At 21,8b-14; Sal 15; Fil 1,8-14; Gv 15, 9-17.


Premessa.

Nel Vangelo di San Giovanni Cristo parla di se stesso come Pane di vita (cap. 6), Luce del mondo (cap. 8) e nel breve brano di oggi (cap. 10) come buon e vero Pastore., che ha tre caratteristiche: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità.

Inoltre, per capire quest’immagine chiara nel passato e per gli appartenenti al mondo rurale, ma non così evidente per chi vive oggi in aeree urbane, è utile ricordare che ai tempi della vita terrena di Cristo, al calare della sera, i pastori conducevano i loro greggi in un grande recinto comune per passarvi la notte. Al mattino ogni pastore gridava il suo particolare richiamo e le pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano fiduciosamente fuori dal recinto senza affatto sbagliare.


1) Il Pastore vero dà la vita.

La figura del pastore e del gregge a cui Gesù si ispira, si trova già nell’Antico Testamento. Jahvé è il pastore che fa pascolare il suo gregge (Is 40,11) e nel corso della storia lo affida successivamente ai suoi servi Abramo, Mosè, Giosuè, i Giudici e i re di Israele. Questi ultimi però spesso e volentieri non hanno ottemperato al loro compito e allora Ezechiele, in un testo che si leggeva durante la Festa della Dedicazione, pronuncia il famoso oracolo: Guai ai pastori di Israele, che pascolano se stessi! … Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura ... Ricondurrò all’ovile la pecora smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata … Susciterò per loro un pastore che le pascerà”(Ez 34, 1, 11, 16, 23).

Ed ecco la realizzazione di questa profezia: secoli dopo, durante la Festa della Dedicazione, Gesù definisce se stesso come il vero Pastore buono, che finalmente si prende cura con amore del gregge di Israele. A differenza del mercenario, cui non importa nulla delle pecore, Lui, il Pastore vero, conosce bene quelle che gli appartengono, se ne prende cura con amore e loro ascoltano la sua voce.

Conoscere e ascoltare sono verbi che indicano un dialogo profondo, una comunione nell'esistenza, non soltanto nelle idee. Dunque, tra Gesù, Pastore, e i suoi discepoli, le pecore che il Padre gli ha dato, c’è una profonda comunione. Gesù è il Pastore perché dà (=offre) la vita per le sue pecore, per dare loro vita eterna e nessuno può strappargliele.

Nessuno, né angeli né uomini, né vita né morte, né presente né futuro, nulla potrà mai separarci dall'amore di Cristo, ci ripete l'apostolo Paolo (cfr. Rm 8, 38). La forza e la consolazione di questa parola assoluta, “nessuno”, è subito raddoppiata: “le strapperà”. Verbo, questo, che non è al presente, ma al futuro per indicare un’intera storia, lunga quanto il “tempo” di Dio. L’uomo, ogni “umana pecorella” è, per Cristo, una passione eterna.

Per tutte e per ciascuna ha “pagato” con la sua vita e le tiene con il suo amore che la condotto come agnello al macello. Il Buon Pastore è nello stesso tempo l’Agnello. Così leggiamo in Gv 2,36: “Ecco l’agnello di Dio!”; e così ci rivela l’Apocalisse: “L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita”(Ap 7,17). Gesù svolge la sua vocazione di pastore che guida e custodisce le sue pecore, non dal di fuori, ma dall'interno della condizione umana di debolezza e di prova, simboleggiata dall’agnello: lui stesso l’ha condivisa fino in fondo, fino alla morte di croce. Vivendola con amore, ne ha fatto scaturire una possibilità di vita, e di vita piena ed eterna.

Il fatto che questo l’Agnello Gesù si identifichi con il Pastore è perché nessuno può guidare alla fonti della vita se non facendosi modello del gregge. Questa Guida, che conduce le pecore a pascoli di vita, è l’Agnello che si è immolato perché le sue pecore che ama singolarmente (di ciascuna conosce il nome e di ciascuna ha cura) esprime la comunione fra Gesù e i suoi discepoli, le cui persone sono coinvolte nella loro integralità: intelligenza, cuore, modo di essere e di agire.


2) Ascoltare e seguire chi ci conosce.

Nel breve brano evangelico di oggi Gesù, Agnello-buon Pastore indica due caratteristiche delle sue pecore: l’ascolto e la sequela. Dunque, se vogliamo essere sale e luce anche in un mondo che cambia, come oggi si è abituati dire, non dobbiamo principalmente affannarci in ricerche e progetti diversi: la voce di Gesù è già risuonata e la direzione del suo cammino è già tracciata. A noi singolarmente e in comunione tra noi è richiesta anzitutto la fedeltà alla sua presenza da portare nel mondo.

Noi pecorelle di Cristo lo ascoltiamo perché solo Lui ha parola di vita eterna, di vita piena, di vita che non muore e umilmente lo seguiamo perché sappiamo che siamo da lui amati. Lui ancora oggi e fino alla fine dei tempi, presenta se stesso come offerta inesauribile di vita: “Io do loro la vita eterna”. Entrare in rapporto con Lui significa gustare la vita nella sua pienezza: pur nella fragilità, nel peccato, nel dolore, nella violenza subita, Lui è offerta di Amore. Lui per primo, nella sua condizione umana ha sperimentato che persino nella morte è presente un Amore che ridona la Vita. Ed è Lui solo il dono di Amore che non abbandona nessuno, il dono di vita che non muore, il dono di Amore più forte di tutto perfino della morte.

Questo Amore per essere conosciuto ci chiede che il nostro cuore si impegni. Non si conosce veramente se non Chi si ama. E’ l’amore che è capace di andare oltre ad ogni evidenza. E’ un conoscere dal di dentro, dall'intimo. E' un conoscere l'Essere. E' una conoscenza nell'Amore. Ma il buon Pastore chiede pure di essere ascoltato. Nell’ascoltare è impegnata la mente, l’intelligenza, la virtù dell’obbedienza. Il vero ascolto si fa obbedienza che implica il seguire.

Nel seguire è impegnata la volontà, capace di far muovere i nostri passi dietro Colui che ascoltiamo e amiamo. SeguendoLo i nostri passi non vacillano, Lui ci porterà ai verdi pascoli, anche se dovessimo attraversare una valle oscura... non temeremo perché lui è con noi (cfr. Sal 23).

Questo andare dietro a Cristo buon Pastore ha una dimensione sponsale. Il tema dell’alleanza nuziale arricchisce quello del Pastore buono da seguire vivendo con Lui un’unità profonda.

Nell’Antico Testamento (cfr. Osea 1-3; Is 54 e 62; Ger 2 e 3; Ez 16 e 23; Mal 2, 13-17; Rut, Tobia, Cantico dei Cantici), per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo che Lui si trova spesso l’immagine dell’alleanza nuziale.

Anche nel Nuovo Testamento, si parla di questa alleanza nuziale e il tema di Cristo sposo emerge soprattutto nelle parabole del Regno (cfr. Mt 22, 2; 25, 1; Lc 12, 38). Nessuna meraviglia, dunque, che anche Paolo ricorra all’immagine sponsale per illustrare il rapporto tra Cristo e la comunità cristiana: “Provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11, 2).

Di questa alleanza San Paolo ha messo in evidenza la fedeltà assoluta di Dio: “Anche se noi manchiamo di fedeltà, egli però rimane fedele” (2Tim 2, 13); “Senza pentimenti sono i doni e la chiamata di Dio” (Rm 11, 29; 1,9)

Un modo specifico e speciale di seguire Cristo Pastore e Sposo è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Questo donne testimoniano con il dono totale di sé e con l’accoglienza totale di Cristo che l’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa è riconoscibile da ciò che l’Uno compie per l’Altra. Cristo dona tutto se stesso per lei - sua carne -, purificandola e santificandola con il lavacro battesimale e la Parola, amandola come il proprio corpo, da lui nutrito (Eucaristia, banchetto nuziale) e curata (sotto la guida del Buon Pastore).

A questo riguardo sono illuminanti le parole che il Papa emerito ha rivolto a loro in occasione del congresso del 2008. Benedetto XVI, alludendo al tema “Un dono nella Chiesa e per la Chiesa”, disse: “In questa luce desidero confermarvi nella vostra vocazione e invitarvi a crescere di giorno in giorno nella comprensione di un carisma tanto luminoso e fecondo agli occhi della fede, quanto oscuro e inutile a quelli del mondo”. E aggiunse: “La vostra vita sia una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro (cfr. Rito della consacrazione delle Vergini, 30). Fate in modo che la vostra persona irradi sempre la dignità dell'essere sposa di Cristo, esprima la novità dell'esistenza cristiana e l'attesa serena della vita futura. Così, con la vostra vita retta, voi potrete essere stelle che orientano il cammino del mondo”.

Le Vergini consacrate testimoniano che non ci sono due amori, quello divino e quello umano, ma solo due aspetti dello stesso amore. Dunque, è giusto affermare che amore sponsale e amore verginale sono due volti dell’unico amore di Gesù Cristo.

       Queste donne sono spose per appartenere unicamente nel puro ed esclusivo amore nuziale a Cristo-Sposo (castità), per essere guidate da Cristo-buon Pastore (obbedienza) e per fare affidamento solamente in Cristo Signore (povertà).


Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona (354 -430)

Comment. in Ioan., 48, 4-6


La vita eterna


       I Giudei attribuivano una grande importanza a quanto avevano domandato a Cristo. Se infatti egli avesse detto: Io sono Cristo, dato che essi ritenevano che Cristo fosse soltanto figlio di David, lo avrebbero accusato di volersi arrogare il potere regale. Ma più importante è quanto egli rispose loro: a quelli che volevano far passare come delitto il dichiararsi figlio di David, egli dichiarò di essere Figlio di Dio. In qual modo? Ascoltate: "Rispose loro Gesù: «Già ve l’ho detto e non credete; le opere che io faccio in nome del Padre mio, rendono testimonianza in mio favore. Ma voi non credete perché non siete delle mie pecore»" (Jn 10,25-26).


       Già avete appreso chi siano le pecore: siate nel numero delle sue pecore! Le pecore sono tali in quanto credono, in quanto seguono il loro pastore, non disprezzano colui che le redime, entrano per la porta, ne escono e trovano i pascoli: e sono pecore perché godono della vita eterna. E perché allora disse a costoro: «Non siete delle mie pecore»? Perché egli li vedeva predestinati alla morte eterna, e non riacquistati alla vita eterna col prezzo del suo sangue.


       "Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna" (Jn 10,27-28).


       Ecco quali sono i pascoli. Se ben ricordate, egli aveva detto prima: «Ed entrerà e uscirà e troverà i pascoli». Siamo entrati credendo, usciamo morendo. Ma nello stesso modo in cui siamo entrati per la porta della fede, da fedeli anche usciamo dal corpo: usciamo per la stessa porta per poter trovare i pascoli. Questi eccellenti pascoli sono la vita eterna: qui l’erba non si inaridisce, sempre verdeggia, sempre è piena di vigore. Si dice di una certa erba che è sempre viva: essa si trova solo in quei pascoli. «La vita eterna - dice - do loro», cioè alle mie pecore. Voi cercate motivi per accusarmi, perché non pensate che alla vita presente.


       "E non periranno in eterno" (Jn 10,27-28); sottintende: voi invece andrete nella morte eterna, perché non siete mie pecore. "Nessuno le rapirà di mano a me ()". Raddoppiate ora la vostra attenzione: "Il Padre mio che me le ha date, è più potente di tutti" (Jn 10,29).


       Che può fare il lupo? Che possono fare il ladro e il brigante? Essi non possono perdere che quelli che sono predestinati alla rovina. Ma quelle pecore di cui l’Apostolo dice: "Il Signore conosce i suoi" (2Tm 2,19), e ancora: "Quelli che ha conosciuti nella sua prescienza, quelli ha predestinati, e coloro che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati" (Rm 8,29-30), queste pecore, dicevo, non potranno né essere rapite dal lupo, né asportate dal ladro, né uccise dal brigante. Colui che sa cosa ha pagato per esse, è sicuro delle sue pecore. È questo il senso delle parole: «Nessuno le rapisce di mano a me».