sabato 31 luglio 2021

Gesù non dà solo pane, dona se stesso come Pane di Vita.

 

Domenica XVIII del Tempo Ordinario – Anno B – 1 agosto 2021


Rito Romano

Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35


Rito Ambrosiano

1Re 7,51-8,14; 2 Cor 6,14-7,1; Mt 21,12-16

X Domenica dopo Pentecoste


    1) Gesù non domanda, lui dà. Gesù non pretende, lui offre, Gesù non esige nulla, dona tutto.

Il Vangelo di domenica scorsa ci ha proposto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Contemplando Gesù che dà il pane a una moltitudine di persone, abbiamo imparato da Lui a condividere il cibo con compassione.

Il Vangelo di oggi ci mostra Gesù non che dà il pane, ma che si dà come Pane. Cristo è il Pane vero, che dà la vita per sempre e permette di mettere in pratica la legge della vita, che è il dono di sé: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 23-26). “Io sono il buon Pastore...; e offro la vita per le pecore” (Gv 10,14s).

Oggi, Gesù ci ripete l’espressione più alta della sua volontà di donazione: “Io sono il pane di vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna... Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6, 32.35.54.55). E nella S. Messa si ripetono le più grandi parole di Gesù: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi” (cfr. Mt 26,26; Lc 22,19). Dunque, la nostra esistenza cristiana, come quella di Gesù, va vissuta come offerta d’amore, che arriva fino al sacrificio completo di se stessi per servire il mondo.

A questo riguardo San Paolo scrive: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio1; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto”  (Rm 12,18-21). Queste parole possono sembrare paradossali, perché il sacrificio esige di norma la morte della vittima. San Paolo, invece, afferma che chi si sacrifica vive e che questo modo nuovo di vivere è “il vostro culto spirituale”.

Inoltre definisce così questo nuovo modo di vivere: Con questa espressione l’Apostolo non indica sacrificio meno concreto dell’antico, anzi vuole parlare di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione e di cuore, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.

Con queste parole l’Apostolo delle Genti ci aiuta a capire o ad approfondire il significato e il valore dell’offerta della nostra vita a Dio, che è la base della nostra esistenza cristiana. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 San Paolo invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana. In effetti, offrire noi stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, non vuol dire tanto soffrire o morire o fare qualcosa di particolare, quanto donare se stessi alla carità di Dio, vivere come Dio vuole, consacrare a Dio i nostri corpi, ma anche i nostri sentimenti, le persone che amiamo e il lavoro che facciamo. Vuol dire lasciar entrare Dio nella nostra vita e dare così un valore profondo a tutto ciò che facciamo.

Se vivere l’offerta vuol dire celebrare un culto spirituale, allora non potremo più vivere l’Eucaristia come qualcosa di staccato dalla nostra vita, da ciò che facciamo nella giornata. Al contrario, la nostra giornata dovrebbe essere un prolungamento dell’Eucaristia, vivendo eucaristicamente.

Come?

Dobbiamo semplicemente imparare a fare nella nostra giornata gli stessi passi che siamo chiamati a fare in ogni Eucaristia. Essa è sacrificio di comunione che permette di fare la comunione, ricevendo la presenza di Cristo in noi. Ciò implica che i nostri cuori siano aperti e che noi portiamo all’altare il “sì” del nostro amore. E’ un “sì” (= Fiat, Amen) che porta all’altare la nostra offerta e l’offerta di noi stessi all’Amore. Questo aprirci per vivere un incontro profondo, reale con Gesù nella Messa, ci permette di aprirci agli altri, di incontrare gli altri in Dio.

Il vivere il momento della consacrazione Eucaristica, ci insegna a consacrare a Dio ogni nostro lavoro, ogni incontro, ogni pensiero o progetto. Poi, il ricevere la benedizione di Dio deve risvegliare in noi la chiamata ad essere benedizione. Ognuno di noi dovrebbe saper trasmettere la benedizione alle persone che incontriamo ogni giorno. Se riusciremo a fare questi passi nella vita quotidiana, allora sperimenteremo la bellezza dell’offrirci insieme con Gesù nella Santa Messa, e sentiremo che realmente Gesù eleva al Padre tutto quello che abbiamo vissuto e cercato di offrire nella nostra giornata.


2) Imitare l’Ostia, Pane di Vita e di Misericordia.

Se si vuole approfondire ancora un po’ l’invito di San Paolo ad offrire i nostri corpi in sacrificio gradito a Dio, possiamo meditare il passaggio di San Gregorio Palamas, che alla domanda quando viviamo questa offerta risponde: “Quando i nostri occhi hanno uno sguardo mite, e ci attirano e ci trasmettono la misericordia dall’alto. Quando le nostre orecchie sono attente agli insegnamenti divini, non solo per ascoltarli, ma per ricordarli e metterli in pratica (cfr Sal 102,18). Quando la nostra lingua, le nostre mani e i nostri piedi sono al servizio della volontà divina”.

Se poi attingiamo dal patrimonio dei teologi latini, troviamo San Tommaso d’Aquino che ci offre uno spunto molto bello per approfondire la nostra imitazione dell’Ostia: “La piccolezza dell’Ostia significa umiltà, la sua rotondità l’ubbidienza perfetta, la sua sottigliezza la sobrietà virtuosa, il suo biancore la purezza, l’assenza di lievito la benevolenza, la cottura la pazienza e la carità” (Sermone per il Corpus Domini).

E’ evidente, che quello che Gesù propone non è semplicemente una devozione al Santissimo Sacramento. Propone la vita del Figlio, che è ciò che celebriamo nel Santo Sacramento del Pane di vita. Questo Pane è segno dell’amore del Padre per tutti i figli, è segno efficace del corpo del Figlio donato a tutti i fratelli. E’ segno della nostra vita condivisa con tutti, ed è lì che vivi il pane, ed è questo il cibo che non perisce.

Per spiegare l’importanza di mangiare questo Pane di misericordia, per diventare ciò che mangiamo e per poterci offrire insieme con Gesù, è utile prendere l’esempio di ciò che accade a un bambino che ha commesso un errore e nei cui occhi domina non lui che ha rotto qualche cosa, ma la madre che lo guarda sorridendo e il padre che lo prende in braccio. Più che guardare a se stessi ed alla propria fragilità di peccatori, è più giusto guardare a Cristo che si offre a noi come Pane di Vita, ricco di misericordia. Più che guardare a noi stessi, è più giusto voltarsi verso (=con-vertirsi) Cristo, che perdona e nutre donandosi come Pane vero.

La grandezza dell’uomo, immagine di chi lo ha creato, è di essere dono. La legge dell’esistenza umana, come di quella divina, è l’amore nella sua realtà dinamica che è l’offerta, il dono di sé. Come Gesù aveva detto: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9, 24). Ci viene così sottolineata la paradossalità di questa legge: la felicità attraverso il sacrificio. Ma quanto più uno lo accetta, tanto più sperimenta già in questo mondo una maggiore completezza. In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate nel mondo. Queste donne con l’offerta completa della loro vita mediante la verginità consacrata annunciano al mondo intero che Cristo può davvero colmare tutta la loro (e nostra) vita. Lui è il divino che fa fiorire l'umano. Il Pane che contiene tutto ciò che serve a mantenere la vita: amore, senso, libertà, coraggio, pace, bellezza, e a farla durare per l’eternità. Per questo il Vescovo durante la preghiera di consacrazione eleva questa invocazione: “O Dio, che ti compiaci di abitare come in un tempio nel corpo delle persone caste e prediligi le anime pure e incontaminate …Volgi lo sguardo, o Signore, su queste figlie che nelle tue mani depongono il proposito di verginità di cui sei l’ispiratore, per fame a te un’offerta devota e pura” (Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 64).

Esse mostrano con la vita che credere è come mangiare un pane, va gustato con bocca, va custodito nell’intimo del cuore e assimilato perché si dirami per tutto l’essere. Vivendo l’imitazione di Gesù come ostie vergini mostrano che Gesù è un corpo che santifica e si trasforma in cuore, calore, energia, pensieri, sentimenti, canto. Il cristianesimo non è un corpo dottrinale, cui aggiungere sempre qualche nuova definizione dogmatica o morale, ma è una vita divina da assimilare, l’Amore da far entrare, perché giunga a maturazione l’uomo celeste che è in noi, affinché sboccino amore e libertà, nel tempo e nell’eternità.


1 San Paolo qualifica questo modo di vivere che è il sacrificio con questi tre aggettivi. Il primo dei quali – vivente – esprime una vitalità. Il secondo – santo – ricorda l’idea di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – gradito a Dio – che richiama l’espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr. Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.).


Lettura Patristica

Agostino (+ 430),

Comment. in Ioan., 26, 2.4.10.13


      Gli dissero allora: Che dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? Egli li aveva esortati: Procuratevi il nutrimento che non perisce, ma che dura per la vita eterna. Ed essi rispondono: Che cosa dobbiamo fare?, cioè con quali opere possiamo adempiere a questo precetto? Rispose loro Gesù: Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato (Jn 6,28). Questo, dunque, significa mangiare non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna. A che serve preparare i denti e lo stomaco? Credi, e mangerai. La fede si distingue dalle opere, come dice l'Apostolo: L'uomo viene giustificato dalla fede, senza le opere (Rm 3,28-29). Esistono opere prive della fede in Cristo, che apparentemente sono buone: in realtà non lo sono perché non sono riferite a quel fine che le rende buone: Il fine della legge è Cristo, per la giustizia di ognuno che crede (Rm 10,4). Il Signore non ha voluto distinguere la fede dalle opere, ma ha definito la fede stessa un'opera. E' fede, infatti, quella che opera mediante l'amore (Ga 5,6). E non ha detto: Questa è l'opera vostra, ma ha detto: Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato: in modo che colui che si gloria si glori nel Signore (1Co 1,31). Ora, siccome egli li invitava a credere, essi cercavano ancora dei segni per credere. Guarda se non è vero che i Giudei cercano dei segni. Gli dissero: Quale segno dunque fai tu perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi (Jn 6,30)? Era dunque poco essere stati nutriti con cinque pani? Essi apprezzavano questo, ma essi a quel nutrimento preferivano la manna discesa dal cielo. Eppure il Signore si dichiarava apertamente superiore a Mosè. Mosè non aveva mai osato promettere un nutrimento che non perisce, ma che dura per la vita eterna. Il Signore promette qualcosa di più di Mosè. Si, per mezzo di Mosè era stato promesso un regno, una terra in cui scorreva latte e miele, una pace temporale, abbondanza di figli, la salute del corpo e tutti gli altri beni temporali. Ma tutti questi beni temporali erano figura dei beni spirituali. Ed erano questi, in definitiva, i beni che il Vecchio Testamento prometteva all'uomo vecchio. I Giudei dunque consideravano le promesse di Mosè e quelle di Gesù. Mosè prometteva lo stomaco pieno qui in terra, ma pieno di cibo che perisce; Cristo prometteva il cibo che non perisce, ma che dura per la vita eterna. Vedevano che egli prometteva di più, ma erano tuttora incapaci di vedere che stava compiendo opere maggiori. Pensavano alle opere che Mosè aveva compiuto e pretendevano opere ancora maggiori da colui che faceva delle promesse così grandiose. Che opere fai perché ti crediamo? Se vuoi renderti conto che essi confrontavano i miracoli di Mosè con quelli di Gesù, e, al confronto, consideravano inferiori le opere di Gesù, ascolta che cosa gli dicono: I nostri padri nel deserto mangiarono la manna. Ma che cos'è la manna? Forse non ne avete la stima che merita: ... Come sta scritto: Ha dato loro da mangiare un pane del cielo (Jn 6,31 Ps 77,24). Per mezzo di Mosè i nostri padri hanno ricevuto un pane venuto dal cielo, e Mosè non ha detto loro: Procuratevi un pane che non perisce. Tu prometti un cibo che non perisce ma che dura per la vita eterna, e non compi opere simili a quelle di Mosè. Egli non ha dato pani di orzo, ma ha dato un pane venuto dal cielo.


13. Rispose loro Gesù: In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo. Vero pane, infatti, è quello che discende dal cielo e dà la vita al mondo (Jn 6,32-33). Vero pane è dunque quello che dà la vita al mondo; ed è quel cibo di cui poco prima ho parlato: Procuratevi il cibo che non perisce, ma che dura per la vita eterna. La manna era simbolo di questo cibo, e tutte quelle cose erano segni che si riferivano a me. Vi siete attaccati ai segni che si riferivano a me, e rifiutate me che quei segni annunciavano? Non fu Mosè a dare il pane del cielo: è Dio che lo dà. Ma quale pane? Forse la manna? No, ma il pane di cui la manna era un segno, cioè lo stesso Signore Gesù. Il Padre mio vi dà il vero pane, perché il pane di Dio è quello che discende dal cielo e dà la vita al mondo. Allora gli dissero: Signore, donaci sempre di questo pane (Jn 6,32-34). Come la Samaritana, alla quale Gesù aveva detto: Chi beve di quest'acqua, non avrà più sete, li per li aveva preso la frase in senso materiale, ma desiderosa di soddisfare un bisogno, aveva risposto: Dammi, o Signore, di quest'acqua (Jn 4,13-15), così anche questi dicono: Donaci, o Signore, di questo pane che ci ristori, e non ci manchi mai.


domenica 25 luglio 2021

Cristo: il Pane del cielo

 

Domenica XVII del Tempo Ordinario – Anno B – 25 luglio 2021

Rito Romano

2 Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

Rito Ambrosiano

Gdc 2, 6-17; Tes2, 1-2. 4-12; Mc 10, 35-45

9 Domenica dopo Pentecoste


1) Pane da condividere.

Con questa domenica la liturgia interrompe la lettura continuata del Vangelo di San Marco e per cinque domeniche consecutive (da oggi,17ª Domenica del Tempo Ordinario, fino alla 21ª) ci propone tutto il capitolo sesto di san Giovanni. La ragione di tale inserzione risiede nella volontà di approfondire il tema del “pane”.  L’insistenza sul tema del pane, che viene condiviso, e sul rendere grazie (v.11, in greco eucharistesas), richiamano l’Eucaristia, il Sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo. L’Evangelista osserva che la Pasqua, la festa, era ormai vicina (cfr v. 4). Lo sguardo si orienta verso la Croce, il dono di amore, e verso l’Eucaristia, il perpetuarsi di questo dono: Cristo si fa pane di vita per gli uomini. Sant’Agostino commenta così: Chi, se non Cristo, è il pane del cielo? Ma perché l’uomo potesse mangiare il pane degli angeli, il Signore degli angeli si è fatto uomo. Se tale non si fosse fatto, non avremmo il suo corpo; non avendo il corpo proprio di lui, non mangeremmo il pane dell’altare (Sermone 130,2). L’Eucaristia è il permanente grande incontro dell’uomo con Dio, in cui il Signore si fa nostro cibo, dà Se stesso per trasformarci in Lui stesso.

Inoltre, teniamo presente che questo sesto capitolo di Giovanni si apre appunto con la narrazione della moltiplicazione dei pani, offrendoci un bellissimo esempio della compassione che Gesù aveva per chi lo seguiva e che aveva “dimenticato” di mangiare tanto era la voglia di vedere i suoi miracoli e di nutrirsi della Sua parola.

Per capire bene il brano del Vangelo di oggi, anche questa volta ricostruiamo il contesto: Gesù viene seguito da “una grande folla, vedendo i segni che faceva sugli infermi”. La gente è attratta dalla potenza misericordiosa di Gesù che si preoccupa dei malati e li guarisce. Gesù, però, non è solo un guaritore; è il maestro: per questo sale sul monte, come Mosè che era salito sul Sinai per accogliere la legge del Signore per Israele. Tuttavia, Gesù non va sul monte per ricevere la parola di Dio, ma per donarla: è per questo che si mette sedere (nel testo originale in greco: si mette in cattedra), non tanto perché sia particolarmente stanco, ma perché questo è l’atteggiamento del maestro, che, quando insegna, sale, per così dire, in cattedra. Del resto Gesù aveva già fatto così, quando aveva proclamato la “nuova legge” delle beatitudini: “Salì sul monte e si mise a sedere; poi prendendo la parola, cominciò a insegnare” (Mt 5,1). Sempre per quanto riguarda il brano evangelico di oggi, è utile mettere il risalto l’annotazione temporale: era vicina la Pasqua. Quindi, siamo in primavera. Questa indicazione temporale ci riporta all’indietro, alla grande storia dell’esodo, iniziata con il primo plenilunio di primavera di millenni fa, e ai tanti segni che Dio aveva operato con Mosè per la liberazione degli Ebrei e durante il loro cammino verso la Terra promessa. Ma il riferimento alla Pasqua ci spinge anche in avanti e anticipa simbolicamente il dono che Gesù farà del suo Corpo e del suo Sangue nell’ultima Cena.

Questo dono del Pane di Vita è da condividere come fu condiviso il pane moltiplicato da Gesù per dar da mangiare a quanti lo avevano seguito.

Il pane condiviso insegna l’attenzione all’altro e l’umiltà a non scartare nessuno, e a fidarsi di un Dio che si fida di noi e ci fa capaci di distribuire il pane a una folla numerosa.

Oltre a prendere il Pane a noi donato e da noi condiviso mediante una vita caritatevole, rivolgiamo a Cristo questa preghiera: “Se desidero medicare le mie ferite, tu sei medico. Se brucio di febbre, tu sei la sorgente ristoratrice. Se sono oppresso dalla colpa, tu sei il perdono. Se ho bisogno di aiuto, tu sei la forza. Se temo la morte, tu sei la vita eterna. Se desidero il cielo, tu sei la vita. Se fuggo le tenebre, tu sei la luce. Se cerco il cibo, tu sei il nutrimento” (Sant’Ambrogio da Milano). Insomma, preghiamo Dio, “Padre nostro”, perché “ci dia il nostro pane quotidiano” del corpo e dello spirito.

Se è un miracolo dare da mangiare a migliaia di persone con un po’ di pane, è un miracolo ancora più grande dare il pane di verità, di gioia. Si tratta del Pane vero, del Pane della Verità da condividere con gli affamati di giustizia.

Il pane moltiplicato dal Chi nell’ultima Cena si farà Pane di Vita. Il grande miracolo non è quello di sfamare una folla, ma quello di mostrare la gloria di Dio rivelata in Gesù, Parola fatta carne, Verbo fatto cibo eucaristico per i cristiani. In effetti, il brano del vangelo di oggi racconta che Gesù prese i pani, rese grazie e li distri­buì: tre verbi che ci ricollegano a ogni Messa.

E mentre i discepoli lo distribuivano, il pane non veniva a mancare, e mentre passava di ma­no in mano, questo pane condiviso restava in ogni mano.

2) Pane di misericordia.

In quel giorno, Gesù sentì compassione perché è fatto dello stesso amore del Padre e manifestò la misericordia di Dio parlando alla folla e saziandone la sua fame.

Oggi, amandoci oltre ogni misura, Cristo moltiplica il Pane di Vita per noi. Nel sacramento dell’eucaristia Gesù si fa cibo di vita vera, lieta per la misericordia ricevuta.

In questa Domenica, il segno della misericordia, della compassione di Gesù Cristo è il racconto dei pani moltiplicati e condivisi che ci aiuta a capire che Cristo ci dona se stesso e la sua vita offrendosi a noi come pane eucaristico. Lui, che ringraziò il Padre, benedisse e spezzò il pane materiale donatogli da un bambino, si lascia spezzare per noi quale pane spirituale. Mangiando di questo Pane, Corpo eucaristico di Cristo, che è “la misericordia di Dio incarnata” (Papa Francesco), anche noi diventiamo misericordia.

La Cena eucaristica, dunque, non è un’azione da guardare, è un gesto da vivere. Fare la comunione non è solamente ricevere e lasciarsi santificare dalla presenza di Cristo, è aprire il nostro cuore per portare all’altare il “sì” del nostro amore a Dio; è aprire le nostre mani ai fratelli e sorelle, che hanno fame e che dobbiamo soccorrere con le opere di misericordia materiale e spirituale. Ma non dimentichiamo che la prima e più grande misericordia è di insegnare la verità e di dare cose vere, perché “il bene è la verità e la proposta della verità nasce dall’amore” (Card Giacomo Biffi).

Un esempio significativo di come vivere la misericordia è quello offerto dalla Vergini consacrate che sono “i fiori dell’albero che è la Chiesa” (Sant’Ambrogio di Milano).

In effetti, le vergini consacrate nel mondo sono chiamate a essere annuncio e attuazione di questa misericordia, a esserne immagine e a saperla offrire, con una vita fatta di paziente vigilanza nella preghiera, di attenzione, di discrezione e riserbo. E ciò perché la vocazione verginale è in relazione profonda con il mistero dell’Eucaristia. “Infatti, nell'Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo. Dall'Eucaristia inoltre essa trae conforto e spinta per essere, anche nel nostro tempo, segno dell'amore gratuito e fecondo che Dio ha verso l'umanità. Infine, mediante la sua specifica testimonianza, la vita consacrata diviene oggettivamente richiamo e anticipazione di quelle « nozze dell'Agnello » (Ap 19,7.9), in cui è posta la meta di tutta la storia della salvezza. In tal senso essa costituisce un efficace rimando a quell’orizzonte escatologico di cui ogni uomo ha bisogno per poter orientare le proprie scelte e decisioni di vita”.(Sacramentum caritatis, 81).

Imitando la Sempre Vergine Maria, queste donne vergini testimoniano la verità del Magnificat: “Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo é il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono”, che può essere così parafrasato: “Mi ha fatta grande Colui che è potente ed il cui nome è santo, perché la Divina potenza operò il miracolo della verginità e la Sua infinita santità la riempì di grazie”. E il coro verginale risponde magnificando la misericordia di Dio che, per Maria Vergine e Madre, passò di generazione in generazione, facendo spuntare nel fango del mondo i fiori di santa verginità che profumano la terra e il Cielo. La verginità è seguire Gesù; non è quindi rinuncia ad amare, ma lasciarsi afferrare e possedere completamente dall’Amore, come insegna Sant’Ambrogio di Milano: “Vergine consacrata cerca il Cristo nella tua luce, cioè nei buoni pensieri, nelle buone azioni, nelle tue notti, cercalo nella tua stanza, perché anche di notte viene e bussa alla tua porta. Vuole trovarti vigile in ogni momento, vuole trovare aperta la porta dell’anima tua. La bocca e canti la lode e la professione di fede nella croce, mentre nella tua stanzetta ripeti il Credo e canti i salmi. Quando egli verrà, ti trovi desta e preparata. Dorma il tuo corpo, ma vigili la tua fede; dormano le lusinghe del senso, ma vigili la prudenza del cuore. Le tue membra profumino della croce di Cristo e della fragranza della sua sepoltura. E c’è pure un’altra porta che vuole trovare aperta: vuole che si schiuda la tua bocca e canti la lode e la professione di fede nella croce, mentre nella tua stanzetta ripeti il Credo e canti i salmi. Quando egli verrà, ti trovi desta e preparata. Dorma il tuo corpo, ma vigili la tua fede; dormano le lusinghe del senso, ma vigili la prudenza del cuore. Le tue membra profumino della croce di Cristo e della fragranza della sua sepoltura” (La Verginità, 46-47).

Lettura Patristica

Efrem,

Diatessaron, 12, 1-4

L’Eucaristia, dono grande e gratuito

       Nel deserto, Nostro Signore moltiplicò il pane (Mt 14,13-21 Mt 15,32-38 Jn 6,1-13), e a Cana mutò l’acqua in vino (Jn 2,1-11). Abituò così la loro bocca al suo pane e al suo vino per il tempo in cui avrebbe dato loro il suo corpo e il suo sangue. Fece loro gustare un pane e un vino caduchi per suscitare in loro il desiderio del suo corpo e sangue che danno la vita. Diede loro con liberalità queste piccole cose perché sapessero che il suo dono supremo sarebbe stato gratuito. Le diede loro gratuitamente, sebbene avessero potuto acquistarle da lui, affinché sapessero che non sarebbe stato loro richiesto il pagamento di una cosa inestimabile; infatti, se potevano pagare il prezzo del pane e del vino, non avrebbero certamente potuto pagare il suo corpo e il suo sangue.


       Non soltanto ci ha colmato gratuitamente dei suoi doni, ma ancor più ci ha vezzeggiati affettuosamente. Infatti, ci ha donato queste piccole cose gratuitamente per attirarci, affinché andassimo e ricevessimo gratuitamente quella cosa sì grande che è l’Eucaristia. Quegli acconti di pane e di vino che ci ha dato erano dolci alla bocca, ma il dono del suo corpo e del suo sangue è utile allo spirito. Egli ci ha attirati con quelle cose gradevoli al palato per trascinarci verso colui che dà la vita alle anime. Ha nascosto la dolcezza nel vino da lui fatto, per indicare ai convitati quale tesoro magnifico è nascosto nel suo sangue vivificante.


       Come primo segno, fece un vino che dà allegria ai convitati per mostrare che il suo sangue avrebbe dato allegria a tutte le genti. Il vino è parte in tutte le gioie immaginabili e parimenti ogni liberazione si riconnette al mistero del suo sangue. Diede ai convitati un vino eccellente che trasformò il loro spirito per far sapere loro che la dottrina con cui li abbeverava avrebbe trasformato i loro cuori. Ciò che all’inizio non era che acqua fu mutato in vino nelle anfore; era il simbolo del primo comandamento portato a perfezione; l’acqua trasformata era la legge perfezionata. I convitati bevevano ciò che era stato acqua, ma senza gustare l’acqua. Parimenti, quando udiamo gli antichi comandamenti, li gustiamo nel loro sapore nuovo. Al precetto: Schiaffo per schiaffo (cf. Ex 21,24 Lv 24,20 Dt 19,21) è stata sostituita la perfezione: "Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra" (Mt 5,39).

       L’opera del Signore ottiene tutto; in un baleno, egli ha moltiplicato un po’ di pane. Ciò che gli uomini fanno e trasformano in dieci mesi di lavoro, le sue dieci dita l’hanno compiuto in un istante. Le sue mani furono come una terra sotto il pane; e la sua parola come il tuono al di sopra di lui; il sussurro delle sue labbra si sparse su di lui come una rugiada e l’alito della sua bocca fu come il sole; in un brevissimo istante egli ha portato a termine quanto richiede di norma un lungo lasso di tempo. Dalla piccola quantità di pane è sorta una moltitudine di pani; come all’epoca della prima benedizione: "Siate fecondi e moltiplicatevi" (Gn 1,28). I pezzi di pane, prima sterili e insignificanti, grazie alla benedizione di Gesù - quasi seno fecondo di donna - hanno dato frutto da cui sono sopravanzati molteplici frammenti.

       Il Signore ha mostrato il vigore penetrante della sua parola a quelli che l’ascoltavano, e ha mostrato la rapidità con la quale egli elargiva i suoi doni a quelli che ne beneficiavano. Non ha moltiplicato il pane al punto che avrebbe potuto, ma fino alla quantità sufficiente per i convitati. Il miracolo non fu su misura della sua potenza, bensì della fame degli affamati. Se, infatti, il miracolo fosse stato misurato sulla sua potenza, riuscirebbe impossibile valutare la vittoria di quella. Commisurato alla fame di migliaia di persone, il miracolo ha superato le dodici ceste (Mt 14,20). In tutti gli artigiani, la potenza è inferiore alla richiesta dei clienti; essi non possono fare tutto quanto gli domandano i clienti. Le realizzazioni di Dio, invece, superano i desideri. E: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto" (Jn 6,12) e non si pensi che il Signore abbia agito solo per fantasia. Ma, quando i resti saranno stati conservati un giorno o due, crederanno che il Signore ha agito in verità, e che non si trattò di un fantasma inconsistente.


 

sabato 17 luglio 2021

Stare con Cristo è scuola di compassione.

 

Domenica XVI del Tempo Ordinario – Anno B – 18 luglio 2021

Rito Romano

Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34


Rito Ambrosiano

Gdc 2, 6-17; Sal 105; 1Ts 2, 1-2. 4-12; Mc 10, 35-45

VIII Domenica dopo Pentecoste.





1) Stare con Cristo per poi portarlo agli altri.

L’invito che Cristo fa ai suoi discepoli (di allora e di oggi), che sono di ritorno dalla loro missione di evangelizzatori, di riposarsi andando con loro in un luogo desertico, non è solamente per farli riposare ma perché nel luogo solitario Dio par­la al cuore (cfr Osea 2). In questo luogo privo di rumore e di distrazioni, , il Signore concede ciò che ha veramente promesso, ciò che è più necessario: concede se stesso. E tra­smette il segreto del Regno e della vita.

La vera terra promessa non è tanto un luogo geografico quanto un luogo spirituale che permette di stare con il Signore, di ascoltarlo e ricevere da Lui il re­spiro della sua pace, di essere riem­piti della sua Presenza, di radicarsi sempre più nel suo amore. Stare con lui è il primo lavoro di ogni invia­to. Solo dopo aver accolto la sua persona pri­ma ancora che il suo mes­saggio, solo dopo quel contagio di luce, li invierà a predicare.

Coerente con il fatto di aver scelto i suoi Apostoli “perché stessero con lui e per mandarli a predicare.” (Mc 3,14 – 15), Gesù invita a stare con Lui gli inviati che tornano dal loro giro missionario perché si riposino: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’?” (Mc 6, 31). La missione nata dalla comunione di vita con Cristo ha bisogno di ristoro, richiede di andare in disparte per essere “soli” con Gesù, in un luogo solitario per parlare al cuore (cfr Osea 2). Questa “sosta di riposo” in disparte è usata dal Messia non solo per dare la possibilità ai suoi discepoli di recuperare le forze ma anche per introdurli ad una conoscenza più approfondita dei “misteri del regno” (cfr. Mc 4,10-11) e renderli ancora più capaci di annunziare la Parola. Qualcuno ha scritto: “Cammina per cercare gli altri, ma fermati per trovare te stesso”. E’ quanto ci viene ricordato dall’invito del Signore ai suoi discepoli. Anche con le migliori intenzioni e, persino, allo scopo di far del bene agli altri, si può smarrire se stessi. Ci si può “svuotare” al limite di non verificare più il senso e l’orientamento per cui si lavora. Se questo può succedere all'apostolo, al missionario, tanto più accade a chi si è come ingolfato nella vita attiva di tutti i giorni, la vita che porta con sé una serie di impegni e di problemi tutti all'esterno di noi.

E’ dunque indispensabile accogliere l’invito di Gesù che dice anche a noi: “Venite in disparte, con me”. Se stiamo con Gesù, impariamo da lui il cuore di Dio. In questo tempo in disparte, il Signore concede ciò che ha promesso di più prezioso, ciò che è più necessario: concede se stesso. Riempiti dalla Sua presenza possiamo ritornare tra la gente, portando con noi il cuore di Dio che fa di noi un santuario di bellezza e compassione.

Secondo me, Gesù non è preso dal dubbio di scegliere tra la stanchezza dei discepoli e la domanda della gente che cerca. Il Cristo fa riposare gli amici e risponde ai cercatori di Lui e della Sua parola. In questo modo i discepoli imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Imparano a non appartenere a se stessi, ma al dolore e all’ansia di luce dei cercatori di Luce. Imparano da Gesù la sua semplice e divina capacità di commuoversi. Stando con Cristo, imparano da Lui il Suo sguardo che si commuove. Lo stesso tesoro che noi oggi dobbiamo salvare: la compassione, cioè il moto del cuore che muove la mano a fare.


2) Gesù formatore ed evangelizzatore.

Per capire bene i 5 versetti che compongono il brano del Vangelo di oggi è utile parlare del contesto. Il capitolo 6 di San Marco mostra un grande contrasto. Da un lato si parla del banchetto della morte, promosso da Erode con i grandi di Galilea, nel palazzo della Capitale, durante il quale viene ucciso Giovanni Battista (Mc 6,17-29). Dall’altro, il banchetto della vita, promosso da Gesù per la gente di Galilea, affamata nel deserto, in modo che non perissero lungo il cammino (Mc 6,35-44).

I cinque versetti della lettura di questa domenica (Mc 6, 30-34) sono collocati esattamente tra questi due banchetti e sottolineano due cose:

1) Gesù formatore dei discepoli

2) annunciare la Buona Novella di Gesù non è solo una questione di dottrina, ma di accoglienza, di bontà, di tenerezza, di disponibilità, di rivelazione dell'amore di Dio.

2.1. Formazione.

I vv 30-32 di Marco al capitolo 6 mostrano come Gesù formava i suoi amici alla responsabilità. Il Cristo coinvolgeva i discepoli nella missione e li portava in un luogo più tranquillo per poter riposare e fare una revisione (cf Lc 10,17-20). Si preoccupava della loro alimentazione e del loro riposo, poiché l’opera della missione era tale che non avevano tempo per mangiare (cf Gv 21,9-13). La formazione della “sequela di Gesù” non era in primo luogo la trasmissione di verità da imparare a memoria, bensì una comunicazione della nuova esperienza di Dio e della vita che irradiava da Gesù per i discepoli. La comunità che si formava attorno a Gesù era l’espressione di questa nuova esperienza di comunione. La formazione portava le persone ad avere altri occhi, altri atteggiamenti. Faceva nascere in loro una nuova consapevolezza nei riguardi della missione e di loro stessi. Faceva sì che mettessero i loro piedi accanto a quelli degli esclusi. Produceva la “conversione” per aver accettato la Buona Novella (Mc 1,15).

2.2. Evangelizzazione.

Poi nei vv 33-34 sempre del capitolo 6 di Marco, leggiamo che, mosso dalla compassione, Gesù cambia l’uso del suo tempo ed accoglie la gente che lo cerca.

La gente aveva intuito che Gesù era andato all'altra riva del lago, e lo aveva seguito. Quando Gesù, scendendo dalla barca, vide quella moltitudine, rinunciò al riposo e cominciò ad insegnare. Qui appare come la gente fosse smarrita. Gesù rimase commosso, “perché erano come pecore senza pastore”. Queste parole ricordano il salmo del buon pastore (Sal 23). Quando Gesù vede che la gente non ha pastore, si offre come guida. Riprende ad insegnare. Guida la moltitudine che altrimenti sarebbe smarrita nel deserto della vita, e la gente poteva così cantare: “Il Signore è il mio pastore! Non manco di nulla!”.

L’annuncio della Buona Novella mostra che Gesù si muove con sollecitudine e che è spinto dalla compassione.

Cristo percorre tutta la Galilea: i villaggi, i paesi, le città (Mc 1,39). Cambia perfino la residenza e va a vivere a Cafarnao (Mc 1,21; 2,1), città crocevia di diversi cammini. E questo facilita la divulgazione del Vangelo. E’ sempre in cammino. I discepoli vanno con lui, ovunque: nei prati, lungo le strade, in montagna, nel deserto, in barca, nelle sinagoghe, nelle case.

Era spinto da una compassione che nasceva dalla passione per il Padre e per la gente povera ed abbandonata della sua terra. In qualsiasi luogo, dove trovava gente che lo ascoltava, parlava e trasmetteva la Buona Novella.

La gente di Galilea era impressionata dal modo di insegnare di Gesù, perché era di fronte a “un insegnamento nuovo! Dato con autorevolezza! Diverso da quello degli scribi!” (Mc 1,22.27). Ciò che più faceva Gesù era insegnare (Mc 2,13; 4,1-2; 6,34). Più di quindici volte il vangelo di San Marco dice che Gesù insegnava. Ma questo Evangelista non dice quasi mai ciò che il Messia insegnava. Forse non gli interessava il contenuto? Dipende da ciò che si intende per contenuto. Insegnare non vuol dire solamente trasmettere verità che la gente deve imparare a memoria. Il contenuto che Gesù aveva ed ha da dare non emerge solo dalle parole, ma anche dai gesti e dal modo in cui entra in rapporto con le persone. Il contenuto non è mai separato dalla persona che lo comunica.

San Marco definisce il contenuto dell'insegnamento di Gesù come “Buona Novella di Dio” (Mc 1,14). La Buona Novella che Gesù proclama viene da Dio e parla di Dio. In tutto ciò che Dio dice e fà, traspaiono i tratti del volto di Dio. Traspare l’esperienza che lui stesso ha di Dio, l’esperienza del Padre. Rivelare Dio come Padre è la fonte, il contenuto e lo scopo della Buona Novella di Gesù.

Questa lieta e buona novella deve avere in tutti i cristiani degli annunciatori. Tuttavia mi permetto di sottolineare il particolare e specifico contributo dato dalla Vergini Consacrate per portare il vangelo nel mondo. La loro consacrazione nella verginità non è fuga dal mondo, fatta per paura o disinteresse o per una deresponsabilizzazione, ma per esprimere attraverso i segni più efficaci e incisivi gli elementi che fanno parte dell'essenza stessa di ogni vita cristiana e della sequela del Signore: essere sempre pronte a lasciare tutto per il regno dei Cieli; rifiutare la logica del mondo; tendere ai beni spirituali che non passano, a cui tutti sono chiamati; affermare il primato dell'amore di Dio su tutti gli altri valori; vivere nella totale disponibilità all'ascolto del Verbo e nella lode divina; imitare Cristo stando alla sua presenza il più possibile, offrire con una esistenza che diventa servizio d'amore una realizzazione esemplare di quello che la Chiesa tutta deve essere. Come dice la preghiera di Consacrazione di San Leone Magno: “Tu...hai riservato ad alcune tue fedeli un dono particolare scaturito dalla fonte della tua misericordia. Alla luce dell’eterna sapienza hai fatto loro comprendere, che mentre rimaneva intatto il valore e l’onore delle nozze, santificate all’inizio dalla tua benedizione, secondo il tuo provvidenziale disegno, devono sorgere donne vergini che, pur rinunziando al matrimonio, aspirassero a possederne nell’intimo la realtà del mistero. Così le chiami a realizzare, al di là dell’unione coniugale, il vincolo sponsale con Cristo di cui le nozze sono immagine e segno. (Rito di Consacrazione delle Vergini, n.38).



Lettura Patristica

Beda il Venerabile (+ 735)

In Evang. Marc., 2, 6, 30-34



       Ritornati gli apostoli da Gesù, gli riferirono tutte le cose che avevano fatto e insegnato (Mc 6,30).


       Gli apostoli non riferiscono al Signore soltanto ciò che essi avevano fatto e insegnato, ma, come narra Matteo, i suoi discepoli, o i discepoli di Giovanni, gli riferiscono il martirio che Giovanni ha subito mentre essi erano impegnati nell’apostolato (Mt 14,12). Continua pertanto:


       "E disse loro: «Venite voi soli in un luogo deserto a riposarvi un poco»" (Mc 6,31), con quel che segue.


       Fa così non soltanto perché essi avevano bisogno di riposo, ma anche per un motivo mistico, in quanto, abbandonata la Giudea che aveva con la sua incredulità strappato via da sé il capo della profezia, era sul punto di largire nel deserto, ai credenti di una Chiesa che non aveva sposo, il cibo della parola, simile a un banchetto fatto di pani e di pesci. Qui infatti i santi predicatori, che erano stati a lungo schiacciati dalle pesanti tribolazioni nella Giudea incredula e contestataria, trovano pace grazie alla fede che viene concessa ai gentili. E mostra che vi era necessità di concedere un po’ di riposo ai discepoli con le parole che seguono:


       "Erano infatti molti quelli che venivano e quelli che andavano; ed essi non avevano neanche il tempo di mangiare" (Mc 6,31).


       È chiara da queste parole la grande felicità di quel tempo che nasceva dalla fatica incessante dei maestri e dallo zelo amoroso dei discenti. Oh, tornasse anche ai nostri giorni tanta felicità, in modo che i ministri della parola fossero talmente assediati dalla folla dei fedeli e degli ascoltatori da non avere più nemmeno il tempo di prendersi cura del proprio corpo! Infatti, gli uomini cui è negato il tempo di prendersi cura del corpo, hanno molto meno la possibilità di dedicarsi ai desideri terreni dell’anima o della carne; anzi, coloro da cui si esige in ogni momento, a tempo opportuno e importuno, la parola della fede e il ministero della salvezza, hanno di conseguenza l’animo sempre ardentemente proteso a pensare e a compiere cose celesti, in modo che le loro azioni non contraddicano gli insegnamenti che escono dalla loro bocca.


       "E saliti sulla barca, partirono per un luogo deserto e appartato" (Mc 6,32).


       I discepoli salirono sulla barca non soli, ma dopo aver con sé il Signore, e si recarono in un luogo appartato, come chiaramente racconta l’evangelista Matteo (Mt 14,13).


       "E li videro mentre partivano e molti lo seppero e a piedi da tutte le città accorsero in quel luogo e li precedettero" (Mc 6,33)


       Dicendo che li precedettero a piedi, si deduce che i discepoli col Signore non andarono con la barca all’altra riva del mare o del Giordano ma, varcato con la barca un braccio di mare o del lago, raggiunsero una località vicina a quella stessa regione che gli abitanti del luogo potevano raggiungere anche a piedi.


       "E uscito dalla barca, Gesù vide una grande folla, e si mosse a compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore, e prese a dare loro molti insegnamenti" (Mc 6,34).


       Matteo spiega più chiaramente in qual modo ebbe compassione di loro, dicendo: "Ebbe misericordia della folla e risanò i loro ammalati" (Mt 14,14). Questo è infatti nutrire veramente compassione dei poveri e di coloro che non hanno pastore, cioè mostrare loro la via della verità con l’insegnamento, liberarli con la guarigione dalle malattie corporali, ma anche spingerli a lodare la sublime liberalità del Signore ristorando gli affamati. Le parole seguenti di questo passo sottolineano appunto che egli fece tutto questo. Mette alla prova la fede delle folle e, dopo averla provata, la ricompensa con un degno premio. Cercando infatti la solitudine, vuol vedere se le folle vogliono o no seguirlo. Esse lo seguono e, compiendo il viaggio fino al deserto, «non su cavalcature o su carri, ma con la fatica dei loro piedi» (Girolamo), dimostrano quale pensiero essi abbiano per la loro salvezza. E Gesù, come colui che può, ed è salvatore e medico, fa intendere quanta consolazione riceva dall’amore di coloro che credono in lui, accogliendo gli stanchi, ammaestrando gli ignoranti, risanando gli infermi e ristorando gli affamati. Ma secondo il significato allegorico, molte schiere di fedeli, dopo aver abbandonato le città dell’antica vita, ed essersi liberati dall’appoggio di varie dottrine, seguono Cristo che si dirige nel deserto dei gentili. E colui che era un tempo «Dio conosciuto solo in Giudea» (Ps 75,2), dopo che i denti dei giudei sono diventati «armi e frecce, e la loro lingua una spada tagliente», viene esaltato «come Dio al di sopra dei cieli e la sua gloria si diffonde su tutta la terra»«(Ps 56,5-6).