venerdì 26 maggio 2017

Il Compito del Cristiano è in cielo e sulla terra

Ascensione – Anno A – 28 maggio 2017
Rito Romano
At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

Rito Ambrosiano

AT 1,6-13a; Sal 46; Ef 4,7-13; Lc 24,36b-53

1) Una festa non facile.
Quaranta giorni fa, abbiamo celebrato il fatto della Pasqua: la risurrezione di Cristo è stata per noi motivo di grande gioia. Oggi la liturgia ci propone come causa di gioia la Sua ascensione al cielo: “Oggi, infatti, ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre” (San Leone Magno, Disc. 2 sull'Ascensione, 1, 4; PL 54, 397-399).
La festa dell’Ascensione non è riducibile ad una strana festa in cui ci è chiesto di essere contenti perché Cristo si allontana da noi andandosene in cielo. Qual è dunque il significato della “ascesa” al cielo di Cristo risorto? “Significa credere che in Cristo l’uomo, l’essere uomo al quale noi tutti abbiamo parte, è entrato, in modo inaudito e nuovo, nell’intimità di Dio. Significa che l’uomo trova per sempre spazio in Dio. Il cielo non è un luogo sopra le stelle, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è il trovar posto dell’uomo in Dio e questo ha il suo fondamento nella compenetrazione di umanità e divinità nell'uomo Gesù crocifisso ed elevato. Cristo, l’uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo ‘cielo’, poiché il cielo non è uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti” (Aposepalo Ratzinger, Predicazione e Dogma, Brescia 1983).
In effetti, la frase finale del vangelo di oggi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento del tempo” (Mt, 28, 20), non contiene parole di qualcuno che lascia i suoi soli sulla terra. Queste ultime parole di Gesù non sono un addio, ma spiegano che Lui è il Signore vivo di una vita senza limite e che, con la sua parola e il suo Amore consolatore, ogni giorno è presente alla sua Chiesa, suo mistico Corpo, fino al compimento del tempo.
Gesù, il Figlio di Dio entrato nella storia per essere il “Dio con noi”, realizza in pieno la sua missione nel dono totale di sé. Morendo e risorgendo, Lui ha manifestato che l’Amore si rivela infinito quando si annienta, quando completamente dona la vita. L’Ascensione è il compimento del mistero dell'Amore di Dio: morendo Gesù annulla ogni limite per essere il “Dio con noi”. Lui è con noi per essere l’Amore che redime il nostro amore e rende il nostro cuore capace di essere dimora dell’Amore.
Dunque, se da una parte l’Ascensione non è una festa facile da capire, perché fa sorgere spontaneamente la domanda: “Perché essere in festa se l’Amato se ne va via?”. D’altra parte, l’Ascensione è una festa chiara, perché questa festa “non è un percorso cosmico geografico ma è la navigazione spaziale del cuore che ci conduce dalla chiusura in noi stessi all’amore che abbraccia l’universo” (Benedetto XVI). L’Ascensione è la festa del nostro destino che ha come destinazione il cielo amoroso di Dio, che eleva la terra della nostra umanità.
E’ una festa che ci mostra che il cielo e la terra, il possesso e il sacrifico, la pace e la fatica non sono in contrasto. Non basta che la nostra esistenza sia interamente e sinceramente rivolta al cielo, poi alla terra e poi di nuovo al cielo. La nostra condotta in cielo deve completarsi a poco a poco, in mondo tale che la nostra condotta sulla terra riveli quella del cielo. La nostra condotta sulla terra deve a poco a poco elevarsi a preghiera di desiderio e questa preghiera di desiderio si chiarisce nell’adorazione. Non basta che la nostra vita sia interamente e sinceramente pace, poi fatica e poi di nuovo pace: la nostra pace deve essere come la forza raccolta per la fatica e la nostra fatica come uno spirare di pace.

2) Ascensione e missione.
Questo destino di pace perfetta nell’amore si intreccia con la nostra missione: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).
L’Ascensione di Cristo, che San Matteo ci racconta alla fine del suo vangelo, è un grande inizio. I discepoli videro Gesù come Lui è, come nella trasfigurazione. E Lo adorano, prostrandosi in segno di consegna e di abbandono totale. Su questo rapporto di amore accolgono il “comando” di andare per tutto il mondo poggiano le prospettive universali, insegnando e battezzando. Battezzare non vuol dire versare un po’ di acqua sul capo di una persona, ma immergerla in Dio, dentro il Dio della Vita e, poi, insegnare a osservare ciò che Lui comanda. Ma che cosa comanda Cristo? L’amore. Il suo comando è di immergere la persona umana e insegnarle ad amare, lasciandosi amare e donando amore.
Per compiere missione di carità secondo il cuore di Cristo il quale anche a noi chiede:
“Andate”, cioè superate ogni barriera culturale e religiosa;
“Fate discepoli tutti i popoli”, cioè formiamo un “nuovo popolo di popoli”;
“Battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè portiamo al mondo intero la la rivelazione di questo nome divino di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo;
“Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” e, quindi, annunciando agli uomini tutta la rivelazione di Dio, che porta con sé anche la stessa rivelazione dell’uomo. Si può intuire ciò che l’uomo è per davvero solo alla luce questa rivelazione di Dio: solo nel mistero del Verbo incarnatosi “illumina veramente” il mistero dell’uomo (Gaudium et spes, 22)
Queste indicazioni sarebbero impraticabili senza Cristo che anche a noi dice: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Lui è presente accanto a noi e in noi, sempre. Noi, cristiani, non confidiamo in noi stessi, nelle nostre capacità, ma nella presenza del Signore.
Con Cristo, in Cristo e per Cristo noi diventiamo testimoni affidabili in tutto il mondo. Non ci sono confini, luoghi vietati, popoli o uomini ai quali non si possa e non debba testimoniare Cristo. Lui è il Signore di tutto e di tutti, e perciò deve essere annunciato a tutti e dappertutto.
Dire che Gesù è il «Signore di tutto» significa affermare, in altre parole, che Egli dà senso a tutte le cose. «Andate e fate discepoli»: la missione suppone un incarico. Non si annuncia Gesù a nome proprio, tanto meno si annunciano pensieri propri, ma soltanto “tutto ciò che Egli ha comandato”. Il discepolo deve annunciare nella più assoluta fedeltà e il suo annuncio deve nascere da un ascolto.
La missione esige una partenza: “andate”. Il discepolo non aspetta che la gente del mondo si avvicini: è lui che va incontro a loro alla gente. “Fate discepole tutte le genti”: l’espressione è carica di tutto il significato che “discepolo” ha nel Vangelo. Non si tratta semplicemente di offrire un messaggio, ma di instaurare una relazione di comunione. Il discepolo si lega alla persona del Maestro e si impegna a condividere il suo progetto di vita. “Sarò con voi fino alla fine del tempo”: è questa la grande promessa, che dà al discepolo la forza di svolgere la sua missione, andando in ogni luogo del mondo e predicando il Vangelo.
In effetti, Cristo non dice: “Predicate la morale della saggezza greca”. Non dice, per esempio, di spiegare l’Etica di Aristotele, non solo perché gli Apostoli erano poco istruiti, ma perché ogni sapienza diventa poca cosa quando una persona si mette alla scuola di Cristo, che guida con amore le sue pecorelle che docili lo seguono verso i pascoli eterni della verità e della gioia. Quello che Cristo esige dagli uomini per poterli fare entrare nel Regno di Dio non è un certificato di studi, né un attestato di carriera ben fatta. Lui chiede un atto molto più semplice e radicale: la conversione del cuore e la rinascita nella fede e nel battesimo.
“Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi non crederà, sarà condannato”. Prima di tutto “credere”, perché il credere è l’atto fondamentale della vita cristiana. Con il credere, con l’atto di fede, la persona umana scegli con piena libertà il Regno di Dio che le è offerto dal magistero della Chiesa. Con l’atto di fede quindi il cristiano accetta tutte le verità da credere: tutto quanto Cristo ci ha insegnato su Dio e sull’uomo, sul peccato e sulle cose ultime, che sono la morte, il giudizio e il Paradiso.
Credere allora è vedere la propria vita unicamente nella luce di queste verità accettando il giogo “soave e leggero” della legge dell’amore verso Dio e verso il prossimo,
Infine, credere è vivere con la mente e con il cuore, con il pensiero e con l’azione nella realtà della vita divina.
In ciò ci sono di esempio le vergini consacrate che con la loro vita totalmente donata a Cristo “predicano” la verità amorosa e il vero amore redentivo di Dio. Queste donne testimoniano che la vita cristiana è legata all’Ascensione, perché la nostra vita si realizza andando verso il cielo e dipende dalla fedeltà alle promesse fatte nel Battesimo e rinnovate nella consacrazione.
Pur nella fragilità umana e certe che Dio è forte nei deboli, le vergini consacrate accompagno il Gesù-Sposo nella sua ascensione, gioiscono della sua glorificazione vivono anticipatamente la dimensione del Paradiso e ci ricordano che la festa dell’Ascensione del Signore è la festa liturgica del Paradiso, che si apre all’umanità con l’ingresso solenne di Cristo in cielo, alla destra del Padre. Nel suo addio, Gesù lasciò agli apostoli (e a noi) la sua verità e la sua potenza, perché la sua ascensione non fu una partenza ma una intensificazione della sua presenza fino ai limiti estremi dello spazio e dl tempo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).


Lettura patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Discorso sull'Ascensione del Signore, ed. A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495)


Nessuno è mai salito al cielo,  fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo.
Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.
Ascoltiamo l'apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»(Mt 25, 35).
Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l'amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa affermazione fu pronunciata per sottolineare l'unità tra lui nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell'uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così si esprime l'Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12). L'Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l'unità del corpo non sia separata dal capo.


venerdì 19 maggio 2017

Dio dimora nostra e noi dimora di Dio. Amore e comandamenti

VI Domenica di Pasqua – Anno A – 21 maggio 2017
Rito Romano
At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

Rito Ambrosiano
At 4,8-14; Sal 117; 1Cor 2,12-16; Gv 14,25-29

1) Non siamo orfani.
In questa domenica si continua la lettura del capitolo 14 del Vangelo di Giovanni, la cui prima parte è stata letta domenica scorsa. Il tema è l’amore, come appare dall’inizio (“se mi amate...” (Gv 14,15) e dalla conclusione (“chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21) del Vangelo di oggi. I discepoli, terrorizzati dalla possibilità reale che il Maestro muoia, sono rincuorati da Gesù che apre a loro il Suo cuore, chiamandoli “amici” e non “servi”, donando loro in eredità l’Eucaristia e aprendo loro una via nuova: quella dell’amore donato al mondo attraverso la Croce. La Sua Croce è rivelazione concreta di Dio che ama sino al dono totale di sé, segno della sua presenza senza limite nel mondo. Sulla Croce Cristo non fallisce ma porta a pienezza la manifestazione del Suo immenso amore: “Nessuno ha un amore più grande di questo, morire per i propri amici. Voi siete miei amici se fate quello che io comando” (Gv 15, 13-15).
Ai Suoi discepoli Gesù insegna che il suo Amore donato è la forza che permette di non rinchiudersi in un passato finito, ma di aprirsi ad un avvenire percepito come lo spazio della loro fedeltà a Lui in una comunità e nel mondo. Solamente il discepolo che accetta la realtà della morte di Gesù, può aprirsi ad una nuova relazione con il Crocifisso-Risorto: la vera “sequela” comincia con la Pasqua, evento che restituisce Gesù al credente in modo nuovo.
La Croce non è la fine, ma l’inizio di un nuovo cammino, di una relazione, diventata indistruttibile, con Gesù Cristo: con la sua morte e risurrezione, Lui apre la “Via” che conduce alla “Verità” dell’esperienza di Dio che è la “Vita” piena.
Quella sera del primo giovedì santo, gli Apostoli impauriti sono consolati da Cristo che oltre a proclamare il Suo amore dice loro: “Non vi lascerò orfani”. Quella sera Gesù sembra non tanto preoccupato per sé, quanto per i suoi amici, che sa avrebbero conosciuto la profondità della loro debolezza, il grande dolore dell'abbandono, e avrebbero cercato qualcosa che li confortasse. Gesù stesso sarebbe stato consolato dalla presenza di un Angelo, durante la sua agonia nel Getsemani, nel momento in cui sembra potesse nascere anche in Lui la voglia di fuggire dalla crocifissione: “Padre se è possibile, allontana da me questo calice, però non la mia, ma la tua volontà si compia in me”. È incredibile come Gesù, che ci ha promesso il Consolatore, abbia voluto essere ‘uomo di tutti i tempi’: l’uomo, ogni uomo, che conosce l'abisso della prova e della solitudine. Ma alla fine trionfa il disegno di realizzare il grande disegno di Amore per noi.
Gesù anche oggi ripete a noi: “Non vi lascerò orfani”. Queste parole furono, sono e saranno sempre una certezza per chi Lo segue, ieri, oggi e sempre; e le ha dette nel momento più difficile della sua esistenza tra noi, fino a giungere al punto, quasi facendosi voce della nostra paura di essere abbandonati da tutti, di proclamare dalla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46). Cristo risorto ci ridice che Chi ama è la dimora dell’amato: lo porta nel cuore, come sua vita. Noi da sempre siamo in Dio, che ci ama di amore eterno; se lo amiamo, anche lui è in noi come noi in lui.
2) Se mi amate…
“Se mi amate osserverete i miei co mandamenti” (Gv 14,15). Le parole di questo versetto si ripetono come un ritornello anche nei versetti 21 e poi 23 e 24. Non si tratta di una ingiunzione (do vete osservare) ma di una rivelazione di bontà: “se” amate, entrerete in un mondo nuovo. Tutto comincia con la congiunzione “se”, paroletta carica di delicatezza e di rispetto: se mi amate... "Se": un punto di partenza così umile, così libero, così fidu cioso che ci aiuta a capire che osservare i comandamenti di Cristo non è obbedire a una legge esterna, ma vivere come Lui nell’amore. Così come i primi apostoli di Cristo e del Vangelo furono mossi dall'amore vissuto come legge, anche noi mossi dall’amore di Cristo siamo mossi a proseguire il compito di portare nel mondo l’amore di Dio fatto carne.
Se amiamo Cristo, Lui abita i nostri pensieri, le nostre azioni e parole e le cambia. Così facendo, viviamo la sua vita buona, bella e felice. Se amiamo Gesù e osserviamo il suo comandamento dell’amore, non solo non feriamo, non tradiamo, non rubiamo, non mentiamo, non uccidiamo, ma soccorriamo accogliamo, benediciamo.
Se è vero, come ho detto all’inizio di queste riflessioni, che il tema di oggi è quello dell’amore, è altrettanto vero che le idee dominanti sono due. La prima è che il criterio più adatto per verificare la realtà dell'amore a Cristo è l’obbedienza alla sua volontà, cioè l’osservanza concreta dei comandamenti, che in San Giovanni si riducono al comandamento dell'amore fraterno. E la seconda: la pratica dell’amore è il luogo in cui Gesù si manifesta.
L’amore è una “cosa” tale che quando si ama una persona, quella persona è nel nostro cuore e nella nostra mente, e diventa norma della nostra vita. Sappiamo cosa pensa, cosa fa lei e facciamo ciò che lei fa, perché amiamo anche ciò che lei fa. Insomma, l’amore non è solamente un sentimento, tocca tutto l’essere:
  • tocca il conoscere: noi conosciamo una persona se la amiamo, e “l’amore è la via per conoscere Dio” (Papa Francesco);
  • tocca il volere: amare è volere il bene dell’altro; voler davvero il suo bene;
  • tocca l’azione: se tocca l’intelligenza e la volontà, tocca l’azione; è agire come l’altro.

Quindi l’amore è una comunione nell’essere più profondo, è unione di intelligenza, di volontà e di azione che ci rende come Cristo, Figlio di Dio, con la stessa intelligenza, con la stessa volontà, con la stessa azione.

3) I “miei” comandamenti.
Oltre alla congiunzione “se”, vorrei attirare l’attenzione sul pronome possessivo "miei". Gesù dicendo: “Se “osserverete i comandamenti”, dice i “miei” comandamenti. E’ come se dicesse: i comandamenti sono miei non tanto perché prescritti da me, ma perché manifestano ciò che sono io e il vostro futuro. Riassumono me e tutta la mia vita. Se mi amate, vivrete come me e con me”
Se amiamo Cristo, osservando i suoi comandamenti, Lui abita in noi e cambia i nostri pensieri, le nostre azioni, le nostre parole in pensieri, azioni e parole di bene. E così partecipiamo alla sua libertà, alla sua pace, alla gioia del suo vivere nell’amore.
La testimonianza, che quanto sto proponendo è vero, ci viene dalla vita delle Vergini consacrate, le quali mostrano discretamente ma decisamente che una vita dedicata a mettere in pratica le sue parole rende effettivo il seguire Cristo come discepoli (cfr Mt 7,24) ed è l’osservanza dei suoi comandamenti che rende concreto l'amore a Lui e attira l’amore del Padre (cfr. Gv 14,21). Dunque, non c’è amore senza obbedienza (“siete miei amici, se fate ciò che vi comando” Gv 15, 14), ma senza amore l’obbedienza è servile. Ce lo ricorda Sant’Ambrogio che, rivolgendosi alle Vergini consacrate, ha scritto: “Con quali legami Cristo è trattenuto?... Non con i nodi di corde, ma con i vincoli dell’amore e con l’affetto dell’anima” (De virginitate, 13,77). Infine prendendo alla lettera l’insegnamento di San Paolo: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose... per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui” (Fil 3,8-9), queste donne consacrate vivono l’amore con “distacco”. L’amore verginale che sono chiamate a testimoniare a tutti i battezzati, in particolare agli sposi, realizza il bene oggettivo ed effettivo di sé e degli altri se mantiene un atteggiamento di distanza. Solo nel distacco si dà vero possesso in Dio, perché le mani invece di stringersi attorno all’altro si stringono in preghiera. Queste mani giunte aprono il cuore di Dio, che riversa sull’umanità il suo amore misericordioso.

Lettura patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430)
In Ioan. 75, 3-4

 Vivere in Cristo

       Che significa 
«perché io vivo e voi vivrete» (Jn 14,19)? Perché disse che egli viveva, usando il tempo presente, mentre di essi disse che avrebbero vissuto nel futuro, se non perché egli stava per risorgere anche nella carne, cioè li precedeva su quella via della risurrezione, su cui aveva promesso che i discepoli lo avrebbero seguito più tardi? E, siccome il tempo della sua risurrezione era ormai prossimo, usò il tempo presente per indicarne la rapidità; di essi, la cui risurrezione doveva avvenire alla fine dei secoli, non disse: vivete, ma: «vivrete «. Con stile rapido e significativo, usando due verbi, uno al presente e l’altro al futuro, promise le due risurrezioni, la sua, che stava per accadere, e la nostra, alla fine dei secoli: «Perché io» - disse - «vivo e voi vivrete»; cioè noi vivremo perché egli vive ora. "Come infatti tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita" (1Co 15,21-22). Nessuno muore se non per colpa di Adamo, e nessuno riottiene la vita, se non per mezzo di Cristo. È perché noi vivemmo, che siamo morti; è perché egli vive, che noi vivremo. Noi siamo morti per Cristo, se viviamo per noi; è invece perché egli è morto per noi, che vive per sé e per noi. Insomma, perché egli vive, noi vivremo. Potremmo infatti da noi stessi darci la morte, ma non potremo ugualmente darci da noi stessi la vita.

       "In quel giorno" - egli continua - " voi conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi" (Jn 14,20).

       In quale giorno? Nel giorno di cui ha parlato prima quando ha detto: «e voi vivrete «. Allora noi potremo finalmente vedere ciò in cui oggi crediamo. Infatti, anche ora egli è in noi e noi siamo in lui: è vero in quanto ci crediamo, mentre allora sapremo. Ciò che ora sappiamo con la nostra fede, allora lo sapremo perché vedremo. In effetti, finché siamo in questo corpo quale è ora, cioè corruttibile e che appesantisce la nostra anima (
Sg 9,15), peregriniamo per il mondo lontani dal Signore; e camminiamo verso di lui per mezzo della fede, non perché abbiamo di lui la chiara visione (2Co 5,6). Allora, invece, lo vedremo chiaramente, perché lo vedremo qual è (cf. 1Jn 3,2). Se Cristo non fosse in noi anche ora, l’Apostolo non potrebbe dire: "Se poi Cristo è in noi, il nostro corpo è morto per causa del peccato, ma lo spirito è vita per ragione di giustizia" (Rm 8,10). Egli stesso apertamente mostra che anche ora noi siamo in lui, laddove dice: "Io sono la vite, voi tralci" (Jn 15,5). Dunque in quel giorno, quando vivremo in quella vita che avrà completamente distrutto la morte, conosceremo che egli è nel Padre, e noi in lui e lui in noi; perché allora vedremo compiersi ciò che egli stesso ha incominciato, affinché appunto noi si fosse finalmente in lui e lui in noi.


Bernardo di Chiaravalle (1090 -1153)
In Cant. Cant. Sermo 74, 6


       Vivo e attivo è lui, e appena è entrato ha destato l’anima mia assopita; ha commosso, reso molle e ferito il mio cuore, poiché era duro e di sasso, e insensato. Ha cominciato anche a strappare e a distruggere, a edificare e a piantare, a irrigare ciò che era arido, a illuminare ciò che era tenebroso, a spalancare ciò che era chiuso, a riscaldare ciò che era freddo, e così pure a raddrizzare ciò che era storto, e a cambiare le asperità in vie piane, affinché l’anima mia, e tutto ciò che è in me, benedicesse il Signore e il suo santo nome. Entrando così più volte in me il Verbo, mio sposo, non ha fatto mai conoscere la sua venuta da nessun indizio: non dalla voce, non dall’aspetto, non dal passaggio. Nessun gesto suo insomma lo ha fatto scoprire, nessuno dei miei sensi si è accorto che penetrava nel mio intimo soltanto dal moto del cuore, come ho detto prima ho sentito la sua presenza; dalla fuga dei vizi, dalla stretta dei desideri carnali, ho avvertito la potenza della sua virtù; dallo scuotimento e dalla riprensione delle mie colpe nascoste, ho ammirato la profondità della sua sapienza; dalla sia pur piccola correzione delle mie abitudini, ho sperimentato la bontà della sua mitezza, dalla trasformazione e dal rinnovamento dello spirito della mia mente, cioè del mio uomo interiore, mi son fatto comunque l’idea della sua bellezza; e nel contempo dall’esame di tutte queste cose, ho avuto timore delle sue grandezze senza numero.

venerdì 12 maggio 2017

La Via vera che porta alla Vita.

V Domenica di Pasqua – Anno A – 14 maggio 2017
Rito Romano

At 6,1-7; Sal 32; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12


Rito Ambrosiano

At 10,1-5.24.34-36.44-48a; Sal 65; Fil 2,12-16; Gv 14,21-24



  1) Si abita dove si è amati.
Il Vangelo di questa Quinta Domenica di Pasqua inizia con l’invito di Gesù a non lasciarsi prendere dalla paura: “Non sia turbato il vostro cuore” (Gv 14,1). Ai discepoli turbati dal fatto che stanno per assistere alla sua passione e morte, Cristo dice loro di non avere paura e di avere fede in Dio e il Lui. Lui, con il suo stare con loro (e con noi), ha mostrato il Padre e ha aperto il cammino verso la casa paterna. Con il suo andarsene in questo modo, ci dà la forza di seguirlo. Chi crede in lui, trova la via del ritorno a casa: partecipa alla sua vita di Figlio e conosce la verità di Dio come Padre. Come risposta alla paura della sofferenza e della morte, dell’incertezza del futuro, il Redentore Messia dice che c'è un solo modo per vincere questa paura: la fede in Dio e la fede in Lui. E ha ragione: soltanto Dio è la roccia. Le altre sicurezze deludono. L’amore di Dio è fedele e non ci abbandona mai: questa è la grande certezza che rasserena il credente.
Accogliere l’invito: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1), non è un’adesione astratta ad un messaggio ma un’adesione amorosa e fiduciosa ad una persona, Cristo, da seguire quotidianamente, nelle semplici azioni che compongono la nostra giornata.
Questa amorosa fiducia permette che entrino nel nostro cuore e comprendiamo le parole che Gesù dice nel versetti successivi: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14, 2-3). Quale senso hanno queste parole? Il significato di queste parole è che la vera questione non è dov’è la casa del Padre, ma chi è la casa del Padre? Il Figlio, il suo corpo.
Per questo alla domanda: dove abita il Padre e dove abita il Figlio? Gesù ci risponde: “Il Padre è in me e io sono nel Padre” (Gv 14, 11), perché uno abita dove è amato. Il Padre abita pienamente nel Figlio che lo accoglie, come il Figlio abita pienamente nel Padre. Ora in questa casa del Padre c’è posto per molti, ci sono molte dimore. Quante dimore ci sono nel Padre? Quanti sono i figli, perché se non ci fosse un posto per ciascuno di noi non sarebbe Padre giusto e misericordioso.
Per questo alla domanda: dove abitiamo noi? La risposta è: la nostra casa è nel cuore del Padre.
Ma questa risposta fa nascere un’altra domanda: in che senso Cristo, Fratello nostro, ci prepara un posto in casa “nostra”? Ce lo prepara nel senso che ce lo fa conoscere, perché noi non sapevamo di essere figli nel Figlio. Quindi Cristo ci rivela che siamo figli e quindi abbiamo un posto nel Padre. E poi non solo ce lo rivela, ma ci dona il suo amore perdonandoci e facendosi cibo per noi, in modo che mediante l’amore anche noi abitiamo nel Padre e il Padre in noi.

2) La via verso casa della vera vita.
Già nell’Antico Testamento il credente pregava: “Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario” (Sal 26/27, 4). Ma va detto che questa domanda di felicità e di amore vero, quindi santo, è nel cuore di ogni essere umano, di ogni luogo e di ogni tempo. All’uomo che cerca il senso della vita, di una vita che duri e che abiti nell’amore, Cristo dice: “Io sono la via”. A questo riguardo Sant’Agostino commenta: “Prima di dirti dove devi andare, ha premesso per dove devi passare e disse: ‘Io sono la via’. La via per arrivare dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica la via da prendere, poi il termine dove vuoi arrivare. ‘Io sono la via, Io sono la verità, Io sono la vita’. Rimanendo presso il Padre, era verità e vita; rivestendosi della nostra carne, è diventato la via”.
Gesù è la via per giungere alla vita, anzi Lui stesso è la vita. Innanzitutto Lui è la vita: si dice infatti “in lui era al vita”, e poi che egli è la verità, perché “era la luce degli uomini” (Gv 1, 4). E la luce è la verità. Se dunque cerchiamo per dove passare, accogliamo Cristo perché Lui è la via: “Questa è la strada, percorretela” (Is 30, 2).
Lui è la via per arrivare alla conoscenza della verità, anzi è la stessa verità: Guidami, Signore, nella verità e camminerò nella tua via (cfr. Sal 85, 11). Similmente egli è la via per giungere alla vita, anzi, egli stesso è la vita: “Mi hai fatto conoscere il sentiero (via) della vita” (Sal 15, 11 volgata).
Questa via è la via dell’amore compiuto, è la via del lavare i piedi, del boccone dato a Giuda, del dono e del perdono, è la via della Croce, è la via che ci riconduce alla casa del Padre, è l’unica via, quella dell’amore che ci fa essere con lui e come Lui, che ci vuole bene.
Per camminare sulla Via della Verità e della Vita prendiamo sul serio l’invito di San Paolo quando scrisse: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” (Fil 2,51), che “non si spogliò di nessuna parte costitutiva della sua natura divina, e ciò nonostante mi salvò come un guaritore che si china sulle fetide ferite. Era della stirpe di David, ma fu il creatore di Adamo. Portava la carne, ma era anche estraneo al corpo. Fu generato da una madre, ma da una madre vergine, era circoscritto, ma era anche immenso. E lo accolse una mangiatoia, ma una stella fece da guida ai Magi, che arrivarono portandogli dei doni e davanti a lui piegarono le ginocchia. Fu vittima, ma anche sommo sacerdote; fu sacrificatore, eppure era Dio. Offrì a Dio il suo sangue, e in tal modo purificò tutto il mondo. Una croce lo tenne sollevato da terra, ma rimase confitto ai chiodi il peccato. Il Figlio immortale assunse su di sé la forma terrena, perché Lui ti vuol bene” (San Gregorio di Nazianzo).
Per rispondere e corrispondere a questo “essere voluti bene”, a questo amore fraterno dobbiamo sentire come Cristo sentiva. Perciò dobbiamo conformare il nostro modo di pensare ai sentimenti di Gesù, che aveva sentimenti di amore e di compassione, di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.
Ma non basta. Per amare davvero Cristo ed avere il vero amore dobbiamo osservare i suoi comandamenti. Sono le opere che testificano i sentimenti.


3) Vita consacrata è opera e vita di amore.
Tutti i credenti sono chiamati a testimoniare questo amore, che è via vera e vitale verso la Casa del Padre, ma le vergini consacrate ne sono una testimonianza speciale perché -con il dono totale di se stesse a Cristo- sono in modo particolare innestate nel suo cuore e rese capaci di amare con il Suo amore, di donare con il Suo cuore, di servire con la Sua luce, di operare con i Suoi doni. Con l’offerta completa di se stesse e la letizia della loro vita queste donne testimoniano che Cristo è la Via, la Verità e la Vita del mondo. Le consacrate sono testimoni di ciò mediante il linguaggio eloquente di un’esistenza trasfigurata, capace di sorprendere il mondo. Allo stupore degli uomini queste donne rispondono con l'annuncio dei prodigi di grazia che il Signore compie in coloro che Lui ama e che umilmente Gli rispondono accettandolo come Sposo.
Queste donne manifestano che Gesù è la via in quanto libertà, libertà che sa dare la vita, e ci ricordano che testimoniare non è tanto il dare il buon esempio quanto trasmettere il messaggio cristiano “per via” di esempio, “per via” di parola, “per via” di opere, “per via” di vita vissuta in favore della verità posseduta come valore superiore al proprio stesso benessere e alla propria vita.
Inoltre. testimoniano che, donandosi senza riserve a Cristo, si riceve la vera vita: la vita di Dio, e che Cristo ci ha donato l’amore di Dio come nostra vita. In effetti, “non basta che Cristo sia via, non basta che sia verità, deve essere vita” (Benedetto XVI). Gesù, Parola del Padre, è la Via per trovare la mèta, la Verità per non confondere il bene col male, e la Vita per non restare schiavi della morte (Papa Francesco).  
Insomma, queste donne consacrate vivendo una relazione personale con Cristo mostrano che Lui-Sposo non solamente è un maestro dal quale ci si limita a imparare qualche cosa. Lui è la verità stessa: bisogna, quindi, avere un rapporto personale con lui. Percorrendo quella via e costruendo un rapporto con quella verità si arriverà alla vita, grazie alla quale si sta con il Padre, nella sua e nostra casa.

1 Questa frase è seguita da queste parole “… Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nomeche è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 5-11)


Lettura Patristica
San Agostino d’Ippona
Discorso 141
  1. La verità scoperta dai filosofi secondo questo mondo non è la Via.
1. Leggendosi il santo Vangelo, avete udito tra l'altro ciò che afferma il Signore Gesù: Io sono la via, la verità e la vita 1. Ogni uomo desidera la verità e la vita, ma non ogni uomo trova la via. Anche alcuni filosofi secondo questo mondo hanno riconosciuto che Dio è una certa qual vita eterna, immutabile, intellegibile, intelligente, sapiente, datore agli uomini di sapienza. Senza dubbio riconobbero che la verità è fissa, irremovibile, immutabile, comprensiva di ogni ragione d'essere di tutte le cose create, ma a distanza; l'avvistarono, ma attenendosi a false credenze; e proprio per questo non trovarono la via per la quale giungere a quel così alto, inesprimibile e beatificante possesso. Infatti scoprirono anch'essi (per quanto può essere colto dagli uomini) il creatore attraverso la creatura, il fattore attraverso la fattura, il costruttore del mondo attraverso il mondo; ne è testimone l'apostolo Paolo, al quale tutti i Cristiani sono senz'altro tenuti a credere. Riferendosi a costoro, afferma: L'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà. Queste, come riconoscete, sono parole dell'apostolo Paolo. L'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che recludono la verità nell'ingiustizia 2. Ha detto forse di loro che non possiedono la verità? Ma recludono la verità nell'ingiustizia. E' un bene ciò che possiedono, ma è un male che lo tengano dove viene recluso. Recludono la verità nell'ingiustizia.
    1. Come hanno intravisto la verità.
2. Ma bisognava che gli si dicesse: Com'è che quegli empi possiedono la verità? Dio ha forse parlato con qualcuno di loro? Forse che hanno ricevuto la legge come il popolo degli Israeliti per mezzo di Mosè? Come dunque possiedono la verità addirittura nella stessa ingiustizia? Ascoltate quanto segue e lo spiega. Poiché ciò che di Dio si può conoscere - dice - è loro manifesto; Dio stesso infatti lo ha loro manifestato. A quelli si manifestò, a quanti non aveva dato la legge? Si manifestò, ascolta in che modo: Le sue perfezioni invisibili possono infatti essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute. Interroga il mondo, la magnificenza del cielo, lo splendore e l'armonia degli astri, il sole rispondente alle esigenze del giorno, la luna a moderare l'oscurità della notte; interroga la terra feconda di erbe e di alberi, piena di animali, ordinata per gli uomini; interroga il mare che contiene gran quantità e varietà di animali acquatici; interroga l'atmosfera, cui conferisce vivacità un gran numero di volatili; interroga tutte le cose e vedi se, a loro modo, non ti rispondono: Dio ci ha fatti. Filosofi nobili hanno fatto di queste ricerche, e dall'opera compiuta hanno conosciuto l'Artefice. Che dunque? Per quale ragione l'ira di Dio si rivela contro ogni empietà? Perché recludono la verità nell'ingiustizia? Venga [l'Apostolo], dimostri in che modo. Ha già detto infatti come sono giunti a conoscere. Le sue, cioè di Dio, perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, anche la sua eterna potenza e divinità, perché siano inescusabili. Infatti, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria, né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa; infatti mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 3. Ciò che scoprirono spinti dalla brama di sapere lo perdettero per superbia. Mentre si dichiaravano sapienti, cioè, attribuendo a se stessi il dono di Dio, sono diventati stolti. Ripeto, sono le parole dell'Apostolo: Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti.
    1. Stoltezza degli adoratori degli idoli.
3. Dimostra, prova la stoltezza di costoro. Spiega, o Apostolo, e come hai fatto capire a noi, in che modo ad essi è stato possibile giungere al concetto di Dio, poiché le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, così spiega ora in che modo mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti. Ascolta: Perché - egli afferma - hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio nella somiglianza della figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili 4. Infatti, della figura di questi animali i Pagani se ne fecero dèi. Tu hai trovato Dio e adori un idolo. Hai scoperto la verità ed è appunto la verità che recludi nell'ingiustizia. E per via di ciò che è esecuzione della mano dell'uomo, perdi quello che hai conosciuto attraverso le opere di Dio. Hai considerato tutto ciò che esiste; hai colto nell'insieme la disposizione ordinata del cielo, della terra, del mare e di tutti gli elementi; non vuoi fare attenzione a questo: il mondo è opera di Dio, un idolo è fattura di un artigiano. Se l'artigiano desse all'idolo anche una mente, come ha dato la forma, l'artigiano sarebbe adorato dallo stesso idolo. Infatti, o uomo, a quel modo che Dio è il tuo artefice, così l'uomo è artefice dell'idolo. Chi è il tuo Dio? Colui che ti ha formato. Chi è il Dio dell'artigiano? Colui che lo ha formato. Chi è il Dio dell'idolo? Colui che lo ha formato. Quindi, se l'idolo avesse una mente, non adorerebbe l'artigiano che lo ha formato? Ecco in quale ingiustizia hanno relegato la verità, ma non hanno trovato la via che conduceva al possesso di quella verità che avevano intravisto.
    1. Cristo si è fatto via.
4. Ma Cristo che presso il Padre è verità e vita, è il Verbo di Dio del quale è stato detto: La vita era la luce degli uomini  5. Appunto perché presso il Padre è verità e vita e noi non avevamo una via da seguire per giungere alla verità, il Figlio di Dio, che nel Padre è per l'eternità verità e vita, assumendo la natura dell'uomo si è fatto via. Passa attraverso l'uomo e giungi a Dio. Per lui passi, a lui vai. Non cercare al di fuori di lui per dove giungere a lui. Se egli non avesse voluto essere la via, saremmo sempre fuori strada. Perciò si è fatto la via per dove puoi andare. Non ti dico: Cerca la via. E' la via stessa a farsi incontro a te: Alzati e cammina. Cammina con la condotta, non con i piedi. Molti infatti hanno un passo regolare, ma con il comportamento procedono male. A volte quegli stessi che vanno avanti bene finiscono per cadere. Troverai senz'altro uomini di vita onesta, ma non Cristiani. Vanno di buon passo e bene, ma la loro sollecitudine non è lungo la via. Quanto più si affrettano, tanto più si sbandano perché si allontanano dalla vera via. Nel caso, invece, che uomini tali giungano alla vera via e senza deviare, questa è allora la sicurezza perché e camminano speditamente e non si smarriscono. Ma se sono sviati, vadano pure avanti bene quanto si vuole, come c'è da compiangere! E' preferibile camminare zoppicando sulla via, ad un incedere energico fuori strada. Queste cose bastino alla Carità vostra.





venerdì 5 maggio 2017

Il Pastore di misericordia

IV Domenica di Pasqua – Anno A – 7 maggio 2017
Rito Romano

At 2,14.36-41; Sal 22; 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10


Rito Ambrosiano
At 6,1-7; Sal 134; Rm 10, 11-15; Gv 10, 11-18

 


1) Il Pastore buono, che dà la vita.
Al giorno d’oggi, soprattutto nelle società industrializzate e urbane, la figura del pastore è poco conosciuta e apprezzata. Anche l’idea di essere pecore non piace all’uomo contemporaneo, che fa coincidere la libertà con l’autonomia e che si offende quando è chiamato pecora.
Invece, già nell’Antico Testamento la figura del pastore è molto importante. Si pensi per esempio a quanto, in nome di Dio, il profeta Ezechiele scrive: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34, 15-16). La realizzazione di questo oracolo la vediamo in Cristo, pastore buono. In effetti, nel Vangelo il pastore è figura dolce e commovente e ciascuno di noi vorrebbe essere la pecorella smarrita (Lc 15,3-7), che il Buon Pastore mette sulle sue spalle, dopo che con tenacia la cercata.
Ma non solo nella Bibbia la figura del Pastore è importante. Anche nella Chiesa di oggi questa figura mantiene il suo fascino e la sua efficacia. Quanto promesso da Dio al suo popolo antico: “Vi darò Pastori secondo il mio cuore” (Ger 3, 15. ), è sperimentato oggi e quotidianamente dalla Chiesa, nuovo popolo di Dio. La Chiesa sa che Gesù Cristo stesso è il compimento vivo, supremo e definitivo della promessa di Dio: “Io sono il buon pastore” (Gv 10, 11), Lui “il Pastore grande delle pecore “ (Eb 13, 20) ha affidato agli apostoli e ai loro successori il ministero di pascere il gregge di Dio (cfr. Gv 21, 15ss.; 1 Pt 5,2). Grazie ai sacerdoti il popolo di Dio può vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l’obbedienza al comando di Gesù: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28, 19) e “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; cf 1 Cor 11, 24), cioè il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo.
Dunque, preghiamo il Signore che mandi Pastori buoni per la messe matura del mondo e esigiamo dai pastori di oggi di avere sempre Cristo come modello. Lui è il Pastore buono
perché offre la vita per le pecore,
perché espone con coraggio la sua vita per difendere le sue pecore,
perché come Cristo ama le sue pecore e le guida alla comunione con Lui.
La bontà del Pastore si dimostra con il dono di sé perché le pecore a lui affidate vivano ed abbiano la vita in abbondanza e perché conosce le sue pecore. Lui le conosce una per una con amore grande, con cura personale e continua. Le pecore “sentono” questo e conoscono il loro Pastore in quanto buono. “Conoscere” è un verbo che biblicamente sta nella semantica dell’amare: si conosce per amore e solo nell’amore. Come una mamma –anche di notte, al buio- “sente” che il suo bambino sta male, anche se non si lamenta, e si alza per curarlo, così il bambino “sente” la madre che lo cura. L’amore vero è la conoscenza perfetta.
Sull’esempio del Pastore buono, i pastori e le pecore vivano e crescano nell’appartenenza reciproca per crescere nell’appartenenza a Cristo.

2) Appartenenza.
Noi non siamo in balia di forze oscure, di un destino inesorabile: apparteniamo al Signore e siamo conosciuti da Lui che per ciascuno di noi ha donato la sua vita ed è risorto. Se noi ascoltiamo la sua voce, se noi crediamo in Lui, entriamo nel possesso della vita stessa del Signore. La fede, infatti, non è affatto una fra le tante possibili concezioni del mondo. Con essa noi compiamo un passaggio decisivo: il passaggio dalla morte alla vita. "In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non incorre nella condanna, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv 17, 24), ha detto Gesù. Con la fede, la persona umana abbandona la regione di morte della sua vita ed entra nella terra dei viventi.
La Chiesa ha sempre domandato ai suoi pastori di meditare costantemente questa pagina: di specchiarsi in essa. Perché? Ogni pastore è semplicemente un "segno" del Pastore. Allora meditiamo insieme e lungamente questa pagina e cerchiamo di riviverla vivendo la comunione fra noi, perché cosi si approfondisca la nostra conoscenza di Cristo e cresca la nostra appartenenza a Cristo.
Nel Vangelo di oggi, il rapporto di ciascuno di noi col Signore risorto è indicato in primo luogo come un rapporto di “appartenenza": al mercenario le pecore non appartengono, al pastore sì. L’esperienza dell’appartenenza è profonda: essa è per la persona umana ciò che sono le radici per un albero.
Ma in che cosa consiste questa appartenenza? In primo luogo in un rapporto di reciproca conoscenza: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). Questa reciproca conoscenza è un avvenimento assai grande se Gesù lo riporta alla reciproca conoscenza che esiste fra Lui e il Padre. In che cosa consiste? Da parte nostra essa consiste nell’accoglienza consenziente della Parola di Gesù ["ascolteranno la mia voce"], perseverando in essa e lasciandoci come penetrare da essa. Insomma, "conoscere Gesù buon pastore" significa aderire a Lui ed essere da Lui guidati nella nostra esistenza, in una grande e profonda familiarità. La conoscenza da parte nostra di Gesù implica quindi e presuppone la conoscenza da parte di Gesù della nostra persona. Il conoscere e l’essere conosciuti si realizzano come, appunto, una reciproca appartenenza ed un essere disponibili l’uno per l’altro. Questa relazione di comunione fra Gesù e noi suoi fedeli è posta in essere dal dono che Egli fa della sua vita: “e offro la mia vita per le pecore”. Lui si propone Pastore perché: espone, dispone e depone la vita a favore delle pecore. Cioè lui accetta di essere capo perché è servo di tutti, realmente fino a dare la vita, che in lui trovano luce e libertà.


3) Le vergini e il pastore.
Meditando le parole di Cristo che si presenta come pastore, cioè come uno che veglia giorno e notte a difesa da mercenari e ladri, per amore dei suoi agnelli per i quali dà la vita, viene da chiedersi se riusciremo davvero a penetrare dentro il cuore di un simile Dio ed a capire come Lui ci ama. In Cristo vediamo che non è tanto l’uomo che cerca Dio, quanto Dio che cerca l’uomo. L’uomo è la passione ed il dramma di Dio, che per salvarlo discende dal suo Cielo, per ritornarvi con noi.
Come rispondere a questo amore infinito che ci chiede di amare con un amore più forte della morte? Con atti di amore frequenti, recitando per esempio questo “atto di carità”:
“Mio Dio,
ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità;
per amor tuo amo il prossimo come me stesso e perdono le offese ricevute.
Signore, che io ti ami sopra ogni cosa”. E così san Giovanni della Croce spiega l’atto d’amore: “L’atto di amor di Dio è l’azione più semplice, più facile, più breve che si possa fare. Basta dire con semplicità: ‘Mio Dio, io ti amo’. E’ facilissimo compiere un atto di amor di Dio. Si può fare in ogni momento, in ogni circostanza, in mezzo al lavoro, tra la folla, in qualunque ambiente, in un attimo. Iddio è sempre presente, in ascolto, in attesa affettuosa di cogliere dal cuore della sua creatura questa espressione di amore. L’atto d’amore non è un atto di sentimento: è un atto di volontà elevato infinitamente al di sopra della sensibilità ed è anche impercettibile ai sensi. Basta che l’anima dica con semplicità di cuore: Mio Dio, io ti amo” (San Giovanni della Croce).
In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate che con il dono totale ed esclusivo a Cristo collaborano con il buon Pastore condividendo la sua missione di guidare alla santità vivendo un amore che non si spegna con la morte ma si eterna nel Paradiso. Il loro servizio alla pastorale è, quindi, non quello di fare ma di essere, testimoniando un’appartenenza a Cristo, il cui compito diventa la loro missione. In primo luogo sono chiamate a comunicare quello che sono: Spose di Cristo. A questo riguardo è importante ricordare che il loro rito di consacrazione prevede la consegna di due“segni” che esprimono il nuovo stato di consacrata. Come simbolo nuziale si usa l’anello che figura per la prima volta nel Pontificale Romano-Germanico verso l’anno 950 e la consegna del Libro della Preghiera della Chiesa, un uso noto nel sec. xv e ancor oggi attuale, perché come insegna il Concilio Vaticano II, la Liturgia delle Ore deve diventare la preghiera di ogni cristiano, per pregare in nome della Chiesa servendosi della Preghiera della Chiesa. Una preghiera sponsale ed ecclesiale i cui cardini sono la Bibbia, vista come il libro dello sposo, l’Eucaristia “sacramento nuziale”, la Liturgia delle Ore “voce della sposa allo sposo”.


Lettura Patristica
Tommaso d’Aquino
Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.



       Il Signore propone la parabola della porta dell’ovile e del buon pastore. Chi non entra nell’ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: "Io sono la porta e Io sono il buon pastore".
       Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d’esser lui la porta dell’ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi". E la similitudine è introdotta con le parole: "Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: - In verità, in verità vi dico"; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei discepoli e sottolineare l’importanza di quanto il Maestro vuol dire.
       "Io sono la porta": L’ufficio della porta è quello d’immettere nella casa. E questo s’addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (Ps 117,10): "Questa è la porta del Signore" - Cristo - "e i giusti entreranno in essa". Precisa: "Porta del gregge", perché non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com’è detto appresso: "Le mie pecore ascoltano la mia voce... e mi seguono, e io do loro la vita eterna".
       Poi, quando dice: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi", dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.
       Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l’errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l’interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.
       Prima di tutto perché contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: "Chi non entra per la porta è ladro e bandito". Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti "prima" di Cristo, ma coloro che non son passati "attraverso la porta", che è Cristo. È chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perché‚ proprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell’eternità, come Verbo di Dio (He 13,8, "Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli"). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sg 7,27, "La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio"). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente «La Parola di Dio è giunta al Profeta», proprio perché, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.
       "Coloro che sono venuti": Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (Jr 22,21): "Io non li mandai, ma essi correvano". Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3, "Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente"). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perché essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.
       Ed è anche falsa l’interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d’Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (Ac 7,52, "Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?" e Mt 23,37, "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te!)".
       Bisogna dire dunque: "Tutti quelli che son venuti", non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l’intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un’autorità d’insegnamento che non gli spetta (Is 1,23, "I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri)";e "sono banditi", perché uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: "Voi ne avete fatto una spelonca di ladri"; e Os 6,9: "Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada)". Ma "costoro", cioè i ladri e banditi, "le pecore non li ascoltarono", almeno in modo costante, perché‚ altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perché "non segue un forestiero e fugge da lui".
       "Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo".
       Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: "Potrà entrare e uscire". La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall’esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s’addice a Cristo, poiché in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch’egli vuol dire con le parole: "Se uno entrerà attraverso me" nella Chiesa, "sarà salvo". Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (Ac 6,12, "Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi"; e Rm 5,10, "Tanto più saremo salvi nella sua vita").
       Il modo della salvezza è significato con le parole: "Entrerà e uscirà e troverà pascoli"; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.
       Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: "entrerà e uscirà", vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (Nb 27,16, "Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perché il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore"). "E troverà pascoli", cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (Ac 5,41, "Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù").
       La seconda spiegazione è di sant’Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.
       Chi fa il bene realizza un’armonia tra ciò ch’è dentro di lui e con ciò ch’è fuori di lui. Al di dentro dell’uomo c’è lo spirito, al di fuori c’è il corpo (2Co 6,16, "Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno). Colui dunque, ch’è unito a Cristo, "entrerà" attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sg 8,16, Entrando nella mia casa - la coscienza -, "mi riposerò con essa" -la Sapienza -); e "uscirà" fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Ps 103,23, "Uscirà l’uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera"); "e troverà pascoli", nella coscienza pura e devota (Ps 16,15, "Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria") e anche nel lavoro (Ps 125,6, "Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni").
       La terza interpretazione di san Gregorio.
       "Entrerà" nella Chiesa, credendo (Ps 41,5, "Andrò dov’è una tenda meravigliosa"), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; "e uscirà", cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11, "Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze"); "e troverà pascoli" di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Ps 22,2, "Mi pose nel luogo del cibo"); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14, "Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi").
       La quarta spiegazione è nel libro "De Spiritu et Anima", che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi "entreranno" per contemplare la divinità di Cristo e "usciranno" per ammirare la sua umanità; e nell’una e nell’altra "troveranno pascoli", perché nell’una e nell’altra gusteranno le gioie della contemplazione (Is 33,17, "Vedranno il re nel suo splendore").
       Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: "Io son venuto, perché abbiano la vita". Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta - che è lui - sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, "il ladro non viene che per rubare", per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sè coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene "per uccidere", diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (Os 6,9, "Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem"). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Jr 50,6, "Il mio popolo è diventato un gregge perduto"). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.
       "Io venni perché abbiano la vita". E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l’opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. "Io son venuto perché abbiano la vita" della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (He 10,38 Rm 1,17, "Il giusto vive di fede"). Di questa fede, è detto in Jn 3,14: "Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. E perché l’abbiano più abbondantemente"; abbiano cioè la vita eterna all’uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Jn 17,8) ch’essa consiste "nel conoscere te solo vero Dio".
       Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (1P 2,25, "Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime"; e Is 40,11, "Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge"). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l’aggettivo "buono". Buono perché compie l’ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l’ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch’egli entra nell’ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perché egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perché attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perché nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: "Era la luce vera che illumina ogni uomo" (Jn 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sè; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Jr 3,5, Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: "Io sono il buon pastore", per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.
       Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: "Il pastore buono dà la vita per le sue pecore". Bisogna sapere che c’è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: "Guai ai pastori che pascono se stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore"? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perché non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perché ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: "Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo". Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poiché la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: "Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore"; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 1Jn 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.