venerdì 27 luglio 2012

XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 29 luglio 2012


Rito Romano
2Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

Rito Ambrosiano
IX Domenica dopo Pentecoste
2Sam 6,12b-22; Sal 131; 1Cor 1,25-31; Mt 8,247-38


1) Il poco dell’uomo ed il tanto di Dio
Nel vangelo della liturgia romana di oggi siamo invitati a contemplare il miracolo per cui Cristo con 5 pani e due pesci sfama la moltitudine di persone, che l’aveva seguito non tanto per i profondi insegnamenti ma soprattutto per i suoi miracoli.
Lui, che quale nuovo e vero Mosé sale sulla montagna e si siede in cattedra, alza gli occhi dagli apostoli verso la folla e la vede affamata di vita. Quindi non c’è che da sfamarli nel corpo e nella mente. Questa gente, e noi pure, vogliamo vivere e Lui dona il pane per vivere ora e per l’eternità, il pane per amare ora e per l’eternità.
Ma per fare il miracolo di saziare la duplice fame, quella corporale e quella spirituale, vuole il contributo dell’uomo.
Con il poco che un giovane uomo gli mette a disposizione, Lui fa tanto, con abbondanza inimmaginabile. Gli basta il poco dell'uomo per dare il tanto del Suo.
Ma che cosa anima il cuore di Gesù quando offre questo pranzo? Nel suo commento al Vangelo di Giovanni, S. Tommaso d’Aquino, offre questa risposta: “Da una parte l’umiltà, dall’altra l’azione di grazie” (Commento a Giovanni, 40).
“L’umiltà –continua l’Aquinate- perché sono pani ricevuti quelli che distribuì”. Certo, al momento di fare il miracolo, Gesù avrebbe potuto nutrire la folla con pane creato da nulla. Ma Lui, che voleva avere bisogno dell’uomo per rifare le forze dell’uomo, moltiplicò pani già esistenti.
Ma, continua S. Tommaso d’Aquino, “l’anima di Cristo è anche nell’azione di grazie: rese grazie per mostrare che tutto quello che condivide lo riceve da un altro, dal Padre”. Così ci insegna che, cominciando un pasto ma anche all’inizio di altri momenti della nostra giornata, dobbiamo ringraziare Dio. Se la nostra vita, la vita nostra quotidiana si fa umile ringraziamento e condivisione, diventeremo santi.
Par fare ciò basta vivere l’offerta come insegna questo racconto circa un bambino: “In una chiesa africana, durante la raccolta dei doni all’Offertorio, gli incaricati passavano con un largo vassoio di vimini, uno di quelli che servono per la raccolta della manioca.
Nell’ultima fila di banchi della chiesa era seduto un ragazzino che guardava con aria pensosa il paniere che passava di fila in fila. Sospirò al pensiero di non avere assolutamente niente da offrire al Signore. Il paniere arrivò davanti a lui. Allora, in mezzo allo stupore di tutti i fedeli, il ragazzino si sedette nel paniere dicendo: ‘La sola cosa che possiedo, la dono in offerta al Signore’”.
2) Il pane non basta, la parola neppure.
Non è una mia provocazione, Gesù stesso ha detto: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Lc 4,4).
Andiamo un po’ più in profondità.
Ci deve stare a cuore la verità di Dio e della nostra vita. Spesso si sente dire: “Non c’è la verità” che è un modo ambiguo per dire; “A noi non importa la verità”. A chi con “certezza” parla così, rispondiamo: “Non lo dite, perché neppur voi riuscite a vivere di solo pane. Del pane ce n'è: qui in Europa, nel cosiddetto Occidente ce n’è fin troppo”. Solgenitsin, dopo la sua liberazione dal gulag (campo di concentramento in russo), fu portato in Occidente e, fra le altre cose, gli fecero visitare un Supermercato. Alla vista di un numero incredibile di prodotti da consumare, lui che per anni era vissuto con pezzi di pane di un solo tipo, esclamò: “Al desiderio di infinito hanno risposto con una infinità di cose”. E’ solo l’infinito di Dio che può saziare il nostro cuore. Come non ricordare la nota frase di S. Agostino: “Il mio cuore è inquieto fin che non riposa in te”. E’ perché c’è poca verità che il pane è come se non ci fosse.
Abbiamo moltiplicato il pane e non moltiplicato la gioia. Abbiamo troppi maestri di menzogna e troppi idoli, nel nome dei quali giuriamo sicut in verbo magistri. «Essi hanno occhi e non vedono: orecchi e non intendono: piedi e non camminano... E tali ci siam fatti ancor noi che confidiamo in essi...». Ma tu, Signore, avrai pietà di noi e ci farai «vedere» la tua Parola” (Don Primo Mazzolari).
Però la parola non ci basta. «Né a noi né a Dio è bastata la Parola. Troppa fame ha l'uomo e Dio ha dovuto dare la sua carne e il suo sangue» (Divo Barsotti). «Ecco il mio corpo», ha detto Gesù, e non, come ci saremmo aspettati: «ecco la mia anima, il mio pensiero, la mia divinità, ecco il meglio di me», semplicemente, poveramente: «ecco il corpo».
Cristo dà il suo corpo, perché vuole che la nostra fede si appoggi non su delle idee, ma su di una Persona, assorbendone storia, sentimenti, piaghe, gioie, luce; dà, perché il dare è la legge della vita, unica strada per una felicità che sia di tutti.

3) A scuola del silenzio.
Se la parola e il pane non bastano, occorre mettersi alla scuola del silenzio dell’ostensorio.
Il monaco eremita Laurentius: “Mi fu detto: tutto deve essere accolto senza parole e trattenuto nel silenzio. Allora mi accorsi che forse tutta la mia esistenza sarebbe trascorsa nel rendermi conto di ciò che mi era accaduto. E il Tuo ricordo mi riempie di silenzio”.
Come imitare Cristo? Come seguirlo? Prendendo sul serio l’invito del Redentore: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà.” (Mc 8. 34-36 – Vangelo della liturgia ambrosiana di oggi).
La Croce fu il primo ostensorio del Corpo di Cristo. Nel silenzio contempliamolo e saliamo prendiamo questo ostensorio.
La Parola eterna si è incarnata e si è lasciata mettere in Croce, che l’ha spinta al silenzio. Non al silenzio della morte, ma a quello del dono di sé, commosso, umile, misericordioso, totale.
Il silenzio del cuore è ciò che ci permette di essere lucidi, vigilanti ed accoglienti verso noi stessi, verso gli altri e verso Dio.
Nell’Ostia, Dio tace, ma è presente. Quando la nostra preghiera diventa sguardo, quando taciamo, non ci resta che stampare i nostri occhi su questa Presenza immacolata. Questa attenzione d’amore all’amore crocifisso, questo tendere alla Presenza infinita, che dopo essere entrata attraverso le orecchi, attraverso le bocca, entra tramite gli occhi, gli occhi del cuore, fa sì che non ricadiamo su noi stessi.
Il silenzio non è un comando o una disciplina che si impone, il silenzio è Qualcuno che guardiamo, in cui viviamo, Qualcuno che respiriamo e la cui presenza suscita stupore e rispetto” (Maurice Zundel). Cristo è la Verità messa in Croce. Impariamola contemplando il Crocifisso nel silenzio. Conoscendo questa Verità saremo liberi, liberi davvero. In Cristo-Verità la nostra vita diventa una storia di verità e di amore: di gioia condivisa.

domenica 22 luglio 2012

XVI Domenica – Anno B – 22 luglio 2012


Rito Romano
Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34

Rito Ambrosiano
VIII Domenica dopo Pentecoste
Gdc 2, 6-17 ; Sal 105; 1Ts 2, 1-2. 4-12; Mc 10, 35-45


1) Il cristiano vuole stare vicino a Cristo, sempre.
Il Vangelo di San Marco proposto dal rito ambrosiano parla di Giacomo e Giovanni, che chiedono di sedere alla destra ed alla sinistra di Cristo nel Suo Regno e della reazione seccata degli altri apostoli. A commento di questo episodio si dice sempre che occorre essere umili, che l’autorità è un servizio, che non si deve cercare di far carriere nella Chiesa, e così via.
Difficile dire su cosa i due “oranti” fondassero la loro richiesta: forse sul loro essere cugini o parenti di Gesù, come tramanda una tradizione antica. Ma è più facile che facessero valere la loro anzianità di chiamati, essendo con Gesù fin dall'inizio, oppure la fedeltà e lo zelo [motivo del loro soprannome “Boanerges= figli del tuono)]. In ogni caso la loro è la frequente, umana pretesa, che emerge in ogni vita comunitaria circa i primi posti o almeno i secondi nella presidenza, quale privilegio acquisito con qualche atteggiamento buono e di pratico servizio.
Ma se leggiamo questo brano del vangelo di due che vogliono stare il più vicino possibile a Gesù, alla luce del vangelo, sempre di Marco, proposto dalla liturgia romana, io proporrei questa sintesi: “Non accontentiamoci di un angolino in Paradiso!”
Gesù purifica la domanda di Giacomo e Giovanni e il disagio degli altri apostoli. Tutti erano stati da Lui chiamati a regnare con Lui. Coglie l’occasione per purificare la loro intenzione di sedere accanto al Re dei re, indicando che la strada per stargli accanto era quella della Croce, come il buon ladrone, che riscattò la sua vita chiedendo di essere con Cristo in Paradiso. Il trono di Cristo è la Croce d’Amore. La sua Croce si innalza come la chiamata più alta ed irresistibile dell’Amore. Stare alla sua destra ed alla sua sinistra, significa condividere con Lui e con il prossimo l’Amore crocifisso, dono di sé commosso. Se non sia scossi dalla Croce non c’è più speranza.
Certo l’umana avventura di Cristo non finisce lì. Guardiamolo sulle ginocchia di Sua madre. L’eterno amore crocifisso ci chiama perché con Mario lo stacchiamo dalla Croce, dopo la morte e lo prendiamo sulle nostre ginocchia, pietosamente. “La nostra vocazione di cristiani è di staccare Gesù dalla Croce affinché sia il Dio Vivente, il Risuscitato” (Maurice Zundel), della cui comunione noi viviamo.

2) Dalla prossimità alla comunione.
E’ quasi banale dirlo, ma non basta la prossimità per avere la comunione, altrimenti basterebbe salire su un autobus o una metropolitana. Non basta neppure essere nella comunità familiare o religiosa che sia. Non basta neppure essere sulla Croce accanto a Cristo. Non dimentichiamo che, oltre al buon ladrone, accanto a Cristo ce n’era un altro che imprecava.
Occorre stare accanto a Cristo come la Madonna, San Giovanni e la Maddalena, che vivevano in comunione tra loro perché Cristo era il loro centro affettivo, anche e soprattutto nel momento della Passione, perché era una vera passione d’amore vero.
La prossimità di cui parla il vangelo “romano” di oggi è meno drammatica di quella che c’era sul Calvario, ma non meno autentica ed istruttiva.
Ai discepoli, che tornano dal loro lavoro apostolico, Gesù rivolge l’invito ad andargli vicino, per potersi riposare, in comunione di mente e di cuore, in un luogo solitario (in greco: eremo) lontano dal brusio del mondo per poter ascoltare la Parola di Dio e in essa trovare conforto.
Infatti le nostre ansie ed affanni non vengono tanto dai problemi spirituali o fisici della vita, ma dall’assenza di Cristo.
Gesù ci chiama a sé, come fece con i suoi apostoli, il nostro abbandonarci a Lui, come fecero gli apostoli, è scegliere definitivamente Lui come dimora.

3) La Comunione: un’unità umana investita dalla Presenza.
Un bellissimo inno della Liturgia della Ore ci fa cantare: “In questo raduno concorde un ospite nuovo s’aggiunga, conforti la debole fede mostrando le piaghe gloriose”.
I discepoli nel Cenacolo era umanamente concordi, erano una umana famiglia, ma quando Cristo risorto entra nel loro rifugio, la loro “famiglia” diventa santa, perché investita dalla presenza del Risorto. Quanto avevano sperimentato in un luogo solitario un po’ di tempo prima, per riposarsi, diventa stabile dimora di unità feconda. L’essere umano non è fatto per ripiegarsi in un cenacolo composto da tanti uomini soli, timorosi della propria notte. La Luce è in lui. E’ capace non di lasciarsi condurre, guidato solamente da punti di riferimento esteriori, come i fari, di notte, in mar, ma di camminare in Cristo e con Cristo, donandosi. In lui la Parola, il Verbo di Vita è presente; anche lui, quindi, è capace di donarsi, di amare.
La dimora-Cristo è un luogo dove riposarsi, perché a Lui ci si può abbandonare (Nelle tue mani affido, Signore, il mio spirito, preghiamo ogni sera a compieta) come un bambino nelle braccia di sua madre, ogni sera.
I discepoli seguendo Gesù nel luogo solitario (eremo) si abbandonarono a Lui, capirono che il modo più alto e vero di stare con Cristo era quello di appartenerGli, “con amorosa fiducia e totale abbandono, e gioia” (M. Teresa di Calcutta).

domenica 15 luglio 2012

XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 15 luglio 2012


Rito Romano
Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

Rito Ambrosiano – VII Domenica dopo Pentecoste
Gs 10,6-15; Sal 19; Rm 8,31b-39; Gv 16,33-17,3


1)Il discepolo è un santo.
Domenica scorsa, la XIV del Tempo Ordinario, abbiamo riflettuto sul profeta e sul fatto che un vero profeta è un santo. In questa domenica rifletteremo sul discepolo che è santo, perché è scelto da Cristo e da lui santificato, consacrato nella verità per consacrare gli altri nella verità.
Nel vangelo di oggi l’Evangelista S. Marco si preoccupa di fornirci i tratti essenziali della fisionomia del discepolo, che una persona scelta, separata, santa. In effetti la parola “santo” viene dal latino che vuol dire “separato”, separato dal mondo e dal male per entrare nelle sfera di Dio, “messo a parte” per un compito speciale.
La folla è curiosa e stupita di fronte alle opere di Gesù, lo ascolta, ma se ne torna a casa. Il discepolo è invece colui che ascolta, crede, si stacca dalla folla per stare accanto a Cristo, fedelmente.
La folla ascolta e poi torna a casa, il discepolo rimane con Cristo, fa vita comune e pellegrinante con Lui. Vive la scelta, la separazione non come allontanamento dagli altri, ma come prossimità, familiarità con Cristo, per vivere in comunione con Lui, che lo invia in missione.

2)Il discepolo è l’apostolo di un dono gratuito.
È su questo aspetto che il brano evangelico del Rito Romano di questa domenica (Mc 6,7-13) fa riflettere.
L'Evangelista annota che Gesù «li chiamò a sé e li mandò»: li invitò a sè per mandarli in missione, e questo comporta almeno la consapevolezza di essere inviato da Dio e non da una decisione propria: la missione è un dono accolto gratuitamente e gratuitamente condiviso.
Il discepolo è mandato per manifestare con la sua vita la gratuità di Dio. L’amore di Dio non si può comperare, non lo si può meritare. Lo si riceve nella fede come dono liberante, da condividere.
Il discepolo è chiamato a Cristo, da Cristo che lo manda ad annunciare il Regno di Dio, chenon consiste in cibo, né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17); che non è un discorso, ma è una comunione portatrice di liberazione: dal peccato, dalla solitudine, dalla mancanza di senso della vita.
Il discepolo missionario propone quello che ha sperimentato: una vita di comunione con la Verità della Vita e dell’Amore. Il missionario non propone innanzitutto un discorso ma offre il dono di una Presenza: “II Verbo si è fatto carne ed ha posto la sua dimora in mezzo a noi”. Una Presenza che rivela Dio come Amore e l’uomo come amato: solidali l’uno con l’altro, impegnati nella medesima avventura di condividere l’amore.
Il discepolo è il “chargé de mission”, che si presenta come voce della Parola, la quale non vuole dimostrarsi, ma mostrarsi. A noi non resta che contemplarlo, consentire che si incarni in noi e poi portarlo al mondo: lui Parola che dà la vita, Lui, il Verbo di Vita.
L’annuncio del discepolo è insegnamento del Verbo, non perché aggiunge parole alla Parola, ma perché la indica (in-segna) con la testimonianza. E’ maestro di questa Parola non tanto perché l’ha letta, ma perché l’ha incontrata e gli ha cambiato la vita, totalmente, e vive in comunione: il discepolo è nel cuore di Dio e Dio è nel cuore del discepolo.

3) Le condizioni della missione.
Se la prima condizione della missione è la vocazione di vivere con Cristo, la seconda è quella di camminare con Cristo verso il mondo poveramente: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Gesù insiste, nel Vangelo di oggi, sulla povertà come condizione indispensabile per la missione: né pane, né bisaccia, né soldi. È una povertà non tanto sociologica quanto e soprattutto una povertà del cuore, che consiste nel vivere il rapporto con le persone e le cose come l’ha vissuto Cristo. Come Dio che non è possesso, che è Dono, dono di Amore assoluto e misericordioso.
La povertà di spirito è fede, consapevolezza di essere amati, libertà e leggerezza. Anzitutto, libertà e leggerezza: un discepolo appesantito dai bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo per giudicare irrinunciabile la casa nella quale si è accomodato e dalla quale non vuole più uscire (troppe valigie da fare, troppe sicurezze a cui rinunciare!).
Ma la povertà è anche fede: è segno di chi non confida in se stesso, ma si affida a Dio, in tutto e per tutto. Si abbandona nelle mani di Dio, che è “povero” perché è spogliazione infinita (dal Cielo alla paglia di una stalla fino al legno della Croce), amore perfetto, dono totale di sé, che mendica ognuno di noi, per cui Lui soffre per la nostra mancanza ed è lieto per il nostro ritorno, come il Padre Misericordioso con il suo figlio prodigo. Dio non si stanca di essere buono e alla moltitudine dei nostri peccati oppone la moltitudine delle sue misericordie, per conquistarci con la forza della sua bontà.
Il discepolo in missione, ciascuno cristiano - laico, religioso o prete che sia – è chiamato a vivere la carità di Dio come realtà quotidiana e condividere l’esperienza di Misericordia che lo ricrea, la parola di Carità che lo alimenta, l’intelligenza dell’Amore, che rende ragionevole la sua vita.

4) La presenza di una Presenza.
Concludo queste riflessioni con il versetto del Vangelo “ambrosiano” di oggi: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3), per dire che Dio la conoscenza di Dio si impara da un incontro di un cuore che parla ad un altro cuore. Dio è amore e ci tocca con il suo cuore, come noi possiamo toccarlo col nostro cuore. Sant’Agostino scriveva: “Non si entra nella verità se non attraverso la carità”. E solo lasciandoci lavare i piedi da Cristo che entriamo nel mondo dello Spirito, è solo lavando i piedi al nostro prossimo in nome di Dio che i nostri fratelli entreranno in questo stesso mondo “spirituale.
Non si tratta di comunicare un discorso, ma una Presenza che non fa rumore, che conduce nel deserto per parlare al cuore umano (cfr il profeta Osea)
La testimonianza che dobbiamo dare per trasmettere la conoscenza di Dio è la testimonianza della nostra vita, dobbiamo essere la presenza di un Presenza. Non si tratta di convertire gli altri buttando loro addosso pacchetti di dimostrazioni. Si tratta di mostrare che cosa pensiamo di Dio, ma come viviamo di Lui, perché lui solo ha parole di vita eterna e, quindi, vera.

giovedì 5 luglio 2012

XIV Domenica – Anno B – 8 luglio 2012

Rito Romano
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

Rito Ambrosiano
Es 3,1-15; Sal 67; 1Cor 2,1-7; Mt 11,27-30
1) L’Amore è profeta della Verità.
            Ecco perché:
            “Un bambina di tre anni e mezzo, in un momento di grande, profonda confidenza con la mamma, le chiese: “Mamma, mamma, con che cosa ti voglio bene?”- “Tu mi vuoi bene con il cuore, bambina mia! – “Ma dov’è il mio cuore?”- “Ma è li.” – rispose la mamma, indicando il piccolo petto della figlia – “No, mamma non è con questo che ti voglio bene. Dov’è il cuore con il quale ti amo?”
            La bambina sentiva molto bene che c’era nel suo cuore, quel cuore con cui lei amava,  tutto un mistero. E quel cuore, con cui lei amava la mamma, non poteva essere semplicemente il cuore che batteva nel suo petto, o almeno non era solo quello: c’era un che di altro. E la mamma non riusciva a spiegarglielo perché era “troppo” grande e come molti adulti aveva perso lo stupore che percepisce il mistero, che l’intuizione infantile della sua bambina coglieva. La piccolina capiva, molto meglio di molti adulti, che c’era in lei un qualcosa di grande, un mistero che cerca di cogliere, ponendo una domanda davvero giusta e la cui risposta era per lei vitale.
            Per poter rispondere a domande di questo genere, in primo luogo occorre farsele, è necessario diventare evangelicamente come bambini per poterle avere e per poterle con semplicità fare.
            In secondo luogo, occorre essere profeti, cioè persone che, essendo in ascolto di Dio, in nome di Dio, che è Verità ed Amore, parlano ai loro fratelli e sorelle in umanità. Essere profeti della verità e dell’amore non è questione di erudizione e di sentimento. E’ questione di ascolto. E’ questione di avere occhi, che sappiano vedere l’essenziale, e un “cuore” esperto d’amore.
            Se non si fa esperienza di essere amati, non si può capire che l’amore nel cuore è qualcosa di immenso,  di infinito, che cambia la vita. Solo dentro una esperienza di carità si può vivere l’amore come avvenimento di un dono. Il grande sacerdote Romano Guardini scrisse: “Nell’esperienza di una grande e vero amore, tutto diventa avvenimento nel suo ambito”. L’Amore dice la Verità. L’Amore fa entrare nella verità: “Non intratur in Veritatem nisi per Caritatem” (San Agostino, Contra Faustum, lib. 32, 18, PL 42, col 507)

            2) Il profeta dall’umile vita.
            A questo punto sorge un’altra domanda: Come diventare profeti?
            Se il profeta che svela l’uomo a se stesso parlando in nome di Dio, questo profeta deve mettersi in ascolto della Parola di Dio, imitando l’umiltà di Cristo.
            Gesù va, umilmente, a Nazareth, la sua città, tra la gente che lo aveva visto crescere, giocare, studiare, lavorare. Là dove ancora viveva sua madre, dove c’erano la sua casa, gli amici d’infanzia e i compagni di gioventù, i parenti più prossimi.
            Vi torna non da solo, ma con i suoi discepoli. Quindi, anche se con semplicità, vi torna da maestro, preceduto dalla fama di essere diventato un uomo importante, un profeta, anzi molto più di un profeta. Lo avevano visto camminare per le vie del paese, ed ora di sabato lo vedono entrare in sinagoga e predicare. Parole nuove, che riscuotono interesse e muovono l’attenzione, che risvegliano i desideri e nutrono le attese. Parole che invitano a lasciare il vecchio sentire.
            Se i presenti si fossero fermati a sentire la risposta del loro spirito alle parole di Gesù, avrebbero seguito le spinte della fiducia interiore e si sarebbero incamminati per le vie della straordinarietà di quella presenza divina. Invece fanno subitaneamente subentrare al loro sentire profondo la sicurezza di un ragionare consueto: quest’uomo è uno di noi. Lo conosciamo bene, si dicono tra di loro. È il figlio di Maria, una delle nostre donne, una delle tante. Conosciamo lui e tutti quelli che con lui sono cresciuti. Non è possibile che lui sia qualcosa di diverso da quello che noi abbiamo concretamente avvicinato per anni. Chi faceva il falegname non può essere capace di fare miracoli così grandi e di una sapienza così profonda.
            La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi (che l’evangelista Marco intende oggi porre a ciascuno di noi): qual è l'origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest'uomo? La risposta sembra ovvia: quest'uomo viene da Dio. Ma questa risposta ovvia è impedita da una constatazione che va in senso contrario: «Non è costui il falegname?». Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce ragionevolmente di credere. Ciò che impedisce ai nazaretani di credere è proprio la persona di Gesù, la sua concreta fisionomia, le sue umili origini, il suo modo umile di apparire fra noi. Comprendiamo la difficoltà degli abitanti di Nazareth: la presenza di Dio non dovrebbe essere più luminosa, più importante? Come è possibile che un inviato, un profeta di Dio si presenti nelle vesti di un ex-falegname?
            Come si vede, il rifiuto può trovare la sua ragione persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio: così, appunto, gli abitanti di Nazareth. È invece il segno di una profonda incredulità, come l'evangelista annota: «E Gesù si meravigliava della loro incredulità». Per il Vangelo l'incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non è questo il caso dei nazaretani), ma l'incapacità di riconoscere Dio nell'umiltà dell'uomo Gesù, la chiamata di Dio nella voce di un uomo che sembra essere troppo uomo. Dio è certamente grande, ma spetta a lui scegliere i modi di manifestare la sua grandezza, di quale profeta servirsi per parlare all’uomo.
            Di fronte al rifiuto dei nazaretani Gesù cita un proverbio, ampiamente confermato dall'intera storia biblica: il popolo di Dio ha sempre rifiutato i suoi profeti. Il rifiuto che Gesù incontra fa parte dunque del destino dei profeti, e tuttavia non è un fatto scontato, e Gesù se ne meraviglia. Capita sempre che i profeti siano rifiutati dal loro popolo, ma bisogna continuare a meravigliarsi: la meraviglia di scoprire una così grande incredulità in chi si pensa credente: in noi.

3) Un popolo di profeti e santi dal cuore grande.
            Se vogliamo rispondere alla domanda iniziale della bambina che chiedeva con che cosa amiamo, dobbiamo dunque prima di tutto domandare la fede, gli occhi della fede per riconoscere Cristo, profeta, re e sacerdote e diventare noi un popolo profetico, regale e sacerdotale, in una parola: santo.
            Spesso si esprime il rimpianto per le “figure profetiche” che non ci sono più, l’ammirazione per i pochi “profeti” viventi ed il rimprovero ai pastori e ai laici impegnati di non essere abbastanza “profetici” sono sempre ricorrenti.
            Provocatoriamente, basterebbe ricordare, in proposito, un suggestivo spunto di Divo Barsotti: “Tutti oggi vogliono essere profeti, tutti sono più o meno discepoli di Gioacchino da Fiore. Ma che cosa può annunciare il profeta se tutto è avvenuto? Corsini nega persino all’Apocalisse il carattere profetico. In realtà è molto più comodo voler essere profeti piuttosto che santi, ci si scrolla così da un peso troppo grave e si ottiene più facilmente il consenso del mondo. Rispetto Mazzolari, Milani..., ma è possibile anche paragonarli soltanto a Don Orione, a P. Leopoldo, a Massimiliano Kolbe?” (D. Barsotti, "Nel Figlio al Padre. Diario dal febbraio 1983 al febbraio 1984", L'Epos, Palermo, 1990, p. 195).
            Meno provocatoriamente, nella consapevolezza della serietà della dottrina conciliare del triplice ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, cui noi cristiani partecipiamo, bisogna chiedersi: “Che tipo di profezia?”. La risposta è: quello della santità, quello della testimonianza di essere stupiti della verità e sorpresi dalla felice notizia che siamo amati.
            Mettiamo dunque il nostro cuore nel “Cuore” di Dio, come suggerisce il vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana: “In quel tempo. Il Signore Gesù disse: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, “e troverete ristoro per la vostra vita”. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». (Mt. 11, 27-30)

lunedì 2 luglio 2012

Domenica – 1° luglio 2012

Rito Romano
XIII domenica del Tempo Ordinario
Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Rito Ambrosiano
V Domenica dopo Pentecoste 
Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50



1) La domanda è più forte della morte.
            Nel vangelo “romano” di oggi ci viene spiegato che la domanda, la preghiera di domanda è più forte della morte. Di fatto la bambina Cristo la risuscita perché il papà Giairo, in ginocchio, glielo chiede con insistenza. La preghiera di supplica, che come permette il ritorno alla vita di questa bambina, così ottiene anche che la donna adulta sia guarita da una malattia che le impediva di dare la vita. Questa donna non era morta ma impossibilitata a dare la vita.
            Non è importante che la domanda sia espressa con delle parole o solamente con dei gesti, come è il caso della donna che soffriva di emorragie da 12 anni. L’importante è che i due “oranti” si siano messi in ginocchio davanti a Cristo ed abbiano manifestato la loro apertura di cuore. In effetti servire l’uomo, curare la creatura umana, redimerla è la missione di Cristo, e della Chiesa, perché è, innanzitutto, l’opera, il lavoro del Padre. Dio è un Padre così attento che si fa nostro servitore. Il suo amore onnipotente di Padre e creatore lo conduce a prendersi cura di noi, in tutti gli ambiti, ma anche il vangelo di oggi ci mostra che non lo fa … senza di noi, senza che glielo domandiamo.
            La fede operosa nella domanda salva, libera, vivifica e ci fa dire con convinzione: “Dio mio, tu mi hai creato perché io viva”, e doni la vita che tu mi ha di nuovo donato: “Ti esalterò Signore perché mi hai risollevato” (Ant. Salmo Resp,).
            Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo (Cf 2Tm 1,10), cioè la presenza di Cristo che si lascia avvicinare da chi ha un cuore che mendica, che domanda di vivere e di dare la vita.
            Con modalità differenti il centurione e la donna malata pregano. Sono la testimonianza del potere accordato alla preghiera personale. La preghiera è esaudita, sempre. Lo è perché in ogni atteggiamento di vita dell’orante, è percettibile la sua fede, come pure il suo attaccamento al vero Dio, il cui potere infinito è per lui o per lei una certezza. Nel vangelo di oggi, come nella nostra vita di mendicanti di Dio, abbiamo la prova che la preghiera del credente ha il potere di fare accadere nel mondo i miracoli di Dio, in una pienezza che supera ogni aspettativa, ogni umana speranza.

2) Da un mendicante all’Altro.
            E’ vero che la preghiera di noi poveri esseri fragili è potente (San Tommaso d’Aquino la chiamava “Omnipotentia supplex”, l’onnipotenza mendicante), ma non dobbiamo dimenticare che anche Dio si fa mendicante di ciascuno di noi e persino in Croce dice: “Ho sete” di te, di ciascuno di noi. Il Figlio di Dio, il Verbo eterno, che conduceva una vita meravigliosa nel Cielo della S. Trinità ha mendicato una casa creata. E come se non gli bastasse il Cielo e che avesse “bisogno” di uscire da se, di chiamare le sue creature dal nulla, appoggiarsi su di loro, “schiacciarle” con il suo amore e trovare in esse il suo riposo: noi siamo l’acqua che disseta il Cristo, noi siamo la sua dimora, restaurata e, quindi, splendente di amore e di pace.
            Una santa dimora composta da noi, pietre vive, a cui è chiesto di avere  «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5), di vivere la struttura di domanda che siamo, mendicando la Sua presenza, di praticare il nostro essere  dono, mediante la condivisione. Dio è primo riferimento del nostro essere dono. Dio è amore e dono, Dio mendica il nostro amore, con umiltà stupefacente e si manifesta come alleato della nostra libertà.  Gesù manifesta l’amore umile di Dio, che è libero e liberatore e che guarisce il nostro amore.
            Madre Teresa di Calcutta parlava della libertà della povertà, che non è non possedere persone o cose ma rapportarsi ad esse come fa Dio, che è libertà e dono e colma il nostro desiderio di infinito. Questa santa donna era libera, liberata dall’Amore, del quale si è fatta missionaria. Aveva capito bene che Dio mendicava l’amore suo e degli uomini ed ha speso la sua vita per dissetare l’amore di Cristo, che sulla Croce mendica: “Ho sete”.
            Durante gli anni del catechismo, ai bambini spesso si insegnano delle formule astratte o li si intrattiene con “dialoghi” sull’amore, la pace, la natura, Ai grandi si danno insegnamenti teologici astratti, E’ una religione morta. Dio è il Signore del fiore vivo non dei morti pensieri. Come una moneta la cui effigie è consumata a forza di farla circolare, le parole hanno perso il loro valore. Si conosce l’insegnamento religioso su Dio senza coglierne la bellezza indicibile, senza che diventi incontro e riflessione sull’esperienza di tale incontro liberante.
            La vera religione è un grido del cuore, sgorga da un’anima in raccoglimento stupito, che ha saputo ascoltare il Dio vivente che parla al profondo del cuore. San Paolo scriveva ai Corinti: “Vi ho fidanzati a Cristo come una vergine pura” (2 Cor 11,2).
            Se il matrimonio è presentato ai futuri sposi sotto la mera forma del codice canonico e civile, nessuno vorrà abbracciare questo stato di vita. Ebbene, la Religione cristiana, che non è altro che un matrimonio d’Amore, è l’incontro di Dio e dell’anima. La creatura umana entusiasmata d’amore per il suo Creatore, pronuncia il Sì alla preghiera medicante di Dio Onnipotente e questo Sì le apre  le porte della vita, ora e per l’eternità.

3) Occhi del cuore per vedere la realtà.
Il vangelo “ambrosiano” ci aiuta a capire che la fede e l’amore, che Dio mendica da noi, non nascono sì dall’ascolto ma crescono grazia all’incontro con una Realtà vista, vista con gli occhi del cuore.
            Chi guarisce non è un fantasma soggettivo, ma il Dio vivente in persona riconosciuto presente e capace di usare con amore la sua potenza.
            Il cristiano non vive più fondandosi su se stesso, vive interamente della Parola di Dio pronunciata su di lui,
            Nessuno è propriamente un credente cristiano, finché non trova in Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto, la ragione e il contenuto del suo credere; finché non accetta di misurare la propria mentalità su quella di Gesù, chiamato il Cristo; finché non ha imparato da Lui a conoscere chi è Dio e chi è l’uomo; finché non ha trovato “logico” costruire la propria vita come “memoria” della sua.
            Nella nostra preghiera, fissiamo il nostro sguardo sul Crocifisso, sostiamo in adorazione più spesso davanti all’Eucaristia, per far entrare la nostra vita nell’amore di Dio, che si è abbassato con umiltà per elevarci fino a Lui. Come san Francesco davanti al crocifisso, diciamo anche noi: “Altissimo, glorioso Dio, illumina le tenebre del mio cuore. Dammi una fede retta, speranza certa e carità perfetta, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà. Amen” (cfr Preghiera davanti al Crocifisso: FF [276]).