venerdì 25 settembre 2015

Regole di vita

Domenica XXVI del Tempo Ordinario – Anno B – 27 settembre 2015
Rito Romano
Nm 11,25-29; Sal 18; Giac 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

Rito Ambrosiano
Dt 6,1-9; Sal 118; Rm 13,8-14a; Lc 10,25-37
V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.


1) In cammino con la Vita che dà la vita e regole di vita.
Il brano del Vangelo di Marco che è proposto in questa 26ª Domenica del tempo ordinario, ci narra due episodi.
Nel primo, Giovanni fa notare a Cristo che c’è qualcuno che scaccia i demoni in Suo nome senza essere del gruppo dei Suoi discepoli. Gesù giustamente fa osservare che ogni opera di bene, da qualsiasi parte venga, è sempre ben accetta, perché la sorgente della bontà e dell’amore è Dio stesso. Chi opera il bene è comunque e sempre dalla parte di Cristo e di Dio. La risposta di Gesù a Giovanni riguardo all'esorcista estraneo al gruppo dei discepoli si ispira a grande tolleranza ed è identico all'atteggiamento assunto da Mosè nei confronti di Eldad e Medad durante l’esodo (Nm 11,24-30 – Prima lettura della messa di oggi).
Nel secondo episodio Gesù esorta i discepoli a non scandalizzare i “piccoli” cioè i fratelli immaturi nella fede allontanandoli dal Vangelo con una condotta scorretta e un comportamento non conforme al Vangelo. Per fare questa ammonizione, il Messia usa espressioni dure: “Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc 9, 45.47-48). Con queste parole Gesù invita i discepoli a un atteggiamento ispirato all’umiltà, alla comprensione e al sacrificio per evitare lo scandalo, che oscura la luce del Vangelo.
Potremmo formulare l’invito di Cristo con le parole che, nell’“L’annuncio a Maria” di Paul Claudel, la protagonista ormai cieca, Violaine, fa a quanti godono del dono della vista: “Ma voi che ci vedete, cosa ne avete fatto della luce?”
Se sapremo convertire anche e prima di tutto il nostro cuore, allora chi vive accanto a noi, anche se non è credente, capirà che Gesù non è un'incomprensibile e inaccettabile formula teologica nella nostra mente, ma la vita di Dio nel nostro cuore e luce ai nostri passi. E anche se non cambierà la sua religione, cambierà il suo cuore, diventando più aperto, tollerante, libero.
Gesù chiede ai discepoli, e quindi a noi, di avere il suo pensiero che non respinge nessuno e lo stesso suo sguardo che riconosce anche i più piccoli segni della fede, come il dono di un semplice bicchiere d’acqua che, se dato a un “piccolo”, “condizionerà” il giudizio finale quando il Figlio dell'uomo giudicherà tutti i popoli della terra.
L’apertura totale, senza alcuna transenna di spazio e di tempo, è mostrata proprio da Gesù con la sua incarnazione e morte in croce, accomunato a tutta l’umanità. In ogni uomo e donna della terra è possibile una relazione misteriosa e profonda con Gesù Cristo. Anche la comunità cristiana è chiamata ad allargare i propri confini fino a considerare tutti in qualche modo come suoi figli, anche quelli che non hanno una conoscenza-esperienza piena di Gesù.
Se la "piccolezza" è la fisionomia profonda della vita del credente, anche una mano, un piede e un occhio, possono farle del male e ostacolare - nel senso di fare scandalo, inciampo - la presenza del Signore in noi. Piccolo è un bicchiere d’acqua e i piccoli sanno apprezzarlo, non mancando di ringraziare, soprattutto quando è ricevuto in nome di Gesù.

2) Il nome di Gesù.
Questo nome: “Gesù” ricorre ben tre volte in soli quattro versetti del vangelo di oggi. Il fatto è che chi opera nel suo nome può fare cose grandi, a iniziare dagli apostoli che sono di Gesù Cristo. Ma chi è di Cristo? I discepoli che lo seguono, ma non in senso esclusivo. Quando i cristiani hanno creduto di avere il monopolio di Gesù, hanno corso il rischio di essere intolleranti. Il bene, sotto ogni forma, è diritto e dovere di ogni uomo. Gesù e lo Spirito sono presenti ovunque si fa il bene. Nella pagina precedente, i discepoli si dividevano tra loro in nome del proprio io. Qui si dividono dagli altri nel nome del proprio noi. Solo il “Nome” di Gesù è radice di unità tra tutti. Lo scandalo è tutto ciò che impedisce a qualcuno di seguire Dio per giungere alla salvezza. Piuttosto che far perdere la fede anche a uno solo, sarebbe meglio morire.
Il che non significa certo mettere in secondo piano o addirittura vanificare l’impegno dell’annuncio e della chiamata a convertirsi al Vangelo, come qualcuno potrebbe pensare. Non va dimenticato che la testimonianza e l’annuncio sono parte integrante dell’autentica fede cristiana, che non può tacere l’immensa gioia di aver incontrato il Signore; e, se io non nascondo il fatto di essere cristiano convinto e praticante, ogni gesto di amicizia, di aiuto, di scambio che compio è annuncio, così come ogni parola e gesto di Gesù lo era, prima ancora che Egli dichiarasse: “Io sono il Figlio di Dio”. Dal Nuovo Testamento emerge chiaramente il “dovere” dell’annuncio: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15); “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16); “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi ... con dolcezza e rispetto e con una retta coscienza” (1 Pt 3,15-16).
Il primo appello di Gesù è alla “conversione del cuore” e chiede ai Suoi discepoli di non mettere l’altro in schemi preconcetti, ma di accoglierlo e di ascoltarlo. Ascoltare la sinfonia del gemito di un bambino, di un povero, di un malato per portare loro la tenerezza di Dio. Ascoltare le parole del mondo e ridargli la Parola, perché tutto ciò che riguarda l’umana avventura riguarda ciascuno di noi: “Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo” (Terenzio).
La risposta di Gesù, l’uomo senza barriere, è di quelle che possono segnare una svolta della storia: gli uomini sono tutti dei nostri, come noi siamo di tutti. Prima di tutto l’uomo. “Quando un uomo muore, non domandarti per chi suona la campana: essa suona sempre un poco anche per te” (John Donne). Tutti sono dei nostri. Tutti siamo ‘uno’ in Cristo Gesù.
Ma l’annuncio di Gesù è ancora più coraggioso: ci porta a non sentirci estranei. Ci chiede di amare il prossimo e a vivere la vita come condivisione: ci porta a vivere molte vite, storie d’altri come fossero le nostre. Ci dà cento fratelli e sorelle, cento cuori su cui riposare, cento labbra da dissetare, cento bocche che non sanno a Chi gridare, di cui siamo la voce.
E’ vero, come ho detto poco sopra, che il Vangelo di oggi termina con parole dure: “Se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali, buttali via”. Vangelo delle ferite, scandalose e luminose come le stigmate di Gesù. In effetti, le parole di Cristo non sono l’invito a un’inutile auto­mutilazione, sono invece un linguaggio figurato, incisivo, per trasmettere la serietà con cui si deve pensare alle cose essenziali. Anche perdere ciò che ci è prezioso, come la mano e l’occhio, non è paragonabile al danno che deriva dall’aver sbagliato la vita. Il Signore ci invita a temere di più una vita fallita che non le ferite dolorose della vita.
Un modo speciale di accogliere Cristo e le ferite del suo amore per noi è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Essere vergine significa mantenere il carattere sponsale del proprio corpo intatto per il Signore. Una vergine non si spreca, non cerca vita negli altri esseri umani, nella carne e sangue, la cerca in Dio. Serve molta maturità ed anche molta fede per tagliare le affettività malate verso le persone, per aspettare con fedeltà e perseveranza il Signore che viene. Occorre avere un’esperienza concreta dello stare con il Signore, non basta una conoscenza teoretica. Se uno ha la fede debole, smette di pregare, vive la solitudine per se stesso, non vuole assumere le responsabilità della vita adulta, rischia seriamente. Può conservare la verginità fisica, però perdendo il senso diventerà un egoista o narcisista, cinico o amareggiato, acido o vampiro affettivo. Sant’Agostino dice che una verginità senza l’umiltà non serve.
Essere vergine nell’anima, nello spirito vuol dire essere liberi dagli idoli, non idolatrare se stessi o gli altri, ma essere solo per Dio.
La verginità consacrata non è un mezzo di preservazione di se stessi, un seppellire il proprio talento sotterra per restituirlo un giorno, integro ma senza interessi; è anzi un mezzo di donazione di se stesso, che accetta certe rinunce solo per poter dare tutto a Dio e di più al prossimo.



Lettura Patristica
Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 9, 38-43

       "
Giovanni gli rivolse la parola: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in nome tuo, ma non gliel’abbiamo permesso perché non è dei nostri»" (Mc 9,38).

       Giovanni, che amava con straordinario fervore il Signore e perciò era degno di essere riamato, riteneva dovesse essere privato del beneficio chi non ricopriva un ufficio. Ma viene ammaestrato che nessuno dev’essere allontanato dal bene che in parte possiede, ma che piuttosto dev’essere invitato a ciò che non ancora possiede. Continua infatti:
       "Ma Gesù gli disse: «Non gliel’impedite. Non c’è nessuno infatti che operi miracoli nel mio nome e possa subito dopo parlar male di me. Chi infatti non è contro di voi, è con voi»" (Mc 9,39-40).

       Lo stesso concetto ripete il dotto Apostolo: "
Purché Cristo sia in ogni modo annunziato, per dispetto o con lealtà, io di questo godo e godrò!" (Ph 1,18). Ma anche se egli s’allieta per coloro che annunziano Cristo in modo non sincero e, poiché fanno di conseguenza talvolta miracoli per la salvezza degli altri, consiglia che non ne vengano impediti, tuttavia costoro per tali miracoli non possono sentirsi giustificati; anzi, in quel giorno in cui diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in nome tuo, e non abbiamo scacciato i demoni nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo compiuto molti miracoli?", essi riceveranno questa risposta: "Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi che operate l’iniquità" (Mt 7,22-23). Perciò, per quanto riguarda gli eretici e i cattivi cattolici, dobbiamo solennemente respingere non quelle credenze e quei sacramenti che essi hanno in comune con noi e non contro di noi, ma la scissione che si oppone alla pace e alla verità, per la quale essi sono contrari a noi e non seguono in unità con noi il Signore.

      
«Infatti, chiunque vi darà da bere un bicchier d’acqua in mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41).

       Leggiamo nel profeta David (
Ps 140,4) che molti, a titolo di scusa dei loro peccati, pretendono che siano giusti gli stimoli che li spingono a peccare, così che, mentre volontariamente peccano, s’illudano di farlo per necessità. Il Signore, che scruta il cuore e i reni, sarà capace di vedere i pensieri di ciascuno. Aveva detto: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli in mio nome, riceve me" (Mt 18,5). Qualcuno avrebbe potuto obiettare polemizzando: «Me lo vieta la povertà, la mia miseria mi impedisce di riceverlo», ma il Signore annulla anche questa scusa col suo lievissimo comandamento per indurci almeno a porgere con tutto il cuore un bicchier d’acqua, magari fredda, come dice Matteo (Mt 10,42). Dice un bicchiere d’acqua fredda, non calda, affinché non si cerchi in questo caso una scusa adducendo la miseria e la mancanza di legna per scaldarla.

venerdì 18 settembre 2015

Passione di servire.

Domenica XXV del Tempo Ordinario – Anno B – 20 settembre 2015
Rito Romano
Sap 2,12.17-20; Sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

Rito Ambrosiano
1Re 19,4-8; Sal 33; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51
V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.


1) In cammino verso Gerusalemme.
Gesù sta andando a Gerusalemme per vivere la sua Pasqua di morte e resurrezione. Sa che a Gerusalemme incontrerà la morte e lungo il cammino verso la Città santa prepara i suoi discepoli a questo fatto drammatico e sconvolgente. Per la seconda volta (la prima l’abbiamo ascoltata domenica scorsa) dice loro che sarà consegnato nelle mani degli uomini che vogliono ucciderlo, ma Lui vincerà la morte risorgendo tre giorni dopo.
I discepoli non capiscono le parole del Messia, tanto è vero che arrivati a Cafarnao devono confessare al loro Maestro che, durante la strada, avevano discusso su chi fosse il più grande tra di loro. In un modo ancora oggi sorprendente, il Redentore dice loro che il più grande è colui che serve e che la misura del Regno di Dio è l’accoglienza dei piccoli: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37 - Il Vangelo di San Marco continua poi con altri insegnamenti che vedremo domenica prossima). Insegnamento ben sintetizzato dalla preghiera (la colletta) della Messa di oggi: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall'alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”.
Dunque il brano evangelico di oggi non sono due parti giustapposte: una che riguarda l’annuncio della passione di Cristo e l’altra che riguarda la formazione dei discepoli. Si tratta di un unico e coerente discorso a cui possiamo dare il titolo: “La Croce di Gesù e le sue conseguenze per il discepolo”. Farsi servo e accogliere i piccoli nel suo nome sono due comportamenti che con dolcezza e decisione Gesù insegna ai suoi e che sono da “praticare” congiuntamente. Il praticare questi due comportamenti è imitare Cristo, seguendoLo fino ad andare in Croce come Lui ed essere come Lui servo di tutti: “Se uno vuole essere il primo, si consideri l’ultimo di tutti e si faccia il servo di tutti” (Mc 9, 35).
Dal giorno in cui il Figlio di Dio si è incarnato ed è entrato nella nostra storia, percorrendo un lungo cammino –che dalla culla di Betlemme fu un percorso di offerta (= una via della Croce) che culminò alla “culla” della Croce sul monte Calvario a Gerusalemme- i criteri di giudizio sul valore della persona umana e della dignità sono radicalmente capovolti: la dignità di una persona non sta nel posto che occupa, nel lavoro che fa, nelle cose che ha, nella fama che raggiunge. La grandezza dell’uomo non consiste in quello che fa di importante, ma nel servizio a Dio e all’uomo, perché la gloria e la bontà e l’amore del Signore siano manifeste.
Modalità privilegiata di questo servizio è l’accoglienza. Nel suo Vangelo San Marco utilizza il verbo “accogliere” in diverse occasioni e con diverse sfumature, tutte però in qualche modo convergenti. Questo Evangelista ci parla dell’accoglienza fatta al missionario (6,11), alla Parola (4,20), al Regno (10,15), ai piccoli. Accogliere significa ascoltare, rendersi disponibili, ospitare l’Infinito che si è fatto Bambino e i bambini i cui occhi, quando sono nella culla, riflettono il cielo. Accogliere dunque vuole dire soprattutto di lasciarsi “stupire” dalla Parola, o dal missionario, o dal piccolo che si accoglie, e la capacità di porsi al suo servizio.


2) Carità della Passione
Oggi, Gesù insegna ponendo dinanzi ai discepoli il segno di un bambino. Lo abbraccia perché è segno suo; lui è il segno del Padre che Lo ha mandato e il bambino è segno della tenerezza di Dio e dell'obbedienza filiale del suo Unigenito, che per amore si è fatto Bambino e che per obbedienza si è fatto crocifiggere tra i malfattori. È un bambino piccolo, ma è segno di Lui che viene da Dio; e le parole che pronuncia (“Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” Mc 9, 37) sono cariche di grande rivelazione. Il bambino posto in mezzo e abbracciato è allo stesso tempo immagine del Cristo, immagine del cristiano e immagine di Dio. Accogliere il bambino nel nome del Cristo è ricevere il mistero stesso di Dio.
Il Vangelo di oggi è un insegnamento forte sull'umanità del Figlio di Dio: Gesù dice di essere il Figlio dell’uomo. Per questo la sua morte e la sua resurrezione, sono cose concrete, vere. E poi c'è quel colloquio in casa quando il Signore si ritrova con i suoi discepoli, la sua “nuova” santa famiglia, o, meglio, in cammino verso la santità. Non li rimprovera, ma spiega loro il modo nuovo di essere primi: accogliere un piccolo è accogliere Lui e il Padre.
I discepoli fanno fatica a capire che seguire Gesù significa rinunciare a se stessi e prendere la propria croce, ma hanno paura. Noi pure abbiamo paura di capire. Il nostro non capire è un non voler capire. Quel bambino abbracciato e messo in mezzo è il segno del mistero di Dio che si consegna nelle mani dell'uomo. È l’accoglienza dei “piccoli” la verifica dell’autenticità del nostro servizio e della nostra ospitalità all’Infinito che si è fatto Piccolo per noi.
Nella passione troviamo la carità.. Nessuno ha un amore più grande di colui che da grande che era si fece piccolo e dà la vita per i suoi amici, andando in croce. La croce del Signore, in cui ci gloriamo insieme all'Apostolo: Di null'altro mi glorierò dice se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (Gal 6,14), non solo quella composta da due pezzi di legno, ma è l’uomo stesso come scrive San Berardo di Chiaravalle “Forse proprio noi siamo la croce a cui Cristo si ricorda di essere stato confitto. L’uomo, infatti, ha la forma di una croce. e se distende le mani lo esprime molto chiaramente”.
E’ sulla Croce che Gesù nasce al Cielo e Maria Vergine che l’aveva messo alla luce senza dolore, lei la Madre di Dio, lo “mise alla Luce” accettando di soffrire ben più che i dolori del parto e accettando noi suoi figli nel Figlio. Questa “Mater dolorosa” che stette salda sotto la Croce è la Vergine delle vergini, che la seguono imitandola pure nella maternità. Queste donne imitando Maria sono madri nello spirito perché il dono completo di loro stesse a Cristo.
In modo eminente e unico Maria diede il suo corpo e il suo sangue – cioè, tutta la sua vita – perché fossero il corpo e il sangue del Figlio di Dio. La Madonna fu madre nel più pieno e profondo senso della parola: diede la sua vita all’Altro, e ‘informò’ la sua vita in lui. Accettò l’unica vera essenzialità di ogni creatura e di tutto il creato: di porre, cioè, il senso e, quindi, la pienezza della sua vita in Dio. La verginità di Maria fu pienezza e totalità dell’amore, non fu una ‘negazione’ dell’amore.
È la totalità del dono di Maria a Dio e, quindi, la vera espressione, la vera qualità del suo amore. La Madre di Dio e nostra mostra ancora oggi che la maternità è il compimento della femminilità perché è il compimento dell’amore come obbedienza e risposta. È offrendosi che l’amore dà vita, diviene fonte di vita.
Il gioioso mistero della maternità di Maria non è dunque opposto al mistero della sua verginità. È lo stesso mistero. Ella non è madre ‘a dispetto’ della sua verginità; anzi, questa rivela la pienezza della maternità perché la sua verginità è la pienezza dell’amore. Le Vergini consacrate testimoniano che ancora oggi questa maternità è possibile, con semplicità, fede e donazione.
Infatti, è la pienezza dell’amore che accetta la venuta di Dio a noi, dando vita a Lui che è la vita del mondo. Stimiamo, gioiamo e riconosciamo che le consacrate testimoniano il fine e la pienezza di ogni vita, di ogni amore, è “accettare il Cristo”, dargli vita in noi.


Lettura Patristica
San Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 3, 9, 28-37


       "Partiti di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»" (Mc 9,30-31).

       «Il Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte da anime pronte. Così li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso, ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).

       "Essi però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo" (Mc 9,32).

       Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore; questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.

       "E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per strada discutevano tra loro chi fosse il più grande"(Mc 9,33-34).

       Sembra che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro. Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che Pietro fosse superiore a tutti.

       "E sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere il primo, sarà l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia, disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio nome, riceve me...»"(Mc 9,35-37).

       «Il Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà, e fa loro intendere che non si deve ricercare di essere i primi, così dapprima li esorta col semplice comandamento dell’umiltà, e li ammaestra subito dopo con l’esempio dell’innocenza del fanciullo. Dicendo infatti: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me", o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti da coloro che vogliono essere più grandi per rendere così un atto d’onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia, ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo). Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi avranno messo in pratica il suo comandamento: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29), solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: "La sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi abbraccerà" (Ct 2,6). E dopo aver detto: «Chiunque di voi riceverà uno di questi fanciulli», giustamente aggiunge: «nel mio nome», in modo che anch’essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di Cristo e con l’aiuto della ragione, quello splendore della virtù che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi solo all’apparenza, aggiunge:

       ...«E chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato»,

       volendo così convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre.


venerdì 11 settembre 2015

Riconoscere Cristo esige fede e semplicità.

Domenica XXIV del Tempo Ordinario – Anno B – 13 settembre 2015
Rito Romano
Is 50,5-9a; Sal 114; Giac 2,14-18; Mc 8,27-35

Rito Ambrosiano
Is 32,15-20; Sal 50; Rm 5,5b-11; Gv 3,1-13
III Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.


    1) Riconoscere Cristo.
Tutto il Vangelo di San Marco intende rispondere alla domanda: “Chi è Gesù?”. Ma nel brano che leggiamo oggi è Gesù stesso che fa esplicitamente questa domanda: “Voi chi dite che io sia?” e quindi anche noi siamo obbligati a rispondere..
Nei capitoli precedenti che ci sono stati proposti nelle domeniche scorse, Gesù non rispondeva a questa domanda con una definizione di se stesso, ma con delle azioni che manifestano quello che Lui è attraverso quello che Lui fa:
  • fa camminare il paralitico, cioè è Colui che dà all’uomo la capacità di camminare nella vita;
  • fa udire il sordo e fa parlare il muto, cioè è Colui che ha parole di vita, che spiegano la vita;
  • fa risuscitare il morto, cioè è il Datore della vita;
  • fa vedere il cieco, cioè è la Luce che dà la luce, che fa venire alla luce;
  • fa calmare le acque del mare, cioè Lui è il Signore della natura;
  • fa (dà) il pane nel deserto, cioè è Colui che nutre corpo e anima.
La conclusione a cui si dovrebbe arrivare assistendo a questo “fare”, dovrebbe essere quella di affermare: “Costui è il Messia (in greco: il Cristo)”. Purtroppo la gente di allora, ma molti anche oggi, non coglie la novità e la grandezza di Gesù, perciò alla domanda “Chi dicono che io sia”, la riposta della maggioranza è che questo “facitore” non è altro che uno dei profeti come quelli che lo avevano preceduto. Allora Gesù fa questa domanda ai suoi apostoli: “E voi, chi dite che io sia?”. Pietro, anche a nome degli altri, risponde con prontezza: “Tu sei il Cristo!”. Pietro riconosce con chiarezza che Gesù è il Messia. E dà una risposta precisa. Non c’è altra risposta. Cristo morto e risorto è Colui nel quale si è compiuto l’impossibile, l’inimmaginabile, l’unico fatto capace di cambiare il corso della storia dell’uomo. Senza di Lui l’uomo è “un essere per la morte” (Martin Heiddeger), mentre se è “legato” alla Croce, è “sciolto” dalla morte.
Va poi tenuto presente che la risposta di San Pietro implica un ulteriore riconoscimento: quello dell’amore crocifisso. È la via della Croce che completa il discorso, chiarificandolo. Quando il Capo degli Apostoli Gli dice: “Tu sei il Cristo”, Gesù sente il bisogno di precisare che Lui è il Figlio di Dio, che deve molto soffrire. Dunque alla domanda che oggi Gesù fa a noi: “Voi chi dite che io sia?”, la risposta completa è “Sei il Cristo, l’Amore crocifisso e risorto”. Infatti, San Paolo scrive: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”, ma sapeva che la croce non è un ostacolo alla salvezza. Ne è la condizione. “La Croce non è un palo dei romani, ma il legno su cui Dio ha scritto il Vangelo” (Alda Merini, 1931 – 2009, poetessa milanese). Con Cristo in Croce il mondo riceve una dimensione nuova, quella di Gesù e di tutti quelli che danno la vita per gli altri, seguendoLo.
Il Messia invita a seguirlo sempre fino al Calvario, perché camminando dietro la Sua Croce modelliamo la nostra vita su quella dell’ “Agnello che c’insegna la fortezza, dell’Umiliato che dà lezione di dignità, del Condannato che esalta la giustizia, del Morente che conferma la vita, del Crocifisso che prepara la gloria.” (Don Primo Mazzolari, 1809 – 1959, Prete e scrittore cremonese)
Seguendo Cristo e credendo alla Carità teniamo le braccia spalancate e il cuore aperto come il Crocifisso. Certo per fare questo, come San Pietro dobbiamo riconoscere Gesù come il Messia, il Salvatore. Come San Pietro dobbiamo accettare la Croce come “chiave” con la quale il Signore ha aperto il Cielo e chiuso l’inferno per tutti quelli che lo accolgono. Questa pesante “Chiave” il Redentore l’ha portata sulle sue spalle, ne ha sentito tutto il peso e la responsabilità mentre i chiodi ne trapassavano le carni e lo univano ad essa. Questa “chiave” del Regno Cristo l’ha consegnata a San Pietro, chiamandolo ad essere crocifisso con Lui, a portare con Lui il giogo leggero e soave sulle spalle, per imparare l'umiltà e la mitezza con le quali “sciogliere” gli uomini dalla schiavitù del mondo, della carne e del demonio, e “legarli” così a Cristo in un’alleanza eterna che li faccia per sempre figli del Padre celeste. In un’omelia poetica attribuita a Sant’Efrem il Siro, questo Santo immagina che il buon ladrone dopo la sua morte arriva alla porta del paradiso. Sulle sue spalle porta la sua croce. Accorre il cherubino con la spada guizzante come una fiamma (Gen 3,24) per bloccare l’accesso al paradiso ai delinquenti, che non sono degni della gioia eterna. Non ci sono eccezioni. Sant’Efrem descrive una discussione accesa tra il cherubino e il buon ladrone. Si conclude quando il buon ladrone mostra la chiave della porta del Paradiso. E qual è la chiave del paradiso? La croce, la sua croce trasfigurata dalla Croce vivificante del nostro Signore Gesù Cristo. La Croce apre la porta della vita a noi tutti che crediamo in Cristo Gesù, come il buon ladrone: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. La vita di Cristo trionfa in tutti i peccatori pentiti, anche quelli dell’ultimo momento, come il buon ladrone.
 
       2) Amore vero, perché crocefisso.
     Certo, come San Pietro anche noi tentiamo di allontanare Cristo dalla Via della Croce. La tentazione, che viene dal diavolo, è il tentativo di distogliere dalla via tracciata da Dio (la via della Croce) per sostituirla con una via elaborata dalla saggezza degli uomini, da ciò che spesso viene indicato come buon senso.
Cristo ha smascherato e vinto questa tentazione e la sua vita è stata un continuo sì a Dio e un no al tentatore. Gesù ha vinto diavolo. Però il diavolo cerca di ottenere dal discepolo ciò che non è riuscito ad ottenere dal Maestro: separare il Messia dal Crocifisso, la fede in Gesù Re dal suo trono che è la Croce.
Dopo aver precisato la sua identità e dopo aver smascherato la presenza della tentazione, Gesù si rivolge ai discepoli e all’altra gente e con molta chiarezza propone loro il suo stesso cammino. Non ci sono due vie, una per Gesù e una per i discepoli, ma una sola: “Chi vuole venire dietro me rinneghi se stesso e prenda la sua croce”.
La croce è simbolo e icona dell’amore verginale. E’ la sintesi più vera dell’amore ricevuto e donato, dell’amore crocifisso. In effetti niente come la croce dà la certezza di essere amati, da sempre, per sempre, totalmente e senza riserve. Il vero volto di Dio è quello del Crocifisso (Jurgen Moltaman). Se dunque presentiamo al mondo Cristo con il suo vero volto, la gente può sentirlo come una risposta convincente ed è capace di seguire Lui e il suo messaggio, anche se è esigente e segnato dalla croce.
E’ vero che la croce è “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,18-24) e che è difficile per ciascuno di noi capirla e accettarla. Ma se guardiamo, per esempio, all’esempio delle vergini consacrate nel mondo siamo aiutati a capirla, accettarla e vivere la croce.
L’amore vissuto virginalmente è un amore crocifisso non perché è un amore mortificato, ma perché è un amore “sacrificato”, cioè reso sacro dal totale dono di se stessi a Dio. L’amore vergine è quello di Cristo, che “praticò” un amore crocifisso. Gesù per amare è andato in un’esperienza progressiva di svuotamento di sé fino alla croce. Se vogliamo amare da cristiani dobbiamo saperlo e fare come lui. Questo modo di amare mette l’altro prima di me e l’Altro (Dio) più di me. La croce è il segno più grande dell’amore più grande, e la virginità è la crocefissione di sé per donarsi a Dio, per inchiodarsi al suo amore abbracciando Cristo in Croce.
Le Vergini consacrate sono esempio significativo ed alto del fatto che l’amore di Dio è totalitario, infatti bisogna amare il Signore “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (cfr Mc 12,30). Queste donne mostrano che il corpo e il cuore castamente offerto non allontana da Dio, avvicina l’essere umano a Dio più degli stessi angeli (cfr Ef 1,14) e che la vita cristiana è un progressivo configurarci a Cristo crocifisso e risorto. In effetti, come l’amore di Cristo per noi Lo ha condotto alla croce, l’amore nostro per Lui imprime in noi le sue ferite d’amore (Ct 2,5). L’amore purifica e configura, trasfigurando. Ma va tenuto presente che la conformità dolorosa con il Cristo crocifisso ha come scopo ultimo quello di portare il cristiano alla conformità gioiosa con Lui risorto. La verginità non è semplicemente una rinuncia, ma è la manifestazione dell’amore cocente per Dio e per il prossimo. Amore che trasforma l’amante nell’Amato. La verginità vissuta come crocifissione è per testimoniare che l’Amore ha vinto attraverso il dono di sé. La verginità vissuta come risurrezione è per testimoniare che lo Sposo è davvero presente nella vita di ogni giorno e la sua condiscendente presenza dà gioia, gioia piena e compiuta (cfr Gv 3,29). La verginità è libertà, è segno di amore perfetto, che non ha impazienza, né invidia, né gelosia, e assicura la pace irraggiando la gioia.

Lettura Patristica
Filosseno di Mabbug,
Hom., 4, 75 s.

La sequela di Cristo esige fede e semplicità

       È così che Abramo fu chiamato e uscì alla sequela di Dio: egli non si fece giudice della parola rivoltagli e non si sentì impedito dall’attaccamento alla razza e ai parenti, al paese e agli amici, né da altri vincoli umani; ma appena intese la parola e seppe che era di Dio, l’ascoltò semplicemente e, in spirito di fedeltà, la ritenne veritiera; disprezzò tutto e uscì con la semplicità della natura che non agisce con astuzia e per il male...

       Dio non gli rivelò qual fosse questo paese per far trionfare la sua fede e mettere in risalto la sua semplicità; e quantunque sembri che lo conducesse al paese di Canaan, gli prometteva di mostrargli un altro paese, quello della vita che è nei cieli, secondo la testimonianza di Paolo: "Egli aspettava la città dalle solide fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio" (He 11,10). E ha detto ancora: "È certo che ne desideravano una migliore del paese di Canaan, cioè quella celeste" (He 11,16). E per insegnarci chiaramente che quello che egli prometteva di mostrare ad Abramo non era il paese della promessa corporale, Dio lo fece dimorare ad Haran dopo averlo fatto uscire da Ur dei Caldei, e non lo introdusse nel paese di Canaan subito dopo la sua uscita; e affinché Abramo non pensasse aver inteso l’annuncio di una ricompensa e non uscisse per questa ragione secondo la parola di Dio, non gli fece conoscere fin dall’inizio il nome del paese dove lo conduceva.

       Considera perciò quella uscita, o discepolo, e sia la tua come quella; non tardare a rispondere alla viva voce di Cristo che ti ha chiamato. Là, egli non chiamava che Abramo: qui, nel suo Vangelo, egli chiama e invita a uscire alla sua sequela tutti quelli che lo vogliono, invero, è a tutti gli uomini che egli ha rivolto la sua chiamata quando ha detto: "Chi vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24 Mc 8,34 Lc 9,23); e mentre là non ha scelto che Abramo, qui, invita tutti a divenire simili ad Abramo.

 

venerdì 4 settembre 2015

Il cuore per ascoltare i fatti.

Domenica XXIII del Tempo Ordinario – Anno B – 6 settembre 2015
Rito Romano
Is 35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Rito Ambrosiano
Is 29,13-21; Sal 84; Eb 12,18-25; Gv 3,25-36
II Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.

1) La guarigione di un cuore sordo e muto.
Il brano del Vangelo di oggi racconta di un sordomuto miracolato da Gesù. Non dimentichiamo, però, che il Messia non è venuto soltanto per guarire da malattie e difetti fisici. Lui è la Parola fatta carne che vuole guarire non solamente il popolo di Israele che – come spesso affermavano i Profeti - era un popolo duro d’orecchio rispetto alla parola di Dio e perciò anche incapace di dare una vera risposta. Cristo vuole guarire e parlare a tutta l’umanità e il fatto che questo miracolo del sordomuto avvenga nel territorio della Decapoli1 indica che Cristo è Parola per tutta l’umanità e che il non ascolto di Dio era (ed è) un peccato da cui l’umanità intera ha bisogno di essere salvata. Inoltre va tenuto presente che il racconto indica pure che la salvezza portata da Gesù non solo è per ogni uomo (universalità geografica) ma pure per tutto l’uomo, per l’uomo nella sua integralità (universalità antropologica).
Gesù di Nazareth è il Redentore di tutte le “parti” del mondo ed di ogni “parte” di cui siamo composti, anche di quella parte di noi stessi che è ancora pagana. E’ presente in quella Decapoli che tutti ancora abbiamo nel cuore.
E’ vero che Gesù opera al di fuori del popolo d’Israele, compie un gesto che è apertura del campo della rivelazione a tutta l’umanità. Ma è altrettanto vero che Lui si muove in una terra pagana e questo dice con chiarezza che Lui è presente dovunque ed è presente proprio anche là dove lo immaginiamo assente: è presente in tutte le “terre pagane”, in tutte le situazioni rovinate dal peccato.
Gesù di Nazareth, Redentore di ogni uomo e di tutto l’uomo, per salvare prega. Il Figlio di Dio prima di compiere questo miracolo sul sordomuto alza lo sguardo al cielo – lo stesso gesto che Lui aveva compiuto alla moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mc 6,41): il Figlio di Dio prega. A volte, Gesù faceva dei miracoli con l’autorità della sua parola, potremmo dire a nome proprio. In questo modo dimostrava di non essere semplicemente un profeta di Dio, ma di essere Dio stesso. Altre volte invece, come nel caso del sordomuto, Gesù ricorre alla preghiera, per insegnarci che la salvezza è un puro dono della grazia di Dio: un dono da chiedere, non da pretendere.
In ogni caso, i miracoli di Cristo non sono mai fine a se stessi; sono “segni”, che annunciano e inaugurano il suo Regno di verità e di amore. Segni che contengono quello che il Signore Gesù vorrebbe operare in ogni suo fratello e sorella. Quello che Gesù operò un giorno per una persona sul piano fisico indica quello che egli vuole operare ogni giorno per ogni persona sul piano spirituale. Cristo tocca il corpo per guarire lo spirito. L’uomo guarito da Cristo era sordomuto; non poteva comunicare con gli altri, ascoltare la loro voce ed esprimere i propri sentimenti e bisogni. Se la sordità e il mutismo consistono nella incapacità di comunicare correttamente con il prossimo, di avere relazioni facili e chiare, buone e belle, allora dobbiamo riconoscere che, chi più chi meno, siamo tutti dei sordomuti ed è perciò a tutti che Gesù rivolge quel suo grido: “Effatà, àpriti”.
Da parte di ciascuno di noi non resta che lasciarci portare presso il Signore e chiedergli di aprirci le orecchie ogni giorno, perché possiamo accogliere la Sua Parola di vita, anche quando ci risulta scomoda, anche quando il rumore delle creature fuori di noi e quello delle passioni dentro di noi ci assordano e ci impediscono di sentire la Sua voce.

2) Il cuore guarito parla la lingua dell’amore.
La prima voce che questo miracolato ha potuto ascoltare è stata quella di Gesù. La prima parola donata a questo sordo è stata: “Effatà”, “Apriti”. E così poté udire la Parola di Dio e accoglierla perché l’apertura delle orecchie implica la dilatazione del cuore nella gioia non tanto semplicemente di essere chiamati, ma di essere realmente “figli”.
Quando nel Battesimo divenimmo figli nel Figlio, anche a noi fu detta la parola “Effatà”, cioè “apriti”, e così fummo aperti alla Parola di Dio, al dialogo con il nostro Dio e Padre.
L’ascolto del Figlio, Verbo di Dio, ci fa come Lui: figli. “Ciò fa l’amore, rende l’amante simile all’amato” (Sant'Alfonso Maria de’ Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo).  Se perseveriamo in questo ascolto, possiamo parlare sempre con amore. Se ascoltiamo Cristo, saremo sempre più capaci di parlare come Cristo, di dire: Gesù. Se siamo aperti al dialogo con il Padre, restando aperti alla sua Parola, saremo sempre più capaci, per grazia, di udire le consolazioni, i suggerimenti e i comandi amorosi di Dio e di rispondergli con la preghiera e con la vita.
Il cuore guarito ascolta Dio per pregarlo e comunicare il suo amore all’umanità, e Gesù ci insegna che la nostra vita cristiana dipende dalla preghiera e dalla carità. Non è qui il caso di parlare del rapporto tra contemplazione e azione. Voglio solo ricordare che non ci si deve perdere nell’attivismo puro. Occorre che nella nostra attività ci si lasci penetrare dalla luce della Parola di Dio. In questo modo si impara la vera carità, il vero servizio per l'altro, che non ha bisogno di tante cose - ha bisogno certamente delle cose necessarie - ma ha bisogno soprattutto dell’affetto del nostro cuore, della luce di Dio. La Chiesa unisce sempre il ministero della verità, annunciando la Parola, al ministero della carità.
I Santi, tutti, hanno sperimentato una profonda unità di vita tra preghiera e azione, tra l’amore totale per Dio e l’amore generoso per i fratelli. Tutti i Santi ci mostrano che è possibile pregare ovunque, anche in un campo di concentramento, come ha fatto Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) e fare del bene al prossimo come fece San Massimiliano Kolbe che si offrì per morire al posto di un altro: “Non c’è carità più grande di chi da la vita per gli amici”.
Un modo più normale, ma non meno vero, un modo –direi- di santità ordinaria per vivere questa unione tra preghiera e azione è quello delle Vergini consacrate che vivono nel mondo.
Per loro, come per tutte le persone consacrate, la vita di preghiera consiste nell'essere abitualmente e coscientemente alla presenza di Dio, nel vivere in relazione con Dio al quale si sono donate senza riserva.
La loro preghiera2 coincide con la loro vita e loro vita è la loro preghiera, vissuta come quotidiano sacrificio di lode. Se i “grandi” santi hanno mostrato che si può essere preghiera e casa di preghiera nel dramma di un campo di concentramento o di una grave malattia, le Vergini consacrate mostrano nella loro umiltà che si può essere preghiera e tempio di preghiera nella “banalità” del quotidiano. Nella loro vita=preghiera sono riconoscibili le cinque caratteristiche che la preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile3. Sono le caratteristiche individuate da San Tommaso d’Aquino, che definiva la preghiera “espressione del desiderio che l’uomo ha di Dio”.
Con casto atteggiamento sponsale le Vergini consacrate sono in costante ascolto della Parola di Dio e parlano la Parola pura e casta di Dio. Questa Parola pura è Parola di Vita che parla anche dal di dentro della nostra vita di persone peccatrici, introduce in noi la vita e la custodisce in noi. Poi, attraverso noi, è detta al mondo intero. Se ascoltiamo questa Parola con cuore puro, essa passa attraverso tutto l'inquinamento del nostro linguaggio umano al nostro prossimo che così è raggiunto dalla Parola che trasmette la vita in pienezza.


1 Decapoli (dal greco: Δὲκα πὸλἰς, dieci città) era la denominazione usata per un territorio composto da un gruppo di dieci città situate presso la frontiera orientale dell'Impero Romano, fra le attuali Giordania, Siria e Israele. Non costituivano un corpo politico unitario, ma ai tempi della vita terrena di Cristo erano comunemente raggruppate sotto la denominazione di Decapoli per le loro affinità linguistiche, culturali e politiche. Erano tutti centri di cultura greca e romana, quindi pagani.

2 “E’ necessario tenere presente che la preghiera è un atteggiamento interiore, prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare parole. La preghiera ha il suo centro e affonda le sue radici nel più profondo della persona”. (Benedetto XVI)

3 1. Sicura, perché hanno fatto esperienza di ciò che Dio dice nel Salmo 91,15: “Mi invocherà e gli darò risposta”.
2. Retta. Ogni preghiera deve essere retta. Già San Giovanni Damasceno insegnava che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”.
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3). Se poi chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere, la nostra preghiera sarà rettissima. A questo riguardo S. Agostino diceva: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.
3. Ordinata. La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio.
Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33).
4. Devota. La preghiera deve essere anche devota, perché l'abbondanza della devozione rende il sacrificio dell'orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63,5-6). La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo.
5. Umile. La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11).


Lettura patristica
San Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 2, 7, 32-37


       E gli conducono un sordomuto e lo pregano di imporre su di lui la mano (Mc 7,32).

       Il sordomuto è colui che non apre le orecchie per ascoltare la parola di Dio, né apre la bocca per pronunziarla. È necessario perciò che coloro i quali, per lunga abitudine, hanno già appreso a pronunziare e ascoltare le parole divine, siano loro a presentare al Signore, perché li risani, quelli che non possono farlo per l’umana debolezza; così egli potrà salvarli con la grazia che la sua mano trasmette.

       "Ed egli, traendolo in disparte dalla folla, separatamente mise le sue dita nelle orecchie di lui" (Mc 7,33).

       Il primo passo verso la salvezza è che l’infermo, guidato dal Signore, sia portato in disparte, lontano dalla folla. E questo avviene quando, illuminando l’anima di lui prostrata dai peccati con la presenza del suo amore, lo distoglie dal consueto modo di vivere e lo avvia a seguire la strada dei suoi comandamenti. Mette le sue dita nelle orecchie quando, per mezzo dei doni dello Spirito Santo, apre le orecchie del cuore a intendere e accogliere le parole della salvezza. Infatti lo stesso Signore testimonia che lo Spirito Santo è il dito di Dio, quando dice ai giudei: "Se io scaccio i demoni col dito di Dio, i vostri figli con che cosa li scacciano?" (Lc 11,19-20). Spiegando queste parole un altro evangelista dice: "Se io scaccio i demoni con lo Spirito di Dio" (Mt 12,28). Gli stessi maghi d’Egitto furono sconfitti da Mosè in virtù di questo dito, dato che riconobbero: "Qui è il dito di Dio" (Ex 8,18-19); infine la legge fu scritta su tavole di pietra (); in quanto, per mezzo del dono dello Spirito Santo, siamo protetti dalle insidie degli uomini e degli spiriti maligni, e veniamo istruiti nella conoscenza della volontà divina. Ebbene, le dita di Dio messe nelle orecchie dell’infermo che doveva essere risanato, sono i doni dello Spirito Santo, che apre i cuori che si erano allontanati dalla via della verità all’apprendimento della scienza della salvezza...

       "E levati gli occhi al cielo, emise un gemito e pronunciò: «Effata», cioè «apriti»" (Mc 7,34).

       Ha levato gli occhi al cielo per insegnare che dobbiamo prendere da lì la medicina che dà la voce ai muti, l’udito ai sordi e cura tutte le altre infermità. Ha emesso un gemito non perché abbia bisogno di gemere per chiedere qualcosa al Padre colui che in unità col Padre dona ogni cosa a coloro che chiedono, ma per presentarsi a noi come modello di sofferenza quando dobbiamo invocare l’aiuto della divina pietà per i nostri errori oppure per le colpe del nostro prossimo.

       "E subito si aprirono le orecchie di lui e subito si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente" (Mc 7,35).

       In questa circostanza sono chiaramente distinte le due nature dell’unico e solo Mediatore tra Dio e gli uomini. Infatti, levando gli occhi al cielo per pregare Dio, sospira come un uomo, ma subito guarisce il sordomuto con una sola parola, grazie alla potenza che gli deriva dalla divina maestà. E giustamente si dice che «parlava correttamente» colui al quale il Signore aprì le orecchie e sciolse il nodo della lingua. Parla infatti correttamente, sia confessando Dio, sia predicandolo agli altri, solo colui il cui udito è stato liberato dalla grazia divina in modo che possa ascoltare e attuare i comandamenti celesti, e la cui lingua è stata posta in grado di parlare dal tocco del Signore, che è la Sapienza stessa. Il malato così risanato può giustamente dire col salmista: "Signore, apri le mie labbra, e la mia bocca annunzierà la tua lode" (Ps 50,17), e con Isaia: "Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo affinché sappia rianimare chi è stanco con la parola. Ogni mattina mi sveglia l’orecchio, perché ascolti, come fanno i discepoli" (Is 50,4).

       "E ordinò loro di non dirlo a nessuno. Ma quanto più così loro ordinava, tanto più essi lo divulgavano e, al colmo dello stupore, dicevano: «Ha fatto tutto bene; ha fatto udire i sordi e parlare i muti»" (Mc 7,36-37).

       «Se il Signore, che conosceva le volontà presenti e future degli uomini, sapeva che costoro avrebbero tanto più annunziato i suoi miracoli quanto più egli ordinava loro di non divulgarli, perché mai dava quest’ordine, se non per dimostrare con quanto zelo e con quanto fervore dovrebbero annunziarlo quegli indolenti ai quali ordina di annunziare i suoi prodigi, dato che non potevano tacere coloro cui egli ordinava di non parlare? «(Agostino).