venerdì 29 marzo 2019

Siamo nella gioia perché colmati dalla consolazione di Dio che perdona.

IV Domenica di Quaresima – Anno C - 31 marzo 2019
Rito Romano
Gs 5,91.10-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

Rito Ambrosiano
IV Domenica di Quaresima del Cieco
Es 17,1-11; Sal 35; 1Ts 5,1-11; Gv 9,1-38b


1) Dio perdona con un abbraccio e una festa.
La liturgia romana di oggi offre alla nostra meditazione la parabola del figlio prodigo, che è chiamata anche la parabola del Padre misericordioso. Il tema centrale di questo racconto è l’amore di Dio Padre. A questo padre, ricco di misericordia, non interessa che il figlio gli abbia dissipato il patrimonio. Ciò che lo addolora è che il figlio sia lontano, a disagio. E quando ritorna non bada neppure alle sue parole (“Trattami come uno dei tuoi servi”): l’importante è che il figlio abbia capito e sia tornato. Ecco il motivo della sua gioia: “Questo mio figlio era morto ed è tornano in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Questo è il volto del vero Dio, un volto molto diverso da come scribi e farisei supponevano, e come giusti e benpensanti alle volte continuano a supporre.
Questa parabola, nel capitolo 15 del Vangelo secondo Luca, è preceduta da altre due: quella della pecorella smarrita e riportata all’ovile sulle spalle del buon Pastore e quella della dracma perduta e ritrovata (una dracma era equivalente a un denaro che era allora stipendio di un giornata di lavoro, come ce lo dice anche la parabola degli operai dell’undicesima ora).
Lo scopo di questi tre racconti è di fare in modo tale che prendiamo coscienza che la salvezza ci viene dalla fraternità di Cristo che ci porta sulle spalle, dalla maternità della Chiesa che ci cerca e dalla paternità di Dio che ci accoglie sempre.
In effetti, se assumiamo il Corpo di Cristo, sulle Sue spalle di buono e fraterno Pastore, siamo riportati all’ovile della comunione. Se accettiamo la sollecitudine materna della Chiesa, che cerca noi come quella donna cercava la sua moneta perduta, diventiamo parte del tesoro di casa. Se confidiamo nella riconciliazione che Dio ci riceve come tenero padre, la Casa di Dio diventa la nostra dimora di figli. (cfr Sant’Ambrogio da Milano, Commento a San Luca, XV).
L’importante è lasciarsi trovare come la pecora e la dracma, e lasciarsi perdonare come il figlio prodigo.
Per fare questo occorre belare come la pecora smarrita, il cui lamento fu udito dal pastore che la cercava e che la tolse dai rovi. Occorre stare fermi, saldi nella pazienza perché la madre ci ritrovi. Occorre avere fede nel perdono per tornare dal Padre, il cui pianto si trasforma in gioia. In effetti che cosa è mai una pecora in confronto di un figlio tornato alla vita, di un uomo salvato. E cosa vale una dracma in confronto di un peccatore che ritrova la santità.
La rivelazione di Dio come Padre è una delle grandi novità della lieta novella di Cristo. Dio è Padre e ci ama come un Padre ama i suoi figli, e non come un Re ama i suoi sudditi e dà a tutti i suoi figli il pane quotidiano, accoglie nella gioia anche quelli che peccarono, quando tornano ad appoggiare il capo sul suo petto di Padre ricco di misericordia, Sovrano di tenera pietà.
2) Misericordia: spiegazione etimologica, ma non solo.
La parola “misericordia” è usata per tradurre il termine greco “éleos”, che usiamo ancora oggi nella liturgia per domandare a Dio di avere pietà di noi. Ma a sua volta questo termine greco è usato per tradurre due termini ebraici hesed e rahamin.
Il primo, hesed, significa “la responsabilità del proprio amore": responsabilità che deriva da un impegno preso, da una fedeltà a se stressi e, quindi, all’altro con il quale ci si è liberamente impegnati. Nel nostro caso, è la responsabilità che il Dio dell’Alleanza ha del suo stesso amore offerto e pattuito. Responsabilità che richiede l’umana risposta, ma va oltre la possibile infedeltà dell’uomo. Hesed è dunque dono, fedeltà e perdono.
Il secondo termine, rahamim, si riferisce direttamente alle viscere materne che si “commuovono per il loro frutto”, per il figlio, che impediscono alla madre di dimenticare. Il testo di Isaia 49, 15: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne dimenticassero, Io invece non ti dimenticherò mai” è il versetto biblico più conosciuto, in cui un atteggiamento più che materno viene esplicitamente attribuito a Dio. Più in generale, rahamin indica “il luogo tenero di un essere umano”. Esso significa dunque “sentirsi o sapersi una cosa sola con un altri; descrive soprattutto il senso di intima unione del padre e della madre con il proprio figlio, dei fratelli, degli sposi tra di loro”. Secondo il Bultman, a cui si deve quest’ultima definizione nel Kittel - Grande Lessico del Nuovo Testamento -, la traduzione migliore sarebbe semplicemente la parola “amore”.
Per concludere queste digressione etimologica, il termine éleos che San Luca usa nel suo Vangelo è tradotto con misericordia: questa “misericordia” a sua volta rimanda sia alla grazia dell’Alleanza, sia alla tenerezza della paternità (materna) di Dio (si veda Giovani Paolo II, Enciclica Dives in misericordia che fa notare questa ricchezza terminologica, cfr n 5 e nota 64)
La parola “misericordia” (dal latino misereor: ho pietà, e cor, cordis: cuore, quindi significa avere il cuore mosso a compassione dalla miseria altrui) traduce adeguatamente il greco influenzato dalle due parole ebraiche, perché mette in rilevo la tenerezza e la fedeltà perenne di Dio verso il suo popolo, verso i suoi figli. Dio è fedele. San Paolo osserva che anche se noi siamo infedeli, Dio rimane fedele, perché non può negare se stesso (cfr. 2 Tm 2,13).
L'esperienza della paternità nella famiglia si realizza come compagnia sicura coi figli, come fedeltà discreta, sempre pronta a intervenire, vigilante, nei loro confronti. Compagnia fedele, dunque, fino al perdono, all'infinito, ciò che impariamo continuamente dalla paternità smisurata di Dio con noi. 
È quanto scrive Paul Claudel ne “L'annuncio a Maria” in cui il vecchio padre Anna Vercors rivolto alla figlia Violaine dice: «L'amore del Padre non chiede compenso e il figlio non occorre che lo conquisti o che lo meriti. Come era con lui prima del principio, così resta: suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, sua giustificazione».
Quale gioia avere un Padre della cui tenerezza e perdono noi siamo sicuri. Preghiamo dunque per prendere coscienza di essere figli di un Padre che non sa fare altro che amarci e perdonarci.

3) La gioia del figlio perdonato e del cieco guarito.
Il figlio prodigo non tornò dal Padre perché era stanco di guardare i porci e di mangiare le ghiande, aveva fame del pane della gioia, che solo il Padre gli poteva donare. Tornò alla “verità di se stesso” (cfr Dives in misericordia, n 6), perché capì la sua dignità umana di figlio. Arrivato a casa sua il padre lo abbracciò e mettendo le mani sulle sue spalle lo benedì, accogliendolo nella sua pace.
In nessuna cosa l’anima di quel figlio errante aveva potuto quietarsi, all’ombra di nessun albero il suo corpo poté gustare riposo vero, e il cuore, che sempre è alla ricerca, e sempre è disilluso, in nessun bene trova la sua pace, in nessun piacere la sua gioia, in nessun conquista la sua felicità. Ma ricevendo la benedizione di perdono dal Padre, questo giovane che aveva sperperato tutto torna a casa e per lui il Padre organizza subito una pranzo offrendo il vitello migliore e il pane della gioia
La felicità viene dall’esperienza dell’essere amato e dall’accettare questo amore divino che nessuno merita. Ma se il peccato nostro non è un’obiezione a Dio per perdonarci, non lo deve essere per noi per domandare umilmente la sua misericordia.
Un perdono, che dà luce, aiuta a credere e a crescere nella fede come accadde al cieco nato guarito da Cristo, di cui ci racconta il vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana.
Immedesimiamoci in questo cieco e cerchiamo di immaginare quale visione si aprì davanti agli occhi suoi di cieco quando per la prima volta vide il volto umano, la luce del sole e un mondo nuovo, mai immaginato; eppure ne era circondato fin dalla nascita; ma era vissuto nel buio. Se vogliamo capire meglio la gioia del cieco diventato vedente, pensiamo all’esperienza dei bambini nei primi anni di vita: con stupore indescrivibile guardano il mondo e ne scoprono sempre nuove bellezze. Cerchiamo di non soffocare in noi questo stupore e saremo capaci di vita. A questo riguardo San Giovanni Damasceno diceva: “I concetti creano gli idoli, lo stupore genera la vita
Una vita da vivere con Dio che ci offre un’alleanza d’amore, un legame d’amore che rende lieti. Si tratta di un amore che ha tutte le caratteristiche di ogni amore, di amore filiale da parte dell'uomo, di amore paterno da parte di Dio. E’ amore di amicizia perché Gesù è un fratello nostro, Gesù si è fatto nostro fratello È amore di sposo nei confronti di Dio che è lo sposo nei confronti dell'anima che è la sposa.
Un vita da vivere nella luce di Dio, fonte di gioia che è piena perché la si sperimenta in qualcuno non in qualcosa. In qualcuno da cui ci si sente voluti infinitamente bene. e che ci sentiamo di amare.
Le Vergini Consacrate ci sono di esempio in questa risposta di amore che realizzano in modo completo con l’offerta della loro vita e sono icone di Cristo, lietamente. Sono esempio di consacrazione lieta alla verità e all’amore.
La donna consacrata all’ “Amore perfetto” (cfr RCV n. 55) che non lascia nessuno senza la sua luce, consacrata alla Vita come radicale gioia di esistere, risponde al compito di essere profezia vivente di quel ‘regno’ di carità a cui tutti siamo chiamati.
Facendo proprie le i indicazioni di ESI le Vergini consacrate si lasciano educare al senso della gratitudine per l’opera di Dio, che perdona, e con la propria consacrazione richiamo a tutti che l’origine, il senso e la destinazione della storia umana si trovano nel mistero santo di Dio, nella sua bontà infinita, preveniente e misericordiosa, nell’amore di cui vuole fare partecipi tutte le creature” (Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum, Ecclesiae Sponsae Imago n. 41)

Lettura patristica
Sant’Ambrogio
Dal Commento al Vangelo di Luca .(Lc 7,213-230)

"Un uomo aveva due figli e il più giovane gli disse: «Dammi la mia parte di patrimonio" (Lc 15,11-12). Vedi che il patrimonio divino viene dato a coloro che lo chiedono. E non credere che il padre sia in colpa perché ha dato il patrimonio al più giovane: non si è mai troppo giovani per il Regno di Dio, e la fede non sente il peso degli anni.
In ogni caso colui che ha domandato il patrimonio si riteneva capace di possederlo: Dio volesse che egli non si fosse mai allontanato dal padre, e non avesse ignorato gli inconvenienti della sua età! Ma poi se ne partì per un paese straniero - necessariamente dissipa il suo patrimonio chi si allontana dalla Chiesa -; lasciando la casa e la patria, "se ne partì per un paese straniero, in una regione lontana" (Lc 15,13).
Non c'è luogo più remoto di quello in cui va chi va lontano da sé, e si allontana non per lo spazio, ma per i costumi, si separa non per la distanza ma per i desideri, e, come se mettesse in mezzo l'onda dei piaceri mondani, con la sua condotta spezza ogni legame. Chiunque infatti si separa da Cristo è un esule dalla sua patria, diventa cittadino del mondo.
Noi altri, invece, non siamo stranieri di passaggio, "siamo concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio" (Ef 2,19); eravamo lontani, ma siamo stati fatti vicini nel sangue di Cristo (cf. Ef 2,13).
Ma non siamo maldisposti verso chi viene da una regione lontana, perché anche noi siamo stati in una regione lontana, come insegna Isaia; così leggi: "Per coloro che sedevano nella regione dell`ombra della morte, per loro è sorta la luce" (Is 9,2). La regione lontana è dunque quella dell`ombra della morte; ma noi che abbiamo per spirito dinanzi al volto il Cristo Signore (cf. Lam 4,20), viviamo nell'ombra di Cristo. Per questo la Chiesa dice: "Nella sua ombra sedetti desiderosa" (Ct 2,3).
Quello, vivendo nella lussuria, ha sciupato ogni ornamento proprio della sua natura: ebbene tu, che hai ricevuto l'immagine di Dio e che sei simile a lui, guardati bene dal rovinarla con una irragionevole e degenerata condotta. Tu sei opera di Dio...
"Venne la carestia in quella regione" (Lc 15,14): carestia non di pane e cibo, ma di buone opere e di virtù. Esiste un digiuno peggiore di questo?
In verità chi si allontana dalla Parola di Dio è affamato, perché "non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola di Dio" (Lc 4,4). Se ci si allontana dalla fonte siamo colti dalla sete, si diventa poveri se ci si allontana dal tesoro, si diviene sciocchi se ci si allontana dalla sapienza, si distrugge infine se stessi allontanandosi dalla virtù.
È quindi naturale che costui cominciò a sentirsi in gravi ristrettezze, in quanto aveva abbandonato i tesori della sapienza e della scienza di Dio e la profondità delle ricchezze celesti (cf. Col 2,3). Egli cominciò a sentire la miseria e a soffrire la fame, perché niente è abbastanza per la prodiga voluttà. Sempre patisce la fame, chi non si sa nutrire degli alimenti eterni...
"E bramava di riempirsi il ventre di carrube" (Lc 15,16). I lussuriosi non hanno infatti altro desiderio che di riempirsi il ventre, perché "il ventre è il loro dio" (Fil 3,19). E a simili uomini quale cibo è più adatto di questo che è, come le carrube, vuoto di dentro, di fuori è molle, ed è fatto non per alimentare, ma per gravare il corpo, e che è più pesante che nutriente?...
"Ed ecco, nessuno gliene dava" (Lc 15,6); si trovava infatti nella regione di colui che non ha nessuno, perché non ha quelli che sono. Infatti tutte le nazioni sono stimate un niente (cf. Is 40,17); non c'è che Dio, "che vivifica i morti, e chiama le cose che non sono come cose che sono" (Rm 4,17).
"Allora, tornato in sé, disse: «Quanti pani hanno in abbondanza i mercenari di mio padre!»" (Lc 15,17).
È ben vero che ritorna in sé, poiché si era allontanato da sé. Chi torna infatti al Signore torna in sé, mentre chi si allontana da Cristo rinnega sé.
Ma chi sono i mercenari? Non sono forse quelli che servono per il salario, cioè quelli d'Israele? Che non perseguono il bene per amore dell'onestà, che sono attirati non dalla bellezza della virtù ma dal desiderio del guadagno? Ma il figlio che ha in cuore il pegno dello Spirito Santo (cf. 2Cor 1,22) non cerca il meschino profitto di un salario di questo mondo, perché possiede il diritto all'eredità.
Vi sono anche dei mercenari che sono impegnati nei lavori della vigna. Buoni mercenari sono Pietro, Giovanni, Giacomo, ai quali è detto: "Venite, farò di voi pescatori di uomini" (Mt 4,19).
Costoro hanno in abbondanza non carrube, ma il pane: perciò poterono riempire dodici ceste di avanzi.
O Signore Gesù, se tu ci togliessi le carrube e ci donassi il pane, tu che sei il dispensiere nella casa del Padre! Se tu ti degnassi anche di accoglierci come mercenari, anche se veniamo sul tardi! Tu infatti assumi mercenari anche all'undicesima ora, e ti compiaci di pagare un'eguale mercede (cf. Mt 20,6-16), eguale mercede di vita, non di gloria; non a tutti infatti è «riservata la corona di giustizia», ma a colui che può dire: "Ho combattuto la buona battaglia" (2Tm 4,7ss)...
Se vi fosse restato anche quello, non si sarebbe mai allontanato da suo padre. Ma stiamo tuttavia attenti a non ritardare la sua riconciliazione, che il padre non gli ha ritardato. Egli si riconcilia volentieri, quando è pregato intensamente.
Apprendiamo con quali suppliche è necessario avvicinare il Padre. Padre, egli dice. Quanta misericordia, quanta tenerezza, vi è in colui che, pur essendo stato offeso, non sdegna di sentirsi chiamare padre! "Padre" - dice -, "ho peccato contro il cielo e dinanzi a te" (Lc 15,18).
Ecco la prima confessione della colpa, rivolta al creatore della natura, all'arbitro della misericordia, al giudice del peccato. Sebbene egli sappia tutto, Dio tuttavia attende dalla tua voce la confessione, infatti "è con la bocca che si fa la confessione per la salvezza" (Rm 10,10).
Solleva il peso della propria colpa colui che spontaneamente se ne carica: taglia corto all'animosità dell'accusa chi previene l'accusatore confessando: infatti "il giusto nell'esordio del suo discorso, è accusatore di se stesso" (Pr 18,17).
E d'altra parte sarebbe vano tentar di dissimulare qualcosa a colui che su nessuna cosa può trarre in inganno; non rischi niente, a denunziare ciò che sai esser già noto.
Meglio è confessare, in modo che per te intervenga Cristo, che noi abbiamo come avvocato presso il Padre (cf. 1Gv 2,1), per te preghi la Chiesa, e il popolo infine per te pianga. E non aver timore di ottenere. L'avvocato ti garantisce il perdono, il patrono ti promette la grazia, il difensore ti assicura la riconciliazione con l'amore paterno.
Credi dunque, perché il Signore è verità, e sii tranquillo, perché il Signore è potenza. Egli ha un fondamento per intervenire a tuo favore; altrimenti sarebbe morto inutilmente per te. E anche il Padre ha ben ragione di perdonarti, perché ciò che vuole il Figlio lo vuole anche il Padre.
Ti viene incontro colui che ti ha sentito parlare nell'intimo della tua anima; e mentre tu sei ancora lontano, egli ti vede e ti corre incontro (cf. Lc 15,20).
Egli vede nel tuo cuore, e corre a te perché niente sia di ritardo, ti abbraccia, anche. Nel venirti incontro è chiara la sua prescienza; nell'abbracciarti si manifesta la sua clemenza e il suo amore paterno. Si getta al collo, per sollevare colui che giaceva in terra carico di peccati, per sollevarlo verso il cielo in modo che possa cercarvi il suo autore.
Cristo si getta al tuo collo, per liberare la tua nuca dal giogo della schiavitù, e mettervi il suo giogo soave (cf. Mt 11,30). Non ti sembra che egli si sia gettato al collo di Giovanni, quando Giovanni riposava sul suo petto, con la testa rovesciata all'indietro?
Per questo egli vide il Verbo presso Dio, perché si era innalzato verso altezze sublimi. Il Signore si getta al collo, quando dice: "Venite a me, voi che siete affaticati, e io vi darò sollievo; prendete su di voi il mio giogo" (Mt 11,28-29). È in questo modo che egli ti abbraccia, se tu ti converti.”

venerdì 22 marzo 2019

La Conversione è purificare il nostro cuore perché sia limpido e aperto a Cristo e tutto ciò che è bello, buono e vero.

III Domenica di Quaresima – Anno C - 24 marzo 2019

Rito Romano
Es 3,1-8a.13-15; Sal 102; 1 Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

Rito Ambrosiano
III Domenica di Quaresima di Abramo
Dt 6,4a; 18,9-22; Sal 105; Rm 3,21-26; Gv 8,31-59


1) Conversione: voltarsi a Cristo che ci ama.
Il brano evangelico di questa domenica (Lc 13,1-9) può essere diviso in due parti. Un parla della chiamata alla conversione (13,1-5) la seconda ci presenta la parabola del fico sterile (13,6-9). Le due parti trovano il loro punto di incontro nel tema della conversione.
“Convertitevi”, ci chiede il Salvatore, il cui invito ci è fatto ascoltare in questa Domenica, come frequentemente accade nella liturgia quaresimale. Il verbo «convertirsi» è ripetuto due volte nel vangelo di oggi. L'avvertimento è dato in forma solenne («Io vi dico...») e come condizione indispensabile per sfuggire al giudizio di Dio (“Se non vi convertirete, perirete tutti”). Luca non è anzitutto interessato al contenuto della conversione (quale cosa cambiare): preferisce renderci consapevoli che il giudizio di Dio è imminente e generale.
“Convertici, o Dio, nostra salvezza” ci fa pregare la medesima liturgia. La conversione dunque è un invito da accogliere e un dono da domandare al Salvatore.
Nel Vangelo “romano” San Luca ci parla della necessità della conversione, della sua urgenza, del giudizio di Dio che incombe. Ma che significa convertirsi?
Il verbo privilegiato dall’Antico Testamento per indicare la conversione è “shouv” che vuol dire: cambiare strada, tornare indietro. Sul piano esistenziale o etico questo verbo ebraico connota un cambiamento di orientamento, una modificazione del comportamento. Sempre nell’Antico Testamento per indicare la conversione sono usati anche i verbi ebraici “biqqesh” e “darash” il cui significato è “cercare Dio o il bene”.
Il Nuovo Testamento usa “epistrefein”, che letteralmente vuol dire “voltarsi verso”, per indicare il mutamento esteriore e il mutamento nel comportamento, mentre si serve di “metanoein”, che viene dal verbo greco 'cambiare idea', composto da meta 'dopo' e noeo 'pensare', per indicare la mutazione interiore, il cambiamento di mentalità. Il termine che Luca usa nel nostro testo è «metanoia»: egli insiste dunque sul mutamento interiore, sul modo nuovo e diverso di pensare, valutare le cose, di giudicarle.
Il giudizio di Dio non conosce l’ingiustizia, va oltre la giustizia (Divo Barsotti) e ad esso dobbiamo prepararci volgendo l’intelligenza alla Verità, la volontà al Bene, testa e cuore a Gesù, Destino nostro, in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita, domandando che Dio ci trasformi, riconoscendo che dipendiamo da Dio, dal suo amore creativo e misericordioso.
Una misericordia per cui l'infecondità del fico sterile diviene per il vignaiolo l'invito a lavorare ancora e ancora di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione umana della durezza e dell'esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata della divina Carità.
Il Signore, misericordioso e paziente, ci concede ancora del tempo per portare frutto. Le parole di Cristo, il Vignaiolo, sono consolanti: “Zapperò, metterò concime, curerò... e vedrai che porterà frutti”. L’albero della nostra vita non può fiorire, se non ci convertiamo a Cristo che con il suo amore compie il miracolo. Seguiamo quindi l’invito che già nell’Antico Testamento Dio rivolge al suo popolo: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura.” (Gl 2, 12-13).
Per ciò Papa Francesco insegna: “Questa è la regola della conversione: allontanarsi dal male e imparare a fare il bene. Convertirsi è un cammino. È un cammino che richiede coraggio, per allontanarsi dal male, e umiltà per imparare a fare il bene. E che, soprattutto, ha bisogno di cose concrete”(Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae MarthaeImparare a fare il bene - 14 marzo 2017). Le cose concrete nel cammino quaresimale sono le opere di penitenza, che ci riportano nello stato di luce, il cui frutto consiste in ogni sorta di bontà, di giustizia e di verità.

2) La conversione di Abramo.
In questo cammino verso Dio, la liturgia ambrosiana dopo averci proposto “l’esempio” di Zaccheo e della Samaritana, oggi ci propone la grande figura di Abramo, che ha convertito la sua vita in offerta fino al punto di essere pronto a sacrificare il figlio Isacco.
Per Abramo la promessa di Dio di dargli un popolo innumerevole fu più certa del fatto del figlio Isacco, che lui non ricusò di sacrificare all’Onnipotente che glielo chiedeva.
Il totale abbandono a Dio è fonte di tranquillità e di serenità sia nei confronti del passato che dell'avvenire. La conversione si realizza con la rinuncia di sé e di quanto si ha di più caro, come un figlio nel caso di Abramo, per occuparsi esclusivamente di Dio e del suo disegno buono su di sé e sul mondo. 

Se a questo abbandono totale uniamo un’amorosa fiducia saremo sempre più capaci di non aver cura di noi ma di lasciare che di noi abbia cura il Signore. Allora il nostro cuore si dilata e siamo sollevati dal peso di noi stessi, peso che ci opprime. Con stupore ci renderemo conto di quanto retta e semplice fosse la via da seguire.
Noi pensiamo che per la conversione siano necessari sforzo e tensione ininterrotti, unitamente ad un continuo rinnovarsi di azioni e di fatti. Secondo me per voltarci verso Cristo e seguirlo stabilmente poche sono le cose da fare: è sufficiente, senza neppure troppo ragionare sul passato o sul futuro, guardare a Lui sulla Croce con fiducia, come ad un Fratello che ci conduce nella realtà presente, come per mano. Se per una più o meno lunga distrazione lo dovessimo perdere di vista, non indulgiamo in essa, ma rivolgiamoci a Lui, e comprenderemo quale sia la sua volontà buona per noi. Se facciamo dei peccati, convertiamoci accostandoci al sacramento della Penitenza e facciamo una penitenza che sia un dolore tutto d'amore.

3) Dalla conversione alla consacrazione
La confessione è chiamata “sacramento della Penitenza poiché consacra un cammino personale ed ecclesiale di conversione, di pentimento e di soddisfazione del cristiano peccatore” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1423). La prima conversione l’abbiamo avuto con il battesimo, ma “la vita nuova ricevuta nell'iniziazione cristiana non ha soppresso la fragilità e la debolezza della natura umana” (1426), dunque la conversione è la legge che dura tutta la vita, fino al momento in cui l'uomo dà l'ultimo respiro: è stato così per San Pietro come per San Paolo, per tutti i santi a maggior ragione per ciascuno di noi.
Convertirsi è “abbandonare la volontà propria in quella di Cristo, attraverso l’umiltà” (San Bernardo, Sulla conversione – Sermone 34) In questo ci sono di testimonianza le Vergini consacrate che alla domanda del Vescovo: “Volete vivere solamente per Dio nel silenzio e nella solitudine, nella preghiera assidua e nella penitenza gioiosa, nel lavoro nascosto e nel servizio degli altri” hanno risposto: “Si, lo vogliamo” (Rituale per la Consacrazione delle Vergini, n. 55).
Queste persone testimoniano che la consacrazione della vita a Dio significa la verità dell'amore, del lavoro, della giustizia, della vita stessa. La vita intera si trasfigura mediante l’offerta di sé a Dio. La carità perfetta (nella quale consiste la perfezione di tutti i Cristiani) vissuta verginalmente porta tutta la persona nel suo Creatore e può essere definita: una totale consacrazione o sacrificio che l’essere umano fa di sé a Dio, ad imitazione di quanto fece il nostro Redentore Gesù Cristo.
Mediante questa consacrazione le Vergini consacrate sono segno per tutti che l’importante é non aver altro scopo ultimo in tutte le nostre azioni che Dio, e di non far altra professione, né cercar altro gusto sulla terra, eccetto quella di piacere a Dio e di servirlo: cioè di essere giusti praticando la legge santa della carità.

Lettura patristica
San Bernardo di Chiaravalle
Sulla conversione – Sermoni 34-39

Poiché, non esiste (o almeno, io non l’ho trovata) la traduzione italiana del testo citato di San Bernardo propongo un estratto di uno scritto di P. Giovanni Lunardi.
"Ma per imboccare e vivere la via dell’amore, è condizione indispensabile una unica cosa, convertirsi, cioè abbandonare la volontà propria, attraverso l’umiltà. Bernardo lo scopre leggendo il Vangelo, là dove Gesù raccomanda ai discepoli: “ In verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” ( Mt 18,3). E che altro significa divenire bambini – si domanda Bernardo – se non “divenire umili”? (Sulla quaresima II,1). Convertirsi si riduce, quindi, ad apprendere la difficile arte dell’umiltà!
E l’umiltà consiste semplicemente nel formarsi una valutazione esatta di se stessi. “L’umiltà è la virtù per cui l’uomo si crede spregevole a motivo di una esattissima conoscenza di se stesso – humilitas est virtus qua homo verissima sui cognitione sibi ipsi vilescit” (Sull’umiltà, 2). E cioè: siamo grandi, perché “nessuna creatura è più vicina a Dio di quella fatta ad immagine di Dio” (De diversis, IX,2). Ma anche siamo piccoli per la presenza del peccato personale- “ La superbia è il desiderio della propria preminenza – Superbia estappetitus propriae excellentiae” (epist. 42).
Conversione, perciò, significa riprendere, riconquistare faticosamente ciò che è nativo nella natura umana, cioè l’umiltà. L’uomo è per natura umile! La superbia, invece, è un prodotto inventato dal diavolo, e esportato nell’uomo. Bisogna, in altre parole, scandagliare le profondità del proprio cuore, ottenere con un lavoro duro e assiduo, una valutazione esatta di se stessi. Infatti l’orgoglio e la superbia, i grandi nemici dell’esistenza cristiana, nascono proprio dall’ignoranza di se stessi. Più si ignora se stessi e più si corre il pericolo di cadere nella superbia.
Dall’umiltà nasce la carità verso gli altri. La nostra miseria davanti a Dio ci fa prendere il nostro giusto posto anche davanti agli altri. Proprio attraverso l’esatta conoscenza di noi stessi arriviamo alla conoscenza della debolezza altrui. Noi, dice Bernardo, attraverso la nostra personale debolezza e fragilità, riflettiamo quasi in uno specchio, quella del prossimo: Il cristiano, "partendo dalla propria miseria mediterà su quella di tutti gli altri” - “ex propria miseria generalem perpendat “ (Sui gradi dell’umiltà e della superbia, 16). Dio ci lascia nei nostri difetti, perché comprendiamo quelli degli altri. Infatti noi e gli altri siamo fatti della stessa pasta. Di qui una unica conclusione appare possibile: come io ho compassione delle mie miserie personali e non mi condanno, così non potrò mai assumere atteggiamenti severi nei confronti del fratello che pecca, dovrò essere aperto ad un indefinito perdono. Tu sei un malato grave- ricorda Bernardo- e non potrai non aver compassione del fratello che è malato come te. Infatti “solo un malato può comprendere e aver compassione di un altro malato “ – “ solus aeger aegro compatitur” (Sull’umiltà, VI). I cristiani “ partendo dalle proprie sofferenze imparano a compatire quelle degli altri“(Sui gradi dell’umiltà , 18).
In questo contesto si comprende la necessità della preghiera, come espressione di amore. Per questo bisognerebbe pregare sempre, pregare sempre a Dio: “ Tutto il tempo in cui non pensi a Dio,devi considerarlo come tempo perduto” – “ omne tempus in quo de Deo non cogitas, hoc te computes perdidisse” ( PL 184, 497A).”Non bisogna mettersi in preghiera una volta o due, ma frequentemente e assiduamente, presentando a Dio i desideri del tuo cuore e, a tempo opportuno, anche ad alta voce” – “Non enim semel vel bis ad orationem est accedendum, sed frequenter et assidue, ad Deum extendentes desideria cordis et in tempore opportuno aperientes vocem oris” (Sermone sull’avvento).
Qualità della preghiera: 1.- umile.. La preghiera è incontro con il Signore mentre tu sei così piccolo. "“e sei stato privato della grazia, stai pur certo che il motivo ne è stato la tua superbia, anche se non lo si vede, anche se tu non te ne rendi conto"”(Sul cantico 54, 10). 2.- Pura. Si tratta di cercare unicamente Dio per se stesso (Sul cantico, 40, 3). : “Tu non preghi in maniera conveniente se nella stessa preghiera tu cerchi qualcos’altro all’infuori del Cristo, o se nella preghiera tu cerchi, sì, il Cristo, ma non lo cerchi per se stesso” (Sul cantico 86, 3). 3.- devota, cioè fervorosa.

sabato 16 marzo 2019

La via della Croce come cammino di Trasfigurazione.

II Domenica di Quaresima – Anno C – 17 marzo 2019

Rito Romano
Gn 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36
Il Vangelo della Trasfigurazione

Rito Ambrosiano
II Domenica di Quaresima della Samaritana
Dt 6a;11,18-28; Sal18; Gal 6,1-10; Gv 4,5-42



            1) La via della Croce è trasfigurante.
            Il Vangelo di oggi percorre il cammino quaresimale, facendoci salire con Cristo sul Monte Tabor per partecipare alla sua trasfigurazione pregando. Per il cristiano pregare non è evadere dalla realtà e dalle responsabilità che essa comporta, ma assumerle fino in fondo, confidando nell’amore fedele e inesauribile del Signore. Per questo, la verifica della trasfigurazione è, in modo per noi assurdo, la “sfigurazione” di Gesù durante la passione. Nella passione ormai vicina, Gesù ne sperimenterà l’angoscia mortale e il suo volto sarà sfigurato, ma  Lui si affiderà alla volontà del Padre.  Nelle ore dell’agonia, la preghiera del Redentore  sarà pegno di salvezza per tutti noi. Cristo, infatti, supplicherà il Padre celeste di “liberarlo dalla morte” e, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, “fu esaudito per la sua pietà” (5,7). Di tale esaudimento è prova la Pasqua di risurrezione.
Nel cammino verso la Pasqua di Cristo e con Cristo, la liturgia romana della seconda domenica di quaresima ci fa salire sul monte Tabor, dove Cristo si trasfigurò davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Questi tre apostoli ebbero il dono di contemplare Gesù “trasfigurato” nello splendore della sua divinità, per poi poter reggere la vista del Maestro “sfigurato” dalla Passione, condizione ineliminabile della Resurrezione del Redentore, il cui amore appassionato ricrea e redime.
            Tuttavia, secondo me, Gesù non vuole solo preparare i suoi seguaci alla passione che Lo attende e che loro stessi dovranno subire. La trasfigurazione di Cristo rivela ciò che Lui è già: il Figlio di Dio, per indicare una delle qualità più importanti per un discepolo: l’ascolto. Dio che in persona attesta che Gesù Cristo è suo Figlio: “Questi è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto” E conclude dicendo: “Ascoltatelo” (Lc 9, 35-36). Perché? Perché il discepolo che ascolta Gesù è trasfigurato, chi ascolta Cristo diventa come Cristo. L’ascolto di Gesù fa vivere di Gesù, fa vivere la vita del Figlio: la nostra vita è trasformata dall’ascolto della Parola in vita di figli di Dio. Quindi è indispensabile ascoltarlo nella sua Parola, custodita nella Sacra Scrittura e proposta dalla liturgia. In effetti nella “Liturgia della Parola, le pagine della Bibbia cessano di essere uno scritto per diventare parola viva, pronunciata da Dio stesso che, qui e ora, interpella noi che ascoltiamo con fede. Lo Spirito che ha parlato per mezzo dei profeti e ha ispirato gli autori sacri, fa sì che la Parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi:” (Papa Francesco, 31 gennaio 2018).
          Che questa Quaresima sia dedicata ad ascoltare Cristo per avere un cuore puro e una mente saggia, ad ascoltare Lui nella Sua Parola che quotidianamente viene annunciata e spezzata nelle nostre comunità. Se ascoltiamo Lui ci nutriamo di cibo sostanzioso per il nostro cammino verso la Pasqua del Risorto, che è Bellezza, Bontà e Verità. Dunque perseveriamo nell’essere “uditori della Parola” e non delle chiacchiere e dei rumori. Ascoltiamo il Verbo di Dio attentamente, contempliamolo piamente, e poi portiamolo devotamente giù dal monte tra gli uomini. Il discepolo porta questa Parola trasfigurata di luce, che sul volto di Cristo è come il sole e su suoi abiti è bianca come neve (cfr Mt 17,2). Il Cristianesimo è la religione della luce. Il Verbo, che si è fatto carne, è luce che illumina ogni uomo. Luce mistica a Nazareth all’annunciazione. Luce a Betlemme con gli angeli e la stella. Luce al Giordano con la colomba dello Spirito. Luce sul Tabor. Luce di Pasqua: luce di eternità.

2) Non tre tende ma una sola.
            La Chiesa con la scelta del Vangelo della Trasfigurazione ci invita oggi a ritemprare la nostra stanca e fragile fede nell’energia della luce. Dio offre un'anticipazione, ma poi bisogna fargli credito, senza limiti. Come ha fatto Abramo (prima lettura), che si è fidato della promessa di Dio giocando su di essa tutta la propria esistenza.
            Noi assomigliamo molto a questi tre amici di Gesù, che Lui conforta dicendo a loro e a noi: “Coraggio, abbiate fiducia, alzatevi e non temete, io ho vinto il mondo” (cfr Gv16,33).
            Noi come il Capo degli apostoli siamo confusi (Pietro “non sapeva quello che diceva”)  e intimoriti (i tre apostoli “ebbero paura”), ma in silenzio  (essi “tacquero”) udiamo la parola del Padre che anche a noi dà o l'imperativo amoroso: “Ascoltatelo”. 
            Noi come Pietro possiamo esclamare: “Signore, è bello stare qui, facciamo tre tende: una per Te, una per Mosé e una per Elia”, perché come questo apostolo vorremo prolungare la pace che viene dall’incontro con Cristo contemplato nella sua luce. 
            San Pietro fu affascinato da quella visione e, dicendo “bello stare qui”, lascia anche intuire le ragioni di una dimensione, forse troppo poco vissuta, della vita cristiana già in questo mondo: la contemplazione, cioè la preghiera fatta non per chiedere qualcosa a Dio ma per ammirare le sue meraviglie, per riconoscere la sua grandezza e la sua sconfinata bontà, per lodarlo e ringraziarlo di quanto ci ha donato e di quanto ci garantisce che ci donerà. 
            La contemplazione è la preghiera che diventa sguardo. Se diamo del tempo alla contemplazione di Cristo, il Padre con la sua luce ci investe e questa luce da noi si irradia anche sugli altri.
            In breve, se vogliamo che l’esperienza di luce duri in noi, non dobbiamo fare delle tende per Cristo: dobbiamo diventare tende in  cui lui può dimorare e trasfigurarci tramite la partecipazione alla sua Croce e Risurrezione: “E’ proprio necessario che tu gli sia compagno nella passione affinché dopo tu possa essere partecipe della sua gloria. Là egli stesso accoglierà te e tutti i suoi nelle tende eterne. Là, veramente, preparerai non tre tende, una per Cristo, una per Mosè e una per Ella, ma una sola tenda, per il Padre, per il Figlio e per lo Spinto Santo: e questa tenda sarai tu stesso. Allora “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28), quando, come leggiamo nell’Apocalisse: “La dimora di Dio sarà con gli uomini ed essi saranno suo popolo ed egli sarà Dio-con- loro” (Ap 21,3).” (Pietro il Venerabile, abate di Cluny, Sermone sulla Trasfigurazione del Signore).

            3) La Samaritana
            La liturgia della Quaresima illumina la figura di Gesù, perché ogni cristiano sia messo davanti alla Sua presenza e lo segua. Il rito romano lo fa con la solennità della trasfigurazione, la liturgia ambrosiana propone la quotidianità della Samaritana, che va al pozzo -come ogni giorno-  per attingere l’acqua.  Domenica scorsa ci aveva invitato a meditare sulla “piccolezza” di Zaccheo. 
            Per incontrare questo pubblicano Cristo “dovette” passare da Gerico, per incontrare la Samaritana “dovette” passare dalla Samaria. Non era banalmente a causa della geografia fisica della Terra Santa, ma a causa della geografia della carità, che ha strade obbligate come la Via Crucis.
            Per andare a Gerusalemme, dove lo aspettava la Croce, Gesù fu “obbligato” a passare per la regione che divideva la Galilea dalla Giudea, per una terra abitata da gente che gli altri Ebrei consideravano infedeli, traditori, perché non volevano sacrificare a Gerusalemme, essendosi costruiti un Tempio sul monte Garizim e non avendo accettato la riforma di Nehemia.
            Ma Gesù amava i Samaritani: ne guarisce uno che era lebbroso e tra i dieci miracolati, solo questo samaritano torna a ringraziarlo. Samaritano è il passante che soccorre l’uomo derubato e ferito da dei ladri. Samaritana è la donna che Gesù attende al pozzo di Giacobbe. Samaritano è Gesù (per questo e i due brevi paragrafi precedenti cfr Primo Mazzolari, La Samaritana, Brescia 1943). In effetti, un giorno i suoi compatrioti Gli dissero: “Non diciamo noi bene che sei un Samaritano?» (Gv 8,53), è Gesù trasformò questa accusa in sinonimo di “uomo di carità”.
            Ognuno di noi è dunque chiamato a vivere questa quaresima, annunciando il vangelo dell’amore con la concretezza del samaritano, buono perché solidale e disposto ad entrare in un rapporto fraterno con il bisognoso. Nell’amore che apre all’altro ogni uomo può trovare la piena realizzazione di sé e dare senso alla propria vita.
            Questo vale in particolare per le Vergini Consacrate, che sono chiamate ad attingere dal cuore di Cristo l’amore vero e puro che disseta e trasfigura.
            Le vergini consacrate da buone samaritane sono chiamate a trasfigurare la terra con la carità che non si può comperare, si può solo domandarla, riceverla e condividerla. Nella loro preghiera queste donne che si sono donate completamente a Cristo preghino: “Sposo di salvezza, speranza di quanti inneggiano a te, o Cristo Dio, concedi a noi oranti di trovare nelle nozze con te, come le vergini, senza macchia l'imperitura corona” (Romano il Melodo, Cantici, Torino 2002, pp. 318), da condividere nell’umile servizio al prossimo. Queste donne consacrate da una parte “manifestano l’amore della Chiesa Sposa per l’Eucaristia anche nella preghiera di adorazione del Corpo eucaristico del Signore”, d’altra parte, come buone samaritane “ attingono da Cristo la carità operosa verso le membra del suo Corpo mistico” (Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum, Ecclesiae Sponsae Imago, n. 32).



Lettura Patristica
Dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino d’Ippona
Trattato 15, 10-12. 16-17; CCl 36, 154-156)

Arrivò una donna di Samaria ad attingere acqua
«E arrivò intanto una donna» (Gv 4, 7): figura della Chiesa, non ancora giustificata, ma ormai sul punto di esserlo. E' questo il tema della conversione. 
Viene senza sapere, trova Gesù che inizia il discorso con lei.
Vediamo su che cosa, vediamo perché «Venne una donna di Samaria ad attingere acqua». I samaritani non appartenevano al popolo giudeo: erano infatti degli stranieri. E' significativo il fatto che questa donna, la quale era figura della Chiesa, provenisse da un popolo straniero. La Chiesa infatti sarebbe venuta dai pagani, che, per i giudei erano stranieri.
Riconosciamoci in lei, e in lei ringraziamo Dio per noi. Ella era una figura non la verità, perché anch'essa prima rappresentò la figura per diventare in seguito verità. Infatti credette in lui, che voleva fare di lei la nostra figura. «Venne, dunque, ad attingere acqua». Era semplicemente venuta ad attingere acqua, come sogliono fare uomini e donne.
«Gesù le disse: Dammi da bere. I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani» (Gv 4, 7-9).
Vedete come erano stranieri tra di loro: i giudei non usavano neppure i recipienti dei samaritani. E siccome la donna portava con sé la brocca con cui attingere l'acqua, si meravigliò che un giudeo le domandasse da bere, cosa che i giudei non solevano mai fare. Colui però che domandava da bere, aveva sete della fede della samaritana. 
Ascolta ora appunto chi è colui che domanda da bere. «Gesù le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10).
Domanda da bere e promette di dissetare. E' bisognoso come uno che aspetta di ricevere, e abbonda come chi è in grado di saziare. «Se tu conoscessi», dice, «il dono di Dio». Il dono di Dio è lo Spirito Santo. Ma Gesù parla alla dottrina in maniera ancora velata, e a poco a poco si apre una via al cuore di lei. Forse già la istruisce. Che c'è infatti di più dolce e di più affettuoso di questa esortazione: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva»?
Quale acqua, dunque, sta per darle, se non quella di cui è scritto: «E' in te sorgente della vita»? (Sal 35, 10).
Infatti come potranno aver sete coloro che «Si saziano dell'abbondanza della tua casa»? (Sal 35, 9).
Prometteva una certa abbondanza e sazietà di Spirito Santo, ma quella non comprendeva ancora, e, non comprendendo, che cosa rispondeva? La donna gli dice: «Signore dammi di quest'acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua» (Gv 4, 15). Il bisogno la costringeva alla fatica, ma la sua debolezza non vi si adattava volentieri. Oh! se avesse sentito: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»! (Mt 11, 28).”

venerdì 8 marzo 2019

Per cambiare la vita e non solo qualcosa

I Domenica di Quaresima – Anno C – 10 marzo 2019

Rito Romano
Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

Rito Ambrosiano
Gl 2,12b-18; Sal 50; 1Cor 9,24-27; Mt 4,1-11




1) La Quaresima: perché?
In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo ci porta nel deserto con Gesù, luogo dell'incontro e dell'intimità con Dio, ma anche luogo della lotta suprema con il tentatore. Lo scopo di questi 40 giorni è: la Chiesa sull’esempio di Gesù Cristo il quale si ritirò nel deserto per digiunare 40 giorni, ci fa vivere lo stesso periodo di tempo, al fine di prepararci al fatto che “ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione»,che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.” (Papa Francesco, Messaggio per la Quaresima 2019). Lo scopo della Quaresima non è per la mortificazione, è per l’incontro con il Cristo a Pasqua. Certo in questo cammino verso il Crocifisso Risorto è necessaria la purificazione degli occhi, del cuore e della mente, per guardare, amare e capire se stessi e gli altri come fa Dio. In questo esodo verso la “terra” di Dio è necessaria la preghiera, “che è l'effusione del nostro cuore in quello di Dio” (P. Pio da Pietrelcina). E’ necessario che noi preghiamo, perché la preghiera ci da’ un cuore puro ed un cuore puro sa amare” (M. Teresa di Calcutta) e un cuore puro ha occhi puri per vedere Dio. E’ necessario pregare come nel 49° capitolo della sua Regola, san Benedetto raccomanda ai suoi monaci che si applichino, durante questo santo tempo, a una preghiera “accompagnata da lacrime”, siano esse del pentimento o dell’amore.
Se è utile conoscere il fine del numero 40 legato ai giorni, è utile conoscerne anche l’origine, che non è nel Vangelo, essa si trova già nell’Antico Testamento.
“Nel libro della Genesi leggiamo che, a causa del diluvio, l’uomo giusto Noè trascorse quaranta giorni e quaranta notti nell’arca, insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio gli aveva detto di portare con sé. Poi dovette aspettare altri quaranta giorni, dopo il diluvio, prima di toccare la terraferma, salvata dalla distruzione (cfr Gen 7,4.12; 8,6).
Il libro dell’Esodo ci racconta di Mosè che restò quaranta giorni e quaranta notti sul monte Sinai alla presenza del Signore e ricevette la Legge. In tutto questo tempo digiunò (cfr Es 24,18). Anche il Deuteronomio ci ricorda che il cammino del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa durò quarant’anni e fu un tempo privilegiato in cui il popolo eletto sperimentò la fedeltà di Dio. «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni… Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni», disse Mosè al termine di questi quarant'anni di deserto (Dt 8,2.4).
Quaranta furono gli anni di pace di cui godette Israele sotto i Giudici (cfr Gdc 3,11.30). Purtroppo, passato questo tempo, prevalse la mancanza della memoria dei benefici di Dio e la mancata osservanza della Legge.
Quaranta furono i giorni necessari al profeta Elia per raggiungere il monte Oreb, sul quale incontrò Dio (cfr 1 Re 19,8)”.
Quaranta furono i giorni richiesti Giona ai cittadini di Ninive perché facessero penitenza, ed ottennero il perdono di Dio (cfr Gn 3,4).
Quaranta sono anche gli anni dei regni di Saul (cfr At 13,21), di Davide (cfr 2 Sam 5,4-5) e di Salomone (cfr 1 Re 11,41), i tre primi re d’Israele.
Infine, nel Nuovo Testamento leggiamo che quaranta giorni dopo la sua nascita Gesù fu portato al Tempio e Simone al tramonto della sua vita poté incontrare il Figlio di Dio, all’aurora della sua vita tra gli uomini. E quaranta furono i giorni che senza mangiare Gesù passò nel deserto, dove era andato sotto la guida dello Spirito (Lc 4, 1-13). Gesù nella preghiera si nutrì della Parola di Dio, usandola come arma per vincere il diavolo. Dopo questi quaranta giorni il Redentore cominciò la sua vita pubblica. E ancora quaranta furono i giorni durante i quali Gesù risorto istruì i suoi, prima di “concludere” la sua umana avventura e salire al Cielo e inviare lo Spirito Santo (cfr At 1,3) per continuarla con noi e in noi.
Quaranta, dunque, è il numero simbolico con cui la Sacra Scrittura rappresenta i momenti salienti dell’esperienza della fede del Popolo di Dio. Questo numero non rappresenta tanto un tempo cronologico, scandito dalla somma dei giorni, quanto piuttosto un periodo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro cui occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi (Questi pensieri sui quaranta giorni “biblici” si ispirano a Benedetto XVI, Udienza Generale del 22 febbraio 2012).

2) Un tempo provvidenziale.
Oltre alla preghiera, per vivere questo tempo quaresimale quale tempo propizio e provvidenziale la Chiesa dà come indicazione anche il digiuno e la carità.
Per spiegare brevemente il digiuno userei le parole mortificazione e sacrificio nel loro significato del linguaggio corrente. In tal senso esse significano una temperanza nell’impeto, nell’istinto, una temperanza nell’uso dell’istinto. “Temperare”, in latino, vuol dire governare secondo lo scopo, allo scopo, perciò, di mantenere nell’ordine. Potremmo allora tradurre l’invito al sacrificio, l’invito alla mortificazione e al digiuno, come fedeltà a ciò “più significativo” nella cosa. C’è, infatti, un significato immediato della cosa: uno ha fame, si avventa sul cibo; uno prova affezione, e “usa” l’altra persone per il suo istinto. C’è l’amore di completezza, il desiderio di essere riconosciuti che se non è “temperato” diventa vanagloria, orgoglio, sete di possesso. C’è un’ ingordigia nell’istinto, una non-temperanza nell’istinto. La Chiesa ci invita al “digiuno” perché, nella temperanza, il cibo sia vissuto come mezzo per il cammino, e perché ci rapportiamo con le persone come compagni nello stesso pellegrinaggio della vita, guardandole come icone di Dio.
Libertà dal risultato, per cui uno finalmente è capace di voler bene all’altro, libero dalla risposta dell’altro, dal modo di corrispondenza dell’altro: è veramente la libertà, è veramente l’amare e basta, l’amore finalmente senza la menzogna. E, in secondo luogo, la libertà da se stessi, cioè dal gusto.

3) Elemosina uguale a carità?
Se si volesse essere rigorosi la risposta è: no. L’elemosina non è sinonimo di carità, è un’opera di carità. Ma c’è del vero in questa equipollenza popolare perché elemosina (che viene dal greco e vuole dire avere pietà, come Dio l’ha nei nostri confronti sempre e in particolare quando preghiamo: “Signore, pietà” Kyrie eleison) è un gesto di carità, di compassione verso il povero.
Tuttavia non bisogna ridurre la “carità” alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. Un missionario comboniano (P. Tiboni), che ha speso la sua vita in Uganda diceva spesso: “La più grande carità che noi possiamo avere verso gli africani è di annunciare loro che Cristo è risorto”. Non c'è gesto più caritatevole verso il prossimo che “spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l'evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana” (Benedetto XVI, Messaggio per la Quaresima 2013).
Fare l’elemosina vuol dire vivere la riparazione del peccato altrui, sentirci solidali con il mondo per riparare. Si tratta anche di metter mano alla tasca, ma non crediamo di risolvere tutto con l'elemosina, con la carità spicciola, perché questa è una carità ma non è la Carità. La Carità vera è dare Dio alle anime. Non è cambiare alcune cose, è cambiare la vita vissuta in sacrificio di comunione.
Sant’Agostino nel capitolo undicesimo del De civitate Dei dice che l’unico sacrificio è la comunione. L’unico sacrificio è il passaggio alla comunione, arrivare a dire: “il mio io sei tu”. L’unico sacrificio, perciò, è l’amore. È la grande rivoluzione portata nella storia del mondo prima dai profeti e poi da Gesù. Il suo amore rende possibili tutti i sacrifici per affermare l’altro, anche il sacrificio della vita. Per questo la Chiesa identifica i vergini e i martiri con la forma più alta di amore, perché verginità e martirio sono la testimonianza che la gioia più grande della vita è affermare l’altro, affermare che il tutto è l’altro nell’“elemosina”. Questa parola deriva dal greco eleèo (=ho compassione), da cui attraverso l'aggettivo eléemon (=compassionevole) passò al latino (cristiano) eleemosyna e da lì alle altre lingue (per es.: francese aumône, spagnolo limosna, catalano almoina, inglese alms, tedesco Almosen). Dunque “fare l’elemosina” nel senso etimologico e cristiano del termine vuol dire donare compassione, misericordia condividendo non solo il pane materiale ma il Pane Vitale: Cristo Gesù.
Commentando la parabola delle vergini prudenti San Giovanni Crisostomo esorta tutti, lui compreso: “Laviamo nell’elemosina la nostra anima” e rivolgendosi alle vergini continua “Il fuoco della verginità si spegne se non si versa su di esso l’olio dell’elemosina e questo olio è in vendita presso i poveri” (San Giovanni Crisostomo, Omelia III, 2-3).
Le Vergini Consacrate sono quelle vergini prudenti di cui parla il vangelo, perché tutta la loro vita è spesa per donarsi a Dio e servire il prossimo, nella compassione. Esse non solo fanno l’elemosina, con la loro consacrazione “sono” l’elemosina di Dio al mondo. Queste donne testimoniano che la vera elemosina non è solamente dare dei soldi ai poveri, ma dare loro l’amore. Questa donne consacrate totalmente a Dio sono chiamate a vivere un’esistenza in cui esse diventano le mani di Dio che soccorre il povero. La vergini consacrate mostrano che  L’elemosina non è “la semplice moneta offerta in fretta, senza guardare la persona e senza fermarsi a parlare per capire di cosa abbia veramente bisogno”, ma è “un gesto di amore che si rivolge a quanti incontriamo; è un gesto di attenzione sincera a chi si avvicina a noi e chiede il nostro aiuto, fatto nel segreto dove solo Dio vede e comprende il valore dell’atto compiuto” (Papa Francesco).





Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Discorso 209
QUARESIMA


http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_265_testo.htm


È tempo di eliminare le inimicizie.
1. È arrivato il tempo sacro nel quale mi sento in dovere di esortare caldamente la vostra Carità a pensare più diligentemente all'anima e a contenere gli stimoli del corpo. Questi quaranta giorni sono i più sacri sopra tutta la terra, e il mondo intero, che Dio ha riconciliato a sé in Cristo 1, approssimandosi la Pasqua, li celebra solennemente con una pietà encomiabile. Se ci sono delle inimicizie che non dovevano sorgere o che dovevano estinguersi subito, ma che tuttavia han potuto perdurare tra fratelli fino ad ora sia per negligenza sia per ostinazione sia per una specie di vergogna non umile ma superba, almeno ora abbiano termine. Sopra di esse il sole non avrebbe dovuto tramontare 2; almeno ora, dopo tante levate e tramonti di sole, si estinguano anch'esse finalmente col loro tramonto e non si rinnovino mai più con la loro levata. Chi è negligente si dimentica di estinguere le inimicizie, chi è ostinato non vuol concedere il perdono quando viene pregato di farlo, chi si vergogna per superbia si rifiuta di chiedere perdono. Le inimicizie vivono di questi tre vizi e recano la morte a quelle anime nelle quali non vengono fatte morire. Vigili contro la negligenza la memoria, contro l'ostinazione la misericordia, contro la superba vergogna una prudenza umile. Chi si ricorda di essere negligente nel cercare la concordia scuota il suo torpore ridestandosi; chi pretende di rivendicare i suoi diritti da chi è in debito con lui pensi bene che anch'egli è in debito con Dio; chi si vergogna di chiedere al fratello di perdonarlo vinca con un salutare timore la sua perversa vergogna: affinché, terminate e uccise queste dannose inimicizie, voi possiate vivere. Tutto questo lo compie la carità che non si vanta 3. Riguardo alla carità, fratelli miei, per quanta è già in noi la si eserciti vivendo bene, per quanta ne manca la si ottenga chiedendola.
Sostenere la preghiera con l'elemosina.
2. Dobbiamo sostenere le nostre preghiere con adeguati aiuti. E poiché in questi giorni dobbiamo pregare con più fervore, cerchiamo anche di erogare elemosine con più fervore. Aggiungiamo ad esse quanto risparmiamo digiunando e astenendoci dai soliti cibi. Tuttavia deve fare maggiori elemosine soprattutto chi per qualche esigenza del proprio corpo e per assuefazione ad alcuni alimenti non può astenersene e quindi non può aggiungere all'elemosina che dà al povero quanto nega a se stesso. Proprio perché non può mortificarsi il buon fedele deve dare di più al povero; cosicché, avendo minore possibilità di sostenere con i sacrifici del corpo le sue preghiere, introduca una elemosina più abbondante nel cuore del povero affinché essa possa intercedere per lui. È, questo, un salutarissimo consiglio che ci viene dalle sacre Scritture e che dobbiamo ascoltare: Chiudi l'elemosina nel cuore del povero ed essa pregherà per te 4.
Come mortificarsi.
3. Esortiamo inoltre coloro che si astengono dalle carni a non evitare i recipienti in cui sono state cotte come fossero immondi. L'Apostolo infatti dice: tutto è puro per i puri 5. Secondo la sana dottrina infatti quanto si compie in questa osservanza quaresimale non lo si compie per evitare una impurità legale ma per tenere a freno le passioni. Per cui sbagliano di molto anche coloro i quali si astengono dalle carni però vanno in cerca di altri alimenti che richiedono una preparazione raffinata o che costano di più. Agire così non significa fare astinenza ma trovar varianti alla voluttà. Come potremo dire a costoro di dare ai poveri quanto sottraggono a se stessi se si privano del cibo abituale ma aumentano la spesa per comprarsene un altro più costoso? In questi giorni dunque digiunate con più frequenza, spendete di meno per voi e date con più larghezza ai bisognosi. Questi giorni richiedono una certa continenza anche riguardo ai rapporti coniugali: Per un tempo determinato - dice l'Apostolo - per attendere alla preghiera; poi ritornate di nuovo insieme, perché satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza 6. Non sarà arduo e difficile per gli sposati far questo per pochi giorni, se si pensa che le vedove consacrate si sono impegnate a farlo da un certo momento della loro vita fino alla fine e che le vergini consacrate lo fanno per tutta la vita. E in tutte queste cose siate fervorosi nella pietà evitando però l'orgoglio. Nessuno si compiaccia di essere generoso così da perdere l'umiltà. Tutti gli altri doni di Dio non giovano a nulla se manca il vincolo della carità.