venerdì 26 giugno 2020

Le due colonne della Chiesa

San Pietro è il fondamento della Chiesa, e Paolo l’architetto, il costruttore (Sant’Ambrogio di Milano, De Sp. S. II, 13, 158; P.L. 16, 808);

Solennità dei Santi Pietro e Paolo – Anno A – 28 giugno 2020

Rito romano
At 12,1-11; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

Rito Ambrosiano – III Domenica dopo Pentecoste
Gen 2,4b-17; Sal 103; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21


1) Due Fratelli, due colonne per un’unica Chiesa.
Fin dai primi secoli cristiani la tradizione ha insegnato san Pietro e san Paolo inseparabili: in effetti, insieme, questi due Apostoli rappresentano tutto il Vangelo di Cristo. A Roma, poi, il loro legame come fratelli nella fede ha acquistato un significato particolare. Infatti, la comunità cristiana di Roma li considerò come una specie di contraltare dei mitici Romolo e Remo, la coppia di fratelli a cui si faceva risalire la fondazione di Roma, durante la quale Romolo uccise il fratello Remo. Si potrebbe pensare anche a un altro parallelismo oppositivo, sempre sul tema della fratellanza: mentre la prima coppia biblica di fratelli ci mostra l’effetto del peccato, per cui Caino uccide Abele, Pietro e Paolo, anche se umanamente molto differenti l’uno dall’altro e malgrado nel loro rapporto non siano mancati contrasti, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli, vissuto secondo il Vangelo, un modo autentico reso possibile proprio dalla grazia del Vangelo di Cristo operante in loro. Solo la sequela di Gesù conduce alla nuova fraternità.
Poiché il primo fondamentale messaggio che la festa di oggi ci consegna è quello della fraternità apostolica, per celebrare la solennità dei Santi Pietro e Paolo, la Liturgia della Messa di oggi propone due testi che si riferiscono a San Pietro e uno che parla di San Paolo.
Nella 1ª lettura presa dagli Atti degli Apostoli e nel Vangelo, che presenta un brano preso da San Matteo, si racconta l’assistenza premurosa che il Signore non fa mancare a Pietro nella sofferenza e nella prova, la professione di fede di Pietro (“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”), la sua gioia di credente, la missione che gli viene affidata di essere roccia.
Nella 2ª lettera a Timoteo, proposta come 2ª lettura, è delineata molto bene la fisionomia e la statura spirituale e morale di San Paolo.
Queste letture ci presentano due colonne della Chiesa nascente in generale, e della Chiesa di Roma, in particolare. La prima colonna è Pietro, che è la roccia posta da Cristo a fondamento della sua Chiesa, la seconda è Paolo, che è l’apostolo scelto per portare il messaggio evangelico ai pagani. Due persone profondamente diverse per temperamento e per cultura, ma accomunate da una straordinaria passione per Cristo. Un’unica missione è realizzata da loro percorrendo strade differenti, ma è convalidata dallo stesso sigillo della testimonianza spinta fino al versamento del sangue.
In questi due Apostoli ci è proposta l’immagine di ciò che ogni cristiano è chiamato ad essere: una persona afferrata da Cristo, con la missione di farLo conoscere attraverso la testimonianza della propria vita, donata a Dio con gioia e semplicità in ogni istante.

2) Le caratteristiche di San Pietro.
Il modo di essere Apostolo di Pietro può essere capito e imitato, se ne comprendiamo il carisma suo specifico che era fatto di fermezza, solidità, perseveranza, forza di essere nella diversità delle situazioni sempre sostanzialmente eguali a se stesso, di vivere e di sopravvivere, sicuri di un Vangelo iniziale, d’una coerenza attuale, di una meta finale. Sinteticamente detto: la fede.
Per avere la fede e vivere di fede non occorre avere doti speciali. Guardiamo la figura di Pietro: la sua grande fede si innestò su una umanità forte, ma semplice. Egli fu un pescatore di Galilea, un discepolo di Giovanni il Precursore. Poi fu chiamato da Gesù con un nuovo nome, Cefa, che significa Pietro1. Cristo lo chiamò ad essere pescatore di anime2 e pastore3. Gli affidò la Chiesa, insieme con gli altri undici e primo di essi. Il Redentore fece Apostolo4 questo discepolo, che era un uomo umile5, docile e modesto6, debole anche7, ed incostante e pauroso perfino8, ma pieno d’entusiasmo e di fervore9, di fede10, e di amore11. Pietro da subito esercitò nella nascente comunità cristiana12, di centro, di maestro, di capo. Un primato di amore e di verità, di fede, di fedeltà,
E’ la fede che dobbiamo domandare a Pietro, quella che da lui e dagli Apostoli ci deriva.
Che cosa saremmo senza la fede, la vera fede? Polvere di storia, granelli di sabbia sbattuta dal vento. Ma ci è richiesto qualche cosa di più, se vogliamo essere devoti di San Pietro. Ci è richiesta la fedeltà. La fede è di tutto il Popolo di Dio; ed anche la fedeltà; ma tocca principalmente a noi dare prova di fedeltà. «Siate forti nella fede» (1 Pt 5,9). Cioè non possiamo dirci discepoli e seguaci di San Pietro, se la nostra adesione al messaggio redentivo di Gesù Cristo non avesse quella fermezza interiore, quella coerenza esteriore, che ne fa un vero e pratico principio di vita.

3) Le caratteristiche di San Paolo.
Per descrivere il carisma, il dono spirituale specifico che ha ricevuto San Paolo, mi servirò di quanto scrive San Tommaso d’Aquino nel suo commento alle lettere di questo Apostolo delle Genti e di un paragone fatto da San Giovanni Crisostomo.
Il grande teologo domenicano inquadra la figura di san Paolo e la sua opera con il richiamo alla espressione degli Atti degli Apostoli (9,15) con la quale il Signore parla di Paolo ad Anania in una visione: “Egli è per me vaso di elezione per portare ai popoli il mio nome”. L’immagine del vaso è sovente usata nella Scrittura per indicare gli uomini e San Tommaso si serve di questa immagine per descrivere le caratteristiche della figura di san Paolo.
Quattro sono le caratteristiche di un vaso:
1) è un prodotto della libera volontà di un artigiano,
2) è un contenitore capiente,
3) è fatto per essere usato, quindi
4) è utile.
In effetti,
1) come un vaso è plasmato dall’artigiano, così Paolo è un uomo plasmato da Dio. E’ creta docile nelle “mani” creative di Dio, fatto con materiale prezioso come l’oro, il quale indica la ricchezza della sapienza, della carità e di tutte le virtù ricevute da questo Apostolo. Infatti San Paolo insegnò i misteri della Sapienza divina, elogiò la carità e raccomandò agli uomini le virtù da coltivare.
2) Come contenitore, Paolo fu pieno del nome di Gesù, da predicare e da amare.
3) Egli fu usato secondo la nobiltà più grande: per portare il nome di Gesù nel corpo, ricevendo le stimmate di Cristo, e nella bocca, come la colomba del diluvio portò nel becco il ramoscello d’ulivo che è simbolo della misericordia di Dio. Infatti, Gesù è questa misericordia: il suo nome significa Salvatore. Paolo stesso fu destinatario di questa misericordia, un convertito, ma la portò con la predicazione anche ai pagani eletti.
4) Quanto all’utilità, Paolo divenne infatti maestro delle genti. E il frutto del suo insegnamento sono le sue lettere, nelle quali è esposta la dottrina della grazia di Cristo.
Per capire questo 4 punto è utile il paragone che San Giovanni Crisostomo fa tra Paolo e Noè: “Paolo non mise insieme delle assi per fabbricare un'arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o cinque membri della propria famiglia, ma l'intera ecumene che era sul punto di perire” (Paneg. 1,5). Proprio questo può -ancora e sempre- fare l’apostolo Paolo. Prendere da lui, tanto dal suo esempio apostolico quanto dalla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il rinnovarsi costante della Chiesa.
Infine, vorrei mettere in evidenza la frase di San Paolo che –secondo me- meglio esprime quello che questo Apostolo è: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui Dio abita personalmente.
Secondo il linguaggio contemporaneo, potremmo dire che San Paolo era un uomo interculturale. In effetti riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra.
Protagonisti di questa missione siamo tutti noi cristiani, uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me il vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della sua Chiesa.
In questa missione le Vergini consacrate nel mondo hanno un compito particolare, quello di testimoniare nel loro lavoro quotidiano che si può vivere in Cristo, con Cristo e per Cristo, cioè “della Sua parola, del Suo Corpo, del Suo Spirito”, come scrive Sant’Agostino che aggiungeva che “la gioia delle vergini consacrate viene da Cristo, è in Cristo, con Cristo, alla sequela di Cristo, per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”:
Tutti siamo chiamati a seguire Cristo riponendo in Lui il senso ultimo della propria vita, fino a poter dire con l'Apostolo: “Per me il vivere è Cristo”. “Ma un’esperienza singolare della luce che promana dal Verbo incarnato fanno certamente i chiamati alla vita consacrata, che li pone quale segno e profezia per la comunità dei fratelli e per il mondo. Non possono perciò non trovare in essi particolare risonanza le parole estatiche di Pietro: “Signore, è bello per noi stare qui” (Mt 17, 4).Queste parole dicono la tensione cristocentrica di tutta la vita cristiana. Esse, tuttavia, esprimono con particolare eloquenza il carattere totalizzante che costituisce il dinamismo profondo della vocazione alla vita consacrata “( Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Post-sinodale Vita Consecrata, n. 15).

1 Gv 1, 42; Mt 16, 18.
2 Lc 5, 10.
3 Gv 21, 15, ss.
4 Lc 6, 13.
5 Lc 5, 8.
6 Cf. Gv 13, 9; 1 Pt. 5, 1.
7 Mt 14, 30.
8 Mt 26, 40-45, 69 ss.; Gal. 2, 11.
9 Mt. 26, 33; Mc. 14, 47.
10Gv 6, 68; Mt 16, 17.
11Lc. 22, 62; Gv 21, 15 ss.
12Cf At. 1 - 12, 17.
 

Lettura patristica
Sant'Agostino, vescovo
Dal Discorso 295, 1-2. 4. 7-8 (PL 38, 1348-1352)
Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato.

Il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo ha reso sacro per noi questo giorno. Noi non parliamo di martiri poco conosciuti; infatti «per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola» (Sal 18, 5). Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato. Hanno seguito la giustizia. Hanno testimoniato la verità e sono morti per essa.
    Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro. Pietro deriva da pietra, come cristiano da Cristo.
    Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l'incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l'intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l'intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell'universalità e dell'unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. È ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un'altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
    Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l'incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l'unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
    Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell'amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell'amore ciò che avevi legato per timore.
    E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.
    Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch'essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
    Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione.


venerdì 19 giugno 2020

La Provvidenza è la misericordia di Dio nella nostra vita quotidiana.

XII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A – 21 giugno 2020
 25 giugno 2017

Rito Romano

Rito Ambrosiano

Gen 2,4b-17; Sal 103; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21

III Domenica dopo Pentecoste


    1) La paura sconfitta dalla fiducia
 Nel vangelo di oggi ascoltiamo le raccomandazioni che Gesù fa ai suoi discepoli mandati in missione.. Non parla solo di luoghi in cui andare, dello stile da assumere, ma anche della possibilità della persecuzione e di cosa fare nel momento in cui questa si abbatta sui missionari: Cristo invita tre volte i suoi discepoli a non avere paura.
Invitando a non temere Cristo chiede ai discepoli (noi compresi) ad avere il contrario della paura, cioè la fiducia che libera dalla paura. Questa fiducia viene dal credere che la nostra vita, la nostra storia è nelle mani di Dio.
Certo la paura, soprattutto quella di morire, resterà sempre, ma non sarà il movente del nostro agire, diventa quella giusta prudenza per non esporci a rischi inutili. (E’ utile ricordare che in noi la paura - paura vuol dire in questo caso mancanza di fede - sempre convive con la fede. Però sono in proporzioni inverse, dove c’è fede non c’è paura, dove c’è paura non c’è ancora fede matura e piena).
In ogni caso, il timore ha radici non solamente nel fatto che, poco prima, il Messia aveva detto ai suoi discepoli che li mandava come agnelli in mezzo ai lupi. In effetti, c’è un certo timore che governa le nostre azioni. La paura della morte, l’istinto di autoconservazione è ciò che “istintivamente” controlla quello che facciamo. Se non ce l’avessimo, dovremmo preoccuparci. Non c’è niente di male in questo. Una certa paura della morte è giusta per conservare la vita, però sta di fatto che tutti moriamo, quindi l’aver paura della morte, sapendo di dover morire, vuol dire vivere tutta la vita nella paura, cioè non vivere, come si corre il rischio in questo particolare momento della pandemia. Vuol dire vivere tutta la vita nell’angoscia, nella schiavitù del male, nella schiavitù della morte, quindi nella disperazione.
Quindi la paura, che pur in qualche misura è giusta, non può essere principio di tutte le azioni. È giusto averla, come in una macchina ci sono anche i freni, ma c’è anche il motore e il motore della vita non deve essere la paura, il motore della vita deve essere la fiducia o, meglio, l’amore che ripone la sua fiducia in chi ci ama.
Perché questo accada, facciamo come un bambino di pochi anni che, se messo in una stanza in cui all’improvviso si spenga la luce, per paura del buio grida: “Mamma”, “Papà”. La paura non crea la mamma, né il papà, fa urlare la domanda di aiuto a chi lo ama e il cui amore l’ha preceduto. Il bambino impaurito invoca con fiducia l’amore che l’ha generato e che sa che gli può ridare la luce. Facciamo altrettanto invocando Dio Padre il cui amore infinito ci dà la compassione di cui abbiamo bisogno per vivere.

2) Evangelizzazione e compassione.
La fede ci dice che la nostra vita è custodita dall’amore di Dio, che è Padre e, perciò, è provvidenza.
Il Vangelo di oggi conferma questa fede e Cristo ci ricorda che se Dio si prende cura anche dei passeri, delle cose deboli come i nostri capelli, certamente si prende cura di noi, ogni giorno.
Dio non è mai assente, è con noi in ogni istante della nostra vita e lo sarà fino alla fine del mondo. Sappiamo di essere nelle mani di Dio, che ha fatto suo il dramma dell’uomo, facendosi carne per salvarci. Lui è sempre presente, si commuove e piange, partecipa, si china sulle nostre ferite, asciuga le nostre lacrime, si china su ciascuno.
Eppure viviamo spesso nella paura. In effetti, la consolante verità che Dio, con volto sereno e mano sicura guida la nostra storia, trova paradossalmente nel nostro cuore un duplice, contrastante sentimento: da una parte siamo portati ad accogliere e ad affidarci a questo Dio Provvidente, così come afferma il Salmista: “Io sono tranquillo e sereno. Come un bimbo in braccio a sua madre è quieto il mio cuore dentro di me” (Sal 130, 2). Dall’altra, però, abbiamo paure e esitiamo ad abbandonarci a Dio, Signore e Salvatore della nostra vita, o perché, offuscato dalle cose, ci dimentichiamo di Dio provvidente, o perché, feriti dalla varie sofferenze e difficoltà della vita, dubitiamo di lui come Padre. In tutte e due i casi la Provvidenza di Dio è come chiamata in causa dalla nostra fragile umanità.
Su questo crinale sottile fra speranza e disperazione si colloca la parola di Dio così splendida da essere umanamente quasi incredibile, così vera da rafforzare immensamente le ragioni della speranza,. La parola di Dio non assume mai tanta grandezza e fascino come quando si confronta con la massima domande dell’uomo, di ciascuno di noi che si chiede: “Qual è e dov’è il mio destino?”. Il Vangelo ci dice che Dio è qui, è Emmanuel, Dio-con-noi (Is 7, 14), e in Gesù di Nazareth morto e risorto, Volto buono del destino, Figlio di Dio e nostro fratello, Dio mostra di aver “piantato la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14).
Se accogliamo questa risposta che è Cristo, che dimora in noi e noi in Lui non abbiamo più paura perché la paura è vinta dal nostro essere radicati nell’Amore.
Se, oggi accogliamo l’invito di Cristo, che per tre volte ci ripete di non avere paura, non solo vivremo nella pace perché il nostro cuore è consolato, ma saremo testimoni del suo Vangelo di letizia, di compassione portando nelle piazze delle nostre città e nell’intimo delle nostre case la lieta notizia che Dio è tra noi e ci dice: “Non avere cura di te, lascia che di te abbia cura il Signore.
La missione nasce dalla compassione ricevuta da Dio e condivisa tra di noi. Questa compassione non è solo dire che qualcuno ci fa pietà. La parola “compassione” viene da due parole che in greco e in ebraico fanno riferimento alle viscere, all'utero della madre. Sentire compassione allora è un qualcosa che ci prende dentro, qualcosa di viscerale e mi pare che sia questa l'unica condizione per poter cogliere l'invito di Gesù a non temere, a non avere paura, a confidare in Dio. La missione, il predicare, come dice il vangelo di oggi dalle terrazze, è possibile solo nella misura in cui essa non diventa un fatto di organizzazione, ma di compassione.
Dunque, è giusto (o almeno lo spero) affermare che allora il primo grande invito che ci fa la Liturgia della Parola di questa domenica: confidare in Dio. Già nella prima lettura il profeta Geremia afferma: “il Signore è al mio fianco... il Signore ha liberato la vita del povero”, ma anche nel brano di Vangelo, che – attraverso delle immagini - ci racconta di una vita, la nostra, custodita dall'amore di Dio. Di una vicenda, quella di Geremia, assediato da amici e nemici: anche gli amici ce l'hanno con lui, e perché? Unicamente perché ha annunciato il volto di Dio e ha esortato le persone che lo ascoltavano a confidare unicamente in Dio. Per questo Geremia viene preso, legato, frustato nel tempio. Per questo, Cristo è stato crocifisso.
Ma la vita di Geremia e quella di Cristo mostrano che vale la pena confidare in Dio. E’ ragionevole vivere questo abbandono totale e questa amorosa confidenza. Quando lo facciamo, facciamo esperienza di una pace e gioia profonde. E nei momenti di fatica guardiamo a Cristo e alla lunghissima teoria di santi e sante che l’hanno seguito. Come esempio, questa volta cito Nicodemo, che va da Gesù di notte, per paura. La notte è il momento ideale per chi non vuole essere visto. Per chi non vuole farsi vedere a parlare con qualcuno. Chi ha vergogna di mostrare se stesso trova nella notte il momento ideale. La notte di Nicodemo, forse indica la paura di essere se stesso. Indica la paura di essere vero. La notte di Nicodemo indica la sua incapacità e la sua paura di essere libero. Bellissimo poi, che nel momento più difficile Nicodemo vada a chiedere il corpo di Gesù in pieno giorno: come se lo chiedesse urlando da un tetto.

3) Martiri: testimoni esemplari della Provvidenza, confidenti in Dio fino a morirne.
Mi piace molto che nel vangelo di oggi ci sia scritto anche che nulla rimarrà nascosto, di sconosciuto a Dio, nemmeno la sofferenza più piccola. Per noi “figli” è una garanzia che anche il disagio o la sofferenza o, al limite, il martirio entrino nel disegno di Dio Padre. L’affermazione : “Non cade un passero senza che Dio lo sappia e lo voglia” non vuole dire: non ci accadrà mai di cadere, ma che tutto è parte del disegno provvidente del Padre onnipotente e provvidente. Significa: se vi accade di cadere, Dio lo sa. Dentro alla nostra sofferenza Dio c’è, non siamo abbandonati, c'è la sua presenza come presenza di salvezza, anche se evidentemente non viene percepita, e anche se a livello psicologico non fa un grande effetto, non si sente una grande consolazione; ma dentro ad una dimensione di fede c'è la possibilità di vivere ugualmente questa dimensione di presenza di amore dell’Emmanuele, il Dio sempre con noi .
San Paolo paragona le sofferenze umane e cosmiche a una sorta di “doglie del parto” di tutta la creazione, sottolineando i “gemiti” di coloro che possiedono le “primizie” dello Spirito e aspettano la pienezza dell’adozione, cioè “la redenzione del nostro corpo”. Ma aggiunge: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio . . .” e più oltre: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?”, fino a concludere: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita . . . né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 22-39). Accanto alla paternità di Dio, manifestata dalla Provvidenza divina, appare anche la pedagogia di Dio: “È per la vostra correzione (“paideia”, cioè educazione) che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto (educato) dal padre? . . . Dio lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità” (cf Eb 12, 7. 10) (S. Giovanni Paolo II).  Vista dunque con gli occhi della fede la sofferenza, anche se può ancora apparire come l’aspetto più oscuro del destino dell’uomo sulla terra, lascia però trasparire il mistero della divina Provvidenza, contenuto nella rivelazione di Cristo, e in particolare nella sua croce e nella sua risurrezione.
L’importante è scoprire mediante la fede la potenza e la “sapienza” del Dio Padre che con Cristo ci conduce sulle vie salvifiche della divina Provvidenza. Si conferma allora il senso delle parole del salmista: “II Signore è il mio pastore . . . Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me” (Sal 22, 1. 4).
Qualsiasi esperienza ci sia portata da ciò che “umanamente” chiamiamo il destino, dobbiamo cristianamente chiamarla Provvidenza, e con fiducia superare la nostra ignoranza e con amore collaborare all’opera redentiva del Dio Figlio. Il suo santo Spirito possa testimoniare nel nostro cuore che siamo veramente figlio di Dio, e che è ragionevole accettare tutti gli avvenimenti della “mano” di Dio.
Il testamento scritto dall’Abate di Tiberine alcuni mesi prima di essere martirizzato ci è di esempio sublime: “Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
 La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.
 Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito” (si veda il testo completo che è proposto al posto della lettura patristica)
A questo punto non ci resta che pregare perché nella certezza dell’amore di Dio noi troviamo la risposta a quelle domande a cui nessuna sapienza umana può rispondere. Preghiamo dunque così:
“Che tu mi ami è risposta a ogni domanda — fa’ che io lo senta quando giunge l’ora della prova” (Romano Guardini)»

4) Le vergini consacrate: testimoni della Provvidenza.
Nei due paragrafi precedenti ho cercato di spiegare che la Provvidenza divina si rivela come il camminare di Dio a fianco dell’uomo.
Tenendo presente l’Antico Testamento1, ho cercato di mostrare che le parole di Cristo raggiungono una pienezza di significato ancora maggiore. Le pronuncia infatti il Figlio che “scrutando” tutto ciò che è stato detto sul tema della Provvidenza, rende testimonianza perfetta al mistero del Padre suo: mistero di Provvidenza e di cura paterna, che abbraccia ogni creatura, anche la più insignificante, come l’erba del campo o i passeri. Tanto più l’uomo, dunque. 
Ma c’è da tenere presente che ciascuno di noi non solo deve essere grato per l’azione provvidente del Creatore verso di noi, ma abbiamo anche il dovere di cooperare col dono ricevuto dalla Provvidenza. Egli non può quindi accontentarsi dei soli valori del senso, della materia e dell’utilità. Deve cercare soprattutto “il regno di Dio e la sua giustizia” perché “tutte queste cose (i beni terreni) vi saranno date in aggiunta” (cf. Mt 6, 33). 
Un esempio di questa cooperazione al disegno di amore provvidente di Dio è la consacrazione delle vergini, che con il dono totale di se stesse a Dio diventano il riflesso del pensiero e dell’amore di Dio nelle cose e nella storia, lasciandosi impregnare dalla carità sapiente di Dio e di condividerla con i fratelli e sorelle in umanità.
Per questo il Vescovo che presiede il rito di consacrazione dell’OV prega: “O Dio, che ti compiaci di abitare come in un tempio nel corpo delle persone caste e prediligi le anime pure e incontaminate… volgi lo sguardo su queste figlie, che nelle tue mani depongono il proposito di verginità di cui sei l'ispiratore, per farne a te un'offerta devota e pura. Guida e proteggi queste nostre sorelle, che implorano il tuo aiuto nel desiderio ardente di essere fortificate e consacrate dalla tua benedizione … Concedi, per il dono del tuo Spirito, che siano prudenti nella modestia, sagge nella bontà, austere nella dolcezza, caste nella libertà. Ferventi nella carità nulla antepongano al tuo amore; vivano con lode senza ambire la lode; a te solo diano Gloria nella santità del corpo e nella purezza dello spirito; con amore ti temano, per amore ti servano. In te, Signore, possiedano tutto, poiché hanno scelto te solo al di sopra di tutto” (RCV 38).

1 Per esempio, il Salmo 90: “Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’ombra dell’Onnipotente, di’ al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido» . . . Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora . . . Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura” (Sal 90, 1-2. 9. 14-15),



Lettura “quasi” patristica

Testamento di Padre Christian De Chergé,
priore dell’Abbazia di Tibihrine,
Questo Monaco fu martirizzato con altri sei monaci trappisti in Algeria nel maggio 1996.
Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.
Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta?
Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia.
Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.
So di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi, e conosco anche quali caricature dell’Islam incoraggia un certo islamismo. E’ troppo facile mettersi la coscienza a posto identificando questa via religiosa con gli integrismi dei suoi estremismi.
L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un anima.
L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.
Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione,giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.

Amen! Inch’Allah”.

Algeri, 1° dicembre 1993

Tibihrine, 1° gennaio 1994

venerdì 12 giugno 2020

Adorazione e annuncio dell’Amore.

CORPUS DOMINI - Anno A – 14 giugno 2020

Rito Romano
Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1 Cor 10,16-17; Gv 6,51-58

Rito Ambrosiano
Dt 8,2-3. 14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6, 51-58



  1. Amore da adorare e da annunciare in processione.
In questa domenica la Liturgia ci fa celebrare la Solennità del Corpo e Sangue del Signore, il cui nome tradizionale è “Corpus Domini”. Si tratta di una festa che è sorta nel secolo XIII e che si è sviluppata grandemente in tutta la Chiesa Cattolica. Ma essa ha radici più antiche, in effetti San Giovanni Paolo II vedeva l’inizio di questa festa in quella prima “processione” fatta dagli Apostoli con Cristo dopo l’Ultima Cena. Accompagnando il Redentore e, al tempo stesso, portandolo nei loro cuori come Eucaristia ricevuta pochi momenti prima, gli Undici uscirono dal Cenacolo verso il monte degli Ulivi.
Lasciando il nostro Cenacolo, anche noi con Cristo nel cuore andiamo tra gli uomini amici o nemici che siano. Dopo aver celebrato l’Eucaristia in Chiesa, dopo essere “usciti” da noi stessi per adorare il Signore, Pane vivo del Cielo, siamo invitati ad “uscire” e percorrere le strade del mondo per annunciare l’amore, che nutre davvero la nostra esistenza e dona la vita che non muore.  L’amore è più forte della morte; in Gesù Cristo Dio è in mezzo a noi.
Soltanto se c’è una risposta alla morte, l’uomo può essere veramente contento. Ma, se esiste questa risposta, allora è essa l’effettiva e valida autorizzazione alla gioia, ciò che può veramente costituire il fondamento di una festa. Nella sua essenza, l’Eucaristia è, la risposta al problema della morte, l’incontro con l’amore, che è più forte della morte. Il Corpus Domini è risposta a questo nucleo del mistero eucaristico.
Inoltre. se è vero che l’Eucaristia è il Sacramento del più profondo nascondersi di Dio: egli si nasconde sotto le specie del pane e del vino, e in tale modo si nasconde nell’uomo, è altrettanto vero che l’Eucaristia è il Sacramento di un particolare uscire nel mondo – e dell’entrare tra gli uomini e in mezzo a tutto ciò di cui si compone la loro vita quotidiana. La presenza di Cristo nell’Ostia consacrata è silenziosa, nascosta, dimessa, eppure ansiosa di incontrare lo sguardo di tutti gli uomini che lo attendono anche senza saperlo. Accompagniamo la processione eucaristica in uscita con la preghiera, perché cresca in noi il desiderio di immergerci nel mistero dell’Eucarestia e perché tutto il modo si possa aprire a questo amore infinito.
Oggi questo uscire ha la forma della processione eucaristica, in cui noi fedeli accompagniamo per le strade delle città e dei paesi, ripetendo l’esodo di Gesù e dei suoi Apostoli dal Cenacolo al Monte degli Ulivi (Nel paragrafo 3 ne scriverò un po’ più ampiamente). Allora fu una processione nel dolore della passione che cominciava. Oggi è una processione nella gioia della risurrezione di Cristo che benedice il mondo e lo conforta. In effetti, la processione del Corpus Domini ci insegna che l’Eucaristia ci vuole liberare da ogni abbattimento e sconforto, ci vuole far rialzare, perché possiamo riprendere il cammino con la forza che Dio ci dà mediante Gesù Cristo risorto, Pane di vita.


2) Pane di Vita e di Amore.
Per entrare nel mistero dell’Eucaristia, prima di tutto –secondo me- è necessario ricordarsi delle parole di Gesù: “Dio ha amato talmente il mondo da donare il Suo figlio Unico perché il mondo si salvi per mezzo di Lui” (cfr Gv 3, 16).
L’Eucaristia è il sacramento, che perpetua questo dono che viene dall’amore fedele di Dio.
Per questo, nella festa del Corpo e del Sangue del Signore la Liturgia propone come Prima Lettura della Messa di oggi un brano del Deuteronomio, che è un invito a non dimenticare che durante l’esodo Dio è sempre stato accanto al popolo di Israele. Nel Suo amore fedele, Dio non ha esitato a mettere alla prova gli Ebrei nel deserto, ma è stato sempre accanto a loro ed ha dato loro la manna perché continuassero il cammino verso la terra promessa.
Nella Seconda Lettura, san Paolo ci parla del fine dell’Eucaristia che di “formare un solo corpo” (cfr 1 Cor 17), di essere tutti in comunione con Cristo e di essere tra noi fratelli, cioè Chiesa nutrita dal pane eucaristico condiviso. Comunione significa scambio, condivisione. Ora la regola fondamentale della condivisione è questa: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ma che cosa ho io di propriamente “mio”? La miseria, il peccato: solamente ciò è esclusivamente mio. E che cosa ha di “suo” Gesù? La santità, la perfezione di tutte le virtù. Allora la comunione consiste nel fatto che io dò a Gesù il mio peccato e la mia povertà, e lui mi dà la Sua santità. Si realizza il “meraviglioso scambio”, come lo definisce la Liturgia.
Nelle Terza Lettura, che riporta un breve brano preso dal capitolo 6 del Vangelo di San Giovanni, ci viene presentata la volontà di Gesù di nutrire tutti con la sua carne e di dissetarli con il suo sangue per avere la vita e averla in abbondanza.
Quando si va a ricevere la Comunione, il sacerdote dice “Il Corpo di Cristo”, e il fedele risponde “Amen”. Dobbiamo dunque essere membra del Corpo del Cristo, perché sia vero il nostro Amen. E’ un mistero di unità, pietà, carità. Un solo pane, un solo corpo, fatto di molti. Il pane non è fatto con un solo chicco di grano, ma con un gran numero. “Al battesimo siete stati imbevuti d’acqua. Lo Spirito Santo è venuto allora in voi come il fuoco che cuoce la pasta: Siate dunque ciò che vedete e ricevete ciò che siete” (Sant’Agostino).
E’ pure importante sottolineare alcuni particolari che non sono però dei dettagli irrilevanti. Nel Vangelo di Giovanni costatiamo che l’Apostolo preferisce la parola “carne1” alla parola “corpo”. Probabilmente vuole mettere in rilievo il realismo dell'incarnazione (“il Verbo si è fatto carne” davvero) contro le tendenze che cercavano, al contrario, di negare al Figlio di Dio la possibilità di assumere una vera e piena umanità. Si noti, poi, la dimensione universale: questo Santo Cibo è per la vita del mondo intero. Infine c’è un’insistenza che non è casuale: mangiare la carne e bere il sangue è indispensabile per avere la vita. Cristo è vero cibo per la vera vita degli uomini.
Santa Teresa di Calcutta diceva alle sue suore che “dovevano trattare i malati come il sacerdote tratta l'ostia consacrata” e aggiungeva questa esperienza frutto della Comunione e dell’Adorazione: “Quando adoro Gesù nell’Eucaristia vedo i poveri e quando sto con i poveri vedo Gesù”.


3) Convocazione, cammino e adorazione.
La celebrazione della festa del Corpus Domini non consiste solamente nella Messa celebrata in modo particolarmente solenne. Essa prevede anche una processione per le strade della città o del paese.
La Chiesa, il popolo di Dio radunato attorno all’Eucaristia, in tutte le parrocchie della Terra avanza oggi davanti a tutto il mondo con la più grande pretesa che si possa avanzare: quella di possedere e offrire in un pezzo di pane e in un sorso di vino la carne e il sangue di Gesù, di Colui che si è detto il Cristo, il Figlio di Dio fatto Uomo, di colui che è il Redentore dell’uomo e del mondo intero.
Durante le processione un po’ di questo pane “consacrato” è posto in un prezioso ostensorio ed è portato dalle mani del prete per le nostre strade, perché sia adorato come il sacramento nel quale è presente realmente il Signore del mondo.
Non è imposto a nessuno credere in questo. Ma la certezza di un popolo che cresce nel mondo e che qui è presente sfida chiunque a “verificare” che possibilità di verità ci sia in quello che viene proposto a credere.
Per tutti, credenti o no, oggi è una grande occasione per ripensare a questa fede della Chiesa. Il credente deve ritrovare le ragioni per rinsaldarla in sé. Il non ancora credente deve paragonarsi con le ragioni che gli vengono date. La più grande di tutte queste ragioni è la “resistenza” di questa fede che fino ad oggi “fa” i martiri (ne sono stati calcolati ben quarantacinque milioni nel secolo XX) e i santi, che danno tutta la loro vita per l’amore a questo Cristo presente nella Chiesa, nell’Eucaristia, nei fratelli.
La processione di oggi non è come quella del Giovedì santo, quando, dopo la prima Cena Eucaristica, gli Apostoli accompagnarono Cristo al Monte degli Ulivi, è un cammino con Cristo risorto quindi è pieno di letizia, di stupore sereno, di adorazione, che è la preghiera che diventa sguardo. “L’adorazione è la preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma” (Benedetto XVI, 2 maggio 2008).
In questo “esodo” eucaristico ci sono di esempio le Vergini Consacrate nel mondo. Nell’Eucaristia Cristo è sempre in cammino verso il mondo e queste donne a Lui devote, con Lui vanno verso il mondo. E’ parte della loro specifica vocazione portare Lui, presente nelle specie del pane e presente nel loro cuore, per le strade del mondo, affidando a Lui, alla sua bontà queste strade. Che sull’esempio della Vergini consacrate la nostra persona sia casa per Lui e con lui e la nostra vita di ogni giorno si penetrata ogni giorno dalla sua presenza.
Esse vivono dell’Eucaristia e testimoniano che l’Eucaristia assunta con fede spinge a una vera comunione con Dio e, di conseguenza con il prossimo. Il Pane consacrato e condiviso è segno visibile di questa comunione, è sacramento di carità e il gesto di spezzarlo e di distribuirlo deve essere segno d'amore e di accoglienza. L’Eucaristia è il Pane quotidiano per il cammino di ogni giorno di persone radunate, convocate per lodare Dio e vivere di Lui.
Con l’Eucaristia il Signore non ci lascia soli in questo cammino. Egli è con noi, sempre. Anzi, Egli desidera condividere la nostra sorte fino ad immedesimarsi con noi. Ma non dimentichiamo che non basta il progredire. Se non ci sono dei criteri di riferimento, il “progresso” rischia di farci correre fuori strada. Rischiammo di finire in un precipizio, o comunque di allontanarsi più rapidamente dalla meta, se Lui non ci indica il cammino. Dio ci ha creati liberi, ma non ci ha lasciati soli: si è fatto Lui stesso “via” ed è venuto a camminare insieme con noi, perché la nostra libertà abbia anche il criterio per discernere la strada giusta e percorrerla.
Non solo il camminare con Cristo è libertà, anche l’inginocchiarsi davanti all’Eucaristia, perché è professione di libertà. Chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo in adorazione solamente davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16).

1 Il termine greco usato da San Giovanni per “carne” è “sarx”, che corrisponde all'ebraico “basar”: è un vocabolo semitico che indica non tanto la carne, in senso materiale, come la intendiamo noi, ma l’umanità, la persona; nel linguaggio biblico l'espressione “carne e sangue” designa la persona umana nella sua realtà storica, l'uomo totale nella sua manifestazione concreta. Quindi l'espressione “mangiare la carne” non deve far pensare all’antropofagia, ad una forma di cannibalismo, essa indica piuttosto l’entrare in comunione totale con il Salvatore.


Lettura Patristica
Sant’Agostina d’Ippona (354 – 430)
SUL SALMO 137
Adorerò presso il tuo tempio santo. Qual è questo tuo santo tempio? Quello in cui abiteremo, in cui adoreremo. Alla sua adorazione tende infatti la nostra corsa. Il nostro cuore è gravido, sul punto di partorire, e cerca un posto per partorire. Orbene, quale sarà il luogo dove Dio deve essere adorato? Qual è quel mondo o quell'edificio o quel trono in cielo e fra le stelle? Lo cercheremo ricorrendo alle Sacre Scritture, e la risposta sarà nelle parole della Sapienza, là dove dice: Io ero con lui; io ero colei di cui egli si compiaceva quotidianamente. Ci elenca poi le sue opere e ci indica quale sia il trono di Dio. Qual è? Continua: Quando formava grosse nubi in alto, quando separava la sua sede sopra i venti. Ora sua sede è lo stesso che suo tempio. Dove andremo dunque? Dovremo proprio adorarlo al di sopra dei venti? Se Dio è da adorarsi al di sopra dei venti, in questo ci vincono gli uccelli. Per " venti " si possono però intendere le anime, cioè col nome " venti " si indicano le anime, come dice in un passo la Scrittura: Ha volato sopra le penne dei venti, dov'è da intendersi che ha volato al di sopra delle risorse dell'anima. In forza di questa ampiezza di significato diciamo che l'anima è un soffio divino, una specie di vento: certo non dello stesso genere del vento che sentiamo quando sbatacchia qua e là gli oggetti ma indicando con tale nome una realtà invisibile, che cioè non si riesce a vedere con gli occhi, né a udire con gli orecchi né a sentire col naso, né a gustare con la gola, né a toccare con le mani. Quel che infatti chiamiamo anima è una energia vitale che ci fa vivere. Se prendiamo " i venti " in questo senso, non occorre che supponiamo delle penne materiali, per volare a somiglianza degli uccelli al tempio di Dio e là adorarlo. Ci accorgeremo, viceversa, che, supposta naturalmente la nostra intenzione di essere suoi fedeli, è su di noi stessi che Dio ha la sua sede. Vedete se non sia proprio questo il senso delle parole dell'Apostolo: È santo il tempio di Dio, che siete voi. Sicuramente (è cosa evidente) Dio abita negli angeli. Da cui segue che, quando il nostro godimento proviene non da beni materiali ma da realtà spirituali e da esse trae motivo per innalzare il cantico a Dio salmodiando in compagnia degli angeli, allora tempio di Dio è la stessa assemblea degli angeli, e in quel tempio noi lo adoriamo. C'è una Chiesa di quaggiù e una Chiesa di lassù. La Chiesa di quaggiù è l'insieme dei fedeli, la Chiesa di lassù è l'insieme degli angeli. Alla Chiesa di quaggiù scese il Signore degli angeli: colui che, mentre si faceva nostro servo, veniva servito dagli angeli. Diceva: Non son venuto per essere servito ma per servire. In che cosa si è reso nostro servo, se non donandoci quello che anche oggi mangiamo e beviamo? Che se il Signore degli angeli s'è fatto nostro servo, non disperiamo di diventare un giorno simili agli angeli. Chi era più grande degli angeli discese a fianco dell'uomo; il Creatore degli angeli assunse la natura dell'uomo e il Signore degli angeli per l'uomo morì. Per tutto questo io adorerò presso il tuo santo tempio, e per tuo tempio intenderò non un tempio eretto da mani di uomo ma quello stesso tempio che tu stesso ti sei eretto.
E confesserò al tuo nome, nella tua misericordia e nella tua verità. Per queste due cose noi confessiamo. Così si legge anche nell'altro salmo: Tutte le vie del Signore sono misericordia e verità. Per queste due cose noi confessiamo: Nella tua misericordia e nella tua verità. Per la misericordia verso i peccatori volgesti a noi lo sguardo, per la verità ti mantenesti fedele alle promesse. Ebbene, io confesserò a te per la tua misericordia e la tua verità. E secondo questi due atteggiamenti io secondo le mie forze vorrò comportarmi: userò misericordia e verità, misericordia nel soccorrere, verità nel giudicare. Se con tali risorse Dio ci viene in aiuto, con le stesse noi ci meritiamo Dio [in premio]. A buon diritto quindi misericordia e verità son tutte le vie del Signore. Non ci sono altre vie per le quali egli possa venire a noi; non ci sono altre vie per le quali noi possiamo andare a lui.