venerdì 24 novembre 2017

Regno paradisiaco.

Rito Romano
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo -26 Novembre 2017
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46




Rito Ambrosiano
Is 51,1-6; Sal 45; 2Cor 2,14-16a; Gv 5,33-39
Domenica III di Avvento – ‘Le profezie adempiute’ - Anno B



1) Cristo, Re in Croce.
Questa domenica, ultima dell’anno liturgico, celebra Gesù Re dell’universo. Cristo è Re regge il mondo dalla Croce e ci chiede di partecipare alla sua regalità, mettendoci in ginocchio al suo trono di Amore: la Croce, e davanti ai fratelli, come Lui, il Re, si mise in ginocchio per lavare i piedi dei suoi Apostoli.
Durante l’anno liturgico la Chiesa ci fa compiere quel cammino di fede e di carità, che abbraccia la storia della redenzione. Questo cammino liturgico inizia con l’Avvento, il tempo dell’Attesa di Dio fra di noi, che fiorisce nel Natale, che reca la grande e lieta notizia che Dio davvero si è fatto uno di noi. Segue il tempo della conversione, nella Quaresima, che ci prepara alla S. Pasqua e, dopo 50 giorni, l’inizio del cammino della Chiesa con la Pentecoste. In questo ‘pellegrinaggio’ Dio ci accompagna con il Suo Amore e la Sua Grazia, sempre che noi decidiamo di camminare con Lui.
Nella domenica, che conclude l’anno liturgico celebrando Cristo Re, riflettiamo insieme sul significato che questa Solennità ha, meditando la scena del “giudizio universale” (Mt 25,31-46). Ed è proprio questa pagina evangelica che rivela il senso sconvolgente della regalità di Cristo che ci interpella: abbiamo scelto davvero di essere al seguito di questo Re crocifisso per e dall’amore?
Un Re che ci chiede di fare il bene agli altri e che non chiede per se stesso nulla. Anzi è stato Lui stesso a dare tutto per noi, morendo sulla croce, sacrificandosi per noi. Un Re speciale, fuori dai canoni delle regalità e dei regni di questa terra, che hanno altre prospettive di soggiogare le persone e il mondo alle proprie idee e posizioni
Un Re il cui regno che si costruisce ogni giorno mediante l’opera di quanti credono in Cristo e nei valori da Lui proclamati.
Ce lo ricorda in estrema sintesi il Prefazio della Solennità di Cristo Re: “Tu o Dio, con olio di esultanza hai consacrato Sacerdote eterno e Re dell’universo il tuo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Egli, sacrificando se stesso immacolata vittima di pace sull'altare della Croce, operò il mistero dell'umana redenzione; assoggettate al suo potere tutte le creature, offrì alla tua maestà infinita il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace”.
Dunque, il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma è “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17).
Per capire bene ciò, dobbiamo partire dal trono di Cristo che è la Croce. Sulla Croce elevata sul Calvario Cristo manifesta la sua singolare regalità. Sul Calvario si confrontano due atteggiamenti contrapposti. Alcuni personaggi ai piedi della croce, e anche uno dei due ladroni in croce, si rivolgono con disprezzo al Crocifisso dicendogli : "Se tu sei il Cristo, il Re Messia, salva te stesso scendendo dal patibolo". Gesù, invece, rivela la propria regalità rimanendo, sulla croce, come Agnello immolato. Con Lui si schiera inaspettatamente l’altro ladrone, che implicitamente confessa la regalità del giusto innocente ed implora: “Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Sant’Ambrogio di Milano commenta: “Costui pregava che il Signore si ricordasse di lui, quando fosse giunto nel suo Regno, ma il Signore gli rispose: In verità, in verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso. La vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo là c’è il Regno” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 10,121).
Rivolgiamoci anche noi con umiltà a Cristo e Lui ci accoglierà nel suo Regno di vita eterna.

2) Preghiera e carità.
Il Regno dove Cristo ci accoglie, che il Redentore ci dà, non è un luogo o qualcosa ma lui stesso. Lui ci dà il suo cuore, la sua parola, i suoi sentimenti. E come risposta lui non vuole qualcosa che abbiamo, ma tutto quello che siamo. Non importa se questa offerta la facciamo come la povera vedova che mise nel tesoro del tempio tutto quello che aveva, erano poche monete, oppure come Zaccheo che offrì la metà dei suoi beni, l’importante è imitare la Vergine Maria che lietamente offrì tutto se stessa e divenne sulla terra il paradiso del Figlio del cielo. L’importante è vivere il dono di sé a Dio con letizia.
Per educarci a questa offerta totale dobbiamo vivere la carità facendo la carità, dando agli ultimi. Dando ai poveri diamo a Dio e lui, riconoscente ci accoglie con loro, ai quali dice: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 31 - 46).
A questo riguardo Sant’Agostino commenta: “Nessuno sia esitante a dare l'elemosina ai poveri, nessuno creda che la riceva colui del quale vede la mano; la riceve Colui che ha comandato di darla. Non affermiamo ciò in base a un nostro sentimento o a una congettura umana; ascolta Colui che non solo ti esorta a farlo, ma ti firma anche la garanzia. Avevo fame - è detto - e mi avete dato da mangiare. Dopo l’enumerazione dei loro servizi [i giusti] chiederanno [al Signore]: Quando mai ti abbiamo visto affamato? ed egli risponderà: Tutto ciò che avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, lo avete fatto a me. Chiede l'elemosina un povero ma è un ricco quello che la riceve; si dà a uno che la spende per sé, ma la riceve Colui che la renderà. E non renderà solo ciò che riceve: egli vuole prendere a interesse, promette più di quel che avrai dato. Metti fuori tutta la tua cupidigia di danaro; fa' conto d'essere un usuraio. Se tu lo fossi realmente, saresti rimproverato dalla Chiesa, saresti condannato dalla parola di Dio, ti detesterebbero tutti i tuoi fratelli come un crudele usuraio bramoso di guadagnare sulle lagrime altrui. Sii usuraio, nessuno te lo proibisce. Invece di prestare a un povero, il quale piangerà quando ti renderà, dà a uno che è in grado di restituire e che ti esorta anche a ricevere ciò che promette” (Discorso 86,3).
In questa carità verso il prossimo le vergini consacrate sono un esempio importantissimo. In effetti, ciò che si dà a Dio non lo si toglie agli uomini, perché consacra a Dio con la verginità il suo amore, il suo cuore, i suoi pensieri, la persona consacrata non dimentica e non trascura questo mondo e gli uomini che in esso lottano e soffrono. Il Dio cristiano è Amore che non riceve, ma dona o, meglio, è un Dio che riceve non per trattenere per sé quello che riceve, ma per ridonarlo accresciuto. Perciò quello che si dona a Dio è un amore che si effonde sugli uomini arricchito dall’amore stesso di Dio. Non è un amore impoverito, ma un amore reso più forte e quindi più impegnato e più fecondo. E’ per questo che la gran maggioranza delle opere di carità verso i poveri sono state realizzate da vergini, l’ultima delle quali è Santa Teresa di Calcutta, che si fece missionaria della carità mettendosi a servizio dei più poveri dei poveri, perché totalmente donata a Dio.




Lettura patristica
Gregorio di Nissa
Oratio II: De pauper. amandis
Nell’amore dei poveri costruiamo il nostro eterno futuro
       "Io ho avuto fame, ho avuto sete, ero forestiero e nudo, e infermo e carcerato" (Mt 25,35). "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (miei fratelli), l’avete fatto a me" (v. 40). Per cui, "venite", dice, "benedetti del Padre mio" (v. 34). Che cosa impariamo da queste cose? Che la benedizione e il più grande bene sono riposti nello zelo e nell’osservanza dei precetti; la maledizione e il massimo dei mali derivano dall’accidia e dal disprezzo dei comandamenti. Abbracciamo allora la prima e fuggiamo questa seconda, finché ci è possibile, affinché delle due noi possiamo avere quella che desideriamo. Infatti, in quello a cui con grande alacrità d’animo ci saremo inclinati, noi saremo stabiliti. Per la qual cosa, il Signore della benedizione, che parimenti accetterà da noi ciò che per sollecitudine e per dovere avremo fatto nei confronti dei poveri, come fatto a lui, rendiamocelo benevolo e costringiamolo almeno in questo tempo in cui a noi, mentre viviamo, è data la grande possibilità di osservare il comandamento; e sono molti che mancano del necessario, molti che sono carenti nello stesso corpo, logorati e consumati dalla stessa violenza del male. Cosicché, noi in questa cosa, cioè, per dirla più ampiamente, poniamo più cura e diligenza nel curare coloro che sono colpiti da gravissimo morbo, per conseguire quel magnifico premio promesso... (Cosa dirò forse degli angeli) quando lo stesso Signore degli angeli, lo stesso re della celeste beatitudine si è fatto uomo per te, e queste sordide e abiette spoglie della carne cinse a sé, unitamente all’anima che di esse era rivestita, affinché col suo contatto egli curasse le tue infermità? Tu invece, che sei della stessa natura di chi è ammalato, fuggi uomini di quel genere. Non ti piaccia, fratello, te ne prego, far tuo il cattivo proposito. Considera chi sei, e di chi ti interessi: uomo (sei) soprattutto, tra gli uomini, che nulla hai di proprio in te e nulla di estraneo alla natura comune. Non compromettere le cose future. Mentre infatti condanni la passione grande nel corpo altrui, pronunci una incerta sentenza di tutta la natura. Di quella natura, poi, anche tu sei partecipe, come tutti gli altri. Per la quale cosa, si decida come di cosa comune...
       Che cosa dobbiamo fare, perché non sembri che noi pecchiamo contro la legge di natura? È sufficiente che deploriamo le loro passioni e che con la preghiera togliamo via la malattia e ci commuoviamo al suo stesso ricordo? O non si richiede che, con dei fatti mostriamo verso di essi la misericordia e la benevolenza? È proprio così. Infatti, il rapporto che sussiste tra le cose vere e le pitture appena abbozzate, è quello che c’è tra le parole separate dalle opere. Dice infatti il Signore che la salvezza non sta nelle parole, ma nel compiere le opere della salvezza. Per cui, quello che c’è comandato per causa di essi, occorre che noi lo facciamo per lui... "Via, lontano da me, nel fuoco eterno: perché‚ ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli, non l’avete fatto a me" (Mt 25,41 Mt 25,45).
       Se infatti pensassero di conseguire tali cose in quel modo, non arriverebbero mai a subire quella sentenza, allontanando da sé coloro che soffrono, né stimerebbero contagio per la nostra vita l’impegno per gli sventurati. Per cui, se consideriamo che colui che promise è fedele, ottemperiamo ai suoi comandi, senza dei quali non possiamo essere degni delle sue promesse. Il forestiero, il nudo, l’affamato, il malato, il carcerato, e tutto quello che ricorda il Vangelo, in questo misero ti viene posto dinanzi. Egli va errabondo e nudo e infermo, e a causa della povertà che consegue alla malattia, manca del necessario. Chi infatti non ha a casa di che sostentarsi, né d’altronde può guadagnare col lavoro, questi manca delle cose che le necessità della vita esigono. Per tale motivo, quindi, è schiavo perché legato dai vincoli della malattia. Pertanto, in ciò avrai adempiuto l’essenziale di tutti i comandamenti, e lo stesso Signore di tutte le cose, per quello che gli avrai prestato con benignità, avrai legato e obbligato a te (Pr 19,17). Perché dunque fai assegnamento su ciò che è la rovina della tua vita? Colui, infatti, che non vuole avere amico il Signore di tutte le cose, è a se stesso grandemente nemico. A quel modo, infatti, che viene realizzata l’osservanza dei comandamenti, viene liberato dalla crudeltà (del supplizio eterno) "Prendete" (dice) "il mio giogo su di voi" (Mt 11,29). Chiama giogo l’osservanza dei comandamenti, obbediamo a colui che comanda.

       Facciamoci giumento di Cristo, rivestendo i vincoli della carità. Non rifiutiamo questo giogo, non scuotiamolo, esso è soave e lieve. A chi si sottomette, non opprime il collo, ma lo accarezza. "Seminiamo in benedizione", dice l’Apostolo, "perché possiamo anche mietere nelle benedizioni" (2Co 9,6). Da un tale seme germinerà una spiga dai molti grani. Ampia è la messe dei comandamenti, sublimi sono le stirpi della benedizione. Vuoi capire a quale altezza si libra il rigoglio di tale progenie? Esse toccano gli stessi vertici del cielo. Tutto ciò che infatti in esse avrai portato, lo troverai al sicuro nei tesori del cielo. Non diffidare delle cose dette, non ritenere che sia da disprezzare la loro amicizia. Le loro mani certamente sono mutilate, ma non inidonee a recare aiuto. I piedi sono divenuti inutili, ma non vietano di correre a Dio. Vien meno la luce degli occhi, ma con l’anima scelgono quei beni che l’acutezza della vista non può fissare... Non c’è infatti chi non sappia, chi non consideri eccellente il premio prima nascosto che viene conferito umanamente e benignamente nelle altrui sventure. Poiché infatti le umane cose signoreggia l’una e medesima natura. E a nessuno è data certezza che a lui in perpetuo le cose saranno prospere e favorevoli. In tutta la vita, occorre ricordare quel precetto evangelico secondo il quale quanto vogliamo che gli uomini facciano a noi, noi lo facciamo loro. Perciò, finché puoi navigare tranquillamente, stendi la mano a colui che ha fatto naufragio; comune è il mare, comune la tempesta, comune il perturbamento dei flutti gli scogli che si nascondono sotto le onde, le sirti, gli inciampi, e tutte infine quelle molestie che alla navigazione di questa vita incutono un uguale timore a tutti i naviganti.

       Mentre sei integro, mentre con sicurezza attraversi il mare di questa vita, non trascurare inumanamente colui la cui nave andò a urtare. Chi può garantire, qui, che avrai sempre una felice navigazione? Non sei ancora pervenuto al porto della quiete (Ps 106,19). Non sei ancora stabilito fuori dal pericolo dei flutti. La vita non ti ha ancora collocato in luogo sicuro. Nel mare della vita sei ancora esposto alla tempesta. Quale ti mostrerai verso il naufrago, tali verso di te troverai coloro che insieme navigano.

venerdì 17 novembre 2017

Talenti: la prospettiva dell’amore

Rito Romano
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 19 Novembre 2017
Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30


Rito Ambrosiano
Is 51,7-12a; Sal 47; Rm 15,15-21; Mt 3,1-12
 Domenica II di Avvento – ‘I figli del Regno’ - Anno B


1) I talenti: l’amore vissuto come responsabilità.
La parabola dei talenti (Mt 25,14-30), che è proposta questa domenica si colloca tra la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13), che è stata meditata domenica scorsa  e il brano del giudizio finale (Mt 25,31-46), che sarà letto domenica prossima. 
La parabola delle dieci vergini ci ha fatto meditare sulla vigilanza prudente: il regno di Dio può giungere da un momento all’altro e, dunque, è necessaria la prudenza per essere preparati alla sua venuta. La parabola dei talenti fa riflettere sulla vigilanza operosa e, quindi, indugia sulla crescita del Regno: questo cresce quando usiamo i doni ricevuti per servire. Domenica prossima il racconto del giudizio finale ci ricorderà come entrare nel Regno: vi entriamo, quando siamo operosi nella carità verso il prossimo, in particolare quando accogliamo “gli ultimi”.
Per capire bene la parabola di questa domenica va ricordato che i “talenti” (contrariamente a quanto spesso si dice) non sono tanto le doti o le capacità (intelligenza o altro) che Dio ha dato a ciascuno, quanto le responsabilità, che siamo chiamati ad assumere. Difatti la parabola racconta che il padrone diede “a chi cinque talenti, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno”.
I primi due servitori sono l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto. Perciò sono definiti “buoni e fedeli”. Il terzo invece è pigro, passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a “conservare”, e perciò è definito “cattivo e pigro”, e “buono a nulla”. Il contrasto è dunque fra operosità e pigrizia. 
Anche se ha inciso sul piano storico-sociale, promuovendo nelle popolazioni cristiane una mentalità attiva e intraprendente, l’insegnamento centrale di questa parabola riguarda lo spirito di responsabilità con cui accogliere il Regno di Dio: responsabilità verso Dio e verso l’umanità. 
Oggi Gesù ci insegna ad usare bene i suoi doni. Lui chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).

2) Il talento per eccellenza.
Vorrei però ricordare il talento per eccellenza, il più prezioso tra i doni è Gesù stesso, e lo ha offerto al mondo con immenso amore. 
Questo dono è consegnato ai discepoli, che oggi siamo noi. E lo siamo non tanto e non solo perché abbiamo accolto la dottrina di Cristo e ci sforziamo di osservare i suoi precetti etici, ma perché abbiamo accolto Lui, quale dono imprevedibile di Dio che entra nella nostra carne, ci fa figli suoi e ci rende operatori fecondi di frutti nuovi. 
Allora come oggi, i discepoli di Gesù sono attenti, vigilanti per accogliere il dono sempre nuovo della meraviglia di Dio e sono fedeli nel lasciare che il dono accolto porti frutti e si moltiplichi. 
Un esempio di come essere discepoli di Gesù ed essere “servi buoni e fedeli” ci viene dalla vergini consacrate, che sono
- “serve buone”, perché non vivono per se stesse, facendosi forti delle proprie doti, ma vivono la vita come dono ricevuto e da condividere, perché sentono che il dono accolto chiede di essere donato, per poter continuare a portar frutti.; e sono
- “serve fedeli” perché si abbandonano totalmente ogni giorno, direi, ogni istante a Cristo con amorosa fiducia. La  “la fedeltà è la perfezione dell’amore” (Sant’Escrivà de Balaguer) e redime il tempo (cfr. Ef 5, 16).
La verginità è il modo più alto di vivere la la parabola dei “talenti”, perché con la consacrazione di tutta se stessa, la persona che si offre a Dio, apre il suo cuore al dono grande e liberante di Cristo. Rendendo libero in modo speciale il cuore dell’uomo, così da accenderlo maggiormente di carità verso Dio e verso tutti gli uomini, la vergine consacrata testimonia che il regno di Dio e la sua giustizia sono quella perla preziosa che va preferita a ogni altro valore sia pure grande, ed è quel talento che va fatto fruttificare. 
“Per questo la Chiesa, durante tutta la sua storia, ha sempre difeso la superiorità di questo carisma nei confronti di quello del matrimonio, in ragione del legame del tutto singolare che esso ha con il regno di Dio. Pur avendo rinunciato alla fecondità fisica, la persona vergine diviene spiritualmente feconda, padre e madre di molti, cooperando alla realizzazione della famiglia secondo il disegno di Dio (San Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 14).
La vergine consacrata in modo speciale condivide il Talento-Cristo. 
Infine, non va dimenticato che  la parabola di oggi insiste sull’atteggiamento interiore, direi, verginale, con cui accogliere e valorizzare questo dono. L’atteggiamento sbagliato è quello della paura: il servo che ha paura del suo padrone e ne teme il ritorno, nasconde la moneta sotto terra ed essa non produce alcun frutto. Questo accade, per esempio, a chi avendo ricevuto il Battesimo, la Comunione, la Cresima seppellisce poi tali doni sotto una coltre di pregiudizi, sotto una falsa immagine di Dio che paralizza la fede e le opere, così da tradire le attese del Signore. Ma la parabola mette in maggior risalto i buoni frutti portati dai discepoli che, felici per il dono ricevuto, non l’hanno tenuto nascosto con timore e gelosia, ma l’hanno fatto fruttificare, condividendolo, partecipandolo. Sì, ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! E’ un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti:
“La verginità ha il valore simbolico dell’amore che non ha la necessità di possedere l’altro, e riflette in tal modo la libertà del Regno dei cieli. È un invito agli sposi perché vivano il loro amore coniugale nella prospettiva dell’amore definitivo a Cristo, come un cammino comune verso la pienezza del Regno” (Papa Francesco, Amoris laetitia, n. 160).
Infine, teniamo presente che a tutti noi Dio consegna Cristo e tutti “i suoi beni”, “secondo le capacità di ciascuno” che Lui conosce. 
Tutto adesso dipende da come ciascuno risponde con la propria libertà alla responsabilità affidatagli liberamente da chi, donandogli pure i “propri beni”, vuol coinvolgere i “suoi servi” in un progetto di gioia e di felicità. Sforziamo ci di essere discepoli “vigilanti” e di vivere la vita come spazio di libertà affidata a noi da un Dio che conosce personalmente ciascuno di noi, che a ciascuno di noi dona i propri beni, per vivere intensamente la propria vita. Tutto è dono: la vita, la fiducia, l’Amore, la libertà è un dono, da vivere senza paura. Ciò che è chiesto è solo di accogliere il dono e di non soffocare, non trattenere, non rendere vano l'Amore.


Lettura patristica
San Girolamo
In Matth. IV, 22, 14-30



       Sarà infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-15). Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.

       "Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque" (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.

       "Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.

       "Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone" (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l’insegnamento del padrone di casa.

       "Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»" (Mt 25,19-20). Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?

       "E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25,21-23) . Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra - dice il padrone - nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare (1Co 2,9). Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?

       "Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.

       "Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: "La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte" (Ps 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia del Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: "Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.

       "Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere" (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo, ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.

       "E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.

venerdì 10 novembre 2017

La vita è attesa e pellegrinaggio. Essere pronti per l’incontro

Rito Romano
XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 12 Novembre 2017



Rito Ambrosiano
Domenica I di Avvento – ‘La venuta del Signore’ - Anno B


1) La vera vigilanza è prudente.
E’ essere realisti quando si riconosce che la nostra vita terrena è fragile. Come non riconoscerci nella brevissima poesia del poeta italiano “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Se abbiamo la grazia di credere, viviamo questa caducità non come frustrazione da evitare cercando di gustare l’attimo presente. Per il Cristiano la vita, per fragile che sia, è vigilanza, attesa di un incontro e pellegrinaggio verso la Vita vera ed eterna. Senza la prospettiva di un incontro pieno di significato e portatore di eternità, il senso della vita viene sconvolto: la vita cede alla frenesia per nascondere la disperazione.
Per aiutarci a vivere questa vigilanza che si fa pellegrinaggio, il Vangelo di oggi ci propone la parabola delle dieci vergini che, inoltre, illustra il detto di Mt 24,42: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà!".
Se, da una parte, l'accento è posto sulla necessità di essere pronti per non essere esclusi dalla festa nuziale, dall’altra, è richiamato che l'attesa vigilante e prudente riguarda la venuta del Cristo glorioso, applicando a lui l'immagine dello sposo che l'Antico Testamento utilizza per Dio.
Raccontando di un gruppo di dieci vergini, che si dividono in due categorie: cinque sono sagge e cinque sono stolte come coloro che costruiscono sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27), San Matteo fa riferimento al modo in cui si svolgevano le nozze tra gli Ebrei del tempo di Gesù, che implicavano anche un corteo di giovani donne (il termine vergine qui ha questo senso), che accompagnava gli sposi, di solito verso sera (ciò spiega l'impiego delle lampade).
Lo sposo si recava nella casa paterna della futura moglie per portarla nella sua, ma prima doveva concludere con il padre di lei gli accordi del contratto nuziale. Poteva accadere che ci fossero ancora negoziati da concludere e che le cose andassero per le lunghe. Le cinque vergini sagge mostrano di essere previdenti e pronte ad affrontare ogni evenienza, portando con sé dell'olio per alimentare le loro lampade, nel caso l'attesa fosse diventata più lunga del previsto.
Ciò che distingue i due gruppi di vergini non è la vigilanza, ma la prudenza nel prevedere l'imprevisto: infatti il brano del Vangelo ci racconta che si assopirono tutte e si addormentarono, quando l’eventualità del ritardo si verificò.
Perché alcune furono prudenti ed altre no? Non fu solo questione di buon senso, ma di amore.
E’ l’amore la virtù con cui si vive l’attesa vigile e prudente. Se si aspetta intensamente, ardentemente chi si ama, ci si predispone a tutto e si provvede a tutti gli accorgimenti necessari, agli strumenti e ad ogni altro particolare affinché questa attesa si realizzi al meglio e si compia nell’incontro con lo Sposo.
Proprio come l’atteggiamento di queste vergini prudenti e avvedute, che attendono lo sposo con le lampade accese, dopo aver provveduto ad avere una scorta d’olio. Diversamente dalle cinque ragazze stolte, loro hanno preso ogni misura cautelativa, perché innamorate dello sposo che attendono. Anche se il sonno le sorprende, loro hanno già prudentemente provveduto all’acquisto dell’olio appunto per non rischiare di non poter incontrare lo Sposo, aggiungendo la loro luce a quella di Cristo e camminando con Lui verso la festa nuziale. Se non fossero state motivate dall'amore, non avrebbero provveduto a rifornirsi di olio e sarebbero state senza la luce dell’amore. Solo l’amore nei confronti di Cristo, lo Sposo che viene per introdurci nel suo Regno ci motiva ad un'attesa prudente, operosa e assidua, ed anche priva di ogni timore, perché anche se il corpo dorme, il cuore veglia.

2) L’olio della lampada è l’amore.
Va tenuto presente che è lo Sposo che ama per primo, l’attesa non è causa dell'incontro, ma esso non si realizza senza l’attesa che il cuore vigile tiene viva. Teniamo desta questa attesa anche pregando: “O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora io ti cerco, ha sete di te l'anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz'acqua.  Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria. Poiché il tuo amore vale più della vita, le mie labbra canteranno la tua lode. Così ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani. Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.  Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all'ombra delle tue ali” (Sal 62 - Salmo responsoriale della Messa di oggi)
Ma perché il cuore delle vergini prudenti per quanto aperto nell’attesa dello Sposo, è chiuso alla condivisione dell’olio con le altre ragazze, che lo chiedono loro con preoccupata insistenza?
Ne propongo un’interpretazione spirituale: “La lampada è comune a tutte le vergini, l’olio che le une rifondono è dono che esse hanno accolto da Colui che lo accresce. Ogni vergine deve amorosamente alimentare il rapporto con colui che viene, prima che l’olio dell'amore venga meno. Per questo non può essere trasferito dall’una all'altra, può essere solo ricevuto da chi può darlo a tutti. L’olio del rapporto d'amore non può essere acquistato e vissuto per interposta persona. Lo dona lo Sposo che ne è la riserva e che lo travasa in vasetti piccoli. La cosa importante non è averne molto, ma vigilare perché non venga meno e la lampada resti accesa fino all’arrivo dello sposo” (D. Mongillo, Per lo Spirito in Cristo al Padre, Bose, Ed. Qiqajon, 2005 pag. 16-19).
Naturalmente la frase del Vangelo di oggi: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora”, non si rivolge solo alle persone chiamate alla verginità. E’ valida per tutti i cristiani e per tutti tempi. La vigilanza va intesa come un atteggiamento vitale complessivo fatto di desiderio e attenzione, di amore operoso e di speranza.
Le vergini sagge sono quelle persone che, cogliendo il momento favorevole in cui sono su questa Terra per fare delle opere buone, si sono preparate per presentarsi alla venuta del Signore. Le stolte sono quelle persone, disattente e ottuse, che si curano solo delle cose presenti e, dimentiche delle promesse di Dio, non tengono viva la speranza della risurrezione.
Un esempio di come vivere l’esistenza quotidiana, in casa o a lavoro, ci viene dalla vergini consacrate.
Con il dono totale di se stesse a Cristo-Sposo, queste donne mostrano che si può vivere la vita come attesa, facendo della giornata, del lavoro, delle occupazioni, un passo verso l’Infinito, ossia con il corpo a terra ma con l’anima in cielo. Queste consacrate ci testimoniano che ci si può “preoccupare” solo di Cristo e la loro unica “preoccupazione” è essere donne di preghiera che guardano in Alto, dove regna gioia.
E’ lo specifico della loro vocazione come lo ricorda la preghiera che il Vescovo fa su di loro il giorno della consacrazione: “Ascolta, o Dio, la preghiera della tua Chiesa e guarda con bontà queste tue figlie; tu che le hai chiamate per un disegno di amore, guidale sulla via della salvezza eterna, perché cerchino sempre ciò che a te piace e con fedeltà assidua e vigilante lo portino a compimento. Per Cristo nostro Signore” (Rituale della consacrazione delle Vergini, n 34)



Lettura Patristica
Sant’Ilario di Poitiers (ca 310 - 367)
In Matth. 27, 3-5



"
 Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini " (Mt 25,1), e il seguito. E' dopo le affermazioni precedenti che si può comprendere anche la ragion d'essere di questo brano. Esso si riferisce interamente al gran giorno del Signore, in cui i segreti dei pensieri degli uomini saranno rivelati (cf. 1Cor 3,13) dall'indagine del giudizio divino e in cui la fede verace nel Dio che si attende avrà la soddisfazione di una speranza non incerta. Infatti, nella contrapposizione delle cinque sagge e delle cinque stolte, è definita in maniera lampante la divisione di credenti e increduli, a esempio della quale Mosè aveva ricevuto i dieci comandamenti consegnati su due tavole (cf. Es 32,15). Difatti, era necessario che essi fossero consegnati interamente su due tavole, e la doppia pagina, spartendo tra la destra e la sinistra ciò che era proprio di esse, contrassegnava la divisione dei buoni e dei cattivi, sebbene essi fossero riuniti sotto uno stesso testamento.
Lo sposo e la sposa sono Dio nostro Signore in un corpo, poiché la carne è per lo Spirito una sposa, come lo Spirito è uno sposo per la carne. Quando, alla fine, la tromba suona la sveglia, si va incontro allo sposo soltanto, perché i due erano ormai uno, per il fatto che l'umiltà della carne aveva attinto una gloria spirituale. Ma dopo una prima tappa, noi, adempiendo i doveri di questa vita, ci prepariamo ad andare incontro alla risurrezione dai morti. Le lampade sono la luce delle anime risplendenti che il sacramento del Battesimo ha fatto brillare. L'olio (cf.Mt 25,3) è il frutto delle opere buone. I piccoli vasi (cf. Mt 25,4) sono i corpi umani, nelle cui viscere dev'essere riposto il tesoro di una coscienza retta. I venditori (cf. Mt 25,9) sono coloro che, avendo bisogno della pietà dei credenti, danno in cambio la mercanzia che è loro richiesta, cioè che stanchi della loro miseria, ci vendono la coscienza di una buona azione. E' essa che alimenta a profusione una luce inestinguibile e che occorre comprare e riporre mediante i frutti della misericordia. Le nozze (cf. Mt 25,10) sono l'assunzione dell'immortalità e l'unione della corruzione e dell'incorruttibilità secondo un'alleanza inaudita. Il ritardo dello sposo (cf. Mt 25,5) è il tempo della penitenza. Il sonno di quelle che attendono è il riposo dei credenti e la morte temporale di tutto il mondo al tempo della penitenza. Il grido in mezzo alla notte (cf. Mt 25,6) è, in mezzo all'ignoranza generale, il suono della tromba che precede la venuta del Signore (cf. 1Ts 4,16) e che sveglia tutti perché si esca incontro allo sposo. Le lampade che vengono prese (cf. Mt 25,7) sono il ritorno delle anime nei corpi e la loro luce è la coscienza risplendente di una buona azione, coscienza che è racchiusa nei piccoli vasi dei corpi.

Le vergini sagge sono le anime che, cogliendo il momento favorevole in cui sono nei corpi per fare delle opere buone, si sono preparate per presentarsi per prime alla venuta del Signore. Le stolte sono le anime che, rilassate e negligenti, si sono curate solo delle cose presenti e, dimentiche delle promesse di Dio, non sono arrivate fino alla speranza della risurrezione. E poiché le vergini stolte non possono andare incontro con le loro lampade spente, domandano in prestito alle sagge dell'olio (cf. Mt 25,8). Ma quelle risposero che non potevano darne loro, perché forse non ce ne sarebbe stato abbastanza per tutte (cf. Mt 25,9), il che vuol dire che nessuno deve appoggiarsi sulle opere e sui meriti altrui, perché è necessario che ognuno compri olio per la propria lampada. Le sagge le invitano a tornare indietro a comprarne, qualora obbedendo sia pure in ritardo alle prescrizioni di Dio, esse si rendano degne d'incontrare lo sposo con le loro lampade accese. Ma mentre esse indugiavano, entrò lo sposo e, insieme a lui, le sagge velate e munite della loro lampada tutta pronta entrano alle nozze (cf. Mt 25,10), cioè penetrano nella gloria celeste appena giunto il Signore nel suo splendore. E poiché non hanno piú tempo per pentirsi, le stolte accorrono, chiedono che si apra loro la porta (cf. Mt 25,11). Al che lo sposo risponde loro: "
 Non vi conosco " (Mt 25,12). Esse, infatti, non erano state là per compiere il loro dovere verso colui che arrivava, non si erano presentate all'appello del suono della tromba, non si erano aggiunte al corteo di quelle che entravano, ma, per il loro ritardo e il loro comportamento indegno, avevano lasciato passare l'ora di entrare alle nozze.


venerdì 3 novembre 2017

La cattedra di Cristo è la Croce dove l’Amore è Legge

Rito Romano
XXXI Domenica Del Tempo Ordinario – 5 Novembre 2017
Ml 1,14- 2,2.8-10; Sal 130; 1Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12


Rito Ambrosiano
2 Sam 7,1-6.8-9.12-14a.16-17; Sal 44; Col 1,9b-14; Gv 18,33c-37
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo – Solennità del Signore


1) L’Amore e la Legge.
Domenica scorsa abbiamo meditato sul primo e grande comandamento, quello dell’amore di Dio e sul secondo, che è simile al primo, quello dell’amore del prossimo: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,40).
Nel Vangelo di questa domenica siamo chiamati ad approfondire il fatto che l’Amore non si contrappone alla Legge. San Matteo mostra che, contrariamente a quello che pensano gli scribi e i Farisei, Gesù non disprezza affatto la Legge, e non intende sostituire l’Amore alla Legge. L’Amore è il compimento della Legge e il vincolo della perfezione (cfr. Col 3,14; Rm 13,10). Senza l’Amore la Legge muore e il Profeta si spegne. L’Amore non sostituisce la Legge, ma la osserva, la “compie”. Ma l’amore non è un sentimento vuoto e superficiale, non trascura la Legge, la vive in pienezza: non si accontenta di non dire il falso, cerca la verità. Non si accontenta di non uccidere, dona la vita. Non solo non ruba, ma viene incontro alla necessità dei fratelli.
Nel Vangelo di oggi emerge che per Cristo la Legge non è da ridurre ad una serie di precetti da mettere in pratica. La Legge è la parola di Dio, che indica la sua volontà per la vita. Gesù è il primo che ha compiuto questa volontà, che è un dono che Dio ci dà per vivere da uomini nuovi nell’amore. Chi osserva i comandamenti, ama e compie tutta la legge che è cammino della vita.
Come già i Profeti hanno continuamente richiamato, Gesù insegna che la Legge è espressione della cura con cui Dio, come pastore, guida il suo popolo nel cammino verso la libertà.
Se ascoltiamo la parola del Padre come Cristo ha fatto e come Lui la viviamo incarnandola, pratichiamo l’amore filiale che impedisce che l’osservanza della legge sia ridotta a un vuoto, rigido e disumano legalismo, ma diventi un cammino di autenticità e di santità, cioè di maturità integrale e quindi non farisaica.


2) Figli, fratelli e servitori.
In effetti, l’atteggiamento opposto al fariseismo è la fraternità tra di noi perché siamo realmente figli di Dio (cfr. 1 Gv 3, 1), che ci è Padre che ci ama fino al dono del proprio Figlio per la nostra salvezza. Dio è un Padre che non abbandona mai i suoi figli. E’ un Padre amorevole che sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità “perché il suo amore è per sempre” (Sal 136). L’amore di Dio Padre non viene mai meno, non si stanca di noi; è amore che dona fino all’estremo, fino a sacrificio del Figlio. Noi, figli nel Figlio, siamo chiamati a vivere la morale Cristiana come etica della fraternità, che diventa praticabile grazie alla comunione eucaristica.
Questa Comunione sacramentale non è semplicemente una preghiera privata dove il singolo cristiano incontra il suo Dio, per quanto lui debba fare proprio anche questo. La Comunione sacramentale è di più: essa è il sigillo della vicendevole appartenenza dei cristiani fra loro per mezzo del loro comune legame con Cristo. Per questo essa è parte essenziale della Santa Messa nella quale noi celebriamo questa nostra unione come fratelli per mezzo del nostro fratello Gesù Cristo. La comunione eucaristica
- è parte integrante di quell’avvenimento che è la Santa Messa:
- è il sigillo della fraternità fra Dio e gli uomini e perciò, a partire da Dio, degli uomini fra loro;
- è l’inclusione di tutti gli uomini nell’avvenimento della Croce, così che tutto il mondo è consegnato a Dio e con ciò ricondotto al suo autentico senso;
- è la chiamata di ogni singolo cristiano ad essere tabernacolo vivente di Dio nel mondo.
Come tabernacoli portiamo al mondo l’Amore, prendendo coscienza che il più grande non è chi ha di più ma chi ama di più grazie all’amore che ha in sé. Il mondo ha bisogno d'amore e non di ricchezza per fiorire. E allora il più grande del nostro mondo sarà forse una mamma sconosciuta, che lavora e ama nel segreto della sua casa, o nelle foreste d'Africa o d’Amazonia, o nel nascondimento di un piccolo ufficio o di una fabbrica. Gesù rovescia la nostra idea di grandezza, dicendo: “Siete grandi quanto è grande il vostro cuore”. Siamo grandi quando sappiamo amare, quando sappiamo farlo come l’ha fatto di Gesù, traducendo l'amore nella divina follia del servizio: “sono venuto per servire non per essere servito. “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23, 11-12).
Questa è la novità portata da Cristo: Dio è tra noi e non tiene il mondo ai suoi piedi, è Lui ai piedi di tutti. Dio è il grande servitore, non il padrone. Lui io servirò, perché Lui si è fatto mio servitore.
Servizio è ciò che permette l’instaurazione della civiltà dell’amore, dove il più grande è colui che ama servendo. “Lavando i piedi agli apostoli – ha detto Papa Francesco il 12 marzo 2016 – Gesù ha voluto rivelare il modo di agire di Dio nei nostri confronti, e dare l’esempio del suo ‘comandamento nuovo’ di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato, cioè dando la vita per noi”. E’ il servizio “la via da percorrere per vivere la fede” in Gesù “e dare testimonianza del suo amore”. E l’amore è servizio concreto, «un servizio umile, fatto nel silenzio e nel nascondimento. L’amore chiede “opere”, non solo “parole”. Chiede di “mettere a disposizione i doni che lo Spirito Santo ci ha elargito, perché la comunità possa crescere” e “si esprime nella condivisione dei beni materiali, perché nessuno sia nel bisogno”. Un compito che vale per i credenti e non solo: la “condivisione e la dedizione a chi è nel bisogno uno stile di vita che Dio chiede a tutti i cristiani come via di autentica umanità e di santità.
Circa il servizio reciproco Cristo amorevolmente comanda: “Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”. Gesù ha dato l’esempio: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,12-14). Questo significa che chi ha di più, non è per tenere, ma per dare; chi è di più, non è per privilegio, ma per missione. Il Signore domanderà conto di questo di più, sfruttato per noi e non offerto a vantaggio degli altri. I doni e i carismi di Dio sono per l'utilità comune (cfr. 1Cor 12). Siamo come un corpo, con diverse membra - nobili o meno nobili - ma tutte necessarie per il bene di tutto l'organismo. Il servizio, la carità, il mettersi a disposizione degli altri non è un di più o un'elemosina, ma una responsabilità e un dovere. Sono un diritto dei poveri e dei deboli, un diritto rivendicato davanti a Dio.
Questo “comando” al servizio è rivolto in modo particolare alle Vergini consacrate.  In effetti, l’Ordo virginum comprende donne vergini le quali “emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato, si uniscono in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio e si dedicano al servizio della Chiesa” (CIC can. 604 § 1). Lo specifico della verginità consacrata è la «sponsalità» con Cristo, che «acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo» (Rito della consacrazione delle vergini, Premessa).
Le Vergini consacrate si inseriscono in questo cammino ecclesiale proprio per un particolare riferimento all’ambito degli affetti. Infatti con la loro vita, dedicando a Lui e al suo Regno tutte le proprie forze di amore, testimoniano che ogni vocazione è accoglienza della carità di Dio e risposta a Lui nel servizio degli altri. Esse ricordano la sorgente teologale dell’amore soprattutto attraverso la verginità che richiama quella verginità del cuore e degli affetti che nasce e si alimenta dell’intima e feconda comunione con il Signore.


Lettura Patristica
Ireneo di Lione
Adv. Haer. IV, 12, 1-4


 L’essenziale della Legge

       In effetti, la tradizione dei loro anziani, che essi ostentavano di osservare al pari di una legge, era contraria alla Legge di Mosè. Motivo per cui Is dice: "
I tuoi tavernieri mescolano il vino con l’acqua" (Is 1,2) per mostrare che all’austero precetto di Dio gli anziani mescolano una tradizione acquosa, cioè aggiungono una legge adulterata e contraria alla Legge. È quanto il Signore ha chiaramente evidenziato, dicendo loro: "Perché trasgredite i comandamenti di Dio per la vostra tradizione?" (Mt 15,3). Non contenti di violare la Legge di Dio con la loro trasgressione mescolando il vino con l’acqua, hanno contrapposto ad essa la loro legge, che a tutt’oggi vien detta legge farisaica. Vi sopprimono alcune cose, ne aggiungono delle altre, ne interpretano altre ancora a loro modo: così ne usano in particolare i loro dottori. Volendo difendere queste tradizioni, non si sono sottomessi alla Legge di Dio che li orientava verso la venuta di Cristo, e sono arrivati persino a rimproverare al Signore di operare guarigioni in giorno di sabato, il che, come abbiamo già detto, la Legge non vietava, dal momento che anch’essa guariva in certo modo, facendo circoncidere l’uomo in quel giorno; tuttavia non riproveravano nulla a s‚ stessi, quando, per la loro tradizione e per la legge farisaica anzidetta, trasgredivano il comandamento di Dio e non possedevano l’essenziale della Legge, cioè l’amore verso Dio.

       Quell’amore è in effetti il primo e più grande comandamento, e il secondo è l’amore verso il prossimo: lo ha insegnato il Signore, dicendo che tutta la Legge e i profeti si ricollegano a questi comandamenti (
Mt 22,37-40). E lui stesso non ha portato altro comandamento più grande di questo, ma ha rinnovato quello stesso comandamento ingiungendo ai suoi discepoli di amare Dio con tutto il cuore e il loro prossimo come sé stessi. Se fosse disceso da un altro Padre, mai egli avrebbe fatto uso del primo e più grande comandamento della Legge: si sarebbe sforzato in tutte le maniere di apportarne uno più grande secondo un Padre perfetto e a non fare uso di quello che aveva dato l’Autore della Legge. Perciò, Paolo dice che la carità è il compimento della Legge (Rm 13,10); essendo abolito tutto il resto, restano solo la fede, la speranza e la carità, ma la più grande di tutte è la carità (1Co 13,13); senza la carità verso Dio, né la conoscenza ha alcuna utilità, né la comprensione dei misteri, né la fede, né la profezia, ma tutto è vano e superfluo senza la carità (1Co 13,2); la carità rende l’uomo perfetto, e colui che ama è perfetto, nel secolo presente e in quello futuro: infatti mai cesseremo di amare Dio, ma, più lo contempleremo, più lo ameremo.

       Così dunque, visto che nella Legge come nel Vangelo il primo e più grande comandamento è lo stesso, cioè amare il Signore Dio con tutto il cuore, e il secondo del pari, cioè amare il prossimo come se stessi, è acquisita la prova che vi è un solo e medesimo Legislatore. I comandamenti essenziali della vita, per il fatto che sono gli stessi in un verso e nell’altro, manifestano effettivamente lo stesso Signore: infatti, se ha impartito comandi particolari adatti all’una o all’altra alleanza, per quanto attiene a comandamenti universali e più importanti, senza i quali non vi può essere salvezza, sono gli stessi da lui proposti da una parte e dall’altra.

       Chi non avrebbe confuso il Signore, quando affermava, insegnando alla folla e ai discepoli, nei termini seguenti, che la Legge non veniva da un altro Dio: "
Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei: osservate dunque e fate tutto ciò che essi vi dicono, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno; legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,2-1)? Egli non condannava perciò la legge di Mosè, dal momento che li invitava ad osservarla fintanto che sussistesse Gerusalemme: ma erano essi che egli biasimava, perché, pur proclamando le parole della Legge, erano vuoti d’amore e, per questo, violatori della Legge rispetto a Dio e al prossimo. Come dice Isaia: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, è invano che mi rendono culto, mentre insegnano dottrine e comandamenti di uomini" (Is 29,13). Non è la Legge di Mosè che egli chiama «comandamenti di uomini», bensì le tradizioni dei loro anziani, inventate di sana pianta, per difendere i quali essi rigettavano la Legge di Dio e, come conseguenza non si sottomettevano neppure al suo Verbo. È quanto Paolo sottolinea a loro proposito: "Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio: infatti, il termine della Legge è Cristo, per la giustificazione di ogni credente" (Rm 10,3-1). Come Cristo sarebbe il termine della Legge, se non ne fosse stato anche il principio? Infatti, colui che ha portato a termine è anche colui che ha realizzato il principio. È lui che diceva a Mosè: "Ho visto l’afflizione del mio popolo in Egitto, e sono disceso per liberarlo" (Ex 3,7-8). Fin dal principio, infatti, era solito salire e scendere per la salvezza degli afflitti.