Rito
Romano
XXXI
Domenica Del Tempo Ordinario – 5 Novembre 2017
Ml
1,14- 2,2.8-10; Sal 130; 1Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12
Rito Ambrosiano
Nostro Signore Gesù
Cristo Re dell’universo – Solennità del Signore
1) L’Amore e
la Legge.
Domenica scorsa abbiamo
meditato sul primo e grande comandamento, quello dell’amore di Dio
e sul secondo, che è simile al primo, quello dell’amore del
prossimo: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i
Profeti” (Mt 22,40).
Nel Vangelo di questa
domenica siamo chiamati ad approfondire il fatto che l’Amore non si
contrappone alla Legge. San Matteo mostra che, contrariamente a
quello che pensano gli scribi e i Farisei, Gesù non disprezza
affatto la Legge, e non intende sostituire l’Amore alla Legge.
L’Amore è il compimento della Legge e il vincolo
della perfezione (cfr. Col 3,14; Rm 13,10).
Senza l’Amore la Legge muore e il Profeta si spegne. L’Amore
non sostituisce la Legge, ma la osserva, la “compie”.
Ma l’amore non è un sentimento vuoto e superficiale, non trascura
la Legge, la vive in pienezza: non si accontenta di non dire il
falso, cerca la verità. Non si accontenta di non uccidere, dona la
vita. Non solo non ruba, ma viene incontro alla necessità dei
fratelli.
Nel Vangelo di oggi
emerge che per Cristo la Legge non è da ridurre ad una serie di
precetti da mettere in pratica. La Legge è la
parola di Dio, che indica la sua volontà per la vita. Gesù è il
primo che ha compiuto questa volontà, che è un dono che Dio ci dà
per vivere da uomini nuovi nell’amore. Chi osserva i comandamenti,
ama e compie tutta la legge che è cammino della vita.
Come già i Profeti
hanno continuamente richiamato, Gesù insegna che la Legge è
espressione della cura con cui Dio, come pastore, guida il suo popolo
nel cammino verso la libertà.
Se
ascoltiamo la parola del Padre come Cristo ha fatto e come Lui la
viviamo incarnandola, pratichiamo l’amore filiale che impedisce che
l’osservanza della legge sia ridotta a un vuoto, rigido e disumano
legalismo, ma diventi un cammino di autenticità e di santità,
cioè di maturità integrale e quindi non farisaica.
2) Figli,
fratelli e servitori.
In
effetti, l’atteggiamento opposto al fariseismo è la fraternità
tra di noi perché siamo realmente figli di Dio (cfr. 1 Gv 3, 1), che
ci è Padre che ci ama
fino al dono del proprio Figlio per la nostra salvezza. Dio è un
Padre che non abbandona mai i suoi figli. E’ un Padre amorevole che
sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che
sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni
di eternità “perché il suo amore è per sempre” (Sal
136).
L’amore di Dio Padre non viene mai meno, non si stanca di noi; è
amore che dona fino all’estremo, fino a sacrificio del Figlio.
Noi, figli nel Figlio, siamo chiamati a vivere la morale Cristiana
come etica della fraternità, che diventa praticabile grazie alla
comunione eucaristica.
Questa
Comunione sacramentale non è semplicemente una preghiera privata
dove il singolo cristiano incontra il suo Dio, per quanto lui debba
fare proprio anche questo. La Comunione sacramentale è di più: essa
è il sigillo della vicendevole appartenenza dei cristiani fra loro
per mezzo del loro comune legame con Cristo. Per questo essa è parte
essenziale della Santa Messa nella quale noi celebriamo questa nostra
unione come fratelli per mezzo del nostro fratello Gesù Cristo. La
comunione eucaristica
-
è parte integrante di quell’avvenimento che è la Santa Messa:
-
è il sigillo della fraternità fra Dio e gli uomini e perciò, a
partire da Dio, degli uomini fra loro;
-
è l’inclusione di tutti gli uomini nell’avvenimento della Croce,
così che tutto il mondo è consegnato a Dio e con ciò ricondotto al
suo autentico senso;
-
è la chiamata di ogni singolo cristiano ad essere tabernacolo
vivente di Dio nel mondo.
Come
tabernacoli portiamo al mondo l’Amore, prendendo coscienza che il
più grande non è chi ha di più ma chi ama di più grazie all’amore
che ha in sé. Il mondo ha bisogno d'amore e non di ricchezza per
fiorire. E allora il più grande del nostro mondo sarà forse una
mamma sconosciuta, che lavora e ama nel segreto della sua casa, o
nelle foreste d'Africa o d’Amazonia, o nel nascondimento di un
piccolo ufficio o di una fabbrica. Gesù rovescia la nostra idea di
grandezza, dicendo: “Siete grandi quanto è grande il vostro
cuore”. Siamo grandi quando sappiamo amare, quando sappiamo farlo
come l’ha fatto di Gesù, traducendo l'amore nella divina follia
del servizio: “sono venuto per servire non per essere servito. “Chi
tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si
esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”
(Mt 23, 11-12).
Questa è la novità
portata da Cristo: Dio è tra noi e non
tiene il mondo ai suoi piedi, è Lui ai piedi di tutti. Dio è il
grande servitore, non il padrone. Lui io servirò, perché Lui
si è fatto mio servitore.
Servizio
è ciò che permette l’instaurazione della civiltà dell’amore,
dove il più grande è colui che ama servendo. “Lavando i
piedi agli apostoli – ha detto Papa Francesco il 12 marzo 2016 –
Gesù ha voluto rivelare il modo di agire di Dio nei nostri
confronti, e dare l’esempio del suo ‘comandamento nuovo’ di
amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato, cioè dando la vita
per noi”. E’ il servizio “la via da percorrere per vivere la
fede” in Gesù “e dare testimonianza del suo amore”. E l’amore
è servizio concreto, «un servizio umile, fatto nel silenzio e nel
nascondimento. L’amore
chiede “opere”, non solo “parole”. Chiede di “mettere a
disposizione i doni che lo Spirito Santo ci ha elargito, perché la
comunità possa crescere” e “si esprime
nella condivisione dei beni materiali, perché nessuno sia nel
bisogno”. Un compito che vale per i credenti e non solo: la
“condivisione e la dedizione a chi è nel bisogno uno stile di vita
che Dio chiede a tutti i cristiani come via di autentica umanità e
di santità.
Circa
il servizio reciproco Cristo amorevolmente comanda: “Il più grande
tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e
chi si abbasserà sarà innalzato”. Gesù ha dato l’esempio:
“Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Signore e Maestro e
dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho
lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli
altri” (Gv
13,12-14). Questo significa che chi ha di più, non è per tenere, ma
per dare; chi è di più, non è per privilegio, ma per missione. Il
Signore domanderà conto di questo di più, sfruttato per noi e non
offerto a vantaggio degli altri. I doni e i carismi di Dio sono per
l'utilità comune (cfr. 1Cor 12). Siamo come un corpo, con diverse
membra - nobili o meno nobili - ma tutte necessarie per il bene di
tutto l'organismo. Il servizio, la carità, il mettersi a
disposizione degli altri non è un di più o un'elemosina, ma una
responsabilità e un dovere. Sono un diritto dei poveri e dei deboli,
un diritto rivendicato davanti a Dio.
Questo
“comando” al servizio è rivolto in modo particolare alle Vergini
consacrate. In
effetti, l’Ordo
virginum comprende
donne vergini le quali “emettendo il santo proposito di seguire
Cristo più da vicino, dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio
secondo il rito liturgico approvato, si uniscono in mistiche nozze a
Cristo Figlio di Dio e si dedicano al servizio della Chiesa” (CIC
can.
604 § 1). Lo specifico della verginità consacrata è la
«sponsalità» con Cristo, che «acquista il valore di un ministero
al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel
cuore della Chiesa e del mondo» (Rito della consacrazione delle
vergini, Premessa).
Le
Vergini consacrate si
inseriscono in questo cammino ecclesiale proprio per un particolare
riferimento all’ambito degli affetti. Infatti con la loro vita,
dedicando a Lui e al suo Regno tutte le proprie forze di amore,
testimoniano che ogni vocazione è accoglienza della carità di Dio e
risposta a Lui nel servizio degli altri. Esse ricordano la sorgente
teologale dell’amore soprattutto attraverso la verginità che
richiama quella verginità del cuore e degli affetti che nasce e si
alimenta dell’intima e feconda comunione con il Signore.
Lettura Patristica
Ireneo
di Lione
Adv.
Haer. IV, 12, 1-4
L’essenziale
della Legge
In effetti, la tradizione dei loro anziani, che essi ostentavano di osservare al pari di una legge, era contraria alla Legge di Mosè. Motivo per cui Is dice: "I tuoi tavernieri mescolano il vino con l’acqua" (Is 1,2) per mostrare che all’austero precetto di Dio gli anziani mescolano una tradizione acquosa, cioè aggiungono una legge adulterata e contraria alla Legge. È quanto il Signore ha chiaramente evidenziato, dicendo loro: "Perché trasgredite i comandamenti di Dio per la vostra tradizione?" (Mt 15,3). Non contenti di violare la Legge di Dio con la loro trasgressione mescolando il vino con l’acqua, hanno contrapposto ad essa la loro legge, che a tutt’oggi vien detta legge farisaica. Vi sopprimono alcune cose, ne aggiungono delle altre, ne interpretano altre ancora a loro modo: così ne usano in particolare i loro dottori. Volendo difendere queste tradizioni, non si sono sottomessi alla Legge di Dio che li orientava verso la venuta di Cristo, e sono arrivati persino a rimproverare al Signore di operare guarigioni in giorno di sabato, il che, come abbiamo già detto, la Legge non vietava, dal momento che anch’essa guariva in certo modo, facendo circoncidere l’uomo in quel giorno; tuttavia non riproveravano nulla a s‚ stessi, quando, per la loro tradizione e per la legge farisaica anzidetta, trasgredivano il comandamento di Dio e non possedevano l’essenziale della Legge, cioè l’amore verso Dio.
Quell’amore è in effetti il primo e più grande comandamento, e il secondo è l’amore verso il prossimo: lo ha insegnato il Signore, dicendo che tutta la Legge e i profeti si ricollegano a questi comandamenti (Mt 22,37-40). E lui stesso non ha portato altro comandamento più grande di questo, ma ha rinnovato quello stesso comandamento ingiungendo ai suoi discepoli di amare Dio con tutto il cuore e il loro prossimo come sé stessi. Se fosse disceso da un altro Padre, mai egli avrebbe fatto uso del primo e più grande comandamento della Legge: si sarebbe sforzato in tutte le maniere di apportarne uno più grande secondo un Padre perfetto e a non fare uso di quello che aveva dato l’Autore della Legge. Perciò, Paolo dice che la carità è il compimento della Legge (Rm 13,10); essendo abolito tutto il resto, restano solo la fede, la speranza e la carità, ma la più grande di tutte è la carità (1Co 13,13); senza la carità verso Dio, né la conoscenza ha alcuna utilità, né la comprensione dei misteri, né la fede, né la profezia, ma tutto è vano e superfluo senza la carità (1Co 13,2); la carità rende l’uomo perfetto, e colui che ama è perfetto, nel secolo presente e in quello futuro: infatti mai cesseremo di amare Dio, ma, più lo contempleremo, più lo ameremo.
Così dunque, visto che nella Legge come nel Vangelo il primo e più grande comandamento è lo stesso, cioè amare il Signore Dio con tutto il cuore, e il secondo del pari, cioè amare il prossimo come se stessi, è acquisita la prova che vi è un solo e medesimo Legislatore. I comandamenti essenziali della vita, per il fatto che sono gli stessi in un verso e nell’altro, manifestano effettivamente lo stesso Signore: infatti, se ha impartito comandi particolari adatti all’una o all’altra alleanza, per quanto attiene a comandamenti universali e più importanti, senza i quali non vi può essere salvezza, sono gli stessi da lui proposti da una parte e dall’altra.
Chi non avrebbe confuso il Signore, quando affermava, insegnando alla folla e ai discepoli, nei termini seguenti, che la Legge non veniva da un altro Dio: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei: osservate dunque e fate tutto ciò che essi vi dicono, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno; legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,2-1)? Egli non condannava perciò la legge di Mosè, dal momento che li invitava ad osservarla fintanto che sussistesse Gerusalemme: ma erano essi che egli biasimava, perché, pur proclamando le parole della Legge, erano vuoti d’amore e, per questo, violatori della Legge rispetto a Dio e al prossimo. Come dice Isaia: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, è invano che mi rendono culto, mentre insegnano dottrine e comandamenti di uomini" (Is 29,13). Non è la Legge di Mosè che egli chiama «comandamenti di uomini», bensì le tradizioni dei loro anziani, inventate di sana pianta, per difendere i quali essi rigettavano la Legge di Dio e, come conseguenza non si sottomettevano neppure al suo Verbo. È quanto Paolo sottolinea a loro proposito: "Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio: infatti, il termine della Legge è Cristo, per la giustificazione di ogni credente" (Rm 10,3-1). Come Cristo sarebbe il termine della Legge, se non ne fosse stato anche il principio? Infatti, colui che ha portato a termine è anche colui che ha realizzato il principio. È lui che diceva a Mosè: "Ho visto l’afflizione del mio popolo in Egitto, e sono disceso per liberarlo" (Ex 3,7-8). Fin dal principio, infatti, era solito salire e scendere per la salvezza degli afflitti.
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