venerdì 27 luglio 2018

Il miracolo nasce dalla fedeltà di Dio all’uomo.


Domenica XVII del Tempo Ordinario – Anno B – 29 luglio 2018

Rito Romano
2 Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15

Rito Ambrosiano
Gdc 2, 6-17; Tes2, 1-2. 4-12; Mc 10, 35-45
9 Domenica dopo Pentecoste


1) Pane da condividere.
Con questa domenica la liturgia interrompe la lettura continuata del Vangelo di San Marco e per cinque domeniche consecutive (da oggi,17ª Domenica del Tempo Ordinario, fino alla 21ª) ci propone tutto il capitolo sesto di san Giovanni. La ragione di tale inserzione risiede nella volontà di approfondire il tema del “pane”. Questo sesto capitolo di Giovanni si apre appunto con la narrazione della moltiplicazione dei pani, offrendoci un bellissimo esempio della compassione che Gesù aveva per chi lo seguiva e che aveva “dimenticato” di mangiare tanto era la voglia di vedere i suoi miracoli e di nutrirsi della Sua parola.
Per capire bene il brano del Vangelo di oggi, anche questa volta ricostruiamo il contesto: Gesù viene seguito da “una grande folla, vedendo i segni che faceva sugli infermi”. La gente è attratta dalla potenza misericordiosa di Gesù che si preoccupa dei malati e li guarisce. Gesù, però, non è solo un guaritore; è il maestro: per questo sale sul monte, come Mosè che era salito sul Sinai per accogliere la legge del Signore per Israele. Tuttavia, Gesù non va sul monte per ricevere la parola di Dio, ma per donarla: è per questo che si mette a sedere (nel testo originale in greco: si mette in cattedra), non tanto perché sia particolarmente stanco, ma perché questo è l’atteggiamento del maestro, che, quando insegna, sale, per così dire, in cattedra. Del resto Gesù aveva già fatto così, quando aveva proclamato la “nuova legge” delle beatitudini: “Salì sul monte e si mise a sedere; poi prendendo la parola, cominciò a insegnare” (Mt 5,1). Sempre per quanto riguarda il brano evangelico di oggi, è utile mettere il risalto l’annotazione temporale: era vicina la Pasqua. Quindi, siamo in primavera. Questa indicazione temporale ci riporta all’indietro, alla grande storia dell’esodo, iniziata con il primo plenilunio di primavera di millenni fa, e ai tanti segni che Dio aveva operato con Mosè per la liberazione degli Ebrei e durante il loro cammino verso la Terra promessa. Ma il riferimento alla Pasqua ci spinge anche in avanti e anticipa simbolicamente il dono che Gesù farà del suo Corpo e del suo Sangue nell’ultima Cena.
Questo dono del Pane di Vita è da condividere come fu condiviso il pane moltiplicato da Gesù per dar da mangiare a quanti lo avevano seguito.
Il pane condiviso insegna l’attenzione all’altro e l’umiltà a non scartare nessuno, e a fidarsi di un Dio che si fida di noi e ci fa capaci di distribuire il pane a una folla numerosa.
Oltre a prendere il Pane a noi donato e da noi condiviso mediante una vita caritatevole, rivolgiamo a Cristo questa preghiera: “Se desidero medicare le mie ferite, tu sei medico. Se brucio di febbre, tu sei la sorgente ristoratrice. Se sono oppresso dalla colpa, tu sei il perdono. Se ho bisogno di aiuto, tu sei la forza. Se temo la morte, tu sei la vita eterna. Se desidero il cielo, tu sei la vita. Se fuggo le tenebre, tu sei la luce. Se cerco il cibo, tu sei il nutrimento” (Sant’Ambrogio da Milano). Insomma, preghiamo Dio, “Padre nostro”, perché “ci dia il nostro pane quotidiano” del corpo e dello spirito.
Se è un miracolo dare da mangiare a migliaia di persone con un po’ di pane, è un miracolo ancora più grande dare il pane di verità, di gioia. Si tratta del Pane vero, del Pane della Verità da condividere con gli affamati di giustizia.
Il pane moltiplicato da Chi nell’ultima Cena si farà Pane di Vita. Il grande miracolo non è quello di sfamare una folla, ma quello di mostrare la gloria di Dio rivelata in Gesù, Parola fatta carne, Verbo fatto cibo eucaristico per i cristiani. In effetti, il brano del vangelo di oggi racconta che Gesù prese i pani, rese grazie e li distribuì: tre verbi che ci ricollegano a ogni Messa.
E mentre i discepoli lo distribuivano, il pane non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano, questo pane condiviso restava in ogni mano.

2) Pane di misericordia.
In quel giorno, Gesù sentì compassione perché è fatto dello stesso amore del Padre e manifestò la misericordia di Dio parlando alla folla e saziandone la sua fame.
Oggi, amandoci oltre ogni misura, Cristo moltiplica il Pane di Vita per noi. Nel sacramento dell’eucaristia Gesù si fa cibo di vita vera, lieta per la misericordia ricevuta.
In questa Domenica, il segno della misericordia, della compassione di Gesù Cristo è il racconto dei pani moltiplicati e condivisi che ci aiuta a capire che Cristo ci dona se stesso e la sua vita offrendosi a noi come pane eucaristico. Lui, che ringraziò il Padre, benedisse e spezzò il pane materiale donatogli da un bambino, si lascia spezzare per noi quale pane spirituale. Mangiando di questo Pane, Corpo eucaristico di Cristo, che è “la misericordia di Dio incarnata” (Papa Francesco), anche noi diventiamo misericordia.
La Cena eucaristica, dunque, non è un’azione da guardare, è un gesto da vivere. Fare la comunione non è solamente ricevere e lasciarsi santificare dalla presenza di Cristo, è aprire il nostro cuore per portare all’altare il “sì” del nostro amore a Dio; è aprire le nostre mani ai fratelli e sorelle, che hanno fame e che dobbiamo soccorrere con le opere di misericordia materiale e spirituale. Ma non dimentichiamo che la prima e più grande misericordia è di insegnare la verità e di dare cose vere, perché “il bene è la verità e la proposta della verità nasce dall’amore” (Card Giacomo Biffi).
Un esempio significativo di come vivere la misericordia è quello offerto dalla Vergini consacrate che sono “i fiori dell’albero che è la Chiesa” (Sant’Ambrogio di Milano).
In effetti, le vergini consacrate nel mondo sono chiamate a essere annuncio e attuazione di questa misericordia, a esserne immagine e a saperla offrire, con una vita fatta di paziente vigilanza nella preghiera, di attenzione, di discrezione e riserbo. E ciò perché la vocazione verginale è in relazione profonda con il mistero dell’Eucaristia. “Infatti, nell'Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo. Dall'Eucaristia inoltre essa trae conforto e spinta per essere, anche nel nostro tempo, segno dell'amore gratuito e fecondo che Dio ha verso l'umanità. Infine, mediante la sua specifica testimonianza, la vita consacrata diviene oggettivamente richiamo e anticipazione di quelle « nozze dell'Agnello » (Ap 19,7.9), in cui è posta la meta di tutta la storia della salvezza. In tal senso essa costituisce un efficace rimando a quell’orizzonte escatologico di cui ogni uomo ha bisogno per poter orientare le proprie scelte e decisioni di vita”.(Sacramentum caritatis, 81).
Imitando la Sempre Vergine Maria, queste donne vergini testimoniano la verità del Magnificat: “Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo é il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono”, che può essere così parafrasato: “Mi ha fatta grande Colui che è potente ed il cui nome è santo, perché la Divina potenza operò il miracolo della verginità e la Sua infinita santità la riempì di grazie”. E il coro verginale risponde magnificando la misericordia di Dio che, per Maria Vergine e Madre, passò di generazione in generazione, facendo spuntare nel fango del mondo i fiori di santa verginità che profumano la terra e il Cielo. La verginità è seguire Gesù; non è quindi rinuncia ad amare, ma lasciarsi afferrare e possedere completamente dall’Amore, come insegna Sant’Ambrogio di Milano: “Vergine consacrata cerca il Cristo nella tua luce, cioè nei buoni pensieri, nelle buone azioni, nelle tue notti, cercalo nella tua stanza, perché anche di notte viene e bussa alla tua porta. Vuole trovarti vigile in ogni momento, vuole trovare aperta la porta dell’anima tua. La bocca canti la lode e la professione di fede nella croce, mentre nella tua stanzetta ripeti il Credo e canti i salmi. Quando egli verrà, ti trovi desta e preparata. Dorma il tuo corpo, ma vigili la tua fede; dormano le lusinghe del senso, ma vigili la prudenza del cuore. Le tue membra profumino della croce di Cristo e della fragranza della sua sepoltura. E c’è pure un’altra porta che vuole trovare aperta: vuole che si schiuda la tua bocca e canti la lode e la professione di fede nella croce, mentre nella tua stanzetta ripeti il Credo e canti i salmi. Quando egli verrà, ti trovi desta e preparata. Dorma il tuo corpo, ma vigili la tua fede; dormano le lusinghe del senso, ma vigili la prudenza del cuore. Le tue membra profumino della croce di Cristo e della fragranza della sua sepoltura” (La Verginità, 46-47).




Lettura Patristica
Efrem,
Diatessaron, 12, 1-4


L’Eucaristia, dono grande e gratuito

       Nel deserto, Nostro Signore moltiplicò il pane (Mt 14,13-21 Mt 15,32-38 Jn 6,1-13), e a Cana mutò l’acqua in vino (Jn 2,1-11). Abituò così la loro bocca al suo pane e al suo vino per il tempo in cui avrebbe dato loro il suo corpo e il suo sangue. Fece loro gustare un pane e un vino caduchi per suscitare in loro il desiderio del suo corpo e sangue che danno la vita. Diede loro con liberalità queste piccole cose perché sapessero che il suo dono supremo sarebbe stato gratuito. Le diede loro gratuitamente, sebbene avessero potuto acquistarle da lui, affinché sapessero che non sarebbe stato loro richiesto il pagamento di una cosa inestimabile; infatti, se potevano pagare il prezzo del pane e del vino, non avrebbero certamente potuto pagare il suo corpo e il suo sangue.

       Non soltanto ci ha colmato gratuitamente dei suoi doni, ma ancor più ci ha vezzeggiati affettuosamente. Infatti, ci ha donato queste piccole cose gratuitamente per attirarci, affinché andassimo e ricevessimo gratuitamente quella cosa sì grande che è l’Eucaristia. Quegli acconti di pane e di vino che ci ha dato erano dolci alla bocca, ma il dono del suo corpo e del suo sangue è utile allo spirito. Egli ci ha attirati con quelle cose gradevoli al palato per trascinarci verso colui che dà la vita alle anime. Ha nascosto la dolcezza nel vino da lui fatto, per indicare ai convitati quale tesoro magnifico è nascosto nel suo sangue vivificante.

       Come primo segno, fece un vino che dà allegria ai convitati per mostrare che il suo sangue avrebbe dato allegria a tutte le genti. Il vino è parte in tutte le gioie immaginabili e parimenti ogni liberazione si riconnette al mistero del suo sangue. Diede ai convitati un vino eccellente che trasformò il loro spirito per far sapere loro che la dottrina con cui li abbeverava avrebbe trasformato i loro cuori. Ciò che all’inizio non era che acqua fu mutato in vino nelle anfore; era il simbolo del primo comandamento portato a perfezione; l’acqua trasformata era la legge perfezionata. I convitati bevevano ciò che era stato acqua, ma senza gustare l’acqua. Parimenti, quando udiamo gli antichi comandamenti, li gustiamo nel loro sapore nuovo. Al precetto: Schiaffo per schiaffo (cf. Ex 21,24 Lv 24,20 Dt 19,21) è stata sostituita la perfezione: "Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra" (Mt 5,39).

       L’opera del Signore ottiene tutto; in un baleno, egli ha moltiplicato un po’ di pane. Ciò che gli uomini fanno e trasformano in dieci mesi di lavoro, le sue dieci dita l’hanno compiuto in un istante. Le sue mani furono come una terra sotto il pane; e la sua parola come il tuono al di sopra di lui; il sussurro delle sue labbra si sparse su di lui come una rugiada e l’alito della sua bocca fu come il sole; in un brevissimo istante egli ha portato a termine quanto richiede di norma un lungo lasso di tempo. Dalla piccola quantità di pane è sorta una moltitudine di pani; come all’epoca della prima benedizione: "Siate fecondi e moltiplicatevi" (Gn 1,28). I pezzi di pane, prima sterili e insignificanti, grazie alla benedizione di Gesù - quasi seno fecondo di donna - hanno dato frutto da cui sono sopravanzati molteplici frammenti.

       Il Signore ha mostrato il vigore penetrante della sua parola a quelli che l’ascoltavano, e ha mostrato la rapidità con la quale egli elargiva i suoi doni a quelli che ne beneficiavano. Non ha moltiplicato il pane al punto che avrebbe potuto, ma fino alla quantità sufficiente per i convitati. Il miracolo non fu su misura della sua potenza, bensì della fame degli affamati. Se, infatti, il miracolo fosse stato misurato sulla sua potenza, riuscirebbe impossibile valutare la vittoria di quella. Commisurato alla fame di migliaia di persone, il miracolo ha superato le dodici ceste (Mt 14,20). In tutti gli artigiani, la potenza è inferiore alla richiesta dei clienti; essi non possono fare tutto quanto gli domandano i clienti. Le realizzazioni di Dio, invece, superano i desideri. E: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto" (Jn 6,12) e non si pensi che il Signore abbia agito solo per fantasia. Ma, quando i resti saranno stati conservati un giorno o due, crederanno che il Signore ha agito in verità, e che non si trattò di un fantasma inconsistente.

venerdì 20 luglio 2018

Missione e compassione


Domenica XVI del Tempo Ordinario – Anno B – 22 luglio 2018
Rito Romano
Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34


Rito Ambrosiano
2Sam 6,12b-22; Sal 131; 1Cor 1,25-31; Mc 8,34-38
IX Domenica dopo Pentecoste.

1) Missione nasce dalla comunione e in essa si ristora.
Il Vangelo di questa XVI domenica del Tempo Ordinario (anno B) ci mostra i discepoli di Cristo che ritornano dalla missione, durante la quale hanno portato l’annuncio delle buona e lieta novella: il “Vangelo della Gioia” (Papa Francesco). In effetti, mentre il Vangelo di domenica scorsa ci ha mostrato Gesù che invia i dodici apostoli, due a due, nei villaggi della Galilea per annunciare l'avvento del regno di Dio, per guarire i malati e aiutare i deboli e i poveri, il brano evangelico di oggi ci presenta il ritorno dei discepoli dalla loro missione. Questi ritornano lieti da Cristo. Sono felici, ma anche un poco stanchi, come accade ad ogni vero “missionario” che dimentica se stesso e si affatica per portare al mondo il Vangelo, la buona e lieta notizia che la misericordia ha preso dimora tra gli uomini.
Nel loro viaggio apostolico hanno sperimentato la potenza della Parola, ma anche la fatica e il rifiuto. E, oggi, Gesù li invita al riposo, in un luogo solitario, in sua compagnia: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'” (Mc 6, 31), perché è nel deserto che Dio parla al loro e nostro cuore. C'è il momento della missione e dell'impegno e c’è il momento del riposo, c’è il momento dell’accoglienza e c’è il momento della solitudine. Con Cristo il “luogo solitario” diventa un’oasi in cui fermarsi per assaporare la gioia della comunione con Lui e dissetare la nostra sete di Dio.
Sia che si svolga in terre lontane che con il prossimo con il quale viviamo e lavoriamo, la missione ha bisogno non solamente di parole e di testimonianza, ma anche di preghiera e contemplazione. Ci vuole il silenzio del deserto per cogliere ciò che solo è essenziale; senza le parole degli uomini è più facile riascoltare la Parola di Dio. Non si tratta di parlare o di tacere, di fare o di non fare; si tratta di decidere con chi parlare, per chi agire. Santa M. Teresa di Calcutta diceva alle sue suore: “Per essere in grado di realizzare la pace parleremo molto a Dio e con Dio, e meno con gli uomini e agli uomini”
Per mettere in pratica questo insegnamento della Santa “dei più poveri dei poveri”, penso sia utile sottolineare non solamente l’importanza di trovare nella giornata momenti di meditazione e di recarci in luoghi dove si possa fare un ritiro spirituale, ma la “necessità” di andare in Chiesa per gustare quel “riposo” che è la Messa domenicale. Forse la Messa della domenica non è normalmente vissuta come momento di riposo, ma andando in Chiesa almeno la domenica accogliamo l’invito di Cristo di metterci “in disparte”, cioè in un luogo diverso dalle ordinarie occupazioni e, quindi, lontano dalle distrazioni, anche quelle, legittime, delle vacanze, per poter incontrare Dio e con lui dialogare, ascoltare una parola vera sulla vita, nutrirci di un cibo di comunione e un'amicizia salda, ricevere la grazia.
Non si tratta di evadere dalla vita. L’incontro con il Signore nella domenica è come una luce che illumina il tempo di ieri, per comprenderlo, santifica quello presente, mettendolo nelle mani di Dio, rischiara quello di domani, per farne vedere il percorso. In questo modo possiamo essere, tutti dei missionari che  camminano nel mondo per cercare gli altri, ma si fermano con Cristo per trovare se stessi, consolati da Lui.

2) La preghiera non è una fuga dalla missione, ne è l’anima
La gente, quella di allora e quella di oggi, è senza dubbio l’oggetto primario della missione del Signore e dei discepoli. E’ su di loro che si dirige la compassione di Gesù; per questo il Vangelo può notare: “era molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare”. Tuttavia ciò non impedisce a Cristo ed ai suoi discepoli di vivere dei momenti “in disparte”, il che non significa una fuga dal mondo e dagli uomini. Sono momenti nei quali Cristo insegna ai suoi discepoli come vivere in comunione. “In disparte”, i discepoli ascoltano solamente il Signore, fanno scendere nel loro cuore le parole della Scrittura che sono come un respiro più grande dentro il quale far riposare il cuore, rischiarare la mente, pensare come pensa il loro Maestro, amare come ama Lui e per stare con Lui in pace.
Quindi, se vogliamo davvero essere missionari e fare del bene all’umanità, è molto importante, direi indispensabile, prendere del tempo per stare solamente con Cristo. Oltre alla Messa, quindi, troviamo del tempo, ogni giorno, per stare in silenzio, in preghiera, in ascolto del Signore.
Un esempio molto significativo ci viene dalla Vergini Consacrate che con la loro vita incentrata sulla preghiera mostrano che le cose importanti da fare, e da fare subito e sempre, non sono le cose del mondo, ma l’accoglienza di Cristo e del suo Regno. L’urgenza delle “cose di Dio”, la ricerca di Dio, l'ascolto della sua Parola è la condizione prioritaria per fare spazio alle persone, senza farsi travolgere dalla fretta delle cose da fare e dall’ansia del possesso.
E’ la carità di Cristo, al quale si sono donate pienamente e gioiosamente, che avvolge, coinvolge e spinge le Vergini consacrate verso i fratelli e sorelle in umanità portando la felice notizia che Dio c’è, che è incontrabile e che ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
Questa donne testimoniano anche che la preghiera assidua non le allontana dal mondo, nel quale lavorano ogni giorno. La preghiera costante le mantiene orientate a Cristo. In effetti senza di Lui anche con le migliori intenzioni e, persino, con le azioni fatte allo scopo di far del bene agli altri, si può smarrire se stessi. Ci si può “svuotare” al punto tale di non verificare più il senso e l’orientamento per cui si lavora. Se non si prega “riposando con e in Cristo”, si è come foglie nel turbinio di ciò che ci circonda.
La consacrazione “obbliga” le Vergini a dare la priorità a Dio. Lui le ricolma di grazia perché si sono messe in disparte per Lui. A loro che, silenziosamente e discretamente, Gli danno il loro tempo e loro vita, il Signore dispensa la sua ricchezza. Per questo motivo “non dobbiamo misurare il tempo nella preghiera. Lì più ne perdiamo più ne guadagniamo”. (Chiara Lubich, grande maestra spirituale e fondatrice del Movimento dei Focolari)
Nel tempo dato generosamente a Cristo, queste donne consacrate guardano Gesù e ci danno l’esempio di come guardarlo ed avere il suo sguardo, che non si ferma alla superficie ma coglie ciò che sta nel cuore delle persone.
Per Gesù le persone che incontra non sono numeri, non sono nemmeno delle masse indistinte di cui servirsi. Per lui ogni persona è un volto e un cammino di cui prendersi cura. Il suo vedere sa scorgere nelle situazioni non un problema da risolvere ma un ‘tu’, un popolo fatto di volti, che soffre, che pone una domanda, che vive di una attesa, che avverte il peso della contraddizione del male ma anche la sete di verità e di amore.
Il modo di guardare di Gesù è un vedere che sosta, si ferma, lasciandosi colpire da chi ha di fronte. Il suo primo movimento è ascolto, ospitalità. Se impariamo il modo di guardare di Cristo, ciò che arriva dagli occhi non giunge solamente alla mente e al cuore, ma fa commuovere, come racconta il Vangelo di oggi.
In questo Vangelo, San Marco racconta che Gesù si commuove di fronte alle persone. Si lascia ferire innanzitutto. Non si pone come chi ha qualcosa da dare. Gesù incontra le persone come chi è povero, e fa spazio per  accogliere la sofferenza, la domanda di salute e di vita, la paura, insomma tutto ciò che si muove nel più profondo del cuore umano. Senza giudicare, senza escludere, ma facendosi compagnia. Commuoversi, è verbo “femminile” perché in ebraico indica il muoversi delle viscere materne. Con Gesù lasciamoci cambiare dentro e condividiamo la sua compassione.


Lettura patristica
Beda il Venerabile (ca 673 - 735)
In Evang. Marc., 2, 6, 30-34


Ritornati gli apostoli da Gesù, gli riferirono tutte le cose che avevano fatto e insegnato (Mc 6,30).
       Gli apostoli non riferiscono al Signore soltanto ciò che essi avevano fatto e insegnato, ma, come narra Matteo, i suoi discepoli, o i discepoli di Giovanni, gli riferiscono il martirio che Giovanni ha subito mentre essi erano impegnati nell’apostolato (Mt 14,12). Continua pertanto:
       "E disse loro: «Venite voi soli in un luogo deserto a riposarvi un poco»" (Mc 6,31), con quel che segue.
       Fa così non soltanto perché essi avevano bisogno di riposo, ma anche per un motivo mistico, in quanto, abbandonata la Giudea che aveva con la sua incredulità strappato via da sé il capo della profezia, era sul punto di largire nel deserto, ai credenti di una Chiesa che non aveva sposo, il cibo della parola, simile a un banchetto fatto di pani e di pesci. Qui infatti i santi predicatori, che erano stati a lungo schiacciati dalle pesanti tribolazioni nella Giudea incredula e contestataria, trovano pace grazie alla fede che viene concessa ai gentili. E mostra che vi era necessità di concedere un po’ di riposo ai discepoli con le parole che seguono:       "Erano infatti molti quelli che venivano e quelli che andavano; ed essi non avevano neanche il tempo di mangiare" (Mc 6,31).
       È chiara da queste parole la grande felicità di quel tempo che nasceva dalla fatica incessante dei maestri e dallo zelo amoroso dei discenti. Oh, tornasse anche ai nostri giorni tanta felicità, in modo che i ministri della parola fossero talmente assediati dalla folla dei fedeli e degli ascoltatori da non avere più nemmeno il tempo di prendersi cura del proprio corpo! Infatti, gli uomini cui è negato il tempo di prendersi cura del corpo, hanno molto meno la possibilità di dedicarsi ai desideri terreni dell’anima o della carne; anzi, coloro da cui si esige in ogni momento, a tempo opportuno e importuno, la parola della fede e il ministero della salvezza, hanno di conseguenza l’animo sempre ardentemente proteso a pensare e a compiere cose celesti, in modo che le loro azioni non contraddicano gli insegnamenti che escono dalla loro bocca.
       "E saliti sulla barca, partirono per un luogo deserto e appartato" (Mc 6,32).
       I discepoli salirono sulla barca non soli, ma dopo aver con sé il Signore, e si recarono in un luogo appartato, come chiaramente racconta l’evangelista Matteo (Mt 14,13).
       "E li videro mentre partivano e molti lo seppero e a piedi da tutte le città accorsero in quel luogo e li precedettero" (Mc 6,33)
       Dicendo che li precedettero a piedi, si deduce che i discepoli col Signore non andarono con la barca all’altra riva del mare o del Giordano ma, varcato con la barca un braccio di mare o del lago, raggiunsero una località vicina a quella stessa regione che gli abitanti del luogo potevano raggiungere anche a piedi.
       "E uscito dalla barca, Gesù vide una grande folla, e si mosse a compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore, e prese a dare loro molti insegnamenti" (Mc 6,34).
       Matteo spiega più chiaramente in qual modo ebbe compassione di loro, dicendo: "Ebbe misericordia della folla e risanò i loro ammalati" (Mt 14,14). Questo è infatti nutrire veramente compassione dei poveri e di coloro che non hanno pastore, cioè mostrare loro la via della verità con l’insegnamento, liberarli con la guarigione dalle malattie corporali, ma anche spingerli a lodare la sublime liberalità del Signore ristorando gli affamati. Le parole seguenti di questo passo sottolineano appunto che egli fece tutto questo. Mette alla prova la fede delle folle e, dopo averla provata, la ricompensa con un degno premio. Cercando infatti la solitudine, vuol vedere se le folle vogliono o no seguirlo. Esse lo seguono e, compiendo il viaggio fino al deserto, «non su cavalcature o su carri, ma con la fatica dei loro piedi» (Girolamo), dimostrano quale pensiero essi abbiano per la loro salvezza. E Gesù, come colui che può, ed è salvatore e medico, fa intendere quanta consolazione riceva dall’amore di coloro che credono in lui, accogliendo gli stanchi, ammaestrando gli ignoranti, risanando gli infermi e ristorando gli affamati. Ma secondo il significato allegorico, molte schiere di fedeli, dopo aver abbandonato le città dell’antica vita, ed essersi liberati dall’appoggio di varie dottrine, seguono Cristo che si dirige nel deserto dei gentili. E colui che era un tempo «Dio conosciuto solo in Giudea» (Ps 75,2), dopo che i denti dei giudei sono diventati «armi e frecce, e la loro lingua una spada tagliente», viene esaltato «come Dio al di sopra dei cieli e la sua gloria si diffonde su tutta la terra»«(Ps 56,5-6).



venerdì 13 luglio 2018

Missionari perché discepoli.


Domenica XV del Tempo Ordinario – Anno B – 15 luglio 2018
Rito Romano
Am 7,12-15; Sal 84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13

Rito Ambrosiano
Gs 10,6-15; Sal 19; Rm 8,31b-39; Gv 16,33-17,3
VIII Domenica dopo Pentecoste.




1) I Discepoli sono dei chiamati.
Nel vangelo di oggi, San Marco si preoccupa di fornirci i tratti essenziali della fisionomia del discepolo: una persona scelta, separata, santa. In effetti la parola “santo” viene dal latino che vuol dire “separato”, separato dal mondo e dal male per entrare nelle sfera di Dio, “messo a parte” per un compito speciale, quella di portare l’annuncio di salvezza al mondo intero.
Il discepolo è colui che ascolta, crede e si stacca dalla folla per stare accanto a Cristo e portare l’annuncio della sua presenza dalla quale è stato stupito. Anche la folla ascolta ma poi torna a casa. Il discepolo, invece, rimane con Cristo e con Lui conduce, fedelmente, una vita di comunione e di pellegrinaggio. Vive la scelta, la separazione non come allontanamento dagli altri, ma come prossimità, familiarità con Cristo. La vita di comunione con Lui diventa missione.
Quali sono, dunque, i tratti essenziali della figura dei discepoli (quelli di allora e quelli di oggi) di Cristo? Sono: 1. l’abbandono completo nella sequela, 2. l’amorosa confidenza, 3. la missionarietà che reca gioia.
Nel brano evangelico di questa domenica San Marco parla di Gesù che invia i suoi discepoli in missione, perché il discepolo è colui che ha lasciato tutto per seguire Cristo e diventarne missionario con una fiducia tale da servirsi solo di mezzi poveri: un paio di sandali, un vestito e un bastone per il cammino.
Dunque, il discepolo è colui, che ascolta, crede, si distacca da ciò che gli è caro e si pone al seguito di Gesù, che gli è diventato ciò che di più caro ha: Gesù è la perla preziosa.
Il discepolo rimane con Cristo, fa vita comune e itinerante con Lui . Ma c’è anche un altro aspetto: il discepolo è inviato in missione. In effetti, San Marco ci dice che Cristo ha inviato i suoi discepoli per compiere la missione di portare a tutti i popoli l’annuncio gioioso, non solo che la salvezza è vicina, ma che il Salvatore è incontrabile tramite la presenza dei suoi discepoli di vita nuova.
E questo è vero anche oggi perché il cristianesimo vive come un fatto presente e si comunica come incontro reale.
Ma va tenuto presente che il discepolo cristiano è anzitutto un chiamato da Dio che si è fatto incontro. Propriamente parlando, non si diviene cristiani per autonoma scelta; lo si diventa per risposta ad una chiamata. C’è, infatti, un amore che precede la nostra risposta. E’ questo che ci è insegnato da Cristo quando dice: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv …) e da San Paolo: “In Cristo (il Padre) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1, 46). Già l’Antico Testamento, da Abramo in poi, pone Dio all’origine di ogni chiamata; l’iniziativa di avviare la storia della salvezza del popolo d'Israele è tutta del Signore. “Abramo, chiamato da Dio, obbedì” (Eb 11, 8).
Anche nelle narrazioni delle vocazioni profetiche emerge con chiarezza il primato di Dio che chiama. Esemplare è la vicenda di Amos, che ascoltiamo nella prima lettura della Messa di questa Domenica. Questo profeta è come scaraventato dalla vocazione in un duro confronto con le ingiustizie del potere politico. Inoltre deve scontrarsi con le fredde considerazioni del “cappellano di corte”, il sacerdote Amasia, che lo esorta alla prudenza. Amos ribatte al sacerdote che alla radice delle sue parole non c'è una sua scelta personale legata a prospettive proprie. E' Dio stesso che lo ha costretto con una ben precisa chiamata: “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e un raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza in mezzo al mio popolo Israele” (Am 7, 14 -15).



2) Discepoli cioè missionari.
Non solo il profeta è chiamato ad essere missionario. Anche il discepolo è inviato in missione, come il brano evangelico di oggi1 (6,7-13) ci fa meditare. Infatti, l’evangelista Marco annota che Gesù “li mandò” e questo comporta almeno la consapevolezza di essere inviati da Dio e non da decisione propria, mandati per un progetto in cui i discepoli sono coinvolti, ma di cui non sono i proprietari.
Oggi come allora i cristiani, che in quanto tali sono discepoli di Cristo, vengono inviati quali Missionari della verità misericordiosa. Oggi come allora i discepoli invitano la gente alla conversione e danno sollievo alla sofferenza.
Il messaggio, che in nome di Cristo annunciano, è un invito alla conversione: “Giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Pure e sante sono le nostre mani sui malati con le quali annunciamo: Dio è già qui, è vicino a te con amore, e guarisce la vita, girati verso di lui”.
E’ importante capire l’insistenza di Gesù evangelica sulla povertà come condizione indispensabile per la missione: né pane, né bisaccia, né soldi. È una povertà che è fede, libertà e leggerezza. Anzitutto, libertà e leggerezza: un discepolo appesantito dai bagagli diventa sedentario, conservatore, incapace di cogliere la novità di Dio e abilissimo nel trovare mille ragioni di comodo per giudicare irrinunciabile la casa nella quale si è accomodato e dalla quale non vuole più uscire. Inoltre la povertà è anche fede: è segno di chi non confida in se stesso ma si affida a Dio.
Ma c’è anche un altro aspetto che non si può dimenticare: l’atmosfera “drammatica” della missione. Il rifiuto è previsto (Mc 7, 11): la parola di Dio è efficace, ma a modo suo. Il discepolo deve proclamare il messaggio e in esso giocarsi completamente, ma deve lasciare a Dio il risultato. Al discepolo è stato affidato un compito, ma non è garantito il successo.
Inoltre è importante ricordare che il discepolo non è solo chiamato ad essere un maestro, ma è pure un testimone che si impegna nella lotta contro il Male, perché è dalla parte della verità, della libertà e dell'amore,
Infine, non bisogna dimenticare che per essere missionari, bisogna prima di tutto essere discepoli di Cristo, ascoltare sempre di nuovo l’invito a seguirlo, imitandolo: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Un discepolo, in effetti, è una persona che si pone all’ascolto della Parola di Gesù (cfr Lc 10,39), riconosciuto come il Maestro che ci ha amati fino al dono della vita. Si tratta dunque, per ciascuno di noi, di lasciarsi plasmare ogni giorno dalla Parola di Dio: essa ci renderà amici del Signore Gesù e capaci di far entrare altre persone in questa amicizia con Lui. Questa amicizia fraterna con Cristo, centro della nostra vita, permette di andare nelle periferie umane per portare a tutti la verità di Cristo, Amore incarnato.
Un modo particolare di essere “discepoli-missionari” (Papa Francesco) è quello delle vergini consacrate che vivendo e lavorando nel mondo incontrano le persone che vivono e lavorano nelle periferie esistenziali. Vi è uno stile femminile nel vivere la missione, uno modo di essere discepole-missionarie come lo è stata la Vergine Maria, la Discepola-Missionaria per eccellenza. Più che a Mnasone di Cipro che ospitò San Paolo nel suo viaggio da Cesarea a Gerusalemme è alla Madonna che compete il titolo di “discepolo della prima ora” (At 21, 16), perché credette al Figlio di Dio l’Altissimo nel momento in cui si incarnava nel suo grembo per opera dello Spirito Santo.
E’ Maria la prima missionaria perché per prima portò Cristo sulle strade del mondo per andare dalla cugina Elisabetta. Fu una missionaria che portava non un discorso, ma il Vangelo in carne e ossa. Le Vergini consacrate imitano in modo speciale la Madonna mediante la vigilanza e la preghiera, cioè mediante la custodia del cuore offerto a Cristo con il dono della loro verginità, e la docilità allo Spirito Santo. Mediante una vita riservata, anche se nel mondo le vergini consacrate vivono un raccoglimento personale, grazie al quale si dedicano all’ascolto delle Parola di Dio. Sul loro esempio, il nostro cuore e la nostra mente tengano vivo l’amore materno, che anima tutti quelli che nella missione della Chiesa cooperano alla rigenerazione degli uomini (Cfr Lumen Gentium, 65). Ogni cristiano è chiamato a fare proprio l’atteggiamento di Maria per animare maternamente l’annuncio evangelico di Cristo e per esercitare il “potere” di servire il Signore nei fratelli e sorelle in umanità, vivendo nella propria situazione la fecondità verginale della Chiesa, come appunto testimoniano le Vergini consacrate.

1  “Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6. 7 – 13).


Lettura Patristica
Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 2, 6, 6-9

Le caratteristiche della missione dei discepoli

       "E percorreva i villaggi circostanti insegnando. Chiamò poi i dodici e cominciò a mandarli a due a due a predicare e dava loro il potere sugli spiriti immondi" (Mc 6,6-7).

       «Benevolo e clemente, il Signore e maestro non rifiuta ai servi e ai discepoli i suoi poteri, e, come egli aveva curato ogni malattia e ogni debolezza, così dà agli apostoli il potere di curare ogni malattia ed ogni infermità. Ma c’è molta differenza tra l’avere e il distribuire, il donare e il ricevere. Gesù, quando opera, lo fa col potere di un padrone; gli apostoli, se compiono qualcosa, dichiarano la loro nullità e la potenza del Signore con le parole: "Nel nome di Gesù, alzati e cammina"» (Girolamo).

       "E ordinò loro di non prender nulla per il viaggio se non un bastone soltanto, non bisaccia, non pane, né denaro nella cintura, ma andassero calzati di sandali e non indossassero due tuniche" (Mc 6,8-9).

       «Tanto grande dev’essere nel predicatore la fiducia in Dio che, sebbene non si preoccupi delle necessità della vita presente, tuttavia deve sapere con certezza che non gli mancherà niente. E questo per evitare che, se la sua mente è presa da preoccupazioni terrene, egli non rallenti nell’impegno di comunicare agli altri le parole eterne (Greg. Magno).

       Quando infatti - secondo Matteo - disse loro: "Non vogliate possedere né oro né argento" - con quel che segue, - subito aggiunse: "Perché l’operaio ha diritto al suo sostentamento" (Mt 10,9-10). Mostra insomma chiaramente perché non ha voluto che essi possedessero né portassero seco quei beni; non perché questi non siano necessari al sostentamento di questa vita, ma perché egli li inviava in modo da far capire loro che tali beni erano loro dovuti dai credenti ai quali avrebbero annunziato il vangelo. È chiaro dunque che il Signore non ordinò queste cose come se gli evangelisti non dovessero vivere di altro che di ciò che offrivano loro i fedeli cui essi annunziavano il vangelo (altrimenti si sarebbe comportato in modo opposto a questo precetto l’Apostolo [cf. 1Th 2,9 ], che era solito ricavare il sostentamento dal lavoro delle sue mani per non essere di peso a nessuno), ma dette loro una libertà di scelta nell’uso della quale dovevano sapere che il sostentamento era loro dovuto. Quando il Signore comanda qualcosa, se questa non si compie, la colpa è della disobbedienza. Ma quando è concessa la facoltà di scelta, è lecito a ciascuno non usufruirne o sottostarvi liberamente. Ebbene il Signore, col dare l’ordine, che l’Apostolo ci riferisce (1Co 2,9) essere stato da lui dato, a quanti annunziano il Vangelo, cioè di vivere della predicazione del Vangelo, intendeva dire agli apostoli che non dovevano possedere né dovevano avere preoccupazioni; che non dovevano portare con sé né tanto né poco di ciò che era necessario a questa vita; per questo aggiunse: "neppure il bastone", per sottolineare che da parte dei fedeli suoi tutto è dovuto ai suoi ministri che non chiedono nulla di superfluo. Aggiungendo poi "infatti l’operaio ha diritto al suo sostentamento", ha chiarito e precisato il perché delle sue parole. Ha simboleggiato nel bastone questa facoltà di scelta, dicendo che non prendessero per il viaggio altro che un bastone, per fare unicamente intendere che in grazia di quella potestà ricevuta dal Signore, e raffigurata nel bastone, gli apostoli non mancheranno neppure delle cose che non portano seco. La stessa cosa deve intendersi delle due tuniche nessuno di loro ritenga di doverne portare un’altra oltre quella che indossa, timoroso di poterne avere bisogno, in quanto può averla grazie a quella potestà di cui abbiamo parlato».


venerdì 6 luglio 2018

Stupirci di Cristo per seguirlo


XIV Domenica Tempo Ordinario - Anno B –  8 luglio 2018
 
Rito Romano
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6

Rito Ambrosiano
VIII Domenica dopo Pentecoste
Gs 10,6-15; Sal 19; Rm 8,31b-39; Gv 16,33-17,3



1) Stupore e scandalo.
Con gli occhi delle mente e del cuore immaginiamo di contemplare la scena del Vangelo di oggi per stupirci anche noi alla vista del volto santo di Cristo e all’ascolto delle parole della Parola (Cristo) di Dio fatta carne.
Lasciamoci sorprendere dalla presenza suggestiva del Figlio di Dio, senza scandalizzarci come hanno fatto alcuni dei suoi compatrioti, di cui parla il Vangelo di oggi.
Perché alla gioia dello stupore in alcuni (oggi come duemila anni fa) subentra l’irritazione per lo scandalo? Cosa ci si scandalizza di Cristo? Perché quello che Cristo manifesta di sé non corrisponde al concetto (sarebbe meglio dire al preconcetto) che ci si è fatti di lui.
E’ un paradosso che viene da lontano. Il paradosso di un Dio che nasce da una semplice, povera e giovane donna in una grotta. Il Redentore del mondo è uno che ha per discepoli ed amici dei pescatori, che guarisce i malati, risuscita i morti. Un Maestro che insegna cose profonde ma annuncia una liberazione non politica e muore come un ladrone qualsiasi inchiodato ad una croce. Era evidentemente troppo per gli ebrei del suo tempo. Era, ed è, un segno importante un segno di contraddizione.
Quindi non c’è da meravigliarsi se il Vangelo di oggi narra che i compaesani di Gesù dallo stupore passano allo scandalo e dicono: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” (Mc 6,3).
Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce di credere. Ciò che impedisce agli abitanti di Nazareth di credere è proprio la persona di Gesù, che loro pensano di conoscere perché l’hanno visto crescere tra di loro. Ne conoscono le umili origini, il suo modo non appariscente di stare tra di loro. L’hanno visto persino giocare con i loro figli. E’ comprensibile la difficoltà degli abitanti di Nazareth di riconoscere nel loro compaesano il Messia. La presenza di Dio dovrebbe essere più luminosa, più incisiva. Come è possibile che un inviato di Dio si presenti nelle vesti di un falegname?
Il rifiuto può trovare la sua ragione persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio: così, appunto, fanno gli abitanti di Nazareth, che stupiscono Cristo con la loro grande incredulità, come l’evangelista Marco annota: “E si meravigliava della loro incredulità”. Per il Vangelo l'incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non è questo il caso dei nazaretani), ma l'incapacità di riconoscere Dio nell'umiltà dell'uomo Gesù, il suo appello nella voce di un uomo che sembra essere troppo uomo. Dio è certamente grande, ma spetta a lui scegliere i modi di manifestare la sua grandezza.


2) Sorpresi da una presenza che si propone.
Il Vangelo di oggi ci mostra che gli ascoltatori di Gesù passano dallo stupore iniziale allo scandalo. Lo stupore è un atteggiamento di partenza, l'atteggiamento di chi resta colpito e quindi costretto ad interrogarsi, ma è un atteggiamento che può sfociare sia nella fede sia nell'incredulità. La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi: qual è l’origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest'uomo?
La risposta ovvia: quest’uomo è il Figlio di Dio. Ma questa risposta ovvia è impedita da una constatazione che va in senso contrario: “Non è costui il falegname?”.
Di qui lo scandalo, parola che viene dal greco e che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce ragionevolmente di credere. Ciò che impedisce ai nazaretani di credere è proprio la persona di Gesù, la sua concreta fisionomia, le sue umili origini, il suo modo umile di apparire fra noi. Comprendiamo la difficoltà degli abitanti di Nazareth: la presenza di Dio non dovrebbe essere più luminosa, più importante? Come è possibile che un inviato di Dio si presenti nelle vesti di un falegname?
Come si vede, il rifiuto può trovare la sua ragione persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio: così, appunto, gli abitanti di Nazareth. È invece il segno di una profonda incredulità, come l’evangelista Marco annota: “E si meravigliava della loro incredulità”. Secondo il il Vangelo l’incredulità non è soltanto la negazione di Dio (non è questo il caso degli abitanti di Nazareth), ma è l’incapacità di riconoscere Dio nell'umiltà dell'uomo Gesù, il suo appello nella voce di un uomo che sembra essere troppo uomo.
Gesù, il Figlio di Dio, è grande, ma non vuole imporre la sua grandezza. Lui vuole proporre il suo amore. Per non fare violenza alla nostra libertà Cristo si propone con delicatezza, perché chi “ha fatto te senza te, non salverà te senza te” (Sant’Agostino d’Ippona).
Purtroppo, le sue umili origini, il suo modo umile di essere stato con loro per trent’anni è ciò che impedisce agli abitanti di Nazareth di credere. L’obiezione a credere è proprio la persona di Gesù, che loro pensano di conoscere bene.
Come è possibile che il figlio del falegname del villaggio sia il Messia? Come si vede, il rifiuto può trovare la sua ragione persino nel desiderio di difendere la grandezza di Dio: così, appunto, capitò agli abitanti di Nazareth.
Se dunque vogliamo essere dei veri credenti che, stupiti da Cristo e sorpresi dalla gioia che porta con e per amore, dobbiamo credere che Lui nell’apparente banalità della sua persona porta a noi un amore che redime. E la croce, non solo quella del Calvario, ma quella della banale, normale vita quotidiana, è manifestazione d’amore e l’amore umile di cristo è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza.
Per gli ebrei, come ricorda l’Apostolo Paolo, la Croce è skandalon, cioè pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita. Per loro (ma spesso anche per molti di noi) la Croce contraddice l'essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio.
Per i Greci, cioè i pagani, insegna sempre San Paolo, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Per i primi il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è una fedeltà alla Bibbia, non ben interpretata, per i secondi è la fedeltà alla ragione, usata non come finestra aperta sul mistero d’Amore, ma come misura angusta che non può né accogliere né misurare l’infinità dell’amore misericordioso di Cristo
Nella prospettiva portata da Cristo l’onnipotenza di Dio si manifesta passando per la debolezza dell'umile, che sconfigge la morte con la Croce che è non più chiave d’entrata alla tomba dove restarvi per sempre, ma chiave per aprire la drammatica porta di questa tomba ed entrare nella vita vera che è fatta di amore donato, condiviso.
Dio è amore e l’amore non può essere che umiltà. Cristo rivela questa umiltà di Dio incarnandosi e dimorando tra gli uomini come colui che serve. L’umiltà di Cristo rivela l’amore di un Dio che si dona totalmente per l’uomo, per la sua redenzione. Il Figlio di Dio sceglie per se il silenzio, l’ultimo posto: la croce. Si fa “niente” perché l’uomo sia tutto. E ciò accade ancora ogni volta che Cristo si fa presente nella Messa sotto le specie del pane e del vino per farsi cibo e bevanda per noi.
Cristo è umile perché è l’amore che si svuota di sé per donarsi, perché l’amore è dono. Il Figlio di Dio si rivela all’uomo e si fa presente donandosi al punto tale di “perdersi” in ciascuno di noi che Lui ama umilmente e infinitamente. Se possiamo conoscere e capire l’umiltà del Cristo nella sua nascita a Betlemme, nella sua passione e morte, lo possiamo capire, conoscere e farne esperienza soprattutto nell’Eucaristia. Nell’Eucaristia è l’umiltà di un Dio che, amandoci, si annienta e si dona tutto a noi per essere la nostra vita, ora e per l’eternità.

3) Le Vergini consacrate e l’umiltà.
Il Figlio di Dio – umiltà si incarna per essere lo sposo che si dà tutto alla sposa. Il disegno divino si realizza nell’alleanza. Dio si fa uomo per donarsi a tutta l’umanità, a ciascun uomo e donna. 
Un esempio eminente di risposta a Cristo umile sposo è quello dello vergini consacrate che a Lui si donano totalmente e sponsalmente, facendo proprio l’insegnamento di Santa Chiara di Assisi che in una sua lettera a Sant’Agnese di Praga scriveva: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro sposalizio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quarta: FF, 2901-2903).
La vergini consacrate sono chiamate a vivere l’umiltà di e con Cristo, accettando l’abbassamento, per lasciarsi portare dall’Amore. Attraverso la vita umile sono testimoni credibili di Cristo fino al dono totale di se, diventando “ostie” che imitano l’unica ostia pura, senza macchia e a Dio gradita, che è Cristo. 


Lettura patristica
Origene
Comment. in Matth., 10, 17-19

       Circa l’esclamazione: "Donde gli viene tanta sapienza?" (Mt 13,54), essa mostra chiaramente la sapienza superiore e sconvolgente delle parole di Gesù, che si è meritata l’elogio: "Ed ecco che qui vi è più di Salomone" (Mt 12,42). E i miracoli da lui compiuti erano più grandi di quelli di Elia e di Eliseo, persino più grandi di quelli, più antichi, di Mosè e di Giosuè figlio di Nun. Mormoravano stupiti, perché non sapevano che egli era nato da una vergine, oppure non lo avrebbero creduto neppure se glielo avessero detto, mentre supponevano che egli fosse il figlio di Giuseppe, l’artigiano: "Non è egli figlio del falegname?" (Mt 13,55). E pieni di disprezzo verso tutto ciò che poteva sembrare la sua parentela più prossima, dicevano: "Sua madre non si chiama Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?" (Mt 13,55 Mt 13,56). Lo ritenevano dunque figlio di Giuseppe e di Maria. Quanto ai fratelli di Gesù, taluni pretendono, appoggiandosi al cosiddetto vangelo «secondo Pietro» o al «libro di Giacomo» [apocrifi], che essi siano i figli di Giuseppe, nati da una prima moglie che egli avrebbe avuto prima di Maria. I sostenitori di questa teoria vogliono salvaguardare la credenza nella verginità perpetua di Maria, non accettando che quel corpo, giudicato degno di essere al servizio della parola che dice: "Lo Spirito di santità scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo poserà su di te la sua ombra" (Lc 1,35), conoscesse il letto di un uomo, dopo aver ricevuto lo Spirito di santità e la potenza discesa dall’alto, che la ricoprì con la sua ombra. Da parte mia, penso che sia ragionevole vedere in Gesù le primizie della castità virile nel celibato, e in Maria quelle della castità femminile, sarebbe in effetti sacrilego attribuire ad un’altra tali primizie della verginità...

       Le parole: "E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?", mi sembrano avere il seguente significato: la loro sapienza e la nostra, non certo quella di Gesù, e nulla vi è in loro che sia a noi estraneo, la cui comprensione ci rimanga difficile, come in Gesù. È possibile che, attraverso queste parole, affiori un dubbio circa la natura di Gesù, che non sarebbe un uomo, bensì un essere superiore, poiché, pur essendo, come essi credono, figlio di Giuseppe e di Maria, e pur avendo quattro fratelli, come pure alcune sorelle, non somiglia ad alcuno dei suoi prossimi e, senza aver ricevuto una istruzione e senza maestri, ha raggiunto un tale grado di sapienza e di potenza. Difatti, dicevano altrove: "Come fa costui a conoscere le Scritture, senza avere studiato?" (Jn 7,15). È un testo simile a quello qui riportato. Tuttavia coloro che parlavano in questo modo, pieni di un tal dubbio e di stupore, ben lontani dal credere, si scandalizzavano a suo riguardo (Mt 13,57), come se gli occhi della loro mente fossero asserviti (Lc 24,16) da potenze di cui egli avrebbe trionfato (Col 2,15) sul legno, nell’ora della sua Passione...

       È venuto il momento di illustrare il passo: "Colà, egli non fece molti miracoli, a causa della loro incredulità" (Mt 13,58). Queste parole ci insegnano che i miracoli si compivano in mezzo ai credenti, poiché "a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza" (Mt 25,29), mentre invece tra gli increduli i miracoli non solo non producevano effetto, ma addirittura, come ha scritto Marco, non potevano produrlo. Fa’ attenzione, infatti, a queste parole: "Non poté compiere alcun miracolo"; difatti, non ha detto: "Non volle".... bensì: "Non poté"... (Mc 6,5), perché si sovrappone al miracolo che sta per compiersi una collaborazione efficace proveniente dalla fede di colui su cui agisce il miracolo, e che l’incredulità impedisca tale azione. Di modo che, è il caso di sottolinearlo, a coloro che hanno detto: "Per quale motivo non abbiamo potuto scacciarlo?", egli ha risposto: "A causa della vostra poca fede" (Mt 17,19-20), e a Pietro che cominciava ad affondare, fu detto: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?" (Mt 14,31). L’emorroissa, al contrario, senza aver neppure richiesta la guarigione, diceva tra sé semplicemente che "se avesse potuto toccare solo il lembo del suo mantello" (Mc 5,28), sarebbe guarita, e lo fu all’istante (Mt 9,22 Lc 8,47); e il Signore riconobbe quel modo di guarire, quando disse: "Chi mi ha toccato? Perché ho avvertito una potenza uscire da me" (Lc 8,46 Mt 5,30). E come taluni, quando si tratta dei corpi, esercitano una specie di attrazione naturale sugli altri - sul tipo di ciò che avviene tra la calamita e il ferro o tra la nafta e il fuoco -, così una fede del genere attira forse il miracolo divino; ecco perché egli ha anche detto: "Se aveste fede quanto un granello di senapa, direte a questo monte: «spostati da qui a là"», ed esso si sposterà" (Mt 17,20).

       Mi sembra che, però, Matteo e Marco abbiano voluto stabilire la netta superiorità della potenza divina, capace di agire anche in mezzo all’incredulità, senza tuttavia dimostrare la stessa potenza che di fronte alla fede di coloro che beneficiano del miracolo; quando il primo non ha detto che "egli non fece miracoli a causa della loro incredulità," bensì che "colà, egli non fece molti miracoli" (Mt 13,58); quando invece Marco dice: "In quel luogo non poté compiere alcun miracolo", non si limita a questo bensì aggiunge: "tranne che impose le mani su alcuni malati e li guarì"(Mc 6,5), poiché la potenza che è in lui trionfa, in tali condizioni, della stessa incredulità.