venerdì 30 ottobre 2020

L’umanità fiorita in cielo

 

Rito Romano e Rito Ambrosiano – Ognissanti e Commemorazione dei Defunti - Anno A – 1 e 2 novembre 2020

 

 

Premessa.

Il mese di novembre inizia con la festa di Tutti i Santi ed è subito seguito dalla commemorazione dei defunti. Non sembri strano il fatto che queste due celebrazioni sono l’una di seguito all’altra, perché esse hanno una cosa in comune: ci aprano all’aldilà e rafforzano la nostra fede nella risurrezione. Se non credessimo in una vita dopo la morte, sarebbe inutile celebrare la festa dei Santi e un semplice sentimentalismo andare al cimitero. Chi andremmo a visitare e perché accenderemmo delle candele o porteremmo dei fiori?.

Questi due giorni ci invitano a meditare con gioia e serietà sul versetto del salmo che dice: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 89, 12). Questa frase biblica non si ferma alla constatazione poetica di Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Perché a primavere l’albero torna a fiorire, ma con altre foglie. Le foglie non hanno una seconda vita, cadono e marciscono. Alle foglie che siamo noi, “la vita non è tolta ma trasformata” (Prefazio della Messa per i Defunti).

L’importante è credere con sempre maggiore fermezza in Gesù che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi vive e crede in me anche se muore, vivrà” (Gv 11,25). A questo punto può sorgere spontanea la domanda: “Che cosa fanno i santi e tutti i defunti in paradiso? Possiamo ricavare la risposta dalla prima lettura di oggi. I redenti adorano, gettano le loro corone davanti al trono, gridano: “Lode, onore, benedizione, azione di grazia…”. Si realizza in essi la vera vocazione umana che è di essere “lode della gloria di Dio” (Ef 1,14). Il loro coro è guidato da Maria che in cielo continua il suo cantico di lode: “L’anima mia magnifica il Signore”. È in questa lode che i santi trovano la loro beatitudine ed esultanza: “Il mio spirito esulta in Dio”. L’uomo è ciò che ama e ciò che ammira. Amando e lodando Dio ci si immedesima con Dio, si partecipa della sua gloria e della sua stessa felicità.

Insomma, lo scopo della solennità di oggi e della commemorazione di tutti i defunti, domani è di farci contemplare il luminoso esempio dei santi e di ricordare i nostri morti per risvegliare in noi il grande desiderio di essere come quanti sono in paradiso: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione. 



1)Affidati all’Amore.

Oggi la Liturgia della Chiesa ci fa celebrare la Festa di Tutti i Santi e domani ci fa ricordare tutti i fedeli defunti in una grande preghiera che li racchiude tutti nei nostri pensieri e nei nostri ricordi. Oggi la nostra preghiera deve rivolgersi al Signore perché accolga nel suo Regno di eterna gioia e pace quelli che hanno lasciato questo mondo e sono passati all’eternità. I nostri morti: parenti, amici, conoscenti, e i defunti di tutti i tempi che per noi non hanno nome ma che Dio conosce bene.

La preghiera per le anime sante del purgatorio, specialmente quelle più abbandonate e di cui non sappiamo neppure il nome e l'esistenza. I morti di tutte le guerre e di tutte le violenze, i morti del passato, come dell’oggi: i morti sulle strade, in mare, negli ospedali, nelle case, nelle piccole e grandi città, i morti naufraghi e a cause di epidemie, e, naturalmente quelli che negli ultimi giorni hanno lasciato profondamente addolorato il nostro cuore. Commemoriamo tutti i morti, senza esclusione di nessuno ed eleviamo per tutti loro la preghiera, perché il Signore doni loro il riposo eterno, la pace perfetta.

E se è naturale che il nostro ricordo vada domani in particolare ai nostri cari defunti, che nel momento del distacco, noi abbiamo affidato all’amore e all'eternità del Signore, è pure “naturale” che riceviamo da loro l’insegnamento, che l’amore eterno di Dio conserva nel suo cuore chi ama, dopo averli accolti con il suo perdono. I nostri cari defunti ci ricordano che non è proprio il caso di sprecare tempo e fatica per ambizioni e cose effimere, perché tutto passa e solamente l’amore rimane.

Non dobbiamo dimenticare che il 2 novembre non è solo un giorno, in cui si impone alla nostra attenzione il carattere di fugacità e di brevità della vita che segna in maniera dolorosa la nostra vicenda umana. Si tratta di un giorno destinato alla celebrazione della nostra più grande speranza se davvero crediamo nella fede pasquale del Risorto. La giornata dedicata a tutti i defunti dunque non è una celebrazione luttuosa. Se consideriamo l'onnipotenza del Dio Amore, che non lascia nelle tombe i morti, perché Lui stesso ha fatto morire la morte uscendo risorto e glorioso dal suo sepolcro, il morire cristiano non è un semplice trapassare dell'anima da uno stato all'altro, ma realizza un incontro individuale con Dio amore che salva, apportando la fiducia e la speranza nella vita senza fine. Come dice il prefazio I della Messa dei Defunti: “La vita non ci è tolta, ma trasformata”, dal perdono, come è accaduto a Marmeladov, ubriacone descritto da Dostoevskij in “Delitto e Castigo”. Marmeladov è un poco di buono, un ubriacone che non ama lavorare. Il suo comportamento ha rovinato la sua famiglia e sua figlia, Sonia, è stata obbligata a prostituirsi. Quest’uomo vive dentro di sé un senso acuto di sconfitta e di colpa. E’ un perdente. Un giorno, nell’osteria, ubriaco fradicio, azzarda discorsi sconnessi e in una sorta di visione parla del Giudizio finale che sintetizzo così: “Dio chiama per primi, accanto a sé, coloro che hanno avuto vite irreprensibili, sante. Sono persone che meritano, almeno secondo un criterio umano, di vivere accanto a Dio. Poi convoca coloro che di bene ne hanno fatto poco, gli ubriaconi come lui e i drogati, coloro che noi, i benpensanti, osiamo definire “i cattivi”. “Allora convocherà noi. ‘Pure voi, fatevi avanti’, dirà, ‘fatevi avanti, ubriaconi, fatevi avanti voi deboli, fatevi avanti figli della vergogna!’. E noi tutti ci faremo avanti vergognosamente e ci terremo in piedi davanti a Lui. Ed Egli ci dirà: ‘Siete dei porci, fatti a immagine della Bestia e con il suo marchio; ma venite voi pure!’ E i saggi e le persone di buon senso diranno: ‘Signore, perché Tu accogli questi uomini?’ E Lui dirà: ‘ La ragione per la quale li accolgo, uomini benpensanti, è che nessuno di loro ha creduto di essere degno di questo’.”

È possibile tutto ciò, oppure è soltanto un parlare a vanvera tipico degli ubriachi? Non solo è possibile, e accade veramente come è accaduto all’adultera e alla Maddalena, a Zaccheo come a Pietro: tutti hanno consegnato a Cristo il loro dolore, ritenendosi indegni, e tutti sono stati perdonati. Come recita il salmo 36, il Signore “è la mia luce e la mia salvezza... è difesa della mia vita... A lui grido: abbi pietà di me. Il tuo volto, Signore io cerco.... Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Perché Gesù ha vissuto un’agonia estrema, come molti malati che abbiamo visto, apparentemente senza alcuna speranza, sul letto di morte. Perché Egli è morto come l’uomo, a causa dell’uomo, per l’uomo, con l’uomo e davanti all’uomo. Questa fede si unisce alla speranza, che -come scrive Paolo ai cristiani di Roma - “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5).



2) I Defunti e i Santi, persone che vivono nella verità dell’Amore.

La vicinanza di date fra la festa dei Santi (1° novembre) e la Commemorazione dei defunti (2 novembre) ci ricorda la verità misteriosa della vita eterna e il legame di fraternità tra noi e con i nostri cari, che sono passati all’altra riva.

Non è per nostalgia verso il passato che ci si reca al cimitero, ma perché speriamo con speranza in un futuro di gloria e di gioia. Quindi, mentre preghiamo in suffragio dei nostri defunti, loro ci tendono dal cielo le loro mani e ci assicurano una vicinanza intensa e quotidiana, perché anche noi camminiamo con costanza verso la vita che non ha fine.

E’ con speranza che il cristiano percepisce e accoglie la fine terrena, la morte. La sua fede in Gesù risorto gli dà la sicurezza che morire non è una sconfitta irreparabile, ma il drammatico passaggio alla condizione gloriosa con il suo Signore. “Chi viene a me, non lo respingerò”. Non siamo degli estranei per Dio, ma figli, eredi, destinati a condividere la risurrezione di Gesù.

Un inno delle Lodi fa cantare: “E noi che di notte vegliammo, attenti alla fede del mondo, protesi al ritorno di Cristo or verso la luce guardiamo”. Nella notte della morte in cui tutti affondano, ci è data una luce che illumina l’intangibile profondità del nostro cuore e nella fede possiamo fare un’esperienza religiosa nella quale si riverberi la risurrezione finale. Cristo abbraccia ogni istante della nostra vita e ci fa capire e vivere che in ogni momento c’è una ridondanza di eternità, ogni istante legato a Lui implica l’eterno.

A questo abbraccio si consegnano le Vergine consacrate nel mondo, a cui “è affidato il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo” (S. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Post sinodale Vita Consecrata, n. 16).

La scelta della vita verginale è un richiamo alla transitorietà delle realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri. Essa ricorda a tutti i fedeli l’esigenza di camminare tra le vicende del mondo sempre orientati verso la città futura e contribuisce in modo esemplare a mettere in luce la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, ardente nell'azione e dedita nella contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina.

Al significato spirituale ed escatologico della condizione verginale si riferisce in maniera suggestiva e profonda l’antichissima preghiera romana di consacrazione del Pontificale Romano attribuita a san Leone Magno: “Tu…hai riservato ad alcune tue fedeli un dono particolare scaturito dalla fonte della tua misericordia. Alla luce dell’eterna sapienza hai fatto loro comprendere, che mentre rimaneva intatto il valore e l’onore delle nozze, santificate all’inizio dalla tua benedizione, secondo il tuo provvidenziale disegno, devono sorgere donne vergini che, pur rinunziando al matrimonio, aspirassero a possederne nell’intimo la realtà del mistero. Così le chiami a realizzare, al di là dell’unione coniugale, il vincolo sponsale con Cristo di cui le nozze sono immagine e segno. (n.38).

Dalla consacrazione verginale scaturisce la grazia ecclesiale specifica che rende operante il simbolismo originario di questo rito. Così il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo (Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 42) Questo atto pubblico e riconosciuto dell'alleanza fra il Cristo e la vergine consacrata, proclama di fronte al mondo il primato e la fecondità della totale e perpetua donazione di sé con la piena disponibilità alle esigenze della carità verso Dio e verso il prossimo.

Sull’esempio e sulla testimonianza di queste Vergini Consacrate, che vivono la loro fede con gioia e fatica, che ogni giorno vivono nell’amore, per amore, per amare, perseveriamo nel cammino di santità a cui tutti siamo chiamati.  In ciò ci siano di intercessione e di aiuto tutti i santi, che sono coloro che sono così affascinati dalla bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da lasciarsene trasformare. Per questa bellezza e verità e amore loro furono disposti a rinunciare a tutto, anche a se stessi, e vissero nella lode a Dio e nel servizio umile e disinteressato del prossimo.



Lettura Patristica

Sant’Ambrogio di Milano

La fede nella Risurrezione dei morti


Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro» 


(Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)




Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui

Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale?
Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l'anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l'anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7,25 ss.).
Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte, quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l'esempio divino che la morte sola ha conseguito l'immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisse quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.
L'anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.
Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d'arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15,3-4).
L'anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64,3).
Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4).



venerdì 23 ottobre 2020

Il comando dell’amore è nuovo perché è un dono e non una legge.

 

Rito Romano – XXX Domenica del Tempo Ordinario -  Anno A – 25 ottobre 2020

Es 22,21-27; Sal 17; 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40

 

 Rito Ambrosiano - Domenica dopo la Dedicazione ‘Il mandato missionario’

At 10,34-48a; Sal 95; 1Cor 1,17b-24; Lc 24,44-49a

 

Premessa.

Nel vangelo di questa domenica siamo messi davanti a Cristo che ci comanda di amare Dio e il prossimo, e ciò fa nascere spontanee due domande: “Perché ci comanda di amare? Cosa significa amare?”.

Alla prima domanda, si potrebbe rispondere sinteticamente così: “Comandare” viene da “con” e “mandare”. Dunque, comandare vuol dire mandare insieme e Dio ci manda tutti insieme verso l’Amore che è Lui, quindi ci comanda. Cioè ciascuno di noi é costituito da questo comando. Siamo dei “mandati” che in comunione vanno verso Dio e il prossimo. Ritengo che il comando del Messia sia più che un ordine, una specie di supplica, per cui è Dio che prega noi, ci prega forse più di quanto noi lo preghiamo. Di una persona pia si dice che prega Dio. Io credo che Dio invece preghi ogni persona, supplichi ogni persona: per favore, amami! Quasi mendicando.

Nel brano del Vangelo, che la liturgia ci propone in questa domenica, Cristo ci insegna che tutta la legge divina si riassume nell’amore. Il comandamento dell’amore di Dio insieme con quello dell’amore del prossimo contiene i due aspetti di un unico dinamismo del cuore e della vita. Gesù porta così a compimento la rivelazione antica, non aggiungendo un comandamento inedito, ma realizzando in se stesso e nella propria azione salvifica la sintesi vivente delle due grandi parole dell’antica Alleanza: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore…" e "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (cfr Dt 6,5; Lv 19,18).

Nell’Eucaristia noi contempliamo il Sacramento di questa sintesi vivente della legge: Cristo ci consegna in se stesso la piena realizzazione dell’amore per Dio e dell’amore per i fratelli.  E Lui ci comunica questo suo amore, quando ci nutriamo del suo Corpo e del suo Sangue. Allora può realizzarsi in noi quanto san Paolo scrive ai Tessalonicesi nella seconda lettura di oggi: “Vi siete convertiti, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero” (1 Ts 1,9). Questa conversione è il principio del cammino di santità che il cristiano è chiamato a realizzare nella propria esistenza.

Il santo è colui che è talmente affascinato dalla bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da esserne progressivamente trasformato. Per questa bellezza e verità è pronto a rinunciare a tutto, anche a se stesso. Gli basta l’amore di Dio, che sperimenta nel servizio umile e disinteressato del prossimo, specialmente di quanti non sono in grado di ricambiare.


1)L’Amore totale.

Gesù è stato tra gli uomini e Lui, l’Emmanuele, vi resta perché ci ama. Per accorgerci di questo amore e viverne dobbiamo prima di tutto essere semplici. I semplici, come i bambini, sentono “d’istinto” chi li ama, gli credono, e sono felici quando arriva - anche il viso diventa subito un altro - e il loro volto si intristisce quando riparte. Questi semplici, questi poveri ascoltano Cristo perché capiscono che è venuto apposta per loro, per annunziare loro la buona e lieta novità dell’Amore di Dio. Nessuno aveva parlato di loro come Lui. Nessuno aveva mostrato di amarli tanto.

Quando Gesù aveva finito di parlare si accorgevano che gli anziani, i farisei, gli uomini che sapevano leggere e guadagnare, scuotevano la testa in atto di malaugurio, e si alzavano storcendo la bocca e ammiccando tra loro, fra dispettosi e scandalizzati, borbottando una cauta disapprovazione.

Ma nessuno rideva, per paura degli ultimi: i Poveri, i Pastori, i Contadini, gli Ortolani, i Fabbri, i Pescatori, i Lebbrosi, insomma i Rifiutati. Questi non potevano staccare gli occhi da Gesù. Avrebbero voluto che continuasse ancora a parlare, perché un sollievo di luce veniva (e viene) dalle sue parole di sapiente amore.

Queste parole d’amore Gesù le dice pure per chi lo interroga, anche se lo fa per metterlo alla prova. Al dottore della Legge che Gli chiede: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento1?” Gesù dà una risposta semplice ed efficace e cita due versetti della Torah che racchiudono l’esperienza di Israele, ricordandoci che solo amando Dio con tutto noi stessi saremo in grado di amare veramente il prossimo, perché lo ameremo con lo stesso amore di Dio. Cristo ribadisce che tutto il cuore, l’anima, la mente sono attratti dall'amore eterno di Dio, e ci dice anche che dei due comandi, antichi e noti, il secondo è simile al primo. Il prossimo allora diventa simile a Dio, e ha voce e cuore “simili” a Dio. Dio non riserva lo spazio del nostro cuore solo per Lui, ma lo amplifica e ci rende capaci di amare di un amore pieno il prossimo: la moglie, il marito, i figli, gli amici, i fratelli e le sorelle della comunità.

Al sapiente della Legge Gesù risponde da Sapiente del cuore. Lui sa che la creatura ha bisogno di molto amore per vivere bene. E offre il suo Vangelo come via per la pienezza e la felicità di questa vita. “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Mt 22, 37). Per tre volte nel vangelo di Matteo, quattro volte in quello di Marco che aggiunge “con tutte le tue forze” (Mc 12, 30), Gesù ripete che l’unica misura dell’amore è amare senza misura.. Se amiamo Dio senza mezze misure, il cuore è capace di amare i tuoi familiari, gli amici, noi stessi, Dio non è geloso, non ruba il cuore: lo moltiplica. Totalità non significa esclusività, dunque:

Ama Dio

- con tutto il cuore: Gesù non parla di “cuore” col significato che oggi daremmo noi a questa parola. Egli la usa in senso biblico, come termine che esprime la realtà più profonda della per­sona umana. “Amare Dio con tutto il cuore” vuol dire allora voltare tutto il proprio essere e il proprio agire verso Dio, in uno slancio di amore.

-“Con tutta l'anima2”, che vuol dire la vita, il nostro “spazio intimo” abitato da Dio.“L'amore è l’ala, che Dio ha dato all’anima per salire sino a lui” (Michelangelo Buonarroti). Chi ama con l’anima vede meglio che con gli occhi e il suo amore è puro.

- Con tutta la mente, la quale racchiude il pensiero e l’intelligenza. L’amore rende intelligenti, fa capire prima, fa andare più a fondo e più lontano.

- Con tutte le forze, che vuole dire l’insieme di tutte le energie. L’amore rende forti, capaci di affrontare qualsiasi ostacolo e fatica.

 

2) Due caratteristiche dell’amore vero: grato e gratuito.

Nel Vangelo di Matteo, che la Liturgia ci propone oggi, ritroviamo Gesù alle prese con i farisei, che vivevano nella tentazione di ridurre la morale a una serie di norme esteriori preoccupandosi solo dell'apparenza.
La risposta del Messia è semplice ed efficace e cita due versetti della Legge dell’Antico Testamento, la Torah, che racchiudono l’esperienza di Israele, ricordandoci che solo amando Dio con tutto noi stessi saremo in grado d'amare veramente il prossimo, perché lo ameremo con lo stesso amore di Dio.

Da dove cominciare per amare? Dal lasciarsi amare da Lui, che entra, dilata, allarga le pareti di questo piccolo vaso che è ciascuno di noi. Noi siamo degli amati che diventano amanti di Cristo. La conseguenza, come la si vede in una coppia di innamorati in cui uno ama ciò che l’altro ama, è che dobbiamo amare quello che Cristo ama. E non solo: dobbiamo amare come Lui ama.

Dunque dobbiamo vivere Cristo come ideale della nostra vita. E cosa vuol dire che Cristo è l’ideale della nostra vita? E’ l’ideale per il modo con cui trattiamo le persone, per il modo con cui viviamo l’affetto, con cui concepiamo la vita e guardiamo alle cose e alle persone, con cui viviamo i rapporti in famiglia, in parrocchia, in comunità sul posto di lavoro. Cristo quale ideale della vita pone due caratteristiche, non sono le sole ma oggi sottolineo queste: la gratitudine e la gratuità.

Un cuore grato è sempre un cuore fedele e la capacità di essere grati, di dire: “grazie”, è il segno –secondo me- della maturità cristiana.

Ci sono momenti nella vita - credo valga per tutti- in cui si sperimenta, già qui sulla terra, il ‘paradiso’, la vera grandezza e bellezza dell’uomo, ed è stato quando ci si è sentiti amati da qualcuno (mamma, papà, fidanzato/a, moglie, marito). Un’esperienza di amore, quello vero, quello del cuore, che non ho dubbi di poterla paragonare ad un ‘assaggio’ di Paradiso e di dire che il modo migliore di gustarla è quella di dire : “Grazie”, riconoscendo che non ci facciamo da noi, che tutto ci è donato. La gratitudine poi innesta in noi la gratuità: ami senza pensare di essere amato. Guardi all’Altro e all’altro, come la Madonna guarda a Cristo: non perché è suo, ma perché c’è.

Questa è la purezza assoluta. Facciamo umilmente lo sforzo di immedesimarci in questa assolutezza della purezza. Una purezza di gratuità che rende la vita incorruttibile: nella gratuità il rapporto umano non è caduco, perché con Cristo e in Cristo non si sta insieme per un interesse, per un calcolo, per un tornaconto, ma per fede e per amore.

Certo, l’amore per Dio è il più grande e il primo: il primato di Dio è affermato senza esitazione. L’amore per l’uomo viene per secondo. Dicendo però che “il secondo è simile al primo”, Gesù afferma che tra i due comandamenti c’è un legame molto stretto.

Certo è diversa la misura: l’amore per Dio è “con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente”. L'amore per l’uomo è “come se stessi”. La totalità appartiene solo al Signore: Lui solo deve essere adorato. Ma l’appartenenza al Signore non può essere senza l’amore per l'uomo. Non si tratta di due comandamenti paralleli, semplicemente accostati. E neppure basta dire che il secondo si fonda sul primo. Molto di più: il secondo concretizza il primo.

Un esempio di come vivere questi due comandamenti lo possiamo vedere nelle Vergini consacrate nel mondo. Il loro stile di vita e il loro modo di essere è quello di partire dalla loro consacrazione a Dio e parlare sempre di Dio soprattutto con la testimonianza della vita. Queste donne mostrano che Dio va sempre messo al primo posto e che l’essere umano è fatto per Dio: ecco ciò che non va mai dimenticato, neppure là dove la povertà e l’ingiustizia sono grandi, là dove la società tende a costruirsi senza Dio e ciò è sempre contro l’uomo. Queste consacrate vivono la vita come missione e con la grazia di Dio mostrano che è possibile amare castamente, perdonare completamente, servire gratuitamente e gioiosamente. In loro il cuore ha preso il comando, ma è il Cuore di Cristo.

1 E’ utile ricordare che i rabbini avevano ricavato dalla Torah ben 613 precetti, così da applicare a tutte le situazioni possibili della vita le norme sempre prioritarie dei 10 comandamenti. Ovviamente anche il giudeo più rigorosamente osservante doveva smarrirsi in quella selva di prescrizioni e quindi i maestri ebrei cercavano di individuare una gerarchia, opportune distinzioni e soprattutto un principio unificatore di tanti dettami; di qui la domanda a Gesù.

2 Nel Nuovo Testamento “psyche” = anima è un termine usato per indicare vita, vita autentica, persona. Si veda la trattazione sintetica, ma chiara e completa, nel Dizionario Critico di Teologia edito da Jean-yves Lacoste alla voce “anima- cuore-corpo”. Teniamo presente che con le parole “cuore, anima, mente, forze” Gesù non si vuole tanto fare una lezione di antropologia elencando le diverse facoltà dell’uomo implicate nell’amore, quanto insi­stere sull’unica cosa importante, che è quella di amare Dio con tutto il nostro essere.

 

Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona (+ 430)

Sermo 34, 7-8



       Bene, fratelli miei, interrogate voi stessi, scuotete le celle interiori: osservate, e vedete bene se avete un po’ di carità, e quel tanto che avrete trovato accrescete. Fate attenzione ad un tale tesoro, perché siate ricchi dentro. Certamente, le altre cose che hanno un grande valore, vengono definite «care»; e non invano. Esaminate la consuetudine del vostro linguaggio: questa cosa è più cara di quella. Che vuol dire è più cara, se non che è più preziosa? Se si dice più cara, cos’è più prezioso; cos’è più caro della carità stessa, fratelli miei? Qual è, riteniamo, il suo valore? Da dove deriva il suo valore? Il valore del frumento: il tuo danaro, il valore di un fondo: il tuo argento; il valore di una gemma: il tuo oro; il valore della carità sei tu stesso. Tu chiedi peraltro di sapere come possedere il fondo, la gemma, il frumento; come comprare e tenere presso di te il fondo. Ma se vuoi avere la carità, cerca te e trova te. Hai paura infatti di darti per non consumarti? Anzi, se non ti doni, ti perdi. La stessa carità parla per bocca della Sapienza, e ti dice qualcosa perché non ti spaventi quanto vien detto: Dona te stesso. Se uno infatti ti vuol vendere un fondo, ti dirà: Dammi il tuo oro; e chi ti vuol vendere qualcos’altro: Dammi il tuo danaro, o dammi il tuo argento. Ascolta ciò che ti dice la carità per bocca della Sapienza: "Dammi il tuo cuore, figlio mio" (Pr 23,26). «Dammi», dice: cosa? «Il tuo cuore, figlio mio». Era male quando era da te, quando ti apparteneva: infatti eri portato alle futilità ed agli amori lascivi e perniciosi. Toglilo di là. Dove lo porti? Dammi, egli dice, il tuo cuore. Sia per me, e non si perda per te. Osserva, infatti, cosa ti dice, allorché vuole rimettere in te qualcosa, perché tu ami soprattutto te stesso: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente" (Mt 23,37 Dt 6,5). Cosa rimane del tuo cuore, per amare te stesso? Cosa della tua anima? E cosa della tua mente? Con tutto, egli dice. Tutto te stesso esige, colui che ti ha fatto.


       Però, non esser triste quasi non ti resti nulla di che rallegrarti in te stesso. "Gioisca Israele", non in sè, "bensì in colui che lo ha fatto" (Ps 149,2)


       "Il prossimo quanto deve essere amato?" Risponderei e direi: Se nulla mi rimasto, come mi amerò; poiché mi si ordina di amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente colui che mi ha fatto, in che modo mi si ordina il secondo precetto di amare il prossimo come me stesso? Il che è più che il dire di amare il prossimo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. In che modo? "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt 22,37 Mt 22,39). Dio con tutto me stesso: il prossimo come me. Come me, così te? Vuoi sentire come ti ami? Per questo ti ami, poiché ami Dio con tutto te stesso. Ritieni infatti di avanzare con Dio, perché ami Dio? E poiché ami Dio, si aggiunga qualcosa a Dio? E se non ami, avrai di meno? Quando ami, tu progredisci: lì tu sarai dove non perirai. Ma mi risponderai e dirai: Quando infatti non mi sono amato? Non ti amavi affatto, quando non amavi Dio che ti ha fatto. Anzi quando ti odiavi credevi di amarti. "Chi infatti ama l’iniquità, odia la sua anima" (Ps 10,6).


venerdì 16 ottobre 2020

Noi siamo la moneta con l’immagine di Dio.

 

Rito Romano – XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 18 ottobre 2020.

Is 45,1.4-6 Sal 95 1Ts 1,1-5b Mt 22,15-21


Rito Ambrosiano – Solennità del Signore

Bar 3,24-38;oppure Ap 1,10;21,2-5; Sal 86; 2Tm 2,19-22; Mt 22, 15 -21





1) Cesare e Dio.

Nel Vangelo di oggi viene riportata la nota frase di Cristo: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Frase questa ripetuta a proposito e a sproposito, quando si parla del rapporto tra il cristianesimo e le istituzioni, il potere politico.

Per offrire una meditazione evangelica che non sia ridotta ad una anche se breve lezione sui rapporti Stato-Chiesa, ritengo importante spiegare il contesto in cui questa frase è pronunciata da Gesù.

Anche se hanno visioni diverse dell’occupazione romana ai tempi della vita terrena di Cristo, i Farisei e gli Erodiani vogliono tendere un tranello a Gesù. Quando un profeta diventa scomodo, bisogna in qualche misura coglierlo in errore, dimostrare che si contraddice. La domanda “Di’ a noi il tuo parere: è lecito o no, pagare il tributo a Cesare?”.

Se a questa domanda circa la liceità per gli Ebrei di pagare le tasse a Roma, Gesù avesse risposto di no lo avrebbero accusato proprio presso i Romani di essere loro nemico e ribelle; nel caso avesse risposto di sì, avrebbero avuto buon gioco nel denunciarlo davanti a tutti come traditore del suo stesso popolo.

Gesù non cade nel tranello, prende un’altra strada non prevista dai farisei e dagli erodiani, che avevano fatto una domanda ambigua, e invita i suoi interlocutori a prendere la moneta del tributo. Essi mostrano la moneta con l’immagine di Tiberio Cesare. A quel punto, Lui prima domanda se tale immagine è di Cesare, poi fa l’affermazione che ho citato all’inizio.

Il tributo a Cesare va pagato, perché l’immagine sulla moneta è la sua; ma l’uomo, ogni uomo, porta in sé un’altra immagine, quella di Dio, e dunque è a Lui, e a Lui solo, che ognuno è debitore della propria esistenza. Prendendo spunto dal fatto che Gesù fa riferimento all’immagine dell’Imperatore impressa sulla moneta del tributo, i Padri della Chiesa hanno interpretato questo passo alla luce del concetto fondamentale di uomo immagine di Dio, contenuto nel primo capitolo del Libro della Genesi.

Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (En. in Ps., Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ivi, Salmo 4, 8).

Il riferimento all’immagine di Cesare, incisa nella moneta, dice che è giusto sentirsi a pieno titolo – con diritti e doveri – cittadini dello Stato; ma simbolicamente fa pensare all’altra immagine che è impressa in ogni uomo: l’immagine di Dio. Egli è il Signore di tutto, e noi, che siamo stati creati “a sua immagine” apparteniamo anzitutto a Lui. Gesù ricava, dalla domanda postagli dai farisei, un interrogativo più radicale e vitale per ognuno di noi, un interrogativo che noi possiamo farci: a chi appartengo io? Alla famiglia, alla città, agli amici, alla scuola, al lavoro, alla politica, allo Stato? Sì, certo. Ma prima di tutto – ci ricorda Gesù – tu appartieni a Dio. Questa è l’appartenenza fondamentale. È Lui che ti ha dato tutto quello che sei e che hai. E dunque la nostra vita, giorno per giorno, possiamo e dobbiamo viverla nel ri-conoscimento di questa nostra appartenenza fondamentale e nella ri-conoscenza del cuore verso il nostro Padre, che crea ognuno di noi singolarmente, irripetibile, ma sempre secondo l’immagine del suo Figlio amato, Gesù. E’ un mistero stupendo.

Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà umane e sociali senza contrapporre “Dio” e “Cesare”; contrapporre Dio e Cesare sarebbe un atteggiamento fondamentalista. Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà terrene, ma illuminandole con la luce che viene da Dio. L’affidamento prioritario a Dio e la speranza in Lui non comportano una fuga dalla realtà, ma anzi un rendere operosamente a Dio quello che gli appartiene. È per questo che il credente guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere la vita terrena in pienezza, e rispondere con coraggio alle sue sfide.

Dunque, la risposta di Gesù ai farisei e agli erodiani è ricca di contenuto umano e spirituale, e non la si può ridurre al solo ambito politico. La Chiesa, pertanto, non si limita a ricordare agli uomini la giusta distinzione tra la sfera di autorità di Cesare e quella di Dio, tra l’ambito politico e quello religioso. La missione della Chiesa, come quella di Cristo, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita.

Insomma, l’insegnamento che possiamo ricava da questo Vangelo è quello di ribadire la distinzione tra Stato e Chiesa e di affermare che è essenziale saper distinguere tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, e comunque il primato di ogni realtà è sempre legato a Dio.

2) Dio e la sua immagine.

Cerchiamo, ora, di capire ancora meglio la risposta di Cristo: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”. Queste parole in genere vengono interpretate nel senso della distinzione tra Stato e Chiesa. Ed è certamente lecito fare ciò. Tuttavia questa frase ci spinge più lontano e richiama una verità più profonda sull’uomo. Perché se sulla moneta è impressa l’immagine di Cesare, su di noi è “impressa” l’immagine di Dio o, meglio, noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio.

Alla domanda di Gesù di chi siano sulla moneta il ritratto e il titolo che l’individua, Gli rispondono: “di Cesare”. E Gesù replica: “Restituite dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”. La risposta sconcerta gli ascoltatori. In ogni caso dobbiamo chiederci cosa sia di Cesare e cosa di Dio. Nella risposta di Gesù è chiaro cosa appartiene a Cesare: solo quella moneta della zecca di Roma su cui è incisa l’“immagine” dell'imperatore. Questa pertanto andava restituita al proprietario. Il Vangelo va oltre e dice di dare a Dio quello che è di Dio. Ma cosa è di Dio? Il termine “immagine”, usato da Gesù per la moneta, rimanda alla frase biblica posta proprio all'inizio della Bibbia: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò” (Gn 1, 27). Ciò vuol dire che oggi, come ai tempi della vita terrena di Gesù resta vero quello che iniziò con la creazione dell’uomo. All’inizio della storia del mondo, Adamo ed Eva sono frutto di un atto di amore di Dio, fatti a sua immagine e somiglianza, e la loro vita e il loro rapporto con il Creatore coincidevano.

Già nel IV secolo, un Autore anonimo scriveva: “L’immagine di Dio non è impressa sull’oro, ma sul genere umano. La moneta di Cesare è oro, quella di Dio è l’umanità … Pertanto da’ la tua ricchezza materiale a Cesare, ma serba per Dio l’innocenza unica della tua coscienza, dove Dio è contemplato … Cesare, infatti, ha richiesto la sua immagine su ogni moneta, ma Dio ha scelto l’uomo, che egli ha creato, per riflettere la sua gloria” (Anonimo, Opera incompleta su Matteo, Omelia 42). E Sant’Agostino ha utilizzato più volte questo riferimento nelle sue omelie: “Se Cesare reclama la propria immagine impressa sulla moneta - afferma -, non esigerà Dio dall’uomo l’immagine divina scolpita in lui?” (En. in Ps., Salmo 94, 2). E ancora: “Come si ridà a Cesare la moneta, così si ridà a Dio l’anima illuminata e impressa dalla luce del suo volto … Cristo infatti abita nell’uomo interiore” (Ibid, Salmo 4, 8).

Quindi questa indicazione di Gesù non può essere ridotta al solo ambito politico. Il compito della Chiesa in questo caso non è quello di limitarsi a ricordare agli uomini la giusta distinzione tra la sfera di autorità di Cesare e quella di Dio, tra l’ambito politico e quello religioso. Il compito della Chiesa, che prosegue la missione di Gesù, è essenzialmente parlare di Dio, fare memoria della sua sovranità di Padre, richiamare a tutti, specialmente ai cristiani che hanno smarrito la propria identità, il diritto di Dio su ciò che gli appartiene, cioè la nostra vita che in Lui diventa santa, vera. La verità di noi, come tutti gli esseri umani, sta nel fatto che siamo anzitutto figli di Dio. E che a Dio apparteniamo. Questa è la radice della libertà e della dignità dell’uomo, che vanno difese, curate e restituite a ciascuno. Si tratta cioè di far emergere sempre più chiara quell’impronta di Dio che è stata plasmata nel più profondo di ogni essere umano e che lo rende santo.

In effetti, c’è una “santità” che appartiene ad ogni persona umana, non per suo merito ma per dono, perché ognuno di noi è stato creato a immagine di Dio. Sant’Ireneo scrisse che il Verbo e lo Spirito sono le due mani con cui l’uomo fu plasmato all'inizio e con cui viene plasmato oggi secondo l’immagine di Dio.

Sempre, ma specialmente all’inizio di questa vita di santità, ogni credente non ha altro dovere che la docilità all’azione dello Spirito. Ma come riconoscere l’azione dello Spirito Santo e farle spazio nella nostra vita? Tenendo vivo in noi il santo desiderio di Dio e vivendo la perseveranza, mediante la domanda di Cristo in ogni istante della nostra vita. Diceva Suor Elisabetta della Trinità: “Com’è serio ogni istante! Costa il Sangue di Cristo!”. Ogni istante costa Dio stesso, perché il prezzo del tempo è Dio: in ogni istante lo riceviamo, dobbiamo riceverlo. In ogni istante, purtroppo, possiamo anche chiuderci a Lui e rifiutarLo, e Lo rifiutiamo nella misura in cui non ci abbandoniamo a questa grazia. Lo rifiutiamo e ci chiudiamo a Lui nella misura che non siamo docile a Lui, non Lo ascoltiamo o non Lo accogliamo in noi, discepoli suoi.

Come discepoli di Gesù dobbiamo operare perché in ogni uomo risplenda quell’icona (immagine) di Dio che gli è impressa nel cuore.

Non solo noi dobbiamo adorare Dio che è presente nell’anima nostra, non soltanto dobbiamo renderci conto che siamo tempio vivente di Dio. Dobbiamo anche renderci conto che tutto quello che abbiamo ricevuto da Lui deve essere istante per istante da Lui mosso, da Lui usato, da Lui adoperato.
Dobbiamo essere non soltanto il tempio di Dio, ma lo strumento della sua azione, perché Dio non abita in noi statico, fermo; non abita in noi solamente perché lo adoriamo. Egli abita in noi per agire, soprattutto per trasformarci e renderci simili a Lui, di cui noi siamo immagine.

Siamo invitati a domandare con la preghiera e l’azione di essere fatti conformi all’immagine del Figlio di Dio. Spesso questa immagine è deturpata, offesa, umiliata, frantumata, per colpe personali o per opera altrui. Deturpando noi stessi o gli altri, deturpiamo l’immagine di Dio che è in noi, sfiguriamo l’immagine che le “due mani” creative di Dio hanno realizzato. Oggi, Gesù ci esorta a “restituire” a Dio quello che a Lui appartiene: tutto e tutti: noi stessi insieme tutta l’umanità e la creazione.

Però non dobbiamo dimenticare che, rispetto a tutte le altre creature, l’uomo è l’unico che Dio ha voluto per sé (Gaudium et spes 12; Catechismo della Chiesa Cattolica 356); ovvero non è una cosa fra le cose, ma è un essere capace di autocoscienza e decisione libera. È una persona, capace di relazione con Dio e con le altre persone. In questo sta l’immagine-somiglianza con Dio: non siamo una cosa inglobata nelle leggi del cosmo (pensate all’evoluzione che porta alla presenza dell’uomo: gli scienziati dicono circa 3 miliardi di anni), ma abbiamo coscienza, libertà, possiamo interpretare questo nostro essere al mondo dandogli un senso.1

L’uomo così appare come il vertice della creazione, il punto in cui il creato diventa cosciente e capace di risposta libera a Dio, capace di relazione2.

Un Ordine di persone che vive questa relazione di comunione sponsale con Dio e fraterna con gli uomini è quello delle Vergini Consacrate nel mondo.

Mediante la loro consacrazione, queste donne testimoniano alla Chiesa e al mondo, che l’essere umano è riflesso dell’amore Dio e che è chiamato a essere nel mondo visibile un portavoce della gloria di Dio, e, in un certo senso, una parola della sua Gloria.

Le vergini manifestano e rendono pubblica la perfetta verginità della stessa loro Madre la Chiesa, e la santità dei loro vincoli strettissimi con Cristo. Queste donne inoltre offrono un segno mirabile della fiorente santità e di quella spirituale fecondità propria della Chiesa. A questo proposito sono magnifiche le espressioni di san Cipriano: “La verginità è un fiore che germoglia dalla Chiesa, decoro e ornamento della grazia spirituale, gioia della natura, capolavoro di lode e di gloria, immagine di Dio che riverbera la santità del Signore, porzione più eletta del gregge di Cristo. Se ne rallegra la chiesa, la cui gloriosa fecondità in esse abbondantemente fiorisce: e quanto più cresce lo schiera delle vergini tanto più grande è la gioia della Madre” (Cipriano, De habitu virginum, 3: PL 4, 443).

A ciò con saggezza si ispirano le espressioni del Celebrante nel rito della consacrazione delle vergini e nelle preghiere rivolte al Signore: “Affinché vi siano anime più sublimi che, disdegnando nel matrimonio i piaceri della carne, ne cerchino il significato recondito, e invece di imitare ciò che si fa nel matrimonio, amino quanto in esso è simboleggiato”.(Pontificale Romano, Consacrazione delle Vergini).


1 Nel secondo racconto biblico della creazione (Gen 2,4a-25) l’uomo (adam) è tratto dalla polvere (adamah), in cui Dio soffia il suo alito di vita (neshamah), che lo rende un essere vivente (nefesh). Ciò che fa la differenza tra noi e le altre creature è lo spirito, la capacità di essere liberi, di attribuire un significato al fatto che siamo qualcosa.

2 La relazione non è un’appendice della natura umana, ma l’espressione più piena dell’essere persona.



Lettura Patristica

Sant’Ambrogio di Milano (340 -397)

Exp. Ev. sec. Luc. 9, 34-36


       "Di chi è l’immagine e l’iscrizione?" (Lc 20,24). In questo passo Egli c’insegna che dobbiamo essere cauti nel respingere le accuse degli eretici oppure dei Giudei. In un altro punto ha detto: "Siate astuti come i serpenti". Questo, diversi lo interpretano così: poiché la croce di Cristo fu preannunciata nel serpente levato in alto, affinché venisse distrutto il veleno serpigno degli spiriti del male, parrebbe che si debba essere accorti come il Cristo, e semplici come lo Spirito. Ecco dunque chi è il serpente che tiene sempre protetto il capo, ed evita così le ferite mortali. Quando i Giudei gli chiedevano se avesse ricevuto dal Cielo la sua autorità, Egli rispose: "Il battesimo di Giovanni di dov’era, dal Cielo o dagli uomini?" (Mt 20,4). E lo scopo era che essi, non osando negare che era dal Cielo, si convincessero da soli della propria demenza nel negare che Colui che lo dava era dal Cielo. Egli chiede un didramma e domanda di chi è l’effigie: infatti diversa è l’effigie di Dio, diversa l’effigie del mondo. Per questo anche colui ci ammonisce: "E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo terreno, così portiamo l’immagine dell’uomo celeste" (1Co 15,49).


       Cristo non ha l’immagine di Cesare, perché Egli è "l’immagine di Dio". Pietro non ha l’immagine di Cesare, perché ha detto: Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (Mt 19,27). Non si trova l’immagine di Cesare in Giacomo o in Giovanni, perché sono i figli del tuono, ma essa si trova nel mare, dove vi sono sulle acque quei mostri dalle teste fracassate, e lo stesso mostro principale, col capo mozzo, vien dato come cibo ai popoli degli Etiopi. Ma se non aveva l’immagine di Cesare, perché mai ha pagato il tributo? Non l’ha pagato del suo, ma ha restituito al mondo ciò che apparteneva al mondo. E se anche tu non vuoi esser tributario di Cesare, non possedere le proprietà del mondo. Però hai le ricchezze: e allora sei tributario di Cesare. Se non vuoi esser assolutamente debitore del re della terra, abbandona ogni tua cosa e segui Cristo.


       E giustamente Egli ordina di dare prima a Cesare ciò che è di Cesare, perché nessuno può appartenere al Signore, se prima non ha rinunziato al mondo. Tutti, certo, rinunziamo a parole, ma non rinunziamo col cuore; infatti, quando riceviamo i sacramenti, facciamo la rinunzia. Che pesante responsabilità è promettere a Dio, e poi non soddisfare il debito! "È meglio non fare voti", sta scritto, "piuttosto che farne e non mantenerli" (Qo 5,4). L’obbligo della fede è più forte di quello pecuniario. Rendi quanto hai promesso, finché sei in questo corpo, prima che giunga l’esecutore "e questi ti getti in prigione. In verità ti dico che non ne uscirai prima di aver pagato fino all’ultimo spicciolo";(Lc 12,58 Mt 5,25s).