venerdì 27 novembre 2015

Avvento: attesa e visita.

I Domenica di Avvento – Anno C – 29 novembre 2015
Rito Romano

Rito Ambrosiano
Is 45,1-8; Sal 125; Rm 9,1-5; Lc 7,18-28
III Domenica di Avvento
Le profezie adempiute
 

1) Attesa di una visita
Il tempo di Avvento è voluto dalla Chiesa per preparaci a celebrare l'incarnazione del Verbo di Dio. E’ tempo di un’attesa, che dura poco – 4 settimane nel rito romano e 6 in quello ambrosiano – e che termina con la gioia del Natale, giorno che celebra la nascita di Gesù tra il canto degli angeli : “Gloria in cielo e pace interra agli uomini che Dio ama” e la gioia dei giusti (cfr. Antifona al Magnificat – II Vespri di Natale).
L'Avvento è il tempo che prepara nascita di Gesù, è il tempo di santa Maria nell’attesa del parto, è - per noi - il tempo per educare il nostro cuore ad una attesa che sia reale, quotidiana, costante, nella tensione alla presenza di Chi si è fatto uomo per noi e ha salvato la nostra vita. Ma non si attende solo la nascita di Gesù, si attende il suo ritorno definitivo.
E’ per questo che la prima domenica di Avvento ci proietta già verso la seconda venuta di Cristo, quando verrà nella gloria. In fondo è questo l'avvento più importante, quello a cui noi tutti dobbiamo prepararci.
E’ per questo che, nel Vangelo della I Domenica di Avvento, Gesù ci dice di non smarrire il cuore, di non appesantirlo di paure e delusioni: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano” (Lc 21, 34) quindi “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21, 36).
In effetti, è riduttivo parlare dell’Avvento solamente come periodo di attesa del Natale, perché questo tempo liturgico ci è proposto anche per prepararci a comparire davanti a Cristo, ad andare incontro al Signore, che si fa prossimo all’uomo. Il cammino cristiano è tutto rivolto a saper cogliere la novità di Dio, che si fa prossimo a noi pieno di amore e di misericordia. Dio è il Bambino che tende le braccia piene di tenerezza, il Pastore che cerca la pecorella smarrita per riportarla salva all'’ovile, è il padre che corre incontro al figlio perduto che ritorna, è il Samaritano che si china premuroso sul ferito. È Gesù, che per noi muore sulla croce, culla drammatica, scelta per ritornare nella Vita celeste.
Per questo è necessario saper vivere “attendendo”, non solo nel senso di aspettare Dio che viene, ma anche nel senso di tendere verso Dio che tende verso noi mandando il Figlio che viene a visitarci.
In effetti l’espressione “avvento” comprende anche quello di “visitatio (=visitazione)”, che vuol dire “visita”. In questo caso si tratta di una visita di Dio: Egli entra nella nostra vita e vuole rivolgersi a noi (cfr Benedetto XVI). L’avvento-visita del Signore implica una vigilanza. Occorre saper vigilare, come il Cristo invita oggi: “State attenti…” (cfr Lc 21, 34 e 36 citato poco sopra) e più volte Lui l’ha ripetuto nelle parabole, perché il Signore arriva come un ladro di notte o come un Signore che ritorna per vedere che fine hanno fatto i suoi beni affidati ai servi.

2) Attesa di un incontro.
E’ vero che avvento vuol dire prima di tutto attesa, ma non è una attesa vaga, generica e puramente sentimentale. E’ l’attesa di un incontro personale, di luce. Un incontro che si esprime particolarmente nel giorno del ricordo della sua venuta, ma che può illuminare ogni giorno, ogni istante della nostra vita. L’avvento è, quindi, il tempo in cui dobbiamo rinnovare la decisione di spalancare al Salvatore la finestra del nostro cuore e della nostra mente, perché ci illumini e rischiari tutto ciò che siamo.
Come dobbiamo preparaci a questo incontro oltre al fatto che teniamo vigilante il nostro essere, teso a Cristo?
Prima di tutto cercando di arricchire il nostro sapere (che non vuole dire solo conoscenza ma sapore) su Cristo, con lealtà e umiltà. In effetti come possiamo riconoscerlo quando viene e amarlo se non lo conosciamo e come possiamo conoscerlo se non lo “gustiamo”.
In secondo luogo, pregando. Pregare, ovvero chiedere che lo Spirito Santo ci illumini e sostenga la nostra ricerca del volto del Signore.
Questo tempo, quindi, educa il cuore e la mente di ognuno ad un attesa che sia reale, quotidiana, costante, nella tensione alla presenza di Chi si è fatto uomo per noi e ha salvato la nostra vita: “Le festività della Chiesa certo rammentano fatti trascorsi, ma sono anche presente, attuazione viva; poiché ciò che è accaduto una volta nella storia deve farsi continuamente evento nella vita del credente. Allora è venuto il Signore, per tutti; ma Egli deve venire sempre di nuovo per ciascuno” (Benedetto XVI).
I tre Vangeli di San Marco, San Matteo e San Luca parlano di questa venuta poco prima del racconto della passione di Cristo, si tratta della sua ultima predicazione. Lo stile è apocalittico ( di cui ho dato una sintetica spiegazione domenica scorsa): guerre, devastazioni, catastrofi naturali, distruzione del mondo. Non ci mettano troppa paura queste descrizioni drammatiche, è uno stile soprattutto orientale per ricordare che davanti a Cristo tutto assume un significato nuovo e anche il mondo, che sembra stabile ed eterno, avrà una fine, quando il Signore verrà a ridare un nuovo ordine a tutte le cose. Quindi anche nel Vangelo di San Luca, che leggeremo in questo Anno C, il Messia usa parole apocalittiche cogliendo l'occasione dalla lode che alcuni facevano del tempio di Gerusalemme, ma affermando che questo tempio sarebbe stato distrutto (Lc 21,5-7). Vi sarebbero stati segni premonitori, quali guerre di un popolo contro l'altro, persecuzione dei discepoli di Cristo, (Lc 21, 8-19) l'assedio e la distruzione di Gerusalemme (Lc 21,20-24). Dopo le sofferenze causate dagli uomini, Gesù passa, nel brano di oggi a parlare degli eventi cosmici e della sua venuta nella gloria. Il timore santo che può venire dall’ascoltare queste parole ci aiuta a preparaci alla venuta di Cristo non solo in modo sentimentale, ma coscienti che si tratta di un incontro decisivo per la nostra esistenza.
In questo ci può essere di esempio la Vergine Maria. Lei è un modello da seguire in questa attesa perché la Madonna è “una semplice ragazza di paese, che porta nel cuore tutta la speranza di Dio” (Papa Francesco) e con il suo “sì”, con il suo “fiat” ha preso carne la speranza di Israele e del mondo intero. Il tempo di Avvento, che oggi di nuovo incominciamo, ci restituisce l’orizzonte della speranza, una speranza che non delude perché è fondata sulla Parola di Dio … Una speranza che non delude semplicemente perché il Signore non delude mai! Lui è fedele!” (Id.).
La verginità è il mezzo scelto da Dio per dare un nuovo inizio al mondo. Come nella prima creazione, anche ora Dio crea “dal nulla”, cioè dal vuoto delle possibilità umane, senza bisogno di alcun concorso e di alcun appoggio. E questo “nulla”, questo vuoto, questa assenza di spiegazioni e di cause naturali, è rappresentato appunto dalla verginità di Maria.
In questo Avvento, contempliamo la verginità di Maria per una meditazione sulla castità perfetta per il Regno dei cieli.
San Cipriano scriveva alle prime vergini cristiane "Voi avete cominciato a essere ciò che noi tutti un giorno saremo” (Sulle Vergini, 22, PL 4, 475). Una tale profezia, lontano dall’essere contro gli sposati, è invece anzitutto per loro, a loro beneficio. Ad essi ricorda che il matrimonio è santo, è bello, è creato da Dio e redento da Cristo, è immagine dello sposalizio tra Cristo e la Chiesa, ma che non è tutto. Cristo è tutto.
Con il loro “sì” senza riserve a Dio, con loro la vita umile, semplice, povera, obbediente, fedele come quello della Madonna anche tra le prove e le difficoltà, rendono visibile il Cristo. Col dono della propria vita affrettano l'avvento di Cristo e del Suo Regno. Con la consacrazione le consacrate diventano per tutti gli uomini segno dell’amore di Dio e dei beni eterni che Lui ci dona.


Lettura patristica
San Gregorio Magno
Sermo 1, 1-3


       Fratelli carissimi, il nostro Signore e Redentore, volendoci trovare preparati e per allontanarci dall’amore del mondo, ci dice quali mali ne accompagnino la fine. Ci scopre quali colpi ne indichino la fine, in modo che se non temiamo Dio nella tranquillità, il terrore di quei colpi ci faccia temere l’imminenza del suo giudizio. Infatti alla pagina del santo Vangelo che avete ora sentito, il Signore poco prima ha premesso: "Si leverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno terremoti, pestilenze e carestie dappertutto" (Lc 21,10-11); e poi ancora: "Ci saranno anche cose nuove nel sole, nella luna e nelle stelle; sulla terra le genti saranno prese da angoscia e spavento per il fragore del mare in tempesta" (Lc 21,25); dalle cui parole vediamo che alcune cose già sono avvenute e tremiamo per quelle che devono ancora arrivare. Che le genti si levino contro altre genti e che la loro angoscia si sia diffusa sulla terra l’abbiam visto più ai nostri tempi che non sia avvenuto nel passato. Che il terremoto abbia sconquassato innumerevoli città, sapete quante volte l’abbiam letto. Di pestilenze ne abbiamo senza fine. Di fatti nuovi nel sole, nella luna e nelle stelle, apertamente per ora non ne abbiam visto nulla, ma che non siano lontani ce ne dà un segno il cambiamento dell’aria. Tuttavia prima che l’Italia cadesse sotto la spada dei pagani, vedemmo in cielo eserciti di fuoco, cioè proprio quel sangue rosseggiante del genere umano, che poi fu sparso. Di notevoli confusioni di onde e di mare non ne abbiamo ancora avute, ma poiché molte delle cose predette già si sono avverate, non c’è dubbio che avvengano anche le poche, che ancora non si sono avverate; il passato è garanzia del futuro.

       Queste cose, fratelli carissimi, le andiamo dicendo, perché le vostre menti stiano vigilanti nell’attesa, non s’intorpidiscano nella sicurezza, non s’addormentino nell’ignoranza e vi stimoli alle opere buone il pensiero del Redentore che dice: "Gli abitanti della terra moriranno per la paura e per il presentimento delle cose che devono avvenire. Infatti le forze del cielo saranno sconvolte" (Lc 21,26). Che cosa il Signore intende per forze dei cieli, se non gli angeli, arcangeli, troni, dominazioni, principati e potestà, che appariranno visibilmente all’arrivo del giudice severo, perché severamente esigano da noi ciò che oggi l’invisibile Creatore tollera pazientemente? Ivi stesso si aggiunge: "E allora vedranno venire il Figlio dell’uomo sulle nubi con gran potenza e maestà". Come se volesse dire: Vedranno in maestà e potenza colui che non vollero sentire nell’umiltà, perché ne sentano tanto più severamente la forza, quanto meno oggi piegano l’orgoglio del loro cuore innanzi a lui.


       Ma poiché queste cose sono state dette contro i malvagi, ecco ora la consolazione degli eletti. Difatti viene soggiunto: "All’inizio di questi avvenimenti, guardate e sollevate le vostre teste, perché s’avvicina il vostro riscatto". È la Verità che avverte i suoi eletti dicendo: Mentre s’addensano le piaghe del mondo, quando il terrore del giudizio si fa palese per lo sconvolgimento di tutte le cose, alzate la testa, cioè prendete animo, perché, se finisce il mondo, di cui non siete amici, si compie il riscatto che aspettate. Spesso nella Scrittura il capo sta per la mente, perché come le membra son guidate dal capo, così i pensieri sono ordinati dalla mente. Sollevare la testa, quindi, vuol dire innalzare le menti alla felicità della patria celeste. Coloro, dunque, che amano Dio sono invitati a rallegrarsi per la fine del mondo, perché presto incontreranno colui che amano, mentre se ne va colui ch’essi non amavano. Non sia mai che un fedele che aspetta di vedere Dio, s’abbia a rattristare per la fine del mondo. Sta scritto infatti: "Chi vorrà essere amico di questo mondo, diventerà nemico di Dio" (Jc 4,4). Colui che, allora, avvicinandosi la fine del mondo, non si rallegra, si dimostra amico del mondo e nemico di Dio. Ma non può essere questo per un fedele, che crede che c’è un’altra vita e l’ama nelle sue opere. Si può dispiacere della fine di questo mondo, chi ha posto in esso le radici del suo cuore, chi non tende a una vita futura, chi neanche sospetta che ci sia. Ma noi che sappiamo dell’eterna felicità della patria, dobbiamo affrettarne il conseguimento. Dobbiamo desiderare d’andarvi al più presto possibile per la via più breve. Quali mali non ha il mondo? Quale tristezza e angustia vi manca? Che cosa è la vita mortale, se non una via? E giudicate voi stessi, fratelli, che significherebbe stancarsi nel cammino d’un viaggio e tuttavia non desiderare ch’esso sia finito.

venerdì 20 novembre 2015

Re della verità e dell’Amore

Domenica XXXIV del Tempo Ordinario – Solennità di Cristo Re1 – Anno B – 22 novembre 2015
Rito Romano

Rito Ambrosiano
Is 19,18-24; Sal 86; Ef 3,8-13; Mc 1,1-8
I figli del Regno
1) Un Re incoronato di spine cioè un testimone (martire) della verità dell’amore.
In quest’ultima domenica dell’anno liturgico, siamo invitati a celebrare Cristo Re di un “regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” (Prefazio della Messa di Cristo Re). A Pilato, che gli chiede se fosse re, Gesù risponde che la regalità rivendicata non è politica, ma è di tutt’altro genere. Si tratta di una regalità della verità e dell’amore, che è esercitata come testimonianza alla verità e non come imposizione di un dominio. Infatti, nel Vangelo di oggi Gesù conclude: “Io sono re: per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37). Credo sia corretto affermare che nella sua risposta a Pilato Cristo non solo parla di che cosa è la verità, ma risponde alla domanda: “Chi è la verità?”.
La regalità di Cristo esprime Lui che è la Verità dell’amore, di cui è testimone cioè martire2.
Nel suo breve e serrato dialogo con Pilato, Gesù afferma pure un’altra cosa importante: “Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce”. Per comprendere la regalità di Gesù e per divenire suoi sudditi nel suo Regno, che è un regno dell’altro mondo ma non un regno di morti, occorre aver scelto la verità. Un Regno dell’altro mondo, perché vi “domina” la forza dell’amore. E’ un Re che non condanna a morte i suoi fragili sudditi ma dona la sua vita perché abbiano la vita
Vi sono persone che sono “dalla parte della verità” e persone che invece sono “dalla parte della menzogna”. Non è semplicemente questione di bugie ma di un atteggiamento di fondo, di una scelta di valori. Nel racconto del processo queste due possibilità contrapposte sono incarnate dai due personaggi che si fronteggiano: Gesù e Pilato.
Da una parte Gesù, che è la Verità, si consegna pienamente nelle mani del Padre senza esitare a dare la vita. Dall'altra Pilato che invece rappresenta un potere politico che serve la verità ma non oltre un certo prezzo.: un potere che ritiene di avere valori più importanti da salvare. Per tre volte Pilato riconosce l'innocenza di Gesù e la dichiara pubblicamente, e per tre volte cerca di salvarlo. Tuttavia lo condanna alla croce.
Questo Procuratore del regno umano manda a morte un innocente, rinnega la giustizia e la verità per salvare se stesso.
Il Cristo, invece, è un re che non uccide nessuno, anzi muore per tutti. Non versa il sangue di nessuno, Lui versa il suo sangue per tutti. Non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso per i suoi servi che lui chiama amici. Il Redentore manifesta la verità di Dio che è Padre e il Padre è colui che dà la vita e la libertà ai figli, non colui che toglie la vita e la libertà ai figli.
Cristo Re “usa” il potere secondo verità, secondo giustizia, cioè secondo la verità dell’amore. Un potere che è esercitato dal Salvatore prendendo la Croce come trono e delle spine come corona. Lo stesso potere di amore umile che nell’ultima Cena aveva spinto Gesù a esercitare la sua regalità lavando i piedi degli apostoli. Gesù è un capo, un Re che si mette davvero a servizio dei suoi sudditi. Un re che sa dare il pane invece di prenderlo, che sa dar la vita invece di toglierla, che sa liberare dalla legge invece di imporla.
2) Un suddito particolare: il buon ladrone.
Uno, che colse la verità di Gesù, fu il buon ladrone, che appeso alla croce accanto a quella di Cristo, chiese: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42), e come risposta il Re in croce gli disse: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Per questo ladro la via della croce divenne, infallibilmente, la via del paradiso (cfr. Id), la via della verità e della vita, la via del regno.
Facciamo nostre l’apertura di cuore e la preghiera di questo delinquente che giustamente la tradizione cristiana chiama “buon ladrone”. Nonostante fosse in croce questo malfattore ha avuto un cuore e una intelligenza di un’apertura tale che ha saputo riconoscere in un Moribondo come lui un Re. Ha saputo cogliere la regalità di Cristo che si manifestava su un trono paradossale: la Croce, tanto da chiedere: “Ricordati di me nel tuo Regno” che intuiva essere una vita vera, lieta e duratura. La vicinanza a Cristo non basta, perché nel momento della passione anche altri gli erano vicini, ma l’hanno disprezzato e bestemmiato. Il “ladrone” dal cuore buono perché animato da un santo desiderio ha domandato la salvezza e così è stato il primo ad entrare con Cristo in Paradiso.
Ciascuno di noi preghi: “Gesù, ricordati di me, cordati dei miei fratelli in umanità ai quali voglio dare quotidianamente il pane vivo e vero del tuo Vangelo”. Se saremo perseveranti in questa preghiera : “Venga il tuo Regno” vedremo la promessa di Cristo diventare realtà. Se gli stiamo accanto saldamente lasciandoci attirare da Lui sulla croce, diventeremo come Lui testimoni (=martiri) della Verità.
Oltre a quello del buon ladrone c’è un altro modo di stare accanto a Cristo, Re in croce, ed è quello della Madonna, che fu così associata alla regalità di Cristo, per cui giustamente si canta nella sacra liturgia: “Santa Maria, regina del cielo e signora del mondo, affranta dal dolore, se ne stava in piedi presso la croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Festa della Madonna Addolorata), così che Francesco Suarez scrisse: “Come Cristo per il titolo particolare della redenzione è nostro signore e nostro re, così anche la Vergine beata (è nostra signora) per il singolare concorso prestato alla nostra redenzione, somministrando la sua sostanza e offrendola volontariamente per noi, desiderando, chiedendo e procurando in modo singolare la nostra salvezza”(De mysteriis vitae Christi, disp. XXII, sect. II: ed. Vives, XIX, 327).
Naturalmente, anche le Vergini consacrate nel mondo sono chiamate a partecipare alla regalità di Cristo e della Madonna, dando anche loro testimonianza alla verità dell’Amore.
Alla verginità è anche giustamente attribuito il carattere di martirio (=testimonianza). Essa è infatti considerata una forma di martirio, essendo una vita totalmente data a Cristo Sposo e Re. Di conseguenza le è riconosciuta anche la dignità regale e viene coronata dallo sposo, re dell’universo. Per questo nel Rito di Consacrazione viene messo sul capo delle vergine il velo che viene così ad avere pure il significato di corona regale.
Perché, è vero che il primo significato del velo è quello di indicare che la consacrata nella verginità è esclusivamente sposa di Cristo, la quale si sottrae allo sguardo degli uomini per essere sempre sotto lo sguardo di Dio e a lui solo piacere per la purezza e l’intensità dell’amore. Ma è altrettanto vero che velo è segno di consacrazione a Cristo, quindi è segno di un’altissima nobiltà: di sposa di Cristo Re. Vi può essere più alta dignità per la donna? Penso proprio di no, ma il velo stesso la tiene nell’umiltà.
Velata, ma presente — così come la Vergine Maria — è la donna tutta dedita al Signore nella preghiera: La vergine non è un essere disincarnato e indifferente, lontano dalla gente comune, bensì una donna capace di amore di dono, oblativo, casto e universale, pienamente gratuito proprio perché vergine.
Questo è il mistico significato del velo sul capo delle donne consacrate, nascoste nel mondo per essere nel cuore del mondo e portare tutti gli uomini nel cuore di Cristo, unico sposo della Chiesa.

1  La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 con l’enciclica Quas primas. Si tratta, dunque, di una festa liturgica relativamente recente. Tuttavia l’idea della regalità attribuita a Cristo la si trova già nella Sacra Scrittura, nei Padri della Chiesa, nei teologi, ed anche nell’arte sacra e nel senso comune dei fedeli che concordemente affermano questa regalità. Alla domanda “In che cosa consiste questo potere regale di Cristo?” il Papa emerito Benedetto XVI disse: “Non è quello dei re e dei grandi di questo mondo; è il potere divino di dare la vita eterna, di liberare dal male, di sconfiggere il dominio della morte. È il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, portare pace nel conflitto più aspro, accendere la speranza nel buio più fitto. Questo Regno della Grazia non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà”. (Discorso all’Angelus, 22 novembre 2009)


2  Come ho ricordato varie volte in greco la parola martire vuol dire testimone e va poi tenuto presente che nel linguaggio di San Giovanni “verità” indica la verità di Dio, il suo amore per l’uomo, per ogni uomo.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Comment. in Ioan., 115, 1-3


Gesù Re e Pilato

       In questo discorso dobbiamo esaminare e spiegare che cosa disse Pilato a Cristo, e cosa egli rispose a Pilato.

       Dopo aver detto ai giudei: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge», e dopo che essi gli ebbero risposto: «Non è permesso a noi dare la morte ad alcuno», "Pilato rientrò nel pretorio, e chiamò Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei giudei?». Rispose Gesù: «Da te lo dici, ovvero altri te l’hanno detto di me?»" (Jn 18,33-34). Il Signore sapeva bene quel che chiedeva a Pilato, come pure sapeva cosa egli gli avrebbe risposto; tuttavia, volle che fosse detto ciò, non per sapere quanto già sapeva, ma perché fosse scritto quanto voleva che giungesse a nostra conoscenza. "Rispose Pilato: «Sono io forse giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me: che hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero certamente combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei giudei; invece il mio regno non è di quaggiù»" (Jn 18,35-36).

       Questo è quanto il buon maestro ci volle insegnare: ma prima era necessario dimostrarci quanto vana fosse l’opinione che del suo regno avevano sia i gentili sia i giudei, dai quali Pilato l’aveva appresa. Essi pretendevano che egli dovesse esser messo a morte perché aveva cercato di impadronirsi ingiustamente del regno; oppure perché sia i romani che i giudei dovevano temere, come avverso al loro potere, il suo regno, in quanto appunto i detentori del potere sono soliti temere ed esser gelosi di chi potrebbe prendere il loro posto. Il Signore avrebbe potuto rispondere subito alla prima domanda di Pilato: «sei tu il re dei giudei?», dicendo: «il mio regno non è di questo mondo». Ma egli, chiedendo a sua volta se quanto Pilato domandava, lo diceva da sé, cioè fosse la sua opinione personale, oppure l’avesse inteso da altri, volle che fosse palese, attraverso la risposta di Pilato, che erano i giudei a formulare tale accusa contro di lui. Egli ci mostra così la vanità dei pensieri degli uomini (Ps 93,11), che ben conosceva, e rispondendo loro, giudei e gentili insieme, con parole più opportune ed efficaci, dopo quanto ha detto Pilato, dice: «Il mio regno non è di questo mondo».

       Se avesse fatto questa dichiarazione subito dopo la prima domanda di Pilato, si sarebbe potuto pensare che egli rispondesse, non anche ai giudei ma ai soli gentili, come se fossero stati solo questi ad avere di lui una tale opinione. Poiché invece Pilato risponde: «Sono io forse giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me», allontana da sé ogni sospetto che si possa ritenere che egli abbia spontaneamente detto, e non piuttosto sentito dai giudei, che Gesù aveva affermato di essere re dei giudei. E Pilato, inoltre, col chiedergli: «che hai tu fatto?», lascia intendere che egli era stato condotto a motivo di un delitto. È come se Pilato dicesse: Se non sei re, che hai fatto di male da essere consegnato a me? Quasi non fosse già straordinario il fatto che si consegnasse al giudice per essere punito chi diceva di essere re, ecco che se non avesse detto ciò, il giudice deve chiedere cos’altro abbia fatto di male per essere condotto da lui ad essere giudicato.

       Ascoltate dunque, giudei e gentili, ascoltate circoncisi e incirconcisi; tutti i regni della terra prestino orecchio: Io non danneggio il vostro potere in questo mondo, dice in sostanza il Signore, perché «il mio regno non è di questo mondo». Non fatevi prendere dall’assurdo timore che colse Erode, quando apprese la nascita di Cristo, e si spaventò tanto che fece uccidere tutti i neonati, sperando di uccidere anche Gesù tra quelli, mostrandosi così sanguinario e crudele più per la paura che non per la collera (Mt 2,3-16). «Il mio regno» - dice il Signore - «non è di questo mondo». Che volete di più? Venite dunque nel regno che non è di questo mondo; venite credendo, e guardatevi dalla crudeltà ispirata dalla paura. È vero che in una profezia, il Figlio, parlando di Dio Padre, ha detto: "Sono stato consacrato re da lui su Sion, il sacro suo monte" (Ps 2,6), ma questo monte e quella Sion non sono dl questo mondo. Di chi è composto il suo regno, se non di coloro che credono in lui, ai quali egli ha detto: «Non siete del mondo, così come io non sono del mondo»? Senza dubbio egli voleva che essi dimorassero nel mondo, e per questo chiese al Padre: «Non domando che tu li tolga via dal mondo, ma che li custodisca dal male». Notate che anche ora non dice: Il mio regno non è in questo mondo; ma dice: «il mio regno non è di questo mondo». E dopo aver provato la sua asserzione, soggiungendo: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero certamente combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei», non dice: invece il mio regno non è qui, ma dice: «il mio regno non è di quaggiù». In realtà, il suo regno è qui, sulla terra, fino alla fine dei secoli, dove la zizzania è mischiata al buon grano sino alla mietitura che sarà alla fine dei tempi quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo regno tutti gli scandalosi (Mt 13,38-41). E questo non potrebbe accadere, se il suo regno non fosse sulla terra. Tuttavia, esso non è di quaggiù, perché è esiliato nel mondo. È al suo regno, cioè a questi pellegrini nel mondo, che egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo». Essi erano del mondo, quando ancora non facevano parte del suo regno ma appartenevano al principe di questo mondo. Tutto quanto negli uomini è stato creato da Dio, ma che ha avuto origine dalla stirpe colpevole e dannata di Adamo, appartiene al mondo; e tutto quanto è stato rigenerato in Cristo fa parte del regno e non appartiene più al mondo. È in questo modo che Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre (Col 1,13) e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. Ed è appunto di questo regno che egli dice: «Il mio regno non è di questo mondo», oppure: «Il mio regno non è di quaggiù».

       "Gli disse allora Pilato: «Dunque tu sei re?». E Gesù rispose: «Tu dici che io sono re»" (Jn 18,37).

       Il Signore non teme di riconoscersi re, ma la sua espressione: «tu lo dici», è così calibrata che non nega di essere re (re, si intende, il cui regno non è di questo mondo), ma neppure afferma di esserlo, in quanto ciò potrebbe far pensare che il suo regno è di questo mondo. In questo senso infatti pensava Pilato, col dire: «dunque tu sei re?». Gesù risponde: «tu lo dici», cioè tu sei della terra, e secondo la carne così ti esprimi.

1 La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l’11 dicembre 1925 con l’enciclica Quas primas. Si tratta, dunque, di una festa liturgica relativamente recente. Tuttavia l’idea della regalità attribuita a Cristo la si trova già nella Sacra Scrittura, nei Padri della Chiesa, nei teologi, ed anche nell’arte sacra e nel senso comune dei fedeli che concordemente affermano questa regalità. Alla domanda “In che cosa consiste questo potere regale di Cristo?” il Papa emerito Benedetto XVI disse: “Non è quello dei re e dei grandi di questo mondo; è il potere divino di dare la vita eterna, di liberare dal male, di sconfiggere il dominio della morte. È il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, portare pace nel conflitto più aspro, accendere la speranza nel buio più fitto. Questo Regno della Grazia non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà”. (Discorso all’Angelus, 22 novembre 2009)


2 Come ho ricordato varie volte in greco la parola martire vuol dire testimone e va poi tenuto presente che nel linguaggio di San Giovanni “verità” indica la verità di Dio, il suo amore per l’uomo, per ogni uomo.

venerdì 13 novembre 2015

La Fine e l’Inizio.

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario – Anno B – 15 novembre 2015
Rito Romano

Rito Ambrosiano
Is 13,4-11; Sal 67; Ef 5,1-11a; Lc 21,5-28
I Domenica di Avvento
La venuta del Signore
 
1) Il Signore è vicino, alle porte.
Il brano del discorso di Gesù, che è proposto dalla Liturgia di oggi, ha un linguaggio che gli esperti chiamano “apocalittico”. Questo aggettivo viene dal sostantivo “apocalisse”, che letteralmente vuol dire rivelazione. Tuttavia nel linguaggio comune il termine ha perso il significato originario di “rivelazione” e, soprattutto fuori dall'ambiente religioso, è passato a indicare qualsiasi evento di grande calamità o un succedersi di eventi disastrosi. Ciò è accaduto perché è un linguaggio ricco di immagini forti e spesso inquietanti, che hanno lo scopo di suscitare un ascolto rispettoso e attento perché venato di timore.
Infatti, nel Vangelo di oggi Gesù afferma: “Il sole e la luna si oscureranno e le stelle cadranno e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli (Gesù, il Figlio dell’uomo) manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13, 24-27).
Dunque, con le parole apocalittiche (letteralmente rivelatrici) dei vv 24-25 di Marco 13, il Cristo ci dice che il mondo e l’umanità che lo abita sono fragili: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo. Ma nei vv 26- 27, Gesù fa intuire che se c'è un mondo che muore, c’è anche un mondo nuovo che nasce per Lui e in Lui. Dunque non stiamo andando verso la fine, verso il nulla, ma ci prepariamo all’incontro definitivo con Cristo, il fine della vita, il compimento del mondo. Noi implicitamente pensiamo che andiamo a finire male, per questo abbiamo paura e cerchiamo di non contare i nostri giorni perché poi dopo è la fine. Invece in questo racconto che è fondamentale per la fede cristiana, si presenta il termine della storia, di tutta quanta la storia e il termine della nostra vicenda personale come l’incontro con il Signore.
Il fine di tutta la storia è l’incontro con Lui e tutta la creazione è in cammino verso quest’incontro e tutta la vicenda umana nostra personale e dell’universo non è altro che l’andare avanti sempre più fino a quando traspare nel mondo la gloria del Figlio. Siamo figli, ciò che apparirà alla fine è la nostra gloria, allora vedranno il Figlio dell’uomo venire con molta potenza e gloria. Il senso della storia è la rivelazione del Figlio dell’uomo e in Lui di ogni uomo, nella potenza piena della vita e nella gloria stessa di Dio.
Quindi, il Messia non vuole tanto raccontare la fine del mondo, quanto rivelare il senso della storia. Lui ci dice ha la fine del mondo non è la distruzione di tutto, ma l’incontro di noi tutti con il Figlio dell’uomo. Egli è il Signore che perdona, lo Sposo che ci ama, il Signore del sabato: è colui che si mette nelle nostre mani e tutto ci dona, fino a dare la vita per noi. La fine del mondo non è come l’arrivo di un ladro che ci ruba tutto, ma l’incontro con lo Sposo che ci dà tutto, perché sulla croce di Gesù è già finito il mondo vecchio – si è oscurato il sole – ed è nato quello nuovo.
Come ogni essere umano, il cristiano sa che un giorno il sole si spegnerà, ma sa anche che la Luce di Dio risplenderà sempre. La fine del mondo non è la distruzione di tutto, ma l’incontro di noi tutti con il Figlio dell’uomo, con il Redentore dell’uomo e del mondo. Lui è il Signore che perdona. Insomma la fine del mondo non è un furto di un ladro che mi ruba tutto, è l’incontro con lo Sposo che ci dà tutto. Quindi, non è che andiamo verso il nulla, verso il vuoto, l’Apocalisse negli ultimi due capitoli rappresenta l’incontro proprio come quello della sposa con lo sposo. La Chiesa è la sposa che attende l’arrivo dello Sposo. Non dovremmo avere paura di incontrare l’Amore che viene da noi.


2) Non tanto quando, ma come.
La Chiesa continua a proclamare, in particolare al termine dell’anno liturgico, il fatto di questo incontro d’amore da vivere nell’attesa. Dando peso alle parole di Cristo: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (Mc 13, 32), la Liturgia ricorda a noi fedeli che siamo chiamati ad essere sempre in attesa di Colui che è venuto secoli fa e che verrà alla fine dei tempi, ma che anche viene ogni giorno, nella nostra vita, nel nostro oggi. Per questo un inno del Breviario ci fa cantare “Notte, tenebre e nebbia,
fuggite: entra la luce,
viene Cristo Signore.

Il Sole di giustizia
 trasfigura ed accende
l’universo in attesa” (Inno delle Lodi, II settimana, mercoledì).

In effetti, in questa trasfigurazione del mondo anche, e soprattutto, il nostro cuore è dilatato così che il Cielo vi trova più spazio, così che abbia una più viva attenzione (nel senso più letterale del termine di tensione costante al Signore. Egli viene sempre, ma spesso l'incontro non avviene perché noi viviamo una vita superficiale sul piano spirituale, una certa dissipazione: le cose di quaggiù ci attraggono così tanto da rendere indisponibile l'anima a questo meraviglioso incontro. Solo raramente ci troviamo in condizioni spirituali tali da percepire questo "venire" di Dio. Di qui cosa ne viene? Non certo che cambi il Signore, Lui che sempre si fa presente, ma che cambi la nostra anima, in modo da vivere sempre un'attesa, una speranza.
La questione quindi non tanto sul “quando” (perché Dio ci raggiunge in ogni istante), quanto sul “come”. Quindi, oggi mi permetto di proporre come rispondere a questa domanda: “Come attendere la venuta definitiva del Regno?”
Due sono gli atteggiamenti possibili quello della paura e quello della speranza.
Se ci si ferma alla drammaticità di certe immagini del Vangelo di oggi, sembrerebbe che debba prevalere la paura. Ma Cristo aggiunge: “Imparate dalla pianta di fico: quando il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, voi sapete che ‘'estate è vicina” (Mc 13, 28). Se, da una parte, c'è la descrizione di distruzione, dall’altra, c’è la promessa di una vita tenera e nuova, simboleggiata dall'immagine della pianta di fico le cui nuove foglie insegnano che la morte dell’inverno è sconfitta è la vita dell’estate sta per fiorire e dare frutti di vita.
Paura e speranza si alternano sempre nella vita dell'uomo, anche del credente, tanto da formare una situazione ambigua e irrisolta.
La speranza umana è attesa di qualche cosa che deve venire ma sa che nessun essere umano può disporre del proprio futuro.
La speranza ebraica attendeva il Messia che doveva venire.
La speranza cristiana già fa presente il regno di Dio in noi, già implica la presenza di Dio nel nostro cuore e la presenza di Dio in noi ci rende capaci della vita eterna. “Mediante la speranza noi siamo già in paradiso, anche se il nostro cuore ha ancora paura” (Divo Barsotti).
Per sconfiggere questa paura possiamo riandare ai tanti passi della Bibbia in cui c’è l'invito a non temere, a non avere paura. Per esempio, pensiamo a Pietro, che camminava sulle acque incontro a Gesù, ma poi cedette alla paura del vento e delle onde e affondò. E si ritrovò la Mano tesa di Cristo verso di lui, che lo rialzò, lo perdonò e gli diede nuova forza.
Tutto questo ci spinge a coltivare la speranza e non la paura, la fiducia e non lo sconforto.
Un modo importantissimo per vivere questo “come”, questa speranza è quello delle Vergini Consacrate nel mondo. Queste donne si impegnano a vivere la verginità perché in questo modo non solo attendono Cristo con speranza piena. Innamorate di Cristo, come “spose” che da tempo non vedono lo Sposo, Lo attendono ogni giorno non solo con speranza, ma anche con ansia e con passione. Ogni giorno pregano per vederLo tornare, di incontrarLo per sempre. Queste donne consacrate vivono la verginità con dedizione completa perché la verginità mantiene l’anima desta e tesa a Cristo. Si dedicano alla preghiera frequente, fatta nel silenzio, per tenere il cuore vigilante. In questo modo ci testimoniano come tutta la nostra persona si debba protendere verso il Signore, che viene a noi, che si dona a noi e che fa rinascere le nostre persone.


Lettura patristica
San Cirillo di Gerusalemme
Catech., 15, 1-3

1. Il ritorno di Cristo

       Annunciamo la venuta di Cristo, non la prima solo, ma anche una seconda, molto più bella della prima. La prima fu una manifestazione di pazienza, la seconda porta il diadema della regalità divina. Tutto è per lo più duplice nel Signore nostro Gesù Cristo: doppia la nascita, una da Dio prima dei secoli, una dalla Vergine alla fine dei secoli; doppia la discesa: una oscura, come (rugiada) sul vello (cf. Jg 6,36-40 Ps 71,6), l’altra piena di splendore: quella che verrà. Nella prima venuta fu avvolto in panni nella mangiatoia, nella seconda è circondato di luce come d’un mantello. Nella prima subì la croce, subì disprezzi e vergogna; nella seconda viene sulle schiere degli angeli che l’accompagnano, pieno di gloria. Non fermiamoci dunque alla prima venuta solamente, ma aspettiamo anche la seconda. Nella prima abbiamo detto: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore" (Mt 21,9), e nella seconda lo ripeteremo ancora: insieme con gli angeli andremo incontro al Padrone, ci getteremo ai suoi piedi e diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Viene il Salvatore non per essere nuovamente giudicato, ma per chiamare in giudizio quelli che lo condannarono. Egli, che tacque la prima volta quando fu giudicato, lo ricorderà agli scellerati che osarono crocifiggerlo, dicendo: "Questo facesti, e tacqui" (Ps 49,21). Per la divina economia, venne allora ad ammaestrare gli uomini con la persuasione; ora invece per regnare su di loro a forza, anche se non lo vogliono.

       Di queste due venute dice il profeta Malachia: "E subito verrà al suo tempio il Signore, che voi cercate" (Ml 3,1). Ecco la prima venuta. Invece della seconda venuta dice: "E l’angelo del testamento che voi cercate. Ecco, viene il Signore onnipotente: chi sosterrà il giorno della sua venuta, chi sopporterà la sua vista? Si appresserà infatti come il fuoco della fornace, come la soda dei lavandai, si siederà per fondere e pulire" (Ml 3,2s). E subito dopo il Salvatore stesso dice: "Vi verrò incontro per fare giustizia, e sarò un testimone pronto contro gli avvelenatori e gli adulteri, contro quelli che nel mio nome giurano il falso" (Ml 3,5). Già Paolo allude a queste due parusie scrivendo a Tito: "È apparsa la grazia di Dio, salvatore di tutti gli uomini, e ci ha insegnato a rinnegare l’empietà e le cupidigie mondane, e a vivere in questo mondo con temperanza, con giustizia e pietà, aspettando la beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e salvatore Gesù Cristo" (Tt 2,11-13). Per questo nella fede che a noi è annunciata anche oggi ci è tramandato di credere in colui «che è asceso al cielo, siede alla destra del Padre, e verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».

       Viene dunque il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli; viene nella gloria alla fine di questo mondo, nell’ultimo giorno; ci sarà infatti la fine di questo mondo e il mondo creato sarà rinnovato. Infatti la corruzione, il furto, l’adulterio e ogni specie di delitto si è effuso sulla terra e nel mondo si è mescolato sangue al sangue, affinché perciò questa mirabile dimora non resti oppressa dall’iniquità, se ne va questo mondo perché ne sia inaugurato uno migliore. Vuoi una dimostrazione di ciò dai detti scritturistici? Odi Is che dice: "Il cielo si avvolgerà come una pergamena e tutte le stelle cadranno come le foglie dalla vite, come cadono le foglie dal fico" (Is 34,4). E il Vangelo dice: "Il sole si oscurerà la luna non darà più il suo splendore e gli astri cadranno dal cielo" (Mt 24,29). Non affliggiamoci come se noi soli dovessimo finire: anche le stelle finiscono, ma forse di nuovo risorgeranno. Il Signore arrotola i cieli, non per distruggerli, ma per farli risorgere più belli. Ascolta il profeta David che dice: "In principio tu, Signore, hai fondato la terra, e opera delle tue mani sono i cieli. Essi periranno, ma tu rimani" (Ps 101,26).

       Ma qualcuno obietterà: «Però dice chiaramente che periranno». Ma ascolta in che senso dice «periranno»: è chiaro da ciò che segue: "E tutti invecchieranno come un vestito e tu li avvilupperai come un mantello: ed essi muteranno" (Ps 101,27). Si parla infatti come di una morte di un uomo, come sta scritto: "Vedete in che modo perisce il giusto, e nessuno se la prende a cuore" (Is 57,1), ma se ne aspetta la risurrezione; così aspettiamo quasi la risurrezione dei cieli. "Il sole si muterà in tenebre e la luna in sangue" (Jl 2,31 Ac 2,20). Notino questo i convertiti dal manicheismo: non attribuiscano più la divinità agli astri, né ritengano empiamente che questo sole, il quale si oscurerà, sia Cristo. E ascolta ancora il Signore che dice: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Mt 24,25). Le parole del Signore non possono paragonarsi alle realtà create. Le realtà visibili passano e vengono le realtà che aspettiamo, più belle delle presenti: ma nessuno ne ricerchi curiosamente il tempo: "Non sta in voi" - è detto infatti - "conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato in suo potere" (Ac 1,7). Non osare dunque di stabilire il tempo in cui ciò avverrà; ma neppure, al contrario, non adagiarti supinamente: "Vigilate" - è detto infatti -, "perché nell’ora in cui non aspettate, il figlio dell’uomo verrà" (Mt 24,44).

      



venerdì 6 novembre 2015

La vita è un dono, non uno spettacolo.

Domenica XXXII del Tempo Ordinario – Anno B – 8 novembre 2015
Rito Romano
1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

Rito Ambrosiano
Is 49,1-7; Sal 21; Fil 2,5-11; Lc 23,36-43
Ultima Domenica dell’Anno Liturgico Ambrosiano
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo


1) Umiltà vera.
Nel Vangelo, che la Liturgia ci propone questa domenica, sono raccontate due scene di vita che accadono anche oggi e che ci invitano ad un esame di coscienza, su come deve essere il nostro modo di essere cristiani: umili e devoti. Infatti, anche a noi oggi Gesù dice quello che, nel Tempio di Gerusalemme, insegnò ai suoi discepoli: “‘Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa’. Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: ‘In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere’”. (Mc 12,38-44)
Il primo scopo della prima scena, nella quale il Cristo parla degli scribi è quello di denunciare alcuni modi sbagliati di agire, che possono essere di qualsiasi uomo religioso, in ogni epoca. Uomini simili si rivelano, anzitutto, nei loro atteggiamenti vanitosi, un difetto che potrebbe anche farci sorridere ma sempre, purtroppo, attuale.
Gli scribi si esibiscono con abiti ricercati, pretendono deferenza e venerazione. Ma la cosa più grave è che costoro hanno introdotto nella loro vita l’inganno (“divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere”). Un duplice inganno, quello di separare il culto di Dio dalla giustizia: si prega Dio e si danneggiano i poveri. E quello, ancor peggiore, che consiste nell'illudersi di amare Dio e il prossimo, e invece gli scribi non amano che se stessi. L’autorità morale di cui godono, la dottrina che possiedono, le pratiche religiose che compiono, tutto è utilizzato da loro a mettersi in luce, tutto è strumentalizzato a loro vantaggio. Persino i criteri della giustizia finiscono con l’identificarsi con il loro tornaconto.
Credo che sia importante notare che lo scopo del Redentore non è solo quello di invitare all’umiltà, denunciando la superbia e l’ipocrisia degli scribi. Dopo averli disapprovati quali falsi, ingannevoli maestri, con la seconda scena, che ha come protagonista una povera vedova, Gesù indica questa donna come esempio di maestra vera, che insegna a donare tutto. In questo modo con un esempio “piccolo” tutti potremo cogliere l’esempio grande di Cristo, che ha donato se stesso fino a morire per noi per darci la vita.
Questa scena si svolge nel cortile del tempio di Gerusalemme, a cui avevano accesso anche le donne. In questo cortile erano disposte tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. Era un gesto fatto di fronte a un sacerdote del Tempio, che verificava l’autenticità delle monete e dichiarava a voce alta l’importo dell’offerta, per la folla che assisteva a questo “spettacolo”. Anche Gesù, Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento, si trova seduto davanti a questi tredici piccoli forzieri, ma non loda - come fanno gli altri – le generose offerte, di cui il sacerdote aveva annunciato l’entità.
Il Figlio di Dio non guarda le apparenze, perché Dio guarda il cuore (cfr. 1 Sam 16,7) e loda una vedova che offre poche monete. Questa vedova, povera donna senza più nessuno e che non è più di nessuno, ha una fede così grande in Dio che, anche se si tratta di spiccioli, che però costituiscono tutto quello che ha, li offre a Dio, perché è sicura di essere di Dio.

2) Devozione autentica.
Il gesto della donna non è spettacolare, ma un’autentica pratica di pietà che Gesù riconosce ed indica come gesto autentico, perché sicuro, retto, ordinato, devoto, umile, in una parola sola: totale. Questa vedova getta nel tesoro del Tempio tutto quello che ha e getta in Dio tutto quello che è. Quel tutto ciò che questa vedova ha ed è e che lei offre totalmente, ci richiama alla mente quella misura dell’amore di Cristo, che è dare la propria vita. L’amore vero è dare tutto, senza calcoli, senza tornaconti, senza misure, come in questo caso, come sempre fa il Signore con noi.
E procedendo a ritroso nel commento agli altri quattro aggettivi qualificativi del gesto autentico, aggiungo che è un gesto:
  • umile, perché è fatto senza pretese e perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18);
  • devoto, perché sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo, vissuta come dono di sé commosso;
  • ordinato, perché niente antepone a Dio e in Dio ama il prossimo;
  • retto, perché chiede il bene. La preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi” (San Giovanni di Damasco);
  • sicuro, perché compito da un cuore sicuro di essere ascoltato:: “Mi invocherà e gli darò risposta” (Sal 91,15).
Questo gesto di devozione autentica e totale è “usato” dal Magistero di Gesù come magistero per insegnare che il Suo modo di misurare il mondo non è con il criterio della quantità, ma con quello del cuore. Agli occhi di Colui, che guarda il cuore, la quantità non è che apparenza. Ciò che conta non è quanto denaro si dona, ma quanto amore vi è stato messo, quanta vita contiene il dono che si sta facendo. Come dice San Giovanni della Croce: “Al tramonto della vita, saremo giudicati sull’amore”, e l’episodio di oggi come la descrizione del giudizio finale: “Avevo fame, sete, ecc, e mi avete dato da mangiare, da bere, ecc.” ci ricordano che il Vangelo può essere vissuto grazie a un pezzo di pane o in un bicchiere d'acqua fresca, dati solo per amore, grazie a due monetine, date con tutto il cuore.
L’importante è dare con tutto il cuore. Che sia dia tutto come la vedova del Vangelo di oggi, o la metà dei propri beni come fece Zaccheo, a Gesù non importa molto, perché Lui non misura. Lui chiede di essere amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto il nostro essere. E’ per questo che lui loda la vedova e dice a Zaccheo, che ha dato la metà dei suoi beni: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (cfr. Lc 19, 9).
La carità non va a peso o a tempo. Il dono, che ha “peso” per Cristo, è quello che facciamo donandoci a Lui, “con abbandono totale e amorosa fiducia” (cfr. M. Teresa di Calcutta) Si può dare anche la vita, come dice San Paolo, ma se non si ha la carità in cuore e se si è generosi per sentirsi lodati, per sentirsi bravi … lasciamo perdere. Possiamo dare ricche offerte alla Chiesa e ai poveri, ma se il nostro cuore non è in Dio, quei beni non sono altro che polvere. Gesù ci chiede di dare molto di quello che abbiamo, ma tutto di quello che possiamo, con gioia.
Credo, infine, che sia giusto e doveroso sottolineare che la vedova indicata da Gesù nel Vangelo di oggi assomiglia ed è immagine della Chiesa-Sposa che tutta si dona allo Sposo che è Cristo, il Figlio di Dio, che per lei si è fatto povero.
Le vergini consacrate nel mondo devono dunque ispirarsi all’esempio di questa donna per vivere la loro vocazione sponsale. Anche loro come questa donna sono chiamate a testimoniare che ormai nessun’altra presenza può trovare posto in loro e che come questa donna mettono tutto a disposizione di Dio e del suo Regno. La loro vita diventa così risposta concretissima a Cristo che dice loro: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo” (Ct 4,9) e sempre con la loro vita chiedono come la sposa del Cantico dei cantici al suo Diletto: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!” (Ct 8,6). Infatti: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me” (Ct 6,3). La verginità, che rivela l’integrità, la santità e la verità di una persona, permette di vivere per il Signore, di testimoniare che il cuore umano è fatto da Dio e per Dio, di servire Dio con cuore indiviso in una dedizione totale, partendo dal dono di due monetine.




Lettura Patristica
Gregorio Magno,
Hom. in Ev., 5, 1-3




Il Regno di Dio vale tutto ciò che uno possiede

       Avete udito, fratelli carissimi, che Pietro e Andrea non appena furono chiamati, al primo suono del comando, lasciarono le reti e seguirono il Redentore. Non l’avevano ancora visto operare alcun prodigio; ancora non l’avevano ascoltato in tema di premio eterno; e nondimeno, al primo cenno del Signore, dimenticarono tutto quello che poteva costituire il loro possesso...

       Mi sembra, peraltro, di sentire qualcuno che dice tra sé: Pietro e Andrea erano pescatori, non possedevano nulla o quasi. Cosa mai lasciarono al comando del Signore? Ma, in questo caso, fratelli carissimi, dobbiamo guardare più all’affetto che al valore del censo. Certamente, molto lascia chi non trattiene nulla per sé; molto lascia chi abbandona completamente tutto quel che possiede. Noi, invece, siamo aggrappati gelosamente a quanto possediamo e desideriamo avidamente quel che non abbiamo. Pietro e Andrea lasciarono davvero molto, dal momento che rinunciarono persino al desiderio di possedere. Sì, questi apostoli lasciarono molto, rinunciando non solo alle cose ma altresì al desiderio di esse. Tanto lasciarono, ponendosi al seguito di Cristo, quanto avrebbero potuto desiderare, se non avessero intrapreso la sua sequela.

       Nessuno dica, quindi, allorché vede che altri han lasciato tutto: imiterei volentieri questi spregiatori del mondo, però non ho nulla da lasciare. Infatti, fratelli, anche voi rinunciate a molto, se rinunciate ai desideri terreni. Lasciando il poco che possedete, è quanto basta per far contento il Signore: egli guarda il vostro cuore, non il vostro patrimonio. Non guarda quanto gli offriamo in sacrificio, bensì l’amore con cui glielo offriamo. Se guardiamo al patrimonio terreno, dobbiamo dire che quei due santi mercanti acquistarono la vita eterna degli angeli, in cambio delle reti e della barca.

       Il Regno di Dio, invero, non ha prezzo; però esso vale tutto ciò che uno possiede. Nel caso di Zaccheo, esso valse la metà dei suoi beni, perché l’altra metà egli se la riservò per restituire il quadruplo a coloro che aveva defraudato (Lc 19,8); nel caso di Pietro e Andrea, valse le reti e la barca (Mt 4,20); per la vedova, valse solo due spiccioli (Lc 21,2 Mc 12,42); per un altro, sarà valso magari un semplice bicchiere d’acqua fresca (Mt 10,42). Quindi, il Regno di Dio, come ho già detto, vale tutto quello che uno possiede.

       Riflettete, dunque, fratelli, sul valore del regno dei cieli: niente vi è di meno costoso nell’acquisto e niente di più prezioso nel possesso. Supponiamo però di non avere neppure un bicchiere d’acqua fresca da dare al povero; ebbene, anche in questo caso ci soccorre la parola divina. Alla nascita del Redentore, si mostrarono i cittadini del cielo, cantando: "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buon volere" (Lc 2,14). Davanti a Dio, la nostra mano non è sprovvista di doni, se l’arca del cuore è piena di buona volontà. Ecco perché il Salmista dice: "In me sono, o Dio, i voti che ti rendo, a te si levano le mie lodi" (Ps 55,12). È come se dicesse: «Anche se non trovo fuori di me doni da offrire, nondimeno trovo nel mio intimo qualcosa da porre sull’altare della tua lode, poiché tu non ti pasci del nostro dono, ma ti lasci placare dall’offerta del cuore.