venerdì 26 gennaio 2018

Parola che libera dal male e crea l’uomo nuovo.


Rito Romano – IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 28 gennaio 2018
Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28



Rito Ambrosiano
Is 45,14-17; Sal 83; Eb 2,11-17; Lc 2,41-52
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe - festa del Signore




1) Parola autorevole, nuova e liberante.
  Domenica scorsa siamo stati invitati a riflettere sulla vocazione di Pietro e di Andrea, di Giacomo e di Giovanni. In compagnia di questi quattro pescatori che Gesù ha chiamati per diventare pescatori di uomini, proseguiamo il cammino iniziato con la lettura del Vangelo di San Marco. Nel brano che oggi leggiamo, questo Evangelista ci racconta del Messia che va a Cafarnao. E’ sabato ed anche Gesù, come ogni ebreo, si reca alla sinagoga per la preghiera e la lettura della Bibbia. Poiché, dopo gli scribi e gli anziani, ogni israelita poteva chiedere la parola e intervenire, ecco che Gesù prende la parola e insegna con un’autorità che stupisce i presenti. Questa autorità d’insegnamento è, poi, immediatamente accompagnata dall’autorità d’azione, che libera un indemoniato. Il diavolo è un intruso nell’uomo, che è figlio di Dio. La parola del Figlio di Dio scaccia il maligno e mette fine ad una convivenza devastante e rovinosa.
Quelli che assistono alla scena nella sinagoga “Sono stupiti dell'insegnamento di Gesù, perché insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi”.
Gesù insegna come uno che ha autorità. Ha autorità chi non sol tanto annuncia la buona notizia, ma la fa accadere. Lo vediamo dal seguito del racconto: “C’era là un uomo posseduto da uno spirito im puro  e cominciò a gridare, dicendo: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!. E Gesù gli ordinò severamente: ‘Taci! Esci da lui. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.” (Mc 1, 23 - 26). La buona notizia è Dio che sta in mezzo agli uomini e li libera ridonando loro la vita sana e santa.
Il vangelo (=buona notizia) che Cristo è, e porta, è un insegnamento nuovo, il che non significa semplicemente qualcosa di mai detto prima o di mai sentito altrove. Non si tratta semplicemente di una novità cronologica. Nella parola di Gesù si avverte la presenza della novità di Dio, una novità qualitativa: qualcosa che rigenera e rinnova.
La novità di Gesù ha fatto irruzione nel mondo: il suo insegnamento non è riducibile ad una dottrina, ad una sublime lezione di teologia o di etica da imporre sulle spalle deboli dell'uomo. La novità è Lui stesso, che chiede solo di essere accolto come forza liberante. Cristo che “porta ogni novità portando se stesso” (Sant’Ireneo di Lione) con la sua parola pronunciata con autorità, manifesta l’amore di Dio. La Sua è una parola che opera, che libera chi è vittima del male, che lo strappa dal potere del Maligno per restituirlo alla sua dignità, alla sua libertà di figlio di Dio.
Questo vangelo è rivolto a noi oggi perché lo accogliamo domandando di essere purificati dai nostri peccati e fare nostre le parole di San Bernardo di Chiaravalle: “Ho commesso un grave peccato, la coscienza si turberà ma non ne sarà scossa, perché mi ricorderò delle ferite del Signore. Se dunque mi verrà alla memoria un rimedio tanto potente ed efficace, non posso più essere turbato da nessuna malattia, per quanto maligna ... mio merito perciò è la misericordia di Dio, finché Lui sarà ricco di misericordia” (Discorso n.61 sul Cantico dei Cantici).
Quella di Cristo è una autorevolezza di una persona ricca di misericordia divina e di umanità. Mentre gli scribi “insegnano” con l’affanno di interpretare la Legge e di elaborare una dottrina, Gesù “insegna” mostrando la novità della sua vita come il “compimento” della Legge. Da ciò emerge un’ “autorevolezza” che genera stupore. Non si tratta solo di una “dottrina” migliore, più profonda o meglio costruita, rivolta all’intelligenza, ma di una forza che mentre mostra, trasforma misericordiosamente le persone che si aprono ad accoglierla. Quella di Cristo è parola forte e, al tempo stesso, dolce che guarisce e libera dal peccato, che è fuga da Dio e da noi stessi.

2) Incontro con l’amore autorevole.
Il succedersi ripetitivo del tempo a Cafarnao è rotto - nella sinagoga allora, nella chiesa oggi- dall’incontro di Gesù Nazareno con la gente del posto fra cui vi è un uomo posseduto da uno spirito impuro. Tutti rimasero sorpresi e dentro di sé cominciarono a chiedersi: “Ma che cos'è mai questo? Un insegnamento nuovo, pieno di autorità. Comanda agli spiriti impuri e gli obbediscono”.
Anche oggi siamo invitati a incontrare, nella Liturgia, il Signore che viene con la sua parola, detta con autorità, per liberarci dal potere del Maligno che si insinua dentro di noi per strapparci quanto il battesimo ci ha donato facendoci figli di Dio.
Per rubare i figli a Dio, il diavolo insinua il dubbio negli uomini inducendoli a pensare che Dio non sia un Padre ma un nemico della nostra umanità.
Il demonio è uno “spirito impuro” perché mira a sporcare lo sguardo inquinandolo alla fonte; e uno sguardo macchiato non vede più l'amore di Dio, smarrisce le ragioni per lodarlo e quindi se ne separa.
Fortunatamente anche oggi Cristo entra nel “luogo dove siamo riuniti”1 in preghiera e si fa incontro a noi, “insegna con autorità” durante le celebrazioni liturgiche, attraverso la predicazione e la proclamazione della Parola.
Abbiamo bisogno dell’“autorità” di Gesù, così diversa da quella degli “scribi”. Lui non parla con presunzione, la sua cattedra non è in alto, ma accanto ai poveri e ai peccatori. Cristo è autorevole perché ha portato sulla terra il volto di Dio, ha dato carne al suo amore del Padre, ha “rinchiuso” la sua onnipotenza nella misericordia.
Gesù non parla in nome di Dio, come facevano gli scribi. Lui è Dio. Lui scende con autorità sino al cuore e lo guarisce. Solamente Lui può guarirci dal male purificando la fonte dei nostri atteggiamenti malvagi. 
L’importante è che la nostra mente ed il nostro cuore siano rivolti verso Cristo, convertiti cioè rivolti verso di Lui insieme con i nostri fratelli e sorelle. Il cammino che inizia in questa domenica si concluderà sulla Croce. Camminiamo guardando a Cristo, che, passo dopo passo, ci introduce nella conoscenza della sua identità.
Stupiamoci dell'incontro impensabile con un Dio che non schiaccia l'uomo, ma gli dona se stesso, lo ama, lo libera perché viva.
Facciamo in modo che lo stupore degli ascoltatori di allora diventi anche nostro.
Nel Vangelo di oggi. San Marco scrive: “Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Tutti erano stupiti, quasi increduli, ma percepivano, nelle parole di lui, la forza superiore della grazia, come scriverà pure San Luca: “erano stupiti, per le parole di grazia che pronunciava” (Lc 4,22).
Incontrando Cristo, profeta “definitivo”, l’atteggiamento da avere è quello dell’ascolto pieno stupore. Ascolto che esige un clima di silenzio interiore e di stupita tensione, segno del desiderio di conoscenza, nel quale nasce e cresce un atteggiamento di accoglienza e di dedizione.
Un esempio di questa accoglienza e dedizione ci viene dalle Vergini consacrate che testimoniano che è davvero praticabile quanto dice San Paolo nella seconda lettura della Messa di oggi.
L’Apostolo delle Genti scrive: “Fratelli, vorrei che voi foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni” (1 Cor 7, 32-35).
Sono tante le occasioni e le distrazioni oggi che ci portano a trascurare il nostro rapporto con Dio e a soddisfare solo le nostre esigenze materiali. L’insegnamento di San Paolo e la testimonianza delle Vergini consacrate mostrano un percorso alternativo a quanti concepiscono l'amore nel solo orizzonte del tempo presente e della corporeità. Lo stesso abuso del termine amore e la sua varia accezione ci fa comprendere come sia problematico scegliere la strada giusta per vivere nell’amore di Dio e in questo amore divino amare verginalmente ogni nostro fratello, nonostante i limiti ed i difetti.

1  Sinagoga (σύν “con, insieme” e ἄγω “conduco”) è parola greca che vuole dire “luogo di riunione”.


Lettura patristica
San Girolamo
Comment. in Marc., 2


"Ed entrarono a Cafarnao" (Mc 1,21). Significativo e felice è questo cambiamento: abbandonano il mare, abbandonano la barca, abbandonano i lacci delle reti ed entrano a Cafarnao. Il primo cambiamento consiste nel lasciare il mare, la barca, il vecchio padre, nel lasciare i vecchi vizi. Infatti nelle reti, e nei lacci delle reti, sono lasciati i vizi. Osservate il cambiamento. Hanno abbandonato tutto questo: e perché lo hanno fatto, per trovare che cosa? «Entrarono - dice Marco - a Cafarnao»: cioè entrarono nel campo della consolazione. "Cafar" significa campo "Naum" significa consolazione. Oppure (dato che le parole ebraiche hanno vari significati, e, a seconda della pronunzia, hanno un senso diverso), "Naum" vuol dire non solo consolazione, ma anche bellezza. Cafarnao, quindi, può essere tradotto come campo della consolazione o campo bellissimo...

       "
Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava loro" (Mc 1,21), insegnava affinché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo. "Egli li ammaestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi" (Mc 1,22). Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti. Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico». Guardate altrove. «Sta scritto -egli dice - nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa». Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio. Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re. Ma la legge l’ha data il Padre o il Figlio? Rispondi, eretico. Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue. Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data. Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.

       "
Si stupivano della sua dottrina ()". Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti. Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi. Non parlava come un maestro ma come il Signore: non parlava per l’autorità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità. Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti. "Io che parlavo, ecco, sono qui" (Is 52,6).

venerdì 19 gennaio 2018

Conversione all’Amore per servirlo nella missione

Rito Romano – III Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 21 gennaio 2018
Gio 3,1-5.10; Sal 24; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20


Rito Ambrosiano – III Domenica dopo l’Epifania
Nm 11, 4-7. 16a. 18-20. 31-32a; Sal 104; 1Cor 10,1-11b ; Mt 14,13b-21

      1) Conversione e lieta notizia.

Oggi la liturgia della Messa ci propone un brano dell’evangelista San Marco, che -con stile scarno ed essenziale- sintetizza tutto il messaggio di Gesù Cristo presentandolo come “Vangelo di Dio”. Questa divina, buona e lieta notizia è proclamata in Galilea, regione confinante con la terra dei pagani. In questo modo, è sottolineata la dimensione perennemente missionaria dell’annuncio. La novità grandiosa di questa espressione: “Vangelo di Dio” rischia di sfuggire a noi, ormai lontani dall’esperienza dei primi lettori di San Marco.
La parola d’origine greca “vangelo” è spiegata con l’espressione “buona novella”. Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola “vangelo”. Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano “vangeli”, indipendentemente dal fatto che il loro contenuto fosse lieto oppure no. Ciò che viene dall’imperatore - era l’idea soggiacente – è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene.
Scrivendo il “Vangelo di Dio”, San Marco insegna che gli imperatori non sono i salvatori del mondo. Il vero salvatore è Gesù, il cui nome vuol dire “Dio salva”. Cristo è il Verbo di Dio e si manifesta come parola efficace. In Lui e per Lui accade davvero quello che gli imperatori pretendevano, senza poterlo realizzare.
Dunque, “Vangelo” non è più l’annuncio della vittoria di un potente sui propri nemici. Il “Vangelo di Dio” non è la proclamazione della vittoria di un uomo forte che ha sconfitto un debole. Non riguarda la gioia di qualcuno e il pianto di altri. Il “Vangelo di Dio”, il lieto annuncio non riguarda più il potente di turno. La lieta “buona novella” è proclamata da Gesù, mite e umile di cuore. Questa buona notizia è proclamata in nome di Dio-Amore, è Dio stesso che in Cristo si fa presente nel mondo e nella storia:
La frase “Proclamando il Vangelo, Gesù diceva: ‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo’” (Mc 1, 14) potrebbe essere riformulata così: “ Proclamando la buona novella, Gesù diceva: ‘il tempo propizio è venuto. Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete alla lieta novella”.
Il senso di questa frase non è: “Fate la vostra conversione morale e poi credete anche alla buona notizia”, ma piuttosto è : “Accogliete la buona novella con fede viva. In questo modo tutto il vostro modo di pensare, di volere, di agire sarà cambiato”. Convertiamoci a Cristo riconoscendolo quale Via, Vita, Verità, quale persona nella quale il Padre rende visibile tutto il suo amore.
In breve, se ci convertiamo cambiando la mente e il cuore possiamo credere alla lieta e buona notizia che Dio è in mezzo a noi. In un certo senso convertirsi è vedere oltre, avere uno sguardo che va oltre. In effetti, con la parola convertirsi si traduce quella greca, che letteralmente significa “guardare oltre” quindi capire, oltre le apparenze, il senso vero delle cose.
Anche San Giovanni Apostolo ed Evangelista introduce il comandamento della conversione, che chiede di amare il prossimo come Cristo ci ha amato, con la forza del Vangelo della gioia, con l’annuncio della lieta novella: “Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15, 11-12). 
Se ci convertiamo a Cristo che ci invita a dimorare in Lui per far dimorare in noi la sua lieta novella, capiremo sempre meglio che il significato vero del comandamento di Dio non è quello di essere una imposizione, ma di essere una comunicazione di amore. Il “comando” di convertirsi è un invito d’amore, che Cristo rivolge ai suoi discepoli perché entrino in comunione con lui, perché accolgano la sua offerta di amicizia.
Insomma conversione cristiana non è tanto una nuova relazione ad un imperativo o a nuove idee, quanto una relazione personale con Gesù, che propone la sua amicizia che permette un'accoglienza festosa, umile, riconoscente della verità salvifica.

      2) Conversione e sequela di Cristo.

Se la conversione è il dimorare in Cristo e seguirLo, vuol dire che questo “stare in Lui” è un verbo di movimento. C'è un'idea di movimento nella conversione, come nel moto del girasole che ogni mattino rialza la sua corolla e la mette in cammino sui sentieri del sole. Allora, “convertirsi” vuol dire “girarsi verso” la luce perché la Luce è già qui.
In effetti la comunione con Lui, implica un seguirLo. Cristo non è tanto una Parola da ascoltare o da leggere. Lui è il Logos, cioè la Parola che dà significato e senso (inteso come direzione) alla vita e dà luce ai nostri passi.
Quando San Marco scrive che Gesù “passando lungo il mare di Galilea vide Simone e Andrea, fratello di Simone e disse loro: ‘seguitemi’” non disse: “Imparate”, perché la prima caratteristica del discepolo cristiano è quella di “seguire”. In effetti il verbo, che abitualmente si accompagna alla parola discepolo, è imparare. Usando, invece, il verbo seguire, il vangelo sottolinea che al primo posto non c'è una dottrina, ma un modo di vivere che implica un camminare con il Maestro, immedesimandosi in lui.
La sequela evangelica non è mai una chiamata a star fermi, ma a camminare. La chiamata evangelica è un invito a uscire, ad andare verso il mondo e la missione. Se il seguire non implica un “andare dietro Cristo”, vuol dire che si segue se stessi. La sequela evangelica è diversa da tutte quelle sequele che invitano invece a separarsi e a rinchiudersi.
Comincia così la novità dell’esistenza: andando dietro a Cristo che chiama e si propone come strada per la vita dei suoi discepoli, noi compresi.
Gesù vede e parla a due persone, la qualità della relazione a cui dà inizio, è segno della novità dell'Amore. “Venite dietro a me, e vi farò diventare pescatori di uomini”: il che vuol dire che Gesù chiede a Simone e ad Andrea di convertirsi non facendo chissà che cosa, ma seguendolo e facendo sì che la missione di salvezza di Cristo diventi la loro vocazione.
La vocazione alla conversione è quella di entrare in relazione con lui, di lasciarsi amare da lui e di portare il suo amore e la sua verità nel mondo. Gesù chiede di rispondere al suo Amore: Gesù ama e chiede di essere amato. Ecco: la novità della storia è l’inizio della relazione d’Amore, finalizzata a gustare l’Amore e ad immettere l’Amore in ogni attimo, in ogni azione in cui la vita si dipana. Questa è la “conversione” che Gesù chiede: non fare della vita un mezzo per fare delle cose, ma vivere la vita in un tale Amore che ogni cosa viva.

3) La sequela delle Vergini consacrate.

    Un esempio di vivere il fatto di essere discepoli seguendo Cristo ci è dato dalle Vergini consacrate. Con il loro gesto di offerta di se stesse al Signore Gesù, queste donne testimoniano che la sequela di Cristo è imitare Gesù casto, povero, obbediente, pregandolo di essere rese capaci di amare con il Suo amore, di donare con il Suo Cuore, di servire con la Sua luce, di operare con i Suoi doni.
Con la loro vita consacrata testimoniano, in primo luogo, che l’iniziativa è di Cristo, e che il suo appello è gratuito. In secondo luogo, mostrano che è possibile rispondere alla chiamata di Gesù anche se questo appello comporta un distacco così radicale e profondo che San Marco parla di abbandono del padre e del lavoro. Abbandonare il mestiere e la famiglia è come sradicarsi. Ma vale la pena, perché così ci si può radicare in Cristo.
La loro vita ci spinge a fare nostra la preghiera che il Sacerdote oggi dice all’inizio della Messa: “O Padre, che nel tuo Figlio ci hai dato la pienezza della tua parola e del tuo dono, fa' che sentiamo l’urgenza di convertirci a te e di aderire con tutta l'anima al Vangelo, perché la nostra vita annunzi anche ai dubbiosi e ai lontani l’unico Salvatore, Gesù Cristo”.
Sull’esempio delle Vergini consacrate, ognuno di noi, ogni mattino, ad ogni risveglio, è in grado di dire: “anch'io posso ‘convertirmi’, posso e devo muovere pensieri e sentimenti e scelte verso Dio perché entri di più nel mio cuore e in quello del mondo.


Lettura Patristica
San Girolamo
Comment. in Marc., 1

       "
E camminando lungo il mare di Galilea, vide Simone e suo fratello Andrea che gettavano le reti in mare: infatti essi erano pescatori " (Mc 1,16). Simone, che non ancora si chiamava Pietro, perché non ancora aveva seguita la Pietra (cf. Ex 17,5-6 1Co 10,4) tanto da meritarsi il nome di Pietro, Simone, dunque, e suo fratello Andrea, erano sulla riva e gettavano le reti in mare. La Scrittura non precisa se, dopo aver gettato le reti, presero dei pesci. Dice soltanto: «Vide Simone e suo fratello Andrea che gettavano le reti in mare: infatti essi erano pescatori». Il Vangelo riporta che essi gettavano le reti, ma non aggiunge che cosa presero con esse. Cioè, ripeto, prima della passione essi gettarono le reti, ma non sta scritto se catturarono dei pesci. Invece, dopo la passione, gettano le reti e prendono i pesci: tanti ne prendono che le reti si rompono (Lc 5,6 Jn 1,11). Qui, invece, si dice soltanto che gettavano le reti, perché erano pescatori.

       "
E Gesù disse loro: «Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini»" (Mc 1,17). Oh, felice trasformazione della loro pesca! Gesù li pesca, affinché essi a loro volta peschino altri pescatori. Dapprima essi son fatti pesci, per poter essere pescati da Cristo: poi essi pescheranno altri. E Gesù dice loro: «Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini».

       "
E quelli, subito, abbandonate le reti, lo seguirono" (Mc 1,18). «Subito», dice Marco. La vera fede non conosce esitazioni: subito ode, subito crede, subito segue e subito fa diventare pescatore. E subito, dice Marco, «abbandonate le reti». Credo che con le reti essi abbiano abbandonato le passioni del mondo. «E lo seguirono»: non avrebbero infatti potuto seguire Gesù se si fossero portati dietro le reti, cioè i vizi terreni.

       "
E andato un poco avanti, vide Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, anch’essi nella barca che riattavano le reti" (Mc 1,19). Dicendo che riattavano le reti, si fa capire che esse erano rotte. Essi gettavano le reti in mare: ma poiché le reti erano rotte, non potevano prendere pesci. Aggiustavano, stando in mare, le reti: sedevano sul mare, cioè sedevano nella barca insieme al padre Zebedeo e riattavano le reti della legge. Abbiamo spiegato tutto questo secondo il suo significato spirituale. Essi aggiustavano le reti, ed erano nella barca. Erano nella barca, non sulla riva, non sulla terra ferma: erano nella barca, che era scossa dai flutti del mare.

       "
E subito li chiamò: e quelli, lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, lo seguirono" (Mc 1,20). Qualcuno potrebbe dire: - Ma questa fede è troppo temeraria. Infatti, quali segni avevano visto, da quale maestà erano stati colpiti, da seguirlo subito dopo essere stati chiamati? Qui ci vien fatto capire che gli occhi di Gesù e il suo volto dovevano irradiare qualcosa di divino, tanto che con facilità si convertivano coloro che lo guardavano (Mc 11,5). Gesù non dice nient’altro che «seguitemi», e quelli lo seguono. È chiaro che se lo avessero seguito senza ragione, non si sarebbe trattato di fede ma di temerarietà. Infatti, se il primo che passa dice a me, che sto qui seduto, vieni, seguimi, e io lo seguo, agisco forse per fede? Perché dico tutto questo? Perché la stessa parola del Signore aveva l’efficacia di un atto: qualunque cosa egli dicesse, la realizzava. Se infatti "egli disse e tutto fu fatto, egli comandò e tutto fu creato" (Ps 148,5), sicuramente, nello stesso modo, egli chiamò e subito essi lo seguirono.

       «E subito li chiamò: e quelli subito, lasciato il loro padre Zebedeo...» ecc. "
Ascolta, figlia, e guarda, e porgi il tuo orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre: il re desidera la tua bellezza" (Ps 44,11ss). Essi dunque lasciarono il loro padre nella barca. Ascolta, monaco, imita gli apostoli: ascolta la voce del Salvatore, e trascura la voce carnale del padre. Segui il vero Padre dell’anima e dello spirito, e abbandona il padre del corpo. Gli apostoli abbandonano il padre, abbandonano la barca, in un momento abbandonano ogni loro ricchezza: essi, cioè, abbandonano il mondo e le infinite ricchezze del mondo. Ripeto, abbandonarono tutto quanto avevano: Dio non tiene conto della grandezza delle ricchezze abbandonate, ma dell’animo di colui che le abbandona. Coloro che hanno abbandonato poco perché poco avevano, sono considerati come se avessero abbandonato moltissimo.


       Lasciato il padre Zebedeo nella barca con i garzoni, gli apostoli dunque lo seguirono. È giunto ora il momento di spiegare ciò che prima abbiamo detto in modo oscuro, a proposito degli apostoli che aggiustavano le reti della legge. La rete era rotta, non poteva prendere i pesci, era stata corrosa dalla salsedine marina, ed essi non sarebbero mai stati in grado di ripararla se non fosse venuto il sangue di Gesù a rinnovarla completamente.

venerdì 12 gennaio 2018

La vita è vocazione alla gioia.

Rito Romano – II Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 14 gennaio 2018
1Sam 3,3-10.19; Sal 39; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42.


Rito Ambrosiano – II Domenica dopo l’Epifania
Is 25,6-10a; Sal 71; Col 2,1-10a; Gv 2,1-11.


  1. La vocazione nella vita di ogni giorno.
Dopo la celebrazione del Battesimo di Gesù che domenica scorsa ha concluso il tempo natalizio, oggi la Liturgia presenta un brano del primo capitolo del Vangelo di Giovanni per completare la narrazione degli eventi di manifestazione di Gesù come Messia e Figlio di Dio, che chiama a seguirlo.
Non è casuale che pure le altre due letture della Messa di questa Domenica, la II del Tempo ordinario, abbiano come tema centrale la vocazione. Tutti siamo stati chiamati a seguire una “vocazione” da realizzare nella nostra vita di tutti i giorni. Tutti siamo chiamati a vivere la nostra vocazione a figli di Dio nell'unico Figlio nell’apparente banalità della vita quotidiana. Tutti siamo chiamati a essere con Cristo, primo che a fare qualcosa per Cristo. L’esempio più alto a questa riguardo è la Madonna che prima di “fare” la mamma, “fu” ed “è” ancora mamma. Ma anche gli apostoli di cui parla il Vangelo di oggi, prima di fare qualcosa per Cristo, furono con Cristo. A Giovanni e Andrea che gli chiedevano: “Maestro, dove abiti”, Gesù rispose: “Venite e vedrete”, cioè propose loro di “essere” con Lui, prima che di “fare” qualcosa con Lui.
Non è casuale neppure il fatto che la liturgia del Tempo ordinario chieda che il prete indossi i paramenti verdi, per indicare il tempo verde della nostra vita. Si tratta di un tempo carico di speranza, che accompagna ed illumina il nostro quotidiano da “spendere” nella sequela di Cristo. Quello ordinario non è un tempo minore, è il tempo in cui il Mistero della vita di Cristo e di noi in Lui scorre sotto i nostri occhi in modo ordinario e noi siamo chiamati ad accoglierlo e a comprenderlo, per percorrere la via della salvezza, in Cristo Gesù, nostra Via.
Ogni esistenza è già una chiamata: Dio ci ha tratti dall’abisso vertiginoso del nulla e, dandoci l’essere, ci ha dato anche un progetto da compiere, un disegno da realizzare che è addirittura disegnato “sul palmo delle sue mani” (Isaia 49). E’ questo il senso della nostra vita: essere con Dio e collaborare al grande progetto che Lui ha da tutta l’eternità su ognuno di noi.
Siamo spesso tentati di credere che la vocazione, che Dio ci dona, sia un dovere penoso, una virtù obbligatoria e fastidiosa. No. La chiamata che Dio rivolge agli uomini è perché intreccino un rapporto di amore con Lui. Li invita alla sua dimora, li accoglie di nuovo in casa quando ritornano al suo amore. E non solo possono stare con Lui ma Lui sta nel loro cuore. Il dinamismo dell’uomo che è sempre in cerca della sua casa, è nostalgia della sua patria, della casa natale e il filosofo e scrittore tedesco Novalis (1772 -1801) scrisse “la filosofia è la nostalgia di tornare a casa”. Ebbene il brano del vangelo di oggi mostra come si arriva in questa casa. Seguendo Cristo, chiedendoGli dove abita e rimanendo con Lui.
La conseguenza più bella è che noi diventiamo la sua dimora. Infatti, avvicinarsi a Dio è diventare una cattedrale vivente. Ricevendo la sua Presenza in noi, comprendiamo la grandezza della condizione “umana” a cui siamo chiamati. La Bibbia trabocca di storie di vocazione: ne sono esempi Abramo, Mosè, Davide, i singoli profeti, il piccolo Samuele di cui si legge nella prima lettura di oggi (1 Samuele 3,3-10), la Vergine Maria, gli apostoli.
Ciascuno in forme diverse, ma tutti siamo accomunati da questo invito a dare alla nostra esistenza il valore supremo dell’aprirsi alla relazione con Dio, dicendo come Maria: “Amen, Fiat, accada di me secondo la tua Parola”.

2) I tre verbi della vocazione, che non è una professione.
Le letture della Messa di oggi mostrano che la vocazione “ha” tre verbi: chiamare, ascoltare, rispondere.
Chiamare. Tranne le poche eccezioni di una chiamata diretta, la vocazione avviene per il tramite di altri uomini, come si vede nell’episodio di oggi: per i due discepoli del Battista, il tramite è lui, col segnalare loro l’Agnello di Dio; per Pietro è suo fratello Andrea; per Samuele bambino è il suo “custode” Eli.
Ascoltare, come fece il piccolo Samuele che a Dio che lo chiamava per nome risposte: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta”.
Rispondere andando ad abitare presso Colui che dice a noi, come a Giovanni e Andrea: “Venite e vedrete”.
Riandiamo ancora al brano del Vangelo di oggi, nel quale ci è raccontato che, notando Giovanni e Andrea lo seguivano, Gesù si voltò e chiese: “Che cosa cercate?”. Gesù interrogò non per informarsi, ma per provocare la risposta e per indurre a prendere coscienza della propria ricerca. Gesù costringe l’uomo ad interrogarsi sulle ragioni del proprio cammino.
La ricerca deve essere messa in questione. C’è, infatti, ricerca e ricerca. C’è chi cerca veramente Dio e chi in realtà cerca se stesso.
Dunque, la prima condizione è di verificare continuamente l’autenticità della propria ricerca di Dio. La seconda è di non cercare di capire la vocazione come ricerca di sistemare il mondo né di sistemarsi nel mondo, perché la vocazione non è frutto di un progetto umano o di una strategia organizzativa. La vocazione è all’Amore, ricevuto e donato. La vocazione non è una scelta, è l’essere scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15, 16).

3) La vocazione alla felicità attraverso un esodo.
Nel Vangelo di Marco si legge: “Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà. (...) Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mc 8, 34-35; 10,21).
Nel Vangelo di oggi, con altre parole Gesù ripete l’invito a Giovanni ed Andrea perché anche loro si mettano in cammino dietro di Lui. In entrambi i casi Cristo chiede di percorrere con Lui l’esodo nuovo, che non è solo di liberazione dal male e da ogni altra schiavitù fisica o morale, ma per la libertà, la verità1, l’amore, la gioia, che tanto ci stanno a cuore.
Un esempio di santo che accettò totalmente di fare questo esodo con Cristo, fu San Francesco d’Assisi (11821226), che espresse la sua esperienza di liberazione e di vocazione con queste parole che ricevettero di titolo di La Preghiera semplice:

Signore fa di me uno strumento della tua Pace:
Dove è odio, che io porti l’Amore,
Dove è offesa, che io porti il Perdono.
Dove è discordia, che io porti l’Unione.
Dove è dubbio, che io porti la Fede.
Dove è errore, che io porti la Verità.
Dove è disperazione, che io porti la Speranza.
Dove è tristezza, che io porti la Gioia.
Dove sono le tenebre, che io porti la Luce.
Fa’ che io non cerchi tanto
ad essere consolato, quanto a consolare,
ad essere compreso, quanto a comprendere,
ad essere amato, quanto ad amare.
Poiché è dando che si riceve;
è perdonando che si è perdonati;
è morendo, che si risuscita a Vita eterna.”

Secoli prima, un altro Santo espresse l’esperienza di essere chiamato in modo molto profondo. Si tratta di Sant’Agostino d’Ippona (354 – 430), la cui vocazione-conversione fu ottenuta dalla preghiera e dalle lacrime di sua madre, Monica. Nelle Confessioni, scritte per narrare la sua vocazione e rendere gloria a Dio per la sua misericordia, questo grande Santo afferma che “il peso dell’amore eleva in alto” (Pondus meum amor meus - Confessioni, XIII, 9, 10). E’ come se il Vescovo di Ippona avesse detto: “In qualunque parte mi porti l’amore, là io sarò”.
Anche lui aveva trovato l’amore e non solo non voleva perderlo, voleva restargli fedele sempre.
Per anni aveva cercato la verità e l’amore. Una volta incontrato nella persona di Cristo, vi restò fedele per sempre.
Anche a lui Cristo disse “che cerchi?”, e alla risposta interrogativa: “Maestro dove abiti” la replica è ancora “vieni e vedrai”.

4) La testimonianza della Vergini consacrate nel mondo.
La vocazione di Giovanni e Andrea fu suscitata dalla testimonianza del loro “vecchio” maestro, Giovanni il Battista, che aveva indicato Gesù quale “Agnello che toglie i peccati del mondo”, ma si chiarì nel dialogo con Cristo: “Che cercate?”, “Maestro, dove abiti?, “Venite e vedrete”.
A Giovanni e ad Andrea, come all’interminabile schiera di persone che Lo cercano e Gli chiedono: “Dove abiti?”, Gesù risponde con un imperativo (“venite”) e con una promessa (“vedrete”). La ricerca non è mai finita. La scoperta di Dio non è mai conclusa. Gesù non dice che cosa vedranno né quando. È stando con lui che il futuro si dischiuderà e fiorirà.
Seguire Gesù non significa sapere già dove egli conduce; vuol dire fidarsi di lui, confidare il Lui completamente. Questo abbandono totale è vissuto in modo particolare dalle Vergini consacrate. Queste donne ci testimoniano che la vocazione è riconoscere Cristo come centro affettivo della vita umana. Sul loro esempio, alla domanda di Cristo “Chi, che cosa cercate?”, rispondiamo: “Te” e nel quotidiano “sì” (fiat) si conformano al suo disegno di amore, rinnovando fedelmente il “sì” pronunciato nelle mani del Vescovo il giorno della consacrazione.
Tutti sappiamo che l’amore di Dio per l'uomo è fedele ed eterno: “Ti ho amato di amore eterno”, dice Dio all’uomo (cfr Ger 31, 3). Le Vergini consacrate ci testimoniano che anche noi possiamo vivere la vocazione all’amore di Dio che è luce, felicità e pienezza di vita quaggiù e per l’eternità.

1  Papa Francesco, Le vocazioni come testimonianza alla Verità, 14 maggio 2014.


Lettura Patristica
Tommaso d’Aquino,
Ev. sec. Ioan., 1, 15, 1 s.

L’agnello di Dio e lo sguardo di Gesù
       Quando dice: "Ecco l’agnello di Dio", non solo vuole indicare il Cristo, ma vuole anche esprimere ammirazione per la sua potenza - "Il suo nome sarà Ammirabile" (Is 9,6) -. Ed è veramente un agnello di meravigliosa potenza questo che, ucciso, uccise il leone; il leone, dico, del quale parla Pietro - "Il vostro avversario, il diavolo, come un leone ruggente, cerca chi può divorare" (1P 5,8). Perciò lo stesso agnello venne chiamato leone vincitore e glorioso - "Ecco ha vinto il leone della tribù di Giuda" (Ap 5,5) -. "Ecco l’agnello di Dio" è una testimonianza molto breve; ma è breve perché i discepoli, ai quali Giovanni parla, da ciò ch’egli aveva già detto di Cristo, erano bene informati su di lui; e anche perché ciò che soprattutto interessava a Giovanni era di indirizzare i suoi discepoli a Cristo. E non dice «Andate da lui», perché i discepoli non credano di fargli un favore, se lo seguono; ma ne esalta il prestigio, perché capiscano che fanno bene a sé stessi, se lo seguono. Perciò dice: "Ecco l’agnello di Dio", cioè, ecco dov’è la grazia e la forza epuratrice del peccato; l’agnello, infatti, veniva offerto in espiazione dei peccati.

       "Gesù poi voltatosi": queste parole stanno a dire che Gesù compie ciò ch’era stato iniziato da Giovanni, perché "la legge non portò nessuno alla perfezione" (He 7,19). Quindi Cristo esamina e istruisce i discepoli, poiché "dice loro: Venite e vedete". Cristo li esamina ed essi rispondono - "Ed essi dissero: Maestro, dove abiti?" E l’evangelista dice: "Gesù voltatosi e visto che lo seguivano, disse loro". Il senso letterale dice che Cristo andava avanti e i due discepoli, che lo seguivano, non ne vedevano la faccia, perciò Cristo, per incoraggiarli, si voltò verso di loro. E questo ci fa capire che Cristo dà speranza di misericordia a tutti coloro che si mettono a seguirlo con cuore puro. "Previene quelli che lo cercano" (Sg 6,14). Gesù si volta verso di noi, perché lo possiamo vedere. Questo avverrà in quella beata visione quando ci mostrerà il suo volto, come si dice nel salmo (Ps 79,4). "Mostraci il tuo volto e saremo salvi". Finché siamo in questo mondo però lo vediamo di spalla, perché arriviamo a lui per via di effetti, per cui nell’Esodo (Ex 33,23) è detto: "Vedrai le mie spalle". Si volge anche Gesù per offrirci l’aiuto della sua misericordia. Questo chiedeva il Ps 89,13: "Signore, volgiti un pochino". Finché, infatti, Cristo non offre l’aiuto della sua misericordia, ci sembra ostile. Si voltò, dunque, Gesù ai discepoli di Giovanni, che s’eran messi a seguirlo, per mostrar loro il suo volto e infondere la sua grazia in essi. Li esamina poi quanto all’intenzione. Quelli che seguono Cristo non hanno tutti la stessa intenzione: alcuni lo seguono con la prospettiva di beni temporali, altri con la prospettiva di beni spirituali, perciò il Signore gli chiede: "Che cosa cercate?", non certo per venire a sapere, ma perché, dando loro occasione di manifestare la loro intenzione, li vuole stringere più vicino a sé, giudicandoli degni del suo interessamento.

venerdì 5 gennaio 2018

Epifania – 6 gennaio 2018 Nostalgia di casa e fedeltà al segno

Rito Romano
Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12

Rito Ambrosiano
Is 60, 1-6; Sal 71; Tt 2, 11-3, 2; Mt 2, 1-12

Dio, i Re Magi e noi

1) Tre domande e un racconto per capire l’Epifania:
Le festa natalizie hanno nella festa dell’Epifania1 il loro compimento, che dà al mistero dell’Incarnazione la nuova prospettiva di universalità della salvezza, il suo più consolante significato di speranza infinita. In effetti, alla domanda: “A chi Dio vuol far conoscere suo Figlio incarnato?” La risposta che oggi ci viene proposta è: “A tutti”. Ma allora “perché non tutti lo riconoscono?” “Perché non basta sapere cosa dice la Scrittura sul Messia per credere in Gesù”. Così accadde ai sacerdoti interrogati da Erode circa la nascita del Messia, diedero la risposta giusta ma non andarono alla grotta di Betlemme. E neppure lo può incontrare chi lo sente come potenziale nemico, come Erode che voleva sapere dove Gesù fosse nato per eliminarlo.
Come i pastori e la gente semplice a Natale, solo i Magi – e oggi quelli che hanno il loro medesimo atteggiamento - trovano Gesù che si manifesta loro (“Epifania” vuol dire “manifestazione”) come l’obiettivo del loro viaggio. Mettiamoci in cammino anche noi e non ci accada che noi, vicini, non lo incontriamo e non lo accogliamo, mentre verranno da lontano a chiederci dove è nato il Re.
Cosa accomunava i Pastori e i Magi? Il desiderio di salvezza, riconosciuta in un Bambino, a cui donarono i primi: latte e lana, i secondi: oro, incenso e mirra. Ma tutti donarono se stessi, mettendosi in ginocchio e adorando.
Noi oggi siamo chiamati a avere lo stesso atteggiamento di cercatori di infinito e di adoratori della Verità che si manifesta in quell’amore di bambino. Dio non si manifesta “come” un bambino, Lui è questo Bambino, che manifesta il cuore del Padre, che ce lo dona perché diventi cibo per il nostro cammino, medicina per la nostra debolezza, amico della nostra conversazione.
Questo Bambino crescerà, sarà giovane, adulto, sarà Maestro e operatore di miracoli, sarà deriso, rifiutato, abbandonato, sepolto, risorgerà dai morti, di nuovo ed eternamente vivente: in tutto questo Lui è “epifania” in cui Dio manifesta se stesso. E questo Dio noi, come i Re Magi, adoriamo.
Ma anche ogni essere umano è, in un certo senso, epifania di Dio. Dio ha deciso di rivelarsi, “nascondendosi” in ogni uomo, come ce lo ricorda questo episodio di scrittore anonimo, che ci invita a cercare e trovare frammenti del volto di Dio nel volto dei fratelli in umanità:
“C’era una volta un monaco di nome Epifanio. Un giorno scoperse in sé un dono del Signore che non aveva mai sospettato di possedere: sapeva dipingere bellissime icone. E allora non si dette più pace: voleva, a tutti i costi, ritrarre il volto di Cristo. Ma dove trovare un modello adatto che esprimesse insieme sofferenza e gioia, morte e resurrezione, divinità e umanità? Epifanio allora si mise in viaggio. Percorse l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna, scrutando ogni volto. Nulla: il volto adatto per rappresentare il Cristo non c’era. Stanco si addormentò ripetendo le parole del salmo: ‘Il tuo volto Signore io cerco. Mostrami il tuo volto!’. Fece un sogno. Gli apparve un angelo che lo riportò dalle persone incontrate e per ognuno gli indicò un particolare che rendeva quel volto simile a Cristo: la gioia di un Innamorato, l’innocenza di un bambino, la forza di un contadino, la sofferenza di un malato, la paura di un condannato, la tenerezza di una madre, lo sgomento di un orfano, la speranza di un giovane, l'allegria di un giullare, la misericordia di un confessore, il mistero del volto bendato di un lebbroso ... E allora Epifanio capì e tornò al suo convento. Si mise al lavoro e dopo un po’ di tempo l’icona era pronta e la presentò al suo abate. Questi rimase attonito: era meravigliosa. Volle sapere di quale modello si era servito perché desiderava mostrarlo anche agli altri artisti dei monastero. Ma il monaco rispose: Nessuno, padre, mi è stato di modello, perché nessuno è uguale a Cristo, ma Cristo è simile a tutti. Non trovi il Cristo nel volto di un solo uomo, ma trovi in ogni uomo un frammento del volto di Cristo”.

2) Un cammino coerente all’ideale.
I Re Magi sono un modello per noi non solamente perché furono cercatori di Infinito, ma perché l’hanno trovato sapendolo riconoscere in un bambino o, meglio, nel Bambino. Sono stati grandi nella loro fedeltà al fragile segno di una stella senza farsi condizionare dalla nostalgia dei palazzi lasciati (cfr T.S. Eliot). Seppero continuare la ricerca dell’Eccezionale, dello straordinario sulle strade del quotidiano.
Questi tre camminatori che non si sono accontentati delle ricchezze e della loro sapienza. Non vogliono solamente sapere tante cose, ma vogliono sapere l’essenziale. Han sentito il cuore vibrare e si sono scomodati, agganciando una stella al bramire dei loro animali allevati nelle stalle d'Oriente: "Dov'è il Re dei Giudei che è nato?" . A caccia del fondamentale nelle strade battute del quasi banale. Scelsero il rischio dell'ignoto alla sicurezza dei calcoli, con quell'ansia di andare a cercare un Bambino: «la ricerca della Verità era per i Magi più importante della derisione del mondo apparentemente intelligente» (Benedetto XVI). Nell'umiltà dei loro passi curiosi risuona l'eco di mille voci, anche di voci che «cantavano agli orecchi, dicendo che tutto questo è follia». Il rischio della follia o la sicurezza dell'ignoranza: i Magi preferirono la fragile rotta del Cielo all'abituale mappa tracciata dagli uomini. Hanno usato la loro intelligenza e sapienza in un modo che poteva sembrare umanamente assurdo e poco scientifico e sono partiti alla volta di Betlemme, barattando la sicurezza delle loro abitudini con il rischio di un viaggio, che divenne pellegrinaggio.
Infatti il pellegrino ha come meta non un luogo turistico ma un luogo sacro: il Tempio dove c’è Dio. L’ha compreso molto bene Paul Claudel “le cose non sono più il mobilio della nostra prigione, ma quelle del nostro tempio”, dove il bambino Gesù rende sacra persino la paglia. La grotta, la paglia fatta giaciglio, gli indumenti essenziali di un viaggio nella Giudea, si unificano e trasfigurano attorno al nucleo essenziale del mistero dell’Incarnazione in una nascita.
L’Epifania non è soltanto la manifestazione di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato e Redentore di tutta l’umanità, ma è anche la solennità dell’adorazione e della donazione.
Il testo del Vangelo di oggi ci ricorda la venuta dei Magi alla Grotta di Betlemme e le tre azioni molto importanti da questi Re davanti al Re dei Giudei: prostrazione, adorazione e donazione.
Prostrazione è l’atteggiamento di umile riverenza verso un’autorità morale e spirituale. Gesù è riconosciuto dai sapienti del suo tempo l’autorità morale e religiosa, con la quale confrontarsi.
Adorazione. E’ l’altra azione che compiono i Magi davanti a Gesù. Si adora la divinità quella che tale è nella sua natura ed essenza. Gli antichi adoravano gli idoli, Israele si formò un vitello d'oro e lo adorava, mentre Mosè stava a contatto con Dio sul Monte Sinai. Da sempre l’uomo si è costruito falsi idoli e li ha coltivati come possibile soluzione dei propri problemi esistenziali. Ancora oggi affascinano gli idoli del successo, del benessere, della carriera, dei potere economico, militare, politico e religioso e tanti altri del genere che mettono l'uomo nella condizione di offendere e distruggere altri uomini per arrivare a tali scopi. I Magi invece adorano il Dio vivente che in quel Bambino, povero, umile, che giace in una mangiatoia merita tutta la loro attenzione e la loro preghiera.
Donazione. Quando c’è la bontà nel cuore e c’è l’apertura all’altro scatta quasi istintivamente il donare qualcosa di se stessi a chi si ha di fronte. Qui i Magi si trovano di fronte al Re dei Giudei e quale gesto di riconoscimento dell’identità e della natura vera di Gesù Bambino, gli offrono tre doni, oro, incenso e mirra, proprio per far risaltare la sua regalità, la sua missione e la sua morte e risurrezione. Anche in questi doni c’è tutto uno specifico significato che è possibile attribuire a Gesù Bambino, quale Figlio di Dio e Redentore dell'umanità. In più, come ho detto poco più sopra, donano se stessi.
Ecco la festa dell’Epifania che apre indirettamente su un'altra e più importante festa liturgica della chiesa cattolica: la Pasqua di Gesù, che ha donato se stesso, completamente. Saremo saggi come i Magi se prendendo Cristo come via, imbocchiamo la strada della fede, la strada della conversione, la strada dell’amore.
Un esempio speciale di questo cammino d’amore è donato dalle Vergini Consacrate nel mondo. Tutta la loro vita appartiene al Signore. Mediante la consacrazione si sono messe a disposizione di Dio senza riserva, in modo che tutta la loro vita esprima prostrazione, adorazione e donazione piena e pura a Dio. La vita di una persona consacrata nel mondo testimonia che si può vivere di cristo in ogni istante e vivere della speranza che viene dalla grotta di Betlemme. A questo proposito è ancora illuminante ciò viene affermato nell’esortazione post-sinodale, sempre al numero 27: “Chi attende vigile il compimento delle promesse di Cristo è in grado di infondere speranza anche ai suoi fratelli e sorelle, spesso sfiduciati e pessimisti riguardo al futuro. La sua è una speranza fondata sulla promessa di Dio contenuta nella Parola rivelata: la storia degli uomini cammina verso il nuovo cielo e la nuova terra” (Esortazione apostolica post-sinodale “Vita Consecrata”, 1996 , n. 27).

1  Epifania è parola greca che vuol dire “manifestazione”.


Lettura Patristica

San Leone Magno, papa

Discorso 3 sull’Epifania, 1-3. 5; PL 54, 240-244

Il Signore ha manifestato in tutto il mondo la sua salvezza
La Provvidenza misericordiosa, avendo deciso di soccorrere negli ultimi tempi il mondo che andava in rovina, stabilì che la salvezza di tutti i popoli si compisse nel Cristo.
Un tempo era stata promessa ad Abramo una innumerevole discendenza che sarebbe stata generata non secondo la carne, ma nella fecondità della fede: essa era stata paragonata alla moltitudine delle stelle perché il padre di tutte le genti si attendesse non una stirpe terrena, ma celeste.
Entri, entri dunque nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti, e i figli della promessa ricevano la benedizione come stirpe di Abramo, mentre a questa rinunziano i figli del suo sangue. Tutti i popoli, rappresentati dai tre magi, adorino il Creatore dell'universo, e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra, perché ovunque «in Israele sia grande il suo nome» (cfr. Sal 75, 2).
Figli carissimi, ammaestrati da questi misteri della grazia divina, celebriamo nella gioia dello spirito il giorno della nostra nascita e l'inizio della chiamata alla fede di tutte le genti. Ringraziamo Dio misericordioso che, come afferma l'Apostolo, «ci ha messo in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. E' lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1, 12-13). L'aveva annunziato Isaia: «Il popolo dei Gentili, che sedeva nelle tenebre, vide una grande luce e su quanti abitavano nella terra tenebrosa una luce rifulse» (cfr. Is 9, 1). Di essi ancora Isaia dice al Signore: «Popoli che non ti conoscono ti invocheranno, e popoli che ti ignorano accorreranno a te» (cfr. Is 55, 5).
«Abramo vide questo giorno e gioì» (cfr. Gv 8, 56). Gioì quando conobbe che i figli della sua fede sarebbero stati benedetti nella sua discendenza, cioè nel Cristo, e quando intravide che per la sua fede sarebbe diventato padre di tutti i popoli. Diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto il Signore aveva promesso lo avrebbe attuato (Rm 4, 20-21). Questo giorno cantava nei salmi David dicendo: «Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome» (Sal 85, 9); e ancora: «Il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia» (Sal 97, 2). 
Tutto questo, lo sappiamo, si è realizzato quando i tre magi, chiamati dai loro lontani paesi, furono condotti da una stella a conoscere e adorare il Re del cielo e della terra. Questa stella ci esorta particolarmente a imitare il servizio che essa prestò, nel senso che dobbiamo seguire, con tutte le nostre forze, la grazia che invita tutti al Cristo. In questo impegno, miei cari, dovete tutti aiutarvi l'un l'altro. Risplendete così come figli della luce nel regno di Dio, dove conducono la retta fede e le buone opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo che con Dio Padre e con lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.