lunedì 31 ottobre 2016

Spunti di meditazione per il 1° ed il 2 novembre 2016.

Oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra e di tutti i defunti. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra!
In Paradiso innumerevoli santi e tutti i defunti intercedono per noi presso il Signore, ci accompagnano nel nostro cammino verso il Regno, ci spingono a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi.
La liturgia di questi due giorni ci invita a condividere il gioia celeste dei santi, a gustarne la gioia. I santi non sono una piccola casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i defunti battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.
Disponiamoci a celebrare questi due giorni confessandoci bisognosi della misericordia di Dio, andando a Messa e meditando questi brani del Catechismo della Chiesa Cattolica:

957 La comunione con i santi. « Non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo d'esempio, ma più ancora perché l'unione di tutta la Chiesa nello Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità. Poiché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i santi ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio »: 517
« Noi adoriamo Cristo quale Figlio di Dio, mentre ai martiri siamo giustamente devoti in quanto discepoli e imitatori del Signore e per la loro suprema fedeltà verso il loro Re e Maestro; e sia dato anche a noi di farci loro compagni e condiscepoli ». 518

958 La comunione con i defunti. « La Chiesa di quelli che sono in cammino, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con una grande pietà la memoria dei defunti e, poiché "santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati" (2 Mac 12,46), ha offerto per loro anche i suoi suffragi ». 519 La nostra preghiera per loro può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore.
959 Nell'unica famiglia di Dio. « Tutti noi che siamo figli di Dio e costituiamo in Cristo una sola famiglia, mentre comunichiamo tra di noi nella mutua carità e nell'unica lode della Trinità Santissima, corrispondiamo all'intima vocazione della Chiesa ». 520

In sintesi
960 La Chiesa è « comunione dei santi »: questa espressione designa primariamente le « cose sante » (sancta), e innanzi tutto l'Eucaristia con la quale « viene rappresentata e prodotta l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo ». 521
961 Questo termine designa anche la comunione delle « persone sante » (sancti) nel Cristo che è « morto per tutti », in modo che quanto ognuno fa o soffre in e per Cristo porta frutto per tutti.
962 « Noi crediamo alla comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati del cielo; tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l'amore misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere ». 522

(518) Martyrium sancti Polycarpi, 17, 3: SC 10bis, 232 (Funk 1, 336).
(519) Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 50: AAS 57 (1965) 55.
(520) Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 51: AAS 57 (1965) 58.
(521) Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 3: AAS 57 (1965) 6.

(522) Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 30: AAS 60 (1968) 445.

venerdì 28 ottobre 2016

La grazia di un incontro.

XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 30 ottobre 2016
Rito Romano
Sap 11,22-12,2; Sal 144; 2Ts 1,11-2,2; Lc 19,1-10


Rito Ambrosiano
Is 25,6-10a; Sal 35; Rm 4,18-25; Mt 22,1-14
II Domenica dopo la Dedicazione del Duomo.
La partecipazione delle genti alla salvezza




1) Una questione di sguardi.
Nel cammino di Gesù verso Gerusalemme, che come ho detto altre volte non segue la logica della geografia ma quella della redenzione misericordiosa, oggi accompagniamo Gesù a Gerico. Mentre attraversiamo con il Messia questa cittadina, ecco che avviene l’incontro non solo con il popolo ma anche con Zaccheo, l’esattore-capo della dogana di Gerico, zona di confine della provincia romana. A prima vista, questo sembra un “caso difficile” non solo perché quest’uomo a causa del suo lavoro era considerato un pubblico peccatore da evitare perché legalmente impuro, ma anche perché era pure imbroglione, collaboratore del nemico, l’occupante romano in nome del quale raccoglie le tasse. Inoltre si tratta di un uomo ricco e poco tempo prima Gesù aveva detto a un giovane ricco: “E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Lc 18,25). Fortunatamente la misericordia del Redentore non si ferma davanti ai casi difficili. Oggi, l’esempio ci viene dato dall’incontro del Salvatore con Zaccheo, la cui conversione dimostra che nessuna condizione umana è incompatibile con la salvezza: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”, vi ha preso dimora per riposarsi.
Solo Gesù, vero uomo e vero Dio, poteva fare ciò: entrare nella casa di un peccatore scomunicato per riposare e salvarlo. Nel testo greco c’ è la parola cataluo che è lo stesso luogo di cataluma che è usato altre due volte nel Vangelo di Luca: nella nascita, dove la grotta è indicata con la stessa parola di questo brano del Vangelo, e poi per l’ultima Cena. Anche in questo terzo momento, questa stessa parola indica come luogo di riposo il Cenacolo, dove Cristo celebrerà l'eucaristia. Il brano di oggi spiega molto bene il senso (scopo e significato) della vita del Salvatore, dalla sua nascita alla sua morte, all'eucaristia dove lui si da in pasto, nella mangiatoia delle bestie a tutti i peccatori, diventa la nostra vita se noi, peccatori pentiti, lo accogliamo.
Dunque, seguiamo l’esempio di questo convertito. Zaccheo sa di essere peccatore e di avere bisogno del perdono di Dio. Con questo uomo, piccolo di statura, arrampichiamoci sull’albero per vedere Gesù. Allora il Redentore alzerà lo sguardo verso ciascuno di noi e anche a noi dirà: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia (Lc 19, 5-6).
Tutto inizia con uno scambio di sguardi. Zaccheo (ciascuno di noi) desidera vedere Gesù e questo desiderio corrisponde al bisogno di Gesù di fermarsi e dimorare in casa del peccatore che cambia vita, cominciando con il dare metà dei suoi beni ai poveri.


2) Ricerca di Misericordia.
Va però tenuto presente che come nel caso di Zaccheo, l’iniziativa è di Cristo ed è gratuita. Certo essa si inserisce nella disponibilità dell'uomo. L’incontro con Dio è sempre al tempo stesso un dono e compimento di una ricerca, è l’esaudimento di un desiderio. Non solo Zaccheo cercava Gesù, ma anche Gesù cercava Zaccheo. E l’iniziativa di Dio precede quella dell’uomo, che apre la propria casa a Dio. Un pittore inglese dipinse un Gesù che bussa dietro una porta chiusa, mentre infuria la tempesta e Lui è in mezzo a erbacce e rovi. Poiché la maniglia è solo dalla parte di dentro, non può entrare finché qualcuno non apre. Bellissima immagine di Dio e noi! Siamo solo noi che possiamo aprire la porta a Cristo, gli unici che possiamo invertire le rotte verso la sorgente della vita, in grado di lasciarsi accogliere da Colui che ha «compassione di tutti in vista del pentimento» (Sap.11,23).
Il primo passo di questo cammino di conversione - stando al brano evangelico di oggi - è il “desiderio di vedere”: qui Zaccheo desidera vedere “chi era Gesù”. Tuttavia, non credo che Zaccheo fosse uscito di casa perché voleva convertirsi. Certo nel suo cuore e nella sua mente c’era qualcosa: un desiderio di verità e di bene che lo sollecitava. Ma probabilmente era curiosità, un desiderio di conoscere una persona di cui parlava molta gente. In ogni caso, questa ricerca curiosa è legata al voler vedere, è questo incontrarsi gli occhi dell’uno con gli occhi dell’altro, e accettare il suo invito, anzi il suo auto-invito di fermarsi in casa nostra per dimorare con noi. Chi avrebbe immaginato che Dio “deve” dimorare con ciascuno di noi. Per Dio questo è il “dovere” dell’amore, che sale sull’albero (la croce della vita) per salirvi al nostro posto e salvarci.
Il secondo passo per cambiare vita è la “chiamata” di Gesù, che da sempre desidera salvare il peccatore. Gesù si invita o meglio si autoinvita, ma questo autoinvito era già iniziato a Betlemme in una grotta.
Il terzo passo è che Zaccheo (ciascuno di noi) “risponde” pieno di gioia alla chiamata. La vita umana è dunque una risposta gioiosa all’Amore che guarisce e salva. Dobbiamo lasciarci sorprendere dalla gioia perché chi poteva immaginare che la risposta consiste nell’ospitare Dio, che chiede di riposare in casa nostra, nel nostro fragile amore. Con l’amore sanato e fortificato dall’Amore ognuno di noi accoglie Dio nella casa del suo cuore, dove Cristo trova riposo perché è accolto, amato. Altrove il Figlio di Dio sta in Croce.
Infine, il quarto e quinto passo della conversione sono l’espiazione del peccato commesso: “Se ho rubato, restituisco quattro volte tanto” e la condivisione (“Ecco la metà dei miei beni per i poveri”).
La decisione per questi passi è la risposta alla salvezza che si è fatta incontro a Lazzaro in Cristo. Lui è il Figlio di Dio che è venuto per cercare e salvare ciò che è perduto. Ricordiamo anche la parabola del pastore che dice “venite con me, gioite con me perché ho trovato la mia pecora smarrita”. Gesù è il Figlio dell'uomo che è venuto a cercare l'uomo, è Dio stesso che si è fatto uomo per incontrare l’uomo, ogni perduto e così lui veramente è Dio, è amore e l’uomo torna ad essere uomo, ad essere amato e poter amare e essere a immagine e somiglianza del creatore. E’ la scena commovente che rimanda al brano precedente del Vangelo di oggi che parla del il cieco che viene alla luce, questo è il primo uomo, piccolo, che viene alla luce, la luce stessa di Dio.
Zaccheo, “cercato” e “salvato” dalla misericordia senza condizioni, vede il suo cuore ormai trasformato gratuitamente in una sorgente d’amore, nonostante le “mormorazioni” e lo “scandalo” che sempre provoca una conversione impensata. Liberato dal suo peccato, Zaccheo (che vuol dire: “Dio ricorda”) si dona senza misura ai fratelli, cominciando con il donare ai poveri la metà dei suoi beni.
Per accogliere “oggi” Cristo che si invita a casa nostra occorre salire in alto con la Croce e guardare alla vita come dall’alto di quel legno Cristo guardava il mondo. Occorre salire sul sicomoro che è la Croce e non vergognarci di essa come Zaccheo non si vergognò di salire su quella pianta per vedere Gesù.
Questo Capo dei pubblicani era mosso dal desiderio di vedere Dio e Lo incontrò in Cristo, entrando in comunione con Lui. Perché ciò accada o riaccada anche a ciascuno di noi, dobbiamo pregare la Vergine Maria, modello perfetto di comunione con Gesù, perché pure noi possiamo sperimentare la gioia di essere visitati dal Figlio di Dio, di essere rinnovati dal suo amore, e trasmettere agli altri la sua misericordia.
In questa preghiera e in questa azione di accogliere senza riserve Cristo le Vergini Consacrate testimoniano con la professione della verginità che diventano dimora consacrata dove il Figlio di Dio può riposare e diffondere la sua misericordia. Inoltre testimoniano che nella piena dedizione a Cristo, fonte di ogni bene, è possibile avere felicità piena e duratura.
Sull’esempio delle Vergini Consacrate nel mondo dobbiamo accogliere Cristo nella “casa” del nostro cuore. E’ “necessario e conveniente”, come recita il greco originale, che Cristo si “fermasse” nella casa di Zaccheo, come “oggi” nella nostra vita; era “conveniente” per chi ci è accanto, ai quali poter finalmente restituire “quattro volte tanto” quanto abbiamo sottratto ingiustamente. Ma è altrettanto conveniente per il mondo annunciare l’amore di cui il peccatore ha diritto e che la misericordia di Dio moltiplica. L’amore autentico è una necessità e l’amore verginale, casto è l’amore autentico.



Lettura Patristica
S. Agostino. Zaccheo
Discorso 174

L'episodio di Zaccheo in senso allegorico. Il sicomoro, la croce di Cristo. La croce sulla fronte.

3. 3. Ma tu dirai: Se io sarò Zaccheo, a causa della folla non potrò vedere Gesù. Non rattristarti, sali sull'albero dove, per te pendette Gesù e vedrai Gesù. E su quale specie di albero salì Zaccheo? Su di un sicomoro. Nelle nostre regioni o non esiste affatto o forse raramente cresce in qualche luogo, ma in quelle località abbonda questa specie e il frutto. Sono chiamati sicomori dei pomi simili ai fichi, ma tuttavia diversi; lo possono sapere coloro che li videro e li gustarono. Tuttavia, per quanto indicano con l'etimologia del nome, in latino i sicomori sono detti " falsi fichi ". Ora guarda il mio Zaccheo, osservalo, ti prego, mentre vuole vedere Gesù in mezzo alla folla e non ne è capace. Egli era umile infatti, la folla era superba; e proprio la folla, come capita abitualmente in una ressa, impediva a se stessa di vedere bene il Signore; si sollevò al di sopra della folla e vide Gesù, non essendo di ostacolo la folla. La folla infatti si rivolge agli umili, a coloro che percorrono la via dell'umiltà, a coloro che affidano a Dio le ingiurie ricevute e che non cercano la vendetta sui nemici, la folla insulta e dice: Uomo senza difesa, che non ti puoi vendicare. La folla fa in modo che non si veda Gesù; la folla, che si gloria, che si vanta quando è riuscita a vendicarsi, ostacola perché non si veda colui che, crocifisso, dice: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno 10. Perciò, volendolo vedere, Zaccheo, nel quale si figurava la persona degli umili, non badò alla folla che ostacolava, ma salì su un sicomoro come l'albero del falso frutto. Dice infatti l'Apostolo: Noi predichiamo Cristo crocifisso, certamente scandalo per i Giudei - considera il sicomoro - stoltezza invece per i Pagani . Infine, a motivo della croce di Cristo, i sapienti di questo mondo c'insultano e dicono: Che saggezza avete voi che adorate un Dio crocifisso? Quale sapienza abbiamo? Non di certo la vostra. La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Non abbiamo davvero la vostra saggezza. Ma voi dite stolta la nostra saggezza. Dite pure quello che volete; noi possiamo salire sul sicomoro e vedere Gesù. Voi non potete vedere Gesù appunto perché vi vergognate di salire sul sicomoro. Si aggrappi Zaccheo al sicomoro, salga umile la croce. E' poca cosa il suo salire: per non arrossire della croce di Cristo, la fissi sulla fronte dove ha posto l'onore, proprio là, là, sulla parte del volto dove appare il rossore, là si fissi per non provarne vergogna. Penso che tu te ne ridi del sicomoro, però esso mi ha permesso di vedere il Signore. Ma tu te ne ridi del sicomoro, perché sei uomo; ma la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini .

Necessità della grazia preveniente.

4. 4. E il Signore vide proprio Zaccheo. Fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto. Quelli infatti che ha predestinati, li ha anche chiamati. Egli è colui che parlò a Natanaele, il quale - per così dire, con la sua testimonianza, già stava collaborando al Vangelo - disse: Da Nazareth può venire qualcosa di buono? Il Signore a lui: Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto l'albero di fico. Voi sapete come i primi peccatori, Adamo ed Eva, si adattassero delle cinture. Quando peccarono si adattarono delle cinture di foglie di fico e coprirono le parti vergognose; infatti a causa del peccato suscitarono il senso della vergogna. Pertanto, se si fecero cinture i primi peccatori - dai quali discendiamo, nei quali eravamo periti - venendo egli a cercare e a salvare ciò che era perduto, con foglie di fico si fecero di che coprire le parti vergognose, che altro si volle dire con: Ti ho visto quando eri sotto l'albero di fico, all'infuori di: Non saresti venuto a colui che purifica dai peccati se egli per primo non ti avesse veduto nel velamento del peccato? Siamo stati veduti perché potessimo vedere; siamo stati amati affinché potessimo amare. Il mio Dio, la sua misericordia mi precederà.

Accogliere Gesù nel cuore.

4. 5. Ora dunque il Signore, che aveva accolto Zaccheo nel cuore, si è degnato di essere ospitato nella casa di lui. Disse: Zaccheo, scendi subito, perché devo fermarmi in casa tua. (Quello riteneva un grande beneficio vedere Gesù). Egli, che considerava un grande e indicibile beneficio vederlo passare, meritò immediatamente di averlo in casa. Viene infusa la grazia, la fede opera per mezzo dell'amore; Cristo, che già abitava nel cuore, viene ricevuto in casa. Dice a Cristo Zaccheo: Signore, dò la metà dei miei beni ai poveri e, se in qualche cosa ho frodato alcuno, restituisco il quadruplo. Quasi a dire: Per questo mi trattengo una metà, non in possesso, ma per avere di che rendere. Ecco in realtà che vuol dire ricevere Cristo, accoglierlo in cuore. Era là infatti Cristo, era in Zaccheo e attraverso di lui Zaccheo diceva a se stesso ciò che ascoltava dalla bocca di lui. Dice infatti così l'Apostolo: Che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori.

Quanti si credono sani infuriano contro il medico. Il sangue del medico è il rimedio per l'uccisore.


5. 6. Perciò, perché si trattava di Zaccheo, che era il capo dei Pubblicani, che era assai peccatore, quella folla, apparentemente sana, che impediva di vedere Gesù, rimase stupita e contestò il fatto che Gesù era entrato nella casa di un peccatore. Era questo un riprovare l'ingresso del Medico nella casa di un malato. Perché appunto da peccatore Zaccheo fu deriso, fu deriso in realtà, lui sano, da gente insana, Gesù rispose ai derisori: Oggi la salvezza è entrata in questa casa. Ecco il motivo del mio ingresso: Oggi è entrata la salvezza. Se il Salvatore non fosse entrato, in quella casa non sarebbe assolutamente entrata la salvezza. Perché, infermo, ti meravigli allora? Chiama anche tu Gesù, non crederti sano. Chi riceve il medico è un malato che ha speranza; è un infermo senza rimedio chi, per insensatezza, fa morire il medico. Che follia è mai quella di chi uccide il medico? Non è grande veramente la bontà e la potenza del medico che del suo sangue ha fatto la medicina per il suo insensato uccisore? Colui che era venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto non diceva infatti: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno, mentre pendeva innocente sulla croce? Sono dei folli, io sono medico, infieriscano, tollero con pazienza; nell'uccidermi darò allora la sanità. Facciamo parte dunque di coloro che egli risana. E' parola umana e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori ; grandi e piccoli, a salvare i peccatori. Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.

venerdì 21 ottobre 2016

Preghiera umile

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 23 ottobre 2016
Rito Romano
Sir 35,15-17.20-22; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14


Rito Ambrosiano
At 13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20 
I Domenica dopo la Dedicazione
Il mandato missionario


1) Pregare sempre e umilmente.
Nel Vangelo di domenica scorsa Gesù si raccontava la parabola del giudice disonesto e della vedova tenace, insistente nel domandare giustizia, per invitare a pregare sempre e con fede. Perché tutta la vita deve diventare in qualche modo preghiera, come a questo proposito scrive Origene: “Prega senza posa colui che unisce la preghiera alle opere e le opere alla preghiera” (Sulla preghiera, 12, 2: PG XI, 452)
Oggi, con la parabola del fariseo e del pubblicano, il Redentore ci insegna che solamente una preghiera fatta con un cuore umile è ascoltata da Dio. Senza l’umiltà la preghiera diventa presunzione, che è un atteggiamento di peccato. La preghiera è un’espressione dell’amore, che è possibile solo nell’umiltà. Non c’è amore orgoglioso, l’amore è sempre umile. E l’umiltà è la qualità più sublime di Dio che è servo di tutti, perché ama tutti. Per questo chi si umilia è innalzato, perché elevato alla grandezza di Dio, che è amore, umiltà e servizio.
Se vogliamo vivere cristianamente dobbiamo imitare Cristo, seguendolo sulla via del Vangelo dell’umiltà. Questa virtù è un aspetto primario nella vita del cristiano e non è un valore negativo: “Gli umili sono semplici, pazienti, amati, integri, retti, esperti nel bene, prudenti, sereni, sapienti, quieti, pacifici, misericordiosi, pronti a convertirsi, benevoli, profondi, ponderati, belli e desiderabili” (Afraate il Saggio – IV secolo, Esposizione 9,14). Restando umile, anche nella realtà terrena in cui vive, il cristiano può entrare in relazione col Signore: “L’umile è umile, ma il suo cuore si innalza ad altezze eccelse. Gli occhi del suo volto osservano la terra e gli occhi della mente l’altezza eccelsa” (Ibid. 9,2).
La preghiera umile eleva la persona in Dio e le permette di accogliere nel proprio cuore Cristo e il prossimo. La fede orante e umile fa dell’uomo un tempio, dove Cristo abita, e rende possibile una carità sincera.
In effetti, la preghiera si realizza quando Cristo abita nel cuore del cristiano, e lo invita a un impegno coerente di carità verso il prossimo: “La preghiera è buona, e le sue opere sono belle. La preghiera è accetta, quando dà sollievo al prossimo. La preghiera è ascoltata, quando in essa si trova anche il perdono delle offese. La preghiera è forte, quando è piena della forza di Dio” (Ibid. 4,14-16). Ed è piena di questa forza quando umilmente la chiede a Dio.
La preghiera è fatta di fede e di umiltà. La preghiera senza la fede si ferma e senza l’umiltà diventa presunzione. Dunque, con Santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo preghiamo: “Gesù, tu hai detto: Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo alle anime vostre». Sì, Signore mio e Dio mio, l’anima mia riposa nel vederti rivestito della forma e della natura di schiavo, abbassarti fino a lavare i piedi dei tuoi apostoli. Ricordo ancora le tue parole: ‘Vi ho dato l'esempio, perché anche voi facciate come ho fatto io. Il discepolo non è più del Maestro... Se voi comprendete ciò, sarete beati mettendolo in pratica’. Le comprendo, Signore, queste parole uscite dal tuo cuore mansueto e umile. Le voglio mettere in pratica con l'aiuto della tua grazia” 1 (Si veda nella nota 1 il testo completo di questa Preghiera per ottenere l’umiltà)
2) Preghiera come cammino.
In questa riflessione sul come pregare, non dobbiamo fermarci solo all’umiltà nella preghiera e ma domandarci: “Com’è il nostro cuore quando prega: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No. Soltanto, dobbiamo pregare ponendoci davanti a Dio così come siamo. Non come il fariseo che pregava con arroganza e ipocrisia. Siamo tutti presi dalla frenesia del ritmo quotidiano, spesso in balìa di sensazioni, frastornati, confusi. È necessario imparare a ritrovare il cammino verso il nostro cuore, recuperare il valore dell’intimità e del silenzio, perché è lì che Dio ci incontra e ci parla. Soltanto a partire da lì possiamo a nostra volta incontrare gli altri e parlare con loro. Il fariseo si è incamminato verso il tempio, è sicuro di sé, ma non si accorge di aver smarrito la strada del suo cuore” (Papa Francesco, Udienza generale, 1° giugno 2016).
In effetti, se è importante che la preghiera sia costante, sincera e umile, è pure importante che essa sia un esodo verso Dio e il prossimo, un pellegrinaggio che interiormente sia un cammino verso il vero Re del mondo e verso la sua promessa di giustizia, di verità e di amore.
Un cammino di unione (“La preghiera non è nient’altro che unione con Dio” - San Giovanni Maria Vianney) di comunione. A questo riguardo credo sia importante precisare che la natura della preghiera non è riducibile all’atteggiamento umile dell’uomo, che chiede a Dio qualcosa e questo qualcosa risponde, in generale, al soddisfacimento dei propri bisogni. Questo di per sé non è sbagliato: Gesù stesso nel Vangelo ci ha chiesto di bussare, di chiedere, di domandare anche il pane quotidiano. Ma la natura della preghiera è, prima di tutto, un bisogno dell’anima di unirsi al suo Creatore, al suo Padre, al suo Tutto, e presuppone il nostro incontro con Dio, a prescindere da quello che possiamo chiedere o ricevere.
Inoltre, anche se questa sembra un’affermazione strana, va ricordato che nella preghiera l’iniziativa è di Dio. È Lui che ci chiama, che ci vuole, che ci attira. Egli ha bisogno di noi perché ci ha creati e vuole donarci il suo Amore divino. La preghiera allora non è che la risposta dell’uomo. Don Divo Barsotti (1914-2006) iniziava sempre la sua giornata con due preghiere; la prima era: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”, tratta dal Deuteronomio, e la seconda era: “Padre nostro, che sei nei cieli...”. Questo significa: prima c’è l’ascolto, poi la risposta. Nell’ascolto noi impariamo che Dio è Uno ed è Amore che dà la vita, nella riposta Gli diciamo: Padre nostro”.
La preghiera è risposta alla Parola che il Padre ci ama, ma anche la consacrazione è una risposta alla chiamata d’Amore, per questo le Vergini consacrate nel mondo vivono la vita come preghiera ed a data loro la lampada che sempre deve brillare perché in essa sempre vi è l’olio che simboleggia il loro amore fedele, perseverante e operoso, che diventa fiamma che illumina grazie alla preghiera umile e costante. Questa loro preghiera si “serve” anche del libro della Liturgia delle Ore, anch’esso consegnato loro durante il rito di consacrazione. Pregando con questo libro della Liturgia delle Ore, esse santificano la loro giornata.
Dedicandosi alla preghiera, queste umili donne consacrate testimoniano che il tempo dato a Dio non è tempo perduto o tolto per fare del bene al prossimo. La preghiera è l’anima di ogni loro attività, per cui non si preoccupano tanto di organizzare il tempo di preghiera quanto di offrire se stesse a Cristo-Sposo, come e quando vuole: sempre e totalmente.
Vigilanti, come lampade accese si “preoccupano” di avere un’abbondante riserva di olio – cioè fede, amore, pazienza, perseveranza – perché l’arrivo dello Sposo non le colga di sorpresa.
Queste donne consacrate sanno che il cuore umano è piccolo, ma la preghiera lo ingrandisce e lo rende capace di accogliere Cristo-Sposo e con lui accogliere i fratelli e sorelle in umanità. Con loro chiediamo umilmente e sinceramente al Signore che “trasformi la nostra povertà nella ricchezza del suo amore” (Orazione della Messa) e che la nostra vita diventi una preghiera costante, un continuo respirare nella Trinità, come Santa Elisabetta della Trinità ce dà un esempio e ce lo insegna scrivendo: “Vorrei corrispondere all’amore di Dio, passando sulla terra come la Madonna, custodendo tutto nel mio cuore, seppellendomi, per così dire, nel fondo dell'anima mia onde perdermi nella Trinità che ci abita, per trasformarmi in Lei”. (A l’Abate Chevignard, 28 novembre 1903).
Pregare come respirare può sembrare un modo di dire, ma se uno volesse andare alla radice del suo essere e si chiedesse: “Quando comincio a pregare?”, la risposta biblicamente esatta sarebbe questa: “Quando comincio a respirare”. Respirare è invocare la vita; respirare è il dono che Dio ci fa minuto per minuto da quella prima volta che ci ha creati. Questa è la nostra preghiera essenziale: si prega come si respira.
Madeleine Delbrél spiegava: “Quando si prega, bisogna domandare con tutto il nostro essere ciò di cui abbiamo bisogno, per noi stessi, per tutta la Chiesa, per il mondo intero. Questo significa fare della preghiera una respirazione a pieni polmoni!”. Ed insisteva, anzi, sul fatto che pregare significa instaurare relazioni vitali, tutte tese ad una oggettiva e sana collocazione di se stessi in relazione con Dio: “Tu non puoi compiere ciò che Dio ha riservato a te di fare nel mondo, se non intrecci con Lui concrete relazioni, se cioè non preghi. Ma la tua preghiera, a tale scopo, deve diventare per te indispensabile come mangiare, bere, respirare”.
Anche se con fatica, cominciamo a pregare aumentando atti e atteggiamenti (una preghiera, più preghiere, la giaculatoria, il pensiero rivolto a Dio), poi un po’ alla volta ci renderemo conto che preghiamo come respiriamo.

1  “Gesù, tu hai detto: Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo alle anime vostre». Sì, Signore mio e Dio mio, l’anima mia riposa nel vederti rivestito della forma e della natura di schiavo, abbassarti finoa lavare i piedi dei tuoi apostoli. Ricordo ancora le tue parole: «Vi ho dato l'esempio, perché anche voi facciate come ho fatto io. Il discepolo non è più del Maestro... Se voi comprendete ciò, sarete beati mettendolo in pratica». Le comprendo, Signore, queste parole uscite dal tuo cuore mansueto e umile. Le voglio mettere in pratica con l'aiuto della tua grazia... Tu però, o Signore, conosci la mia debolezza: ogni mattino prendo l'impegno di praticare l'umiltà e alla sera riconosco che ho commesso ancora ripetuti atti di orgoglio. A tale vista sono tentata di scoraggiamento, ma capisco che anche lo scoraggiamento è effetto di orgoglio. Voglio, mio Dio, fondare la mia speranza soltanto su di te. Poiché tutto puoi, fa' nascere nel mio cuore la virtù che desidero. Per ottenere questa grazia dalla infinita tua misericordia ti ripeterò spesso: «Gesù, mite e umile di cuore, rendi il mio cuore simile al tuo»” (Santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, Preghiera per ottenere l’umiltà)


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Sermo 115, 2

       Poiché la fede non è dei superbi, ma degli umili, "disse per alcuni che credevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, questa parabola. Due uomini andarono al tempio a pregare; un fariseo e un pubblicano. Il fariseo diceva: Ti ringrazio, Dio, che non sono come tutti gli altri uomini" (Lc 18,9s). Avesse detto almeno: come molti uomini. Che cosa dice questo "tutti gli altri", se non tutti, eccetto lui? Io, afferma, sono giusto; gli altri son tutti peccatori. "Non sono come tutti gli altri uomini, ingiusti, ladri, adulteri". Ed eccoti dalla vicinanza del pubblicano un motivo di orgogliosa esaltazione. Dice, infatti: "Come questo pubblicano". Io sono solo, dice; questo è uno come tutti gli altri. Non sono come costui, per la mia giustizia, per cui non posso essere un cattivo, io. "Digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutte le mie cose". Cerca nelle sue parole, che cosa abbia chiesto. Non trovi niente. Andò per pregare; ma non pregò Dio, lodò se stesso. Non gli bastò non pregare, lodò se stesso; e poi insultò quello che pregava davvero. "Il pubblicano se ne stava invece lontano"; ma si avvicinava a Dio. Il suo rimorso lo allontanava, ma la pietà lo avvicinava. "Il pubblicano se ne stava lontano; ma il Signore lo aspettava da vicino. Il Signore sta in alto", ma guarda gli umili. Gli alti, come il fariseo, li guarda da lontano; li guarda da lontano, ma non li perdona. Senti meglio l’umiltà del pubblicano. Non gli basta di tenersi lontano; "neanche alzava gli occhi al cielo". Per essere guardato, non guardava. Non osava alzare gli occhi; il rimorso lo abbassava, la speranza lo sollevava. Senti ancora: "Si percoteva il petto". Voleva espiare il peccato, perciò il Signore lo perdonava: "Si percuoteva il petto, dicendo: Signore, abbi compassione di me peccatore". Questa è preghiera. Che meraviglia che Dio lo perdoni, quando lui si riconosce peccatore? Hai sentito il contrasto tra il fariseo e il pubblicano, senti ora la sentenza; hai sentito il superbo accusatore, il reo umile, eccoti il giudice. "In verità vi dico". È la Verità, Dio, il Giudice che parla. "In verità vi dico, quel pubblicano uscì dal tempio giustificato a differenza di quel fariseo". Dicci, Signore, il perché. Chiedi il perché? Eccotelo. "Perché chi si esalta, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato". Hai sentito la sentenza, guardati dal motivo; hai sentito la sentenza, guardati dalla superbia.

venerdì 14 ottobre 2016

La preghiera costante.

XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 16 ottobre 2016
Rito Romano
Es 17,8-13; Sal 120; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8


Rito Ambrosiano
Is 60,11-21 [1Pt 2,4-10]; Sal 117; Eb 15-17.20-21; Lc 6,43-48
III Domenica di Ottobre 
Dedicazione del duomo di Milano

1) Costanza della preghiera: occorre pregare sempre.
Il Vangelo di questa domenica comincia con questa frase: “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” e termina con la domanda del Messia che si chiede: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Dunque, oltre all’invito alla preghiera costante, San Luca attira l’attenzione sul “problema” della fede costante: saremo capaci a mantenerla salda oppure sarà solo una condizione di dare e avere per la soluzione dei nostri problemi?
Per quanto riguarda la preghiera, anche se non si mette in dubbio –ovviamente- l’affermazione di Gesù sulla necessità di pregare con perseveranza, insistenza e fiducia, la domanda che subito viene alla mente è: “Come è possibile pregare sempre?” Perché se è vero che la preghiera è il respiro della fede (papa Francesco) e, quindi, pregare è una necessità, perché se smetto di respirare smetto di vivere. Questo respiro spirituale non è così spontaneo e automatico come quello naturale. E questo perché ciò che in natura è spontaneo, nello spirito e frutto di un’ascesi, di un lavoro, si potrebbe dire di una lotta che implica tutte le energie.
Ascoltare, meditare, parlare e tacere davanti al Signore che parla è un’arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra; soprattutto, la continuità e la costanza sono importanti.
Perseverando nella preghiera capiremo e faremo esperienza che essa è il respiro della vita, come per due che si amano, il respiro del loro amore.
La preghiera è la nostra comunione con il Figlio e con il Padre nello Spirito Santo, che ci mette in comunione con il creato come dono e con gli altri come fratelli: la preghiera è la vita umana, pienamente realizzata. Per questo bisogna pregare sempre. Senza però scoraggiarci se Dio sembra sordo ad ascoltare la nostra preghiera. Infatti, non è importante ciò che ci dà: importante è che noi stiamo con lui e abbiamo fiducia in lui. Questo è il vero frutto della preghiera, che è come un canale aperto in cui scorre l’ossigeno di Dio, la vita di Dio che noi respiriamo.
Nell’amicizia profonda con Gesù e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, attraverso la nostra preghiera fedele e costante, possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, possiamo aiutare altri a percorrerla: anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini da percorrere con fede.
Santa Teresa di Calcutta insegnava: “Il frutto del silenzio è la preghiera. Il frutto della preghiera è la fede. Il frutto della fede è l’amore. Il frutto dell’amore è il servizio. Il frutto del servizio è la pace” e alla domanda che una suora le fece sul come imparare a pregare, questa grande e umile santa rispose: ‘Pregando’”. E aggiungeva: “Non ci viene chiesto di essere bravi, ma di essere fedeli. Iniziate e finite la giornata con la preghiera. Andate da Dio come bambini. Se trovate difficile pregare, potete dire: ‘Vieni, Spirito Santo, guidami, proteggimi, sgombera la mia mente affinché possa pregare’. La preghiera non richiede di interrompere il lavoro, ma di proseguire il lavoro come se fosse una preghiera. Quel che conta è essere con Lui, vivere in Lui, nella sua volontà”. Per stare con Cristo non occorre avere dottorati di qualsiasi tipo, basta essere come Madre Teresa persone di preghiera e di fede. Basta essere come quel contadino, parrocchiano di Ars che tutte le sere dopo il lavoro nei campi andava in Chiesa e vi stava lungo tempo, senza aprire la bocca ma contemplando Cristo in croce. Alla domanda del Santo Curato sul come riempisse quel lungo tempo di preghiera quest’umile lavoratore della terra rispose: “Io guardo Lui (il Cristo) e Lui guarda me”.


2) Costanza della fede: occorre perseverare nella fede, sempre.
Nel primo paragrafo, ho cercato di dare spunti di risposta alla domanda “come pregare sempre?”. Ora cercherò di abbozzare una risposta a questo interrogativo di Cristo: “il Figlio dell’uomo, quando ritornerà, troverà la fede sulla terra?”.
C’è un forte legame tra fede e preghiera, perché la fede è questa preghiera instancabile.
Forse non riusciamo a capire che è proprio il Signore a desiderare il nostro grido, la nostra preghiera incessante. Anche quando sembra sparire dalla nostra vita, quando ci sentiamo come la vedova del Vangelo di oggi, è Lui che ci ripete con tenerezza: "Fammi udire la tua voce, mostrami le tue lacrime, dimmi quello che vi è al fondo del tuo cuore".
E’ l’esperienza concreta dell’amore e dell’aiuto di Dio che tutti, prima o poi, poco o tanto, facciamo nella nostra vita, a darci la certezza che, anche quando non vediamo, o abbiamo davanti solo il buio o dei tremendi grovigli, la giustizia e l'amore di Dio sono all’opera. Tutto, ma proprio tutto, sarà chiaro solo alla fine, quando avremo la visione perfetta; ora ci è chiesto di fidarci, di avere fiducia in Dio, cioè di avere fede. Una fede che non è certo facile, e che richiede forza, fermezza e perseveranza come la preghiera della vedova del vangelo e come quella di Paolo che arriva a dire: “Vi esorto, fratelli, a lottare con me nella preghiera” (Romani 15,30): in greco il verbo è “sunagonizein” (=con-agonizzare), che indica il combattimento decisivo e supremo.
L’importante è credere all’amore di Cristo, che in Croce ci mostra che ci ama più di se stesso. Allora capiremo che la necessità di pregare sempre e senza stancarci è la necessità dell'amore. Solamente un cuore innamorato prega con fede e senza stancarsi e risponde incessantemente alla voce del suo Amato. Pregare non è follia o rifugio alienante. La preghiera è l’incontro con l’amico che noi non meritiamo ma che si offre a noi esseri provvisori, precari che preghiamo.
In effetti, il verbo “pregare” ha la stessa radice di “precario”, che vuol dire essere una persona che ha qualcosa soltanto se l’altro te la dà. Quindi il nostro rapporto con Dio e con le persone è sempre precario. Ogni relazione umana è precaria, perché l’abbiamo solo se la desideriamo e se l’altro ce la dona gratuitamente. Quindi di per sé la preghiera è l’atto fondamentale di relazione che c’è tra le persone.
In effetti, la prima cosa che si insegna al bambino è quella di chiedere e di dire grazie. Che è fondamentale. E’ la relazione. Altrimenti c’è il feticismo, la reificazione, perché, se non si vive un atteggiamento di riconoscenza, ciò che interessa sono le cose e non le persone.
Per questo occorre pregare sempre, in ogni momento e in ogni luogo come ce l’ha testimoniato Gesù soprattutto nel momento della Crocefissione. Con la sua preghiera costante, così perseverante da essere fatta anche quando è sulla Croce, Gesù ci conduce alla fede, alla fiducia totale in Dio e nella sua volontà, e vuole mostrare che questo Dio che ha tanto amato l’uomo e il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito (cfr Gv 3,16), è il Dio della Vita, il Dio che porta speranza ed è capace di rovesciare le situazioni umanamente impossibili. La preghiera fiduciosa di un credente, allora, è una testimonianza viva di questa presenza di Dio nel mondo, del suo interessarsi all’uomo, del suo agire per realizzare il suo piano di salvezza.
In questa preghiera fedele perché costante e fatta nella fede le vergini consacrate nel mondo ci sono di esempio semplice e chiaro. Queste donne si sono consacrate perché hanno creduto nell’amore misericordioso e fedele di Dio. Per questa fede hanno messo tutta la loro vita sotto il segno della misericordia e della fedeltà. Fedeltà, cioè impegno perseverante, incondizionato. Dio si è offerto a noi, una volta per tutte nella sua Parola. Non l’ha mai ripresa. Credere è dare la propria parola, impegnarsi verso colui che si è impegnato verso di noi senza ritorno. Di conseguenza anche loro sono fedeli, perseveranti, tenaci in tutto. Non si riprendono la parola data nella consacrazione. Non lasciano la buona causa di Dio che si è manifestato loro come Persona per la quale vale la pena di vivere.
Lietamente hanno donato tutto di loro stesse, anima e corpo, perché la verginità non è solo uno stato del corpo, essa è principalmente una virtù dell’anima. Con la loro consacrazione vissuta umilmente nel mondo, mostrano che una vita donata a Dio nel nascondimento e nella preghiera e che la verginità è frutto della preghiera ma soprattutto di una fede e di una amore fervente per Cristo, perché senza amore a Cristo non si può essere vergini. Infine, è utile ricordare che la verginità cristiana ha come modello la vergine Maria, essa è stata per eccellenza la vergine, cioè la disponibile all’azione di Dio. E se Dio si è incarnato in lei, lo ha fatto per la sua disponibilità.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Sermo 80, 2


       Credete, o fratelli, che Dio non sappia di che abbiamo bisogno? Conosce e prevede i nostri desideri, lui che conosce bene la nostra povertà. Perciò, quando insegnò a pregare, disse anche ai discepoli di non essere verbosi nelle loro preghiere: "Non dite molte parole; il Padre vostro sa già di che avete bisogno, prima che glielo chiediate" (Mt 6,7). Ma se il Padre nostro sa di che abbiamo bisogno già prima che glielo chiediamo, che bisogno c’è di chiederglielo, sia pur brevemente? Che motivo c’è per la stessa preghiera, se il Padre sa di che abbiamo bisogno? Par che dica: Non chiedere a lungo; so già che cosa ti serve. Ma, Signore mio, se lo sai, perché dovrei chiederlo? Tu non vuoi ch’io faccia una lunga preghiera. Ma, mentre in un luogo si dice: "Quando pregate, non usate molte parole" (Mt 6,7), in un altro si dice: "Chiedete e vi sarà dato" (Mt 7,7), e perché non si pensi che sia una frase detta casualmente, viene anche aggiunto: "Cercate e troverete ()". E poi ancora, perché si capisca che la cosa è detta di proposito, dice a modo di conclusione: "Bussate e vi sarà aperto ()". Vuole, dunque, che tu chieda, perché possa ricevere; che cerchi, per trovare; che bussi, per entrare. Ma se il Padre sa già di che abbiamo bisogno, perché chiedere perché cercare, perché bussare? Perché affaticarci a chiedere, a cercare, a bussare? Per istruire colui che sa tutto? In altro luogo troviamo le parole del Signore: "Bisogna pregare sempre, senza venir mai meno" (Lc 18,1). Ma se bisogna pregare sempre, perché dice di non usar molte parole nella preghiera? Come faccio a pregar sempre, se devo finir presto? Da una parte mi si dice di pregar sempre, senza venir mai meno, e dall’altra di essere breve. Che cosa è questo? E per capire questo, chiedi, cerca, bussa. È astruso, ma per allenarti. Dunque, fratelli, dobbiamo esortare alla preghiera noi e voi. In questo mondo, infatti, non abbiamo altra speranza che nel bussare con la preghiera tenendo per certo che, se il Padre non dà qualche cosa, è perché sa che non è bene. Tu sai che cosa desideri, ma lui sa che cosa ti giova. Pensa di essere malato - e siamo malati, perché la nostra vita è tutta una malattia e una lunga vita non è che una lunga malattia. Immagina, allora, che vai dal medico. Ti vien di chiedere che ti faccia bere del vino. Non t’è proibito di chiederlo, purché non ti faccia male. Non esitare a chiedere, non indugiare; ma se te lo nega, non ti scomporre. Se è così col medico della tua carne, quanto più con Dio, Medico, Creatore e Redentore della carne e anima tua?


venerdì 7 ottobre 2016

L’Amore aspetta il nostro grazie.

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 9 ottobre 2016
Rito Romano
2Re 5,14-17; Sal 97; 2 Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

Rito Ambrosiano
1Re 17,6-16; Sal 4; Eb 13,1-8; Mt 10,40-42
VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore


1) La guarigione della lebbra del cuore.
Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove sa che dovrà affrontare la morte per fare passare lui e l’umanità intera nella “terra” promessa del Cielo. In questo “esodo” verso la Città della Pace dove farà la Pasqua (il passaggio di ritorno al Padre, il passaggio dalla morte alla vita), Lui non lascia nulla di non visitato dalla sua presenza, nulla di non toccato dalle sue sante mani e dal suo sguardo di misericordia, che guarisce anima e corpo.
In questo cammino verso Gerusalemme, che è a sud della Terra Santa, Gesù segue un percorso geograficamente assurdo, perché va a nord verso la Samaria e la Galilea. Ma Lui segue la mappa del cuore e va verso il centro passando per le periferie non tanto geografiche quanto esistenziali. In effetti chi è più periferico dei lebbrosi, sono dei morti viventi, perché soprattutto a quei tempi dovevano stare fuori dall’umana convivenza. Erano condannati ai margini della vita perché infetti, portatori di una malattia ritenuta contagiosa e che rendeva impuri, immondi.
Questi dieci lebbrosi rappresentano l’umanità intera, intossicata dal peccato, condannata a morte, quindi incapace di fare il cammino della vita. Gesù ordina a tutti (noi compresi) di camminare e di andare a far “certificare” il miracolo della guarigione dai sacerdoti, come prescrive la legge mosaica.
Ma non basta obbedire e camminare, occorre prendere coscienza del dono ricevuto. Purtroppo, uno solo, un samaritano (cioè uno che all’emarginazione della malattia univa l’emarginazione di essere disprezzato dagli altri perché eretico), torna da Cristo per ringraziarlo della guarigione data a tutti. Grazie a questo gesto eucaristico (eucaristia vuole dire ringraziamento) ricevette la guarigione del cuore.
In effetti, in questo incontro tra Gesù è i lebbrosi due sono le parole chiave: “pietà” e “grazie”.
L’invocazione “Signore, pietà”, “Signore, abbi misericordia di noi peccatori” introduce ogni celebrazione eucaristica (che vuole dire “di grazie”) ed è la preghiera che ognuno di noi rivolge al Signore all’inizio della Messa.
L’importante è che l’invocazione: “Signore, pietà” si trasformi in “grazie”. In questo modo riconosceremo pienamente che la nostra miseria ha bisogno di misericordia.
Alla domanda di essere accolti e amati nonostante il nostro male e che si esprime con l’invocazione “Ti prego, Signore, salvami” (Sal 114, 4), Cristo risponde con la sua misericordia infinita, nella quale siamo guariti ad un livello superiore a quello che chiediamo. In effetti, con il miracolo di oggi, il Signore ci insegna che ci sono due livelli di guarigione: uno, più superficiale, riguarda il corpo; l’altro, più profondo, tocca l’intimo della persona, quello che la Bibbia chiama “cuore”, e da lì si irradia a tutta l’esistenza. La salute del corpo non è contro quella del cuore, anzi la guarigione completa e radicale è la salvezza che fa in modo che il nostro cuore non resti lontano da Cristo.
Teniamo presente, poi, che la salvezza è la relazione con lui, sorgente della vita, non l’essere mondato dalla lebbra, perché poi ci si ammala ancora e si muore. Quindi la salvezza non è semplicemente l’essere mondati, guariti. La salvezza è un’altra cosa, non è la buona salute, perché quella presto o tardi se ne va. La salvezza è la comunione con lui, il tornare a lui, glorificare Dio a gran voce. Redenzione è lo stare con Lui, Paradiso nostro; è l’essere contenti del dono ricevuto e dire a gran voce: “Amo il Signore perché ascolta il grido della mia preghiera. Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo” (Sal 114 1-2). E’ nell’eucaristia che noi viviamo la fede e l’incontro con lui che ci ha amati e salvati. Allora andiamo con gratitudine alla sorgente della nostra fiducia che è il suo amore, grazie al quale possiamo vivere.


2) Salvati grazie al nostro grazie.
Il ritorno (che è sinonimo di conversione) del lebbroso guarito fu dettato dalla riconoscenza verso il Messia che l’aveva sanato. Ma in questo gesto possiamo riconoscervi anche il riconoscimento di Cristo, Sommo Sacerdote, al qual non più la legge mosaica ma la nuova legge dell’amore “impone” di andare perché sia Lui a certificare la salute recuperata. L’invocazione di compassione per la terribile malattia che corrompe il corpo mediante il “grazie” diventa esperienza di amore e di comunione.
Ora non è più solamente un lebbroso guarito, ma un uomo salvato.
Questo Samaritano ha intuito che tornando da Gesù per glorificare Dio è accessibile a lui ciò prima gli era proibito: il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo.
Quest’uomo redento spinto dalla gratitudine si accosta con piena fiducia al trono della Grazia, per ricevere misericordia e trovare Grazia ed essere aiutato al momento opportuno (cfr. Eb. 4, 15-16).
Quest’uomo, che era distrutto, disprezzato, solo e isolato, fa esperienza di salvezza e non solamente gli è ridonata una dignitosa vita terrena, gli è donata la Vita che non passa più.
L’importante che anche noi andiamo da Cristo mendicando pietà e dicendogli: “grazie”, così anche in noi riaccadrà l’esperienza di Gesù guaritore e, soprattutto, redentore che salva nel corpo e nel cuore.
In un modo che può sembrare paradossale ma corretto possiamo dire che il lebbroso salvato (cioè ciascuno di noi che è pentito e riconoscente) diventa l’annuncio vivente del Vangelo della vita.
Oggi, per noi, avviene in un certo senso la stessa cosa: se imploriamo pietà e diciamo grazia diventiamo veri discepoli di Cristo, suoi fedeli annunciatori.
E’ questo l’insegnamento del resto del racconto odierno di San Luca: Gesù loda la fede del samaritano lebbroso e lo indica come annunziatore della buona e lieta novella. Questa è affidata a chi –grazie alla fede - riceve la purificazione dalla lebbra del peccato e la salvezza dell'anima, la redenzione del cuore. Con Romano il Melode preghiamo: “Come hai purificato il lebbroso dalla sua infermità, o Onnipotente, così guarisci il  male delle nostre anime, tu che sei  misericordioso, per intercessione della Madre di Dio, o medico delle nostre anime,  Amico degli uomini e salvatore immune da peccato” (Inni, 23, Proemio).
Il lebbroso samaritano di oggi è ciascuno di noi, malati della lebbra del peccato, purificati dal perdono del Messia, che opera in noi una profonda guarigione interiore e, per questo, siamo costituiti veri discepoli di Gesù salvatore del mondo.
La grandezza del samaritano è stata quella di mettere non solo la sua salute, ma tutta la sua vita nelle mani del Signore.
A questo punto possiamo domandarci che cosa abbia spinto il miracolato di oggi ad abbandonarsi a Cristo con un cuore lieto e pieno di riconoscenza. Possiamo farci anche una domanda analoga, valida per situazioni meno drammatiche: “Che cosa spinge le vergini consacrate nel mondo a riporre tutta la propria vita ai piedi di Cristo-Sposo perché ne faccia ciò che gli è gradito?” Non può che essere la stessa profonda certezza che animò il cuore di Maria davanti dall’annuncio dell’Angelo a Nazareth e fin sotto la Croce a Gerusalemme , che diede forza a San Giuseppe di fronte al compito che Dio gli affidava, che sostenne gli Apostoli dinanzi al martirio: la compassione di Dio si è chinata su di noi, la Misericordia dell’Eterno è scesa qui sulla terra ed ha assunto un volto umano. È Cristo il nostro unico vero Bene ed Egli non vuole altro che il nostro Bene. Egli è nato ed è morto per questo, è risorto ed è qui, Presente nell’Eucaristia, per questo. Per questo possiamo abbandonarci a Lui senza riserve, per questo possiamo recarci da Lui, inginocchiarci supplici, e riporre nel Suo Volere tutta la nostra vita, per sentirci dire ancora: “Ti voglio bene”.
L’affidamento delle Vergini consacrate ci sia esempio quotidiano, semplice e imitabile per legare la nostra fiducia a Gesù, che con il suo santo e puro amore ci comunica purità e salute piena. Nella nostra vita di ogni giorno sperimentiamo che la guarigione ha inizio quando sappiamo di poter contare su qualcuno che vuole il nostro bene, che ci sta accanto, ed è disposto a portare il nostro male, sia esso malattia o peccato.
Ecco, la compassione radicale vissuta da Gesù chiede a ciascuno di noi di interrogarsi sulla propria capacità di stare accanto a chi si sente impuro e malato. Come dimenticare che, proprio il giorno in cui ha deciso di abbracciare un lebbroso, Francesco d’Assisi ha capito sinteticamente tutto il cristianesimo e ha incominciato il suo cammino di sequela fino a divenire “somigliantissimo a Gesù”, fino a somigliarGli “fisicamente” con le stimmate?
Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre malattie, ma questo suo servizio agli uomini ha un caro prezzo. Egli non può più entrare pubblicamente nei villaggi, ma è costretto a rimanere in luoghi deserti, a vivere cioè la situazione che era prima del lebbroso: Gesù cura e guarisce gli altri al prezzo dell’assunzione su di sé del loro male. Il testo latino della profezia di Isaia sul Servo del Signore dice, tra l’altro: “Noi lo consideravamo come un lebbroso” (Is 53,4b); sì, Gesù, il Servo, il Messia, il Salvatore, si è fatto per noi come un lebbroso, per guarire la nostra lebbra nel corpo e nello spirito! Così, sulla croce sarà piagato come un lebbroso: ma noi possiamo fissare in lui il nostro sguardo nella speranza sicura della guarigione, certi della compassione di colui che “ha preso su di sé le nostre sofferenze e i nostri mali” (Is 53,4a).

Lettura Patristica
Bernardo di Chiaravalle
De diversis, 23, 5-8

La gratitudine promuove sempre più grazie

       "Non furono dieci a essere guariti; e gli altri nove dove sono?" (Lc 17,17). Penso che ricordiate che son queste le parole del Salvatore, che rimproverava l’ingratitudine di quei nove. Si vede dal testo quanto abbiano saputo ben pregare coloro che dicevano: "Gesù, figlio di David, abbi pietà di noi" (Lc 18,38); mancò però l’altra cosa di cui parla l’Apostolo (1Tm 2,1), il ringraziamento, perché non tornarono a render grazie a Dio.

       Anche oggi vediamo molti impegnati a chiedere ciò di cui sanno d’aver bisogno, ma vediamo ben pochi che si preoccupano di ringraziare per ciò che hanno ricevuto. E non è che è male chiedere con insistenza; ma l’essere ingrati toglie forza alla domanda. E forse è un tratto di clemenza il negare agli ingrati il favore che chiedono. Che non capiti a noi di essere tanto più accusati d’ingratitudine, quanto maggiori sono i benefici che abbiamo ricevuto. È dunque un tratto di misericordia, in questo caso, negare misericordia, com’è un tratto d’ira mostrare misericordia, certo quella misericordia di cui parla il Padre della misericordia attraverso il Profeta, quando dice: "Facciamo misericordia al malvagio, ed egli non imparerà a far giustizia" (Is 26,10)...

       Vedi, dunque, che non giova a tutti essere guariti dalla lebbra della conversione mondana, i cui peccati son noti a tutti; ma alcuni contraggono un male peggiore, quello dell’ingratitudine; male che è tanto peggiore, quanto è più interno...

       Fortunato quel Samaritano, il quale riconobbe di non aver niente che non avesse ricevuto, e perciò tornò a ringraziare il Signore. Fortunato colui che a ogni dono, torna a colui nel quale c’è la pienezza di tutte le grazie; poiché quando ci mostriamo grati di quanto abbiamo ricevuto, facciamo spazio in noi stessi a un dono anche maggiore. La sola ingratitudine impedisce la crescita del nostro rapporto di grazia, poiché il datore, stimando perduto ciò che ha ricevuto un ingrato, si guarda poi bene di perdere tanto più, quanto più dà a un ingrato. Fortunato perciò colui che, ritenendosi forestiero, si prodiga in ringraziamenti per il più piccolo favore, e ha coscienza e dichiara che è un gran dono ciò che si dà a un forestiero sconosciuto. Noi però, miserabili, sebbene a principio, quando ancora ci sentiamo forestieri, siamo abbastanza timorati, umili e devoti, poi tanto facilmente ci dimentichiamo quanto sia gratuito tutto ciò che abbiamo ricevuto e, come presuntuosi della nostra familiarità con Dio, non badiamo che meriteremmo di sentirci dire che i nemici del Signore sono proprio i suoi familiari (Mt 10,36). Lo offendiamo più facilmente, come se non sapessimo che dovranno essere giudicati più severamente i nostri peccati, dal momento che leggiamo nel salmo: "Se un mio nemico mi avesse maledetto, l’avrei pure sopportato" (Ps 54,13). Perciò vi scongiuro, fratelli; umiliamoci sempre più sotto la potente mano di Dio e facciamo di tutto per tenerci lontani da questo orribile vizio dell’ingratitudine, sicché, impegnati con tutto l’animo nel ringraziamento, ci accaparriamo la grazia del nostro Dio, che sola può salvare le nostre anime. E mostriamo la nostra gratitudine non solo a parole, ma anche con le opere e nella verità; perché il Signore nostro, che è benedetto nei secoli, non vuole tanto parole, quanto azioni di grazie. Amen.