venerdì 27 settembre 2013

Amore è dare, amore è chiedere

Rito romano
XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 29 settembre 2013
Am 6.1 4-7; Tm 6.11-16; Lc 16,19-31
Il povero salva il ricco

Rito ambrosiano
V Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 56,1-7; Sal 118; Rm 15,2-7; Lc 6,27-38
Amate i nemici



 1) Una lezione per vivere il presente e un comando sconcertante.
La prima Lettura e Vangelo della liturgia romana, che ci narra la parabola del povero Lazzaro e del ricco mangione (questo è il significato del termine epulone1) indicano come vivere il presente e non hanno come scopo quello di impaurirci circa la punizione futura se non ci comportiamo bene. Questi due brani biblici ci dicono che chi cerca la propria sazietà non può preoccuparsi dei propri fratelli bisognosi e non è in grado di riconoscere il Figlio di Dio nel povero Lazzaro. Lazzaro è Cristo, che ha sofferto in sé ogni nostro dolore e che ha le piaghe dell’amore crocifisso e che sta alla porta di casa nostra e aspetta.
Guardiamo la scena raccontata da Cristo: vi vediamo un uomo ricco, senza nome o, meglio, il cui nome è la ricchezza che ha, il nome del secondo è: Lazzaro2 (= Colui che è assistito da Dio, perché di suo non ha nulla). Entrambi sono sotto lo sguardo dell'Altissimo, ma ricevono diversamente la sua presenza.
Il primo non ne ha bisogno, ha del suo, che gli permette di godere –in modo autonomo da Dio- la vita con pranzi abbondanti e di vestirsi con abiti eleganti. L'altro non ha altri che Dio, non ha di che mangiare e il corpo è “rivestito” di piaghe. Gli uomini lo scansano, solamente i cani gli si avvicinano e lo consolano.
Guardiamo, ora, a noi stessi: anche noi abbiamo delle piaghe che possiamo nascondere sotto tutte le ricchezze possibili, ma Dio le conosce. Queste lacerazioni ci fanno giacere per terra e implorare il cielo, acuiscono la nostra fame di pienezza e sono “feritoie” che ci aprono al Mistero ... Beati noi, quando avvertiremo forte la nostalgia dell'essere “povero”, perché è la verità del nostre essere uomo. Siamo poveri, ma non lo neghiamo a noi stessi, perché camuffi ciò che siamo, se non ci mettiamo a livello di Dio pensiamo di poterne fare a meno. Cosa abbiamo che non abbiamo ricevuto da Lui? Ricordiamoci che il regno dei cieli ci appartiene, proprio perché siamo poveri di cuore, siamo figli, siamo uomini ... come Gesù ... per questo siamo “ricchi”, ricchi del Suo amore, ricchi del nostro avere Dio per Padre.
Allora saremo capaci dell’impossibile: “amare i nemici” (come ci è ricordato nel vangelo ambrosiano di oggi).
Un monaco del Monte Athos commenta così questo stupefacente comando di Cristo: “Ci sono degli uomini che augurano ai loro nemici ed ai nemici della Chiesa pene e tormenti nel fuoco eterno. Essi non conoscono l'amore di Dio, pensando così. Chi ha l'amore e l'umiltà del Cristo piange e prega per tutto il mondo. Tu forse dici: questi è un malfattore, deve perciò bruciare nella fiamma eterna. Ma io ti domando: Ammettiamo che il Signore ti dia un posto nel suo regno, se tu vedi nel fuoco eterno colui al quale hai augurato l'eterno tormento, non avrai compassione per lui, anche se egli fosse stato nemico della Chiesa? Hai forse un cuore di sasso? Ma nel Regno dei Cieli non c'è posto per dei sassi. Lì ci vuole l'umiltà e l'amore di Cristo, che ha compassione per tutti.” E conclude con questa preghiera: “Signore, come tu hai pregato per i tuoi nemici, così insegna anche a noi per lo Spirito Santo ad amarli e a pregare con lacrime anche per loro. Ma è difficile per noi peccatori se non è con noi la tua grazia”.
Ci sia di esempio San Francesco d’Assisi, povero e umile perché non c'è nulla di più grande che imparare l'umiltà e la mendicanza di Cristo (Lazzaro è il simbolo di Gesù mendicante di amore). L'umile vive povero e contento, tutto è buono al suo cuore. Solo gli umili e i poveri di cuore vedono il Signore, nello Spirito Santo. L'umiltà è la luce nella quale noi vediamo Dio che è la luce: nella sua luce noi vediamo la luce. Nel giorno di Dio “muore” la nostra aurora.

2) La morte non è una livella, è una bilancia.
Questo bilanciamento che è mostrato dalla seconda parte della parabola, dove le parti sono invertite: ora il ricco è in basso e Lazzaro è in alto. La morte fa vedere che il Regno di Dio ha vinto. Quando uno muore apre gli occhi. La morte è il momento in cui si vedono le cose come stanno veramente. La morte è la drammatica porta che permette al crepuscolo della nostra alba umana di “morire” nella luce del giorno senza fine di Dio.
Entrano in scena anche gli altri cinque fratelli dell’epulone (sesto fratello), che continuano a vivere “spensierati” nella loro ricchezza. È proprio il loro vivere da ricchi che li rende ciechi di fronte al settimo (numero che è segno di pienezza) fratello (Gesù), che è vicino, appena al di là della porta, oltre la quale non vogliono guardare perché c’è il povero piagato e sono ciechi di fronte alle Scritture (eppure così chiare).
Il ricco di questa parabola non osteggia Dio e non opprime il povero, semplicemente non lo vede, vive come se Dio non esistesse e non c’entrasse con la sua vita.
Ora, il ricco mendica al povero una goccia d’acqua e chiede che i suoi fratelli siano avvertiti. Ma a che servirebbe avvertirli? Hanno già i profeti e Mosè, non occorre altro. Non sono le voci che mancano, non sono le verifiche, ma la libertà per comprendere, la lucidità per vedere. Il vivere da ricco rende ciechi.
La strada della Croce è cammino della luce, che conduce al Paradiso. Questa strada ha un nome solo: carità, con molti sinonimi: misericordia, pietà, compassione, condivisione, solidarietà, comunione, unità, accoglienza, partecipazione, assunzione.
La via che porta al Cielo si chiama Cristo. Non ci sono altre vere vie. Non si conoscono altre strade. Non ci sono altri sentieri. L'amore puro, vero, reale, spirituale, fatto di grande concretezza, di dono della propria vita e delle proprie sostanze conduce al Cielo. E su questa strada si sono messe le Vergini consacrate, sulle quali il giorno della consacrazione il loro Vescovo ha pregato: “Che loro brucino di carità e non amino niente al di fuori di Te, Signore. Che meritino ogni lode senza compiacersene; che cerchino di rendere gloria a Te con un cuore purificato, in un corpo santificato; che ti temano con amore e, per amore, Ti servano. E Tu, Dio sempre fedele, sii la loro fierezza, la loro gioia e il loro amore; sii per loro consolazione nella pena, luce nel dubbio, ricorso nell’ingiustizia” (Rito di consacrazione delle Vergini, n. 24).


1 Dal latino: da épulae vivande, épulum banchetto. Nel mondo pagano dell’antica Roma, il sostantivo epulone indicava ciascuno dei membri del Collegio sacerdotale incaricato di organizzare un convito solenne in occasione dei sacrifici in onore di Giove capitolino. Nel mondo cristiano, con riferimento al protagonista della nota parabola che si legge nel Vangelo di san Luca (16, 19-31), indica una persona ricca ed egoista, un ghiottone, un mangione.

2 Di questo nome non si conosce la forma femminile. Le sue origini sono molto antiche ed è arrivato fino a noi dalla trasformazione della parola ebraica El'azar, composta da El-, che è l'abbreviazione di un nome dato a Dio, e '-azar con significato di venire in aiuto, quindi Lazzaro vuol dire “Dio aiuta, Dio soccorre”, con un significato complessivo che è una forma di ringraziamento al Signore.



Lettura Patristica
S. Giovanni Crisostomo3
Omelia II su Lazzaro
“Il ricco Epulone non commise propriamente un'ingiustizia nei confronti di Lazzaro, considerato che non gli tolse i suoi beni. Il suo peccato fu di non avere messo in comune con lui quel che gli era "proprio"... Il fatto è che non mettere in comune con l'altro quel che si possiede, ebbene, questo è già una forma di rapina. Non meravigliatevi, e non giudicate come stravagante quel che vi sto dicendo. Proporrò ora alla vostra attenzione un testo della Scrittura nel quale vengono qualificati come avarizia, frode e furto non solo l'atto di portare via l'altrui, ma anche quello di non mettere in comune con gli altri il proprio. Di che testimonianza biblica si tratta? Dunque, di quella in cui Dio, riprendendo i giudei per bocca del profeta, dice loro: "La terra ha dato i suoi frutti, eppure voi non avete portato le decime, e ora la rapina del povero sta nelle vostre case" (cfr. MI 3,10). Per non aver fatto le offerte abituali, avete strappato ai poveri i loro beni: questo è quanto dice il testo. E lo dice per dimostrare ai ricchi che essi hanno ciò che appartiene al povero, e questo anche nel caso che essi l'abbiano ereditato dal loro padre, o che a loro il denaro venga da qualunque altra fonte. Come pure dice in un altro luogo: "Non rifiutare il sostentamento al povero" (Sir 4,1). Rifiutare di dare significa prendere e tenersi l'altrui. E subito dopo, il passo ci insegna anche che, se cessiamo di fare l'elemosina, saremo castigati alla stessa maniera di quelli che sottraggono con l'inganno. In conclusione: i beni e la ricchezza appartengono al Signore, quale che sia la fonte, a partire da cui li abbiamo poi messi assieme... E se il Signore ti ha concesso di possedere più degli altri, non è stato certo perché tu ne spendessi in amanti e in gozzoviglie, in banchetti e in indumenti lussuosi, o in qualunque altra forma di sperpero. È stato perché tu ne distribuissi tra coloro che ne hanno bisogno. Se un esattore nasconde per sé i soldi dello stato e non li distribuisce a coloro ai quali gli è stato comandato di darli, ma li impiega per soddisfare i propri vizi, ebbene, costui dovrà presto o tardi rendere conto di ciò, e lo aspetterà solo la pena di morte. E dunque: il ricco non è diverso da un esattore incaricato di riscuotere del denaro, che deve poi venire distribuito ai poveri; esattore al quale sia stato comandato di ripartire quel denaro tra quanti, dei suoi compagni di servizio, si trovano nel bisogno. Se egli impiega per se stesso più di quel che richiede la necessità, allora si troverà a doverne rendere conto nella maniera più rigorosa, perché il suo non è in realtà suo, ma di coloro che, come lui, sono servi del Signore... Se non riuscite a rammentarvi di tutto quel che vi ho detto, vi supplico che per sempre vi resti in mente almeno questo, che vale anche per tutto il resto: non dare ai poveri dei beni propri, è come rubare loro e attentare alla loro vita. Ricordatevi che noi non disponiamo del nostro, bensì del loro”.
3 San Giovanni di Antiochia detto Crisostomo (=Bocca d’oro) per la sua eccellenza nel predicare, nacque intorno al 349 ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, nel sud della Turchia), vi svolse il ministero presbiterale per circa undici anni, fino al 397, quando, nominato Vescovo di Costantinopoli, esercitò nella capitale dell’Impero il ministero episcopale prima dei due esili, seguiti a breve distanza l’uno dall’altro, fra il 403 e il 407, anno in cui morì. Il Crisostomo si colloca tra i Padri più prolifici: di lui ci sono giunti 17 trattati, più di 700 omelie autentiche, i commenti a Matteo e a Paolo (Lettere ai Romani, ai Corinti, agli Efesini e agli Ebrei), e 241 lettere.
San Giovanni Crisostomo si preoccupò di accompagnare con i suoi scritti lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica, intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: «Il primo di questi mari è l’infanzia» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). «In questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e alla virtù». Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell’anima «come su una tavoletta di cera» (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l’età più importante.
«All'infanzia segue il mare dell’adolescenza, dove i venti soffiano violenti..., perché in noi cresce... la concupiscenza» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). «Alla giovinezza succede l’età della persona matura, nella quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare moglie” (ibid.). Del matrimonio questo Padre delle Chiesa ricorda i fini, arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza – di una ricca trama di rapporti personalizzati. Gli sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù. Quando poi nasce il primo bambino, questi è «come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti» (Omelia 12,5 sulla Lettera ai Colossesi), e i tre costituiscono «una famiglia, piccola Chiesa» (Omelia 20,6 sulla Lettera agli Efesini).
Sollecito per i poveri, Giovanni fu chiamato anche «l’Elemosiniere». Da attento amministratore, infatti, era riuscito a creare istituzioni caritative molto apprezzate ed efficienti.

venerdì 20 settembre 2013

Amministratori del Bene e non solo dei beni

Rito romano
XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 22 settembre 2013.
Am. 8, 4-7; 1Tim 2, 1-8; Lc. 16, 1-13
Come essere amministratori integri e saggi

Rito ambrosiano
IV Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Pr 9,1-6; Sal 33; 1Cor 10,14-21; Gv 6,51-59
Pane vivo disceso dal cielo



 1) Un’affermazione sconcertante, ma non troppo.
Nel brano evangelico di oggi c’è un’affermazione di Gesù che, a un primo impatto, è per lo meno sconcertante. Come conclusione della parabola del fattore sleale che è stato licenziato in tronco da un proprietario terriero, Gesù afferma: “Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza1 (con saggezza). Infatti i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri (saggi) dei figli della luce (Lc 16. 8).
Con saggia anche se disonesta determinazione quel fattore, che doveva lasciare il posto perché era stata scoperta la sua disonestà, chiamò a uno a uno i debitori della fattoria e a tutti cancellò una parte del debito. In questo modo, quando fu licenziato, quell’imbroglione si era fatto qua e là tanti amici che non lo lasciarono morir di fame.
Aveva fatto un bene a sé e agli altri ingannando e derubando il padrone. Era un ladro ma un giudizioso ladro. Se gli uomini usassero per la salvezza dell’anima l'astuzia, che costui usò per il mantenimento del suo corpo, quanti più sarebbero i convertiti alla fede del Regno.
Dunque questo racconto di Cristo non si conclude con un’approvazione e un incoraggiamento alla corruzione. Ciò che il Messia loda è la saggezza, la decisione e la lungimiranza dell’amministratore disonesto: non ne approva la disonestà.
Davanti ad una situazione d'emergenza, in cui era in gioco tutto il suo avvenire, quell'uomo ha dato prova di tre cose: di rapida decisione, di grande astuzia e di acuta capacità di programma circa il futuro divenuto insicuro. Ha agito prontamente e intelligentemente (anche se non onestamente), perché voleva mettersi al sicuro per il futuro.
Questo - viene a dire Gesù ai suoi discepoli- è ciò che dovete fare anche voi, per mettere al sicuro, non l'avvenire terreno che dura qualche anno, ma l'avvenire eterno. Come dire: fate come quell'amministratore; fatevi amici coloro che un giorno, quando vi troverete nella necessità, possono accogliervi. Questi amici potenti, si sa, sono i poveri, dal momento che Cristo considera dato a lui in persona quello che si dà al povero. Diceva sant'Agostino: “I poveri sono, se lo vogliamo, i nostri corrieri e i nostri facchini: ci permettono di trasferire, fin da ora, i nostri beni nella casa che si sta costruendo per noi nell'aldilà”. Un insegnamento che la Chiesa ricorda a tutti gli sposi quando, nella benedizione durante il rito del Matrimonio, fa dire al prete: “Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre”. Gli amici di cui tener conto sono i poveri perché saranno essi, nel giudizio finale, a suggerire gli invitati da ammettere al banchetto celeste.


2) Anche noi siamo chiamati ad essere amministratori.
Attraverso la parabola dell’amministratore “saggio”, il Signore non solo ci invita ad essere previdenti, ma ci ricorda che anche noi siamo “amministratori” ai quali Lui, il Signore, ha affidato i beni di quel grande campo che è la Terra.
Dei beni che ci sono stati affidati da Dio non siamo proprietari, ne siamo “amministratori”. La “disonestà” consiste nell'appropriarcene indebitamente, usandoli senza tener conto della volontà del “Padrone”, che li ha posti nelle nostre mani perché li condividessimo.
La bramosia smodata, l'utilizzo egoistico finiscono con l'inquinare lo stesso dono, rendendolo a sua volta “disonesto”. Proprio così. Ciò che siamo e ciò che abbiamo viene da Dio e non può essere che un bene. È il nostro modo di rapportarci con esso che lo contamina fino a sconfinare nel “peccato”. E di questa adulterazione, prima o poi, saremo chiamati a rendere conto: “amministratori infedeli” dinanzi al giudizio inappellabile del “Padrone”.
Ma ecco un'insospettata via d'uscita: quelle stesse ricchezze, da noi rese “disoneste”, possono essere riscattate e restituite alla loro primitiva e connaturale bontà se condivise nel segno della gratuità e dell'amore. È la santa “scaltrezza” che Gesù suggerisce a quanti, riconoscendosi umilmente “amministratori disonesti”, intendono spalancarsi all'azione risanante e redentrice di Dio, divenendone la mano provvida e benefica. 

Chiediamo a Dio, Padre buono, che ci dia la grazie di usare santamente dei beni della Terra, perché possiamo sperimentare la gioia della condivisione. Ci liberi da ogni forma di egoistico possesso e renda strumenti del suo amore. Insomma si tratta di essere sapienti perché avendo ben chiaro il senso cristiano della vita, riusciamo con la luce del suo Spirito a “valutare con saggezza i beni della terra nella continua ricerca dei beni del cielo” (Preghiera dopo la comunione della Messa del martedì della prima settimana di Avvento).

3) Amministratori dei beni del Cielo.
Non dimentichiamo che il tesoro che Gesù ha affidato ai suoi discepoli e amici è il Regno di Dio, che è Lui stesso, vivo e presente in mezzo a noi. E donandoci se stesso ci ha dato, oltre alle qualità naturali, queste ricchezze da far fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il “Padre nostro” – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato.
Le Vergini consacrate ci danno un esempio di come essere prudenti (φρόνιμοι cfr nota 1) puntando tutto, assolutamente tutto, sull’intelligenza, e a misurare su di essa le nostre parole e le nostre scelte. L’intelligenza che egli esige non è quella di una migliore conoscenza delle cose, del sapere, del “know-how”. Consiste piuttosto nel prendere le proprie decisioni alla luce della meta prefissata; è “la prua della conoscenza” (Paul Claudel2) della nave della nostra vita che si dirige verso l’eternità. L’intelligenza ci insegna a non fermarci all’immediato e a guardare, invece, alla meta ultima. Infatti “lo Spirito Santo, suscita in mezzo al suo Popolo uomini e donne coscienti della grandezza e della santità del matrimonio e tuttavia capaci si rinunciare a questo stato per attaccarsi fin da ora alla realtà che esso prefigura: l’unione di cristo e della Chiesa. Felici quelli e quelle che consacrano la loro vita a Cristo e lo riconoscono come sorgente e ragione di essere della verginità. Hanno scelto di amare colui che è lo sposo della Chiesa e il Figlio della Vergine Madre” (Rituale della Consacrazione delle Vergini, le ultime due frasi del n. 24).

1 La traduzione liturgica italiana usa “con scaltrezza” o “scaltramente”, nel testo greco di Luca c’è “φρoνίμως” che letteralmente vuol dire “saggiamente”. La Vulgata latina traduce con “prudenter”, che in italiano diventa “prudentemente, con prudenza”. Nella traduzione liturgica francese usa “habile” e la Bible de Jérusalem mette come titolo della parabola “L’administrateur avisé” ed usa “avisé” anche nel testo, perché φρoνιμώτεροι (fronimòteroi) è l’aggettivo comparativo di φρόνιμος (frònimos) che vuol dire “ragionevole, sensato, saggio”. La traduzione inglese usa l’avverbio wisely =saggiamente e/o shrewdly= astutamente. La traduzione liturgica aiuta a non cadere nell’equivoco di pensare che Gesù loda la disonestà, il testo letterale aiuta a capire il perché dell’elogio e l’invito ad essere saggi, intelligenti e prudenti.


2 Paul Claudel (, – , ) è stato un , e . Secondo il racconto dello stesso Claudel, la sua conversione al cattolicesimo avvenne nella Cattedrale di Notre Dame di Parigi, ascoltando il durante la Messa di del 1886: “Allora accadde in me l'avvenimento straordinario e misterioso che avrebbe dominato tutta la mia vita. A un tratto, mi sentii toccare il cuore, ed io credei. Credei con una tal forza di adesione, con tale un sollevamento di tutto il mio essere, con si profonda convinzione, con una certezza così esente da ogni dubbio possibile^ che, dopo, tutti i libri, tutti i ragionamenti, tutte le peripezie di una vita agitatissima, non furono capaci di scuotere la mia fede e nemmeno d'intaccarla. Fu: una rivelazione improvvisa e ineffabile; fu la sensazione netta e tagliente dell'innocenza purissima e dell'eterna infanzia di Dio. ...Felici quelli che credono! Se fosse vero! — Si, è vero! — Dio esiste, è là, è qualcuno, un essere personale come me! — Egli mi ama e mi chiama” (La mia conversione, Torino 1958, p. 56).
Il motivo ispiratore della poetica di questo grande scrittore cattolico credo che sia la “vocazione” di verità, di bontà, di gioia in mezzo agli uomini. Per questo il poeta è chiamato a scoprire e mostrare ai fratelli e “tutta la santa realtà che ci è stata data e in mezzo alla quale siamo posti”.



Lettura patristica
Sant’Agostino di Ippona
Discorso 359/A
SULLA PARABOLA EVANGELICA DELL'AMMINISTRATORE INFEDELE
(Il discorso è ampio quindi cito solo una parte. Il testo integrale è reperibile su:
http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_524_testo.htm)


“Se sei straniero sei in terra altrui. E se sei in terra altrui quando il Signore lo comanda devi partire. Ed è inevitabile che il Signore a un certo punto ti comandi di partire. E non ti fissa il tempo della permanenza. Non ha preso infatti un impegno scritto con te. Dal momento che la tua permanenza è gratuita, essa scade al suo comando. Anche queste sono cose che si devono sopportare e per cui è necessaria la pazienza.
Il fattore scaltro e il tempo futuro.
9. Capiva ciò il servo [della parabola] a cui il padrone stava per comandare di uscire dall'amministrazione. Egli pensò al futuro e disse fra sé: Il mio padrone mi toglie l'amministrazione. Che cosa farò? A zappare non sono valido, mendicare mi vergogno. Di là lo respinge la fatica, di qua la vergogna, ma a lui che era perplesso non mancò una decisione: Ho trovato - disse fra sé - quello che devo fare. Chiamò i debitori del suo padrone, presentò [loro] le ricevute: Tu, dimmi, qual è il tuo debito? E quello: Cento barili d'olio. Siedi, presto, scrivi: cinquanta, prendi la tua ricevuta. Poi disse ad un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Siedi, presto, scrivi ottanta. Prendi la tua ricevuta. Diceva tra sé: " Quando il padrone mi avrà allontanato dall'amministrazione, essi mi accoglieranno presso di loro e il bisogno non mi costringerà né a zappare né a mendicare ".
10. Perché mai il Signore Gesù Cristo raccontò questa parabola? Non certo perché gli piacesse il servo ingannatore: egli frodava il suo padrone e disponeva di beni non suoi. Per di più fece un furto sottile: portò danno al suo padrone, per assicurarsi, dopo l'amministrazione, un rifugio di tranquillità e di sicurezza. Perché il Signore ci pose davanti agli occhi questo esempio? Non perché il servo frodò, ma perché pensò al futuro; perché il cristiano che non ha accortezza si vergogni, dal momento che il progetto ingegnoso è lodato anche nell'ingannatore. Infatti il brano così si conclude: I figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce. Compiono frodi per provvedere al loro futuro. A quale vita pensò di provvedere quel fattore? A quella a cui sarebbe giunto, dopo aver lasciato la condizione precedente per ordine del suo padrone. Egli provvedeva a una vita che deve finire e tu non vuoi provvedere a quella eterna? Dunque non amate la frode, ma, dice: Procuratevi amici con la iniqua mammona, procuratevi amici.
Le elemosine. La verifica del proprio compito.
11. " Mammona " è il termine ebraico per indicare " ricchezza ", e anche qui, in punico, il lucro è detto mamon. Che cosa dobbiamo fare allora? Che cosa ha comandato il Signore? Procuratevi amici con l'iniqua mammona, perché, quando verrete a mancare vi accolgano nelle dimore eterne. E` facile dedurne che bisogna fare elemosine, elargire ai bisognosi, perché in essi è Cristo che riceve. L'ha detto lui: Ogni volta che avete fatto [queste cose] a uno solo dei miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me. E dice anche, altrove: Chiunque avrà dato anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno dei miei discepoli, in quanto mio discepolo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa. Abbiamo capito che bisogna fare elemosina senza stare lì molto a scegliere a chi farla, perché non si può arrivare a un giudizio delle coscienze. Se la fai a tutti giungerai anche a quei pochi che la meritano. Tu, pensiamo, vuoi praticare l'ospitalità e prepari la casa per i forestieri. Ebbene, sia ammesso anche chi non ne è degno perché non sia escluso chi ne è degno. Tu non puoi essere giudice ed esaminatore delle coscienze. D'altra parte, anche se tu potessi discriminare: " Costui è cattivo, costui non è buono ", io aggiungerei: " Potrebbe perfino essere un tuo nemico ". Se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare. Se bisogna fare del bene anche al nemico, quanto più a uno sconosciuto che, anche se cattivo, non arriva tuttavia ad essere nemico. Noi comprendiamo queste cose, cioè sappiamo che chi agisce così si procura gli amici che accoglieranno nelle dimore eterne, quando si sarà esonerati da questa " amministrazione ". Siamo tutti come dei fattori infatti e ci è stato affidato qualcosa da fare in questa vita: di questo dobbiamo rendere conto al grande padre di famiglia. E colui a cui è stato affidato di più dovrà rendere un conto maggiore. La prima lettura che è stata fatta è di spavento a tutti, e specie a coloro che hanno preminenza sui popoli, siano i ricchi o siano i re, siano principi, siano giudici, siano anche vescovi o prelati nelle chiese. Ciascuno renderà conto della sua amministrazione al Padre di famiglia. L'amministrazione che si compie qui è temporanea, la ricompensa che ti dà l'economo è eterna. Se noi condurremo questa amministrazione così da renderne conto in modo soddisfacente, possiamo essere sicuri che a incarichi minori faranno seguito incarichi maggiori. Al servo che gli diede un buon resoconto della ricchezza che aveva ricevuto da distribuire, il padrone disse: Ora presiederai a cinque fondi. Se ci saremo comportati bene saremo chiamati a incarichi maggiori. Ma poiché è difficile, in una vasta amministrazione, essere esenti da svariate mancanze, così non bisogna cessare di fare elemosine, in modo che al momento del rendiconto, non ci troviamo davanti a un giudice severo ma a un padre misericordioso. Se infatti comincerà a esaminare una per una le cose, molte ne troverebbe da condannare. Bisogna su questa terra essere di aiuto ai miseri perché avvenga in noi quello che è stato scritto: Beati i misericordiosi, poiché di essi Dio avrà misericordia. E in un altro luogo: Ci sarà un giudizio senza misericordia per chi non ha avuto misericordia.

venerdì 13 settembre 2013

Tre aggettivi per un solo Amore: insensato umanamente, sollecito maternamente, paterno divinamente.

Rito romano
XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 15 settembre 2013.
Es. 32, 7-11, 13-14; 1Tim 12-17; Lc. 15, 1-32
Trovati da Dio

Rito ambrosiano
III Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 43,24c-44,3; Sal 32; Eb 11,39-12,4; Gv 5,25-36
Le opere di Cristo testimoniano che il Padre lo ha mandato

1) La misericordia pastorale.
Le parabole di Gesù oltre a darci il suo insegnamento profondo e bello ci mostrano il punto di vista di Dio. E così succede nelle tre parabole di oggi, in cui Cristo parla della pecorella smarrita, della moneta perduta e del figlio prodigo, mettendo in evidenza il “cuore del Vangelo” cioè l’amore misericordioso.
Già nella prima parabola si vede un modo di agire non umano o, per lo meno, insensato dal punto di vista umano. In effetti, alla domanda del “Quale uomo tra voi, avendo cento pecore e perduta una di esse, non abbandona le novantanove nel deserto e (non) va verso quella perduta, finché non l'abbia trovata?” (Lc 15,4), verrebbe da rispondere: “Nessuno”, perché chi è l’uomo di buon senso che lascia le 99 pecore nel deserto e non nell’ovile, e che di notte va alla ricerca della smarrita, sfidando i pericoli del deserto?
I pericoli del deserto sono fame, sete, caldo, predoni, belve, perdita dell’orientamento soprattutto con il buio, che rende pressoché impossibile continuare la ricerca nell’oscurità della notte. Ma Cristo, buon Pastore divino è mosso da un amore umanamente insensato, ma divinamente logico e va alla ricerca.
Si può dire che continua la ricerca che Lui fa dell’uomo da quando questo si era nascosto nel paradiso terrestre fino agli inferi, ci rivela che per lui noi valiamo più di Lui, tant’è vero che poi è morto al nostro posto dando la vita per noi.
Si può dire che la nostra ricerca di Dio inizia quando Dio ha terminato la sua, trovandoci e perdonandoci e facendo festa con noi.
Nella parabola della pecora perduta e ritrovata, si annota che il pastore non interrompe la sua ricerca finché non la trova: dunque una ricerca ostinata, perseverante, per nessun motivo disposto ad abbandonare la pecora al suo destino. Allora comprendiamo che la decisione del Pastore non fu poi così insensata, fu coraggiosa e frutto di intelligenza ardita e di un cuore che ama perdutamente.
Questo mi permette di fare notare che questa parabola, come pure le due che seguono, termina parlando della gioia di Dio per il ritrovamento qui della pecora, poi della moneta e del figlio: «Così, vi dico, c'è gioia davanti agli occhi di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15,10).
Si possono ricavare due insegnamenti. Uno esplicito: agli occhi di Dio l’uomo anche e, forse, proprio perché peccatore ha un valore immenso. L’altro implicito: con la gloria recuperata di un unico peccatore “aumenta” la Gioia divina.

2) La misericordia materna
Analoga nella sostanza è la seconda parabola: quella della dracma1 perduta.
Anche qui la ricerca per trovare ciò che si è smarrito è fatta in modo accurato, oggi diremmo scientifico. La padrona di casa accenda la lampada, che mette in un punto strategico, poi scopa lentamente, attentamente l’intera casa, cerca con cura2, finché trova la moneta perduta. Trovatala, chiama le amiche e le vicine e le interpella per gioire insieme sulla “dracma perduta e ritrovata” (v.9). Se la prima parabola parla del Pastore, che nel mondo ebraico di allora indicava pure il Re, vediamo l’amore “pastorale” di chi guida, nella seconda vediamo l’amore “sollecito” della madre di famiglia che mette a soqquadro il “mondo”3 per cercare il “tesoro” che è la ragione della sua vita: il figlio.
Una donna, una madre sa molto bene il valore di un figlio e in questa parabola vediamo che essa rappresenta Dio che, con amore infinito di padre e di madre, “si affanna” nel ricercare la preziosa moneta smarrita.
In ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate che sono chiamate ad “affannarsi” maternamente mendicando nella preghiera il perdono per i peccatori, offrendo la loro preghiera di intercessione (RCV 28) per gli smarriti soprattutto per coloro che hanno perso la fiducia nella misericordia divina, e trasferendo nei luoghi dove vivono e lavorano l’amore di Dio che sempre perdona.

3) La misericordia paterna.
E qui subentra la terza parabola. Se per una moneta e per una pecora prima si fa festa in cielo, immagiate che festa fa Dio quando “realtà ritrovata” è un uomo: un figlio perdutosi e ritrovato.
Questo figlio, che è chiamato prodigo perché ha sperperato l’eredità paterna nei vizi, e si è ridotto all’estrema miseria e alla fame, si è “perduto”: ha smarrito la consapevolezza della bellezza della propria identità. Ha smarrito la gioiosa memoria del volto del Padre e della sua misericordia. 
Questa pagina del Vangelo quindi è un annuncio apportatore di gioia per noi: quando sperimentiamo di esserci "persi", affidiamoci a colui che è venuto a cercarci e confidiamo nel suo grande amore. E' questa la volontà del Padre. Noi siamo preziosi ai suoi occhi.

 In questo contesto comprendiamo il senso del testo dell'Esodo (prima lettura “romana”), dove il popolo d'Israele, liberato dalla schiavitù, si dimentica spesso di Dio, tanto che costruisce l'idolo del vitello d'oro. Meriterebbe per questo il castigo, ma il Signore lo perdona per la commossa e profonda preghiera di intercessione di Mosè. 
Così pure l'apostolo Paolo (seconda lettura) afferma che Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, e lui si sente tanto peccatore... ma ha ottenuto misericordia.
La misericordia esprime l'onnipotenza di Dio, l'amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente: è il volto di Dio.
Accostiamoci spesso al Sacramento della Riconciliazione o Penitenza, che altro non è che attuare in noi il ritorno a casa del figlio prodigo.
L'esperienza del peccato, che è questo “perdersi”, diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci “perseguita”4 con il suo amore misericordioso e fa festa perché ci ha ritrovati.

1 Una dramma era il salario giornaliero di un contadino od operaio al tempo di Gesù Cristo.

2 In greco ἐπιμελῶς che si legge epimelòs e che significa “diligentemente, attentamente, accuratamente”.

3 Guardata con gli occhi di Dio la Terra è una casa neppure tanto grande in rapporto all’Universo intero.

4 Dal verbo “perseguire” dal latino PERSEQUI composto dalla particella intensiva “PER” e “SEQUI” = seguire, dunque tener dietro con costanza e ardore. Significato derivato “perseguitare”, “persecuzione”.

PS: Si veda anche il commento fatto allo stesso vangelo in occasione della IV domenica di Quaresima 10 marzo 2013.



Lettura Patristica

San Leone Magno5, (ca 390 -461)
Papa e Dottore della Chiesa

Sulla misericordia e la verità.
Sermo 45,2, PL 54,289 290.
“La regola di vita dei credenti scaturisce dallo stile stesso con cui Dio opera. L’Altissimo, infatti, esige che quelli ch’egli ha creato a sua immagine e somiglianza si sforzino di imitarlo.
Non potremo ottenere le ricchezze della gloria divina se la misericordia e la verità non avranno in noi dimora. Mediante queste vie, infatti, il Signore e venuto verso quelli che avrebbe salvato; e per tali sentieri i salvati devono affrettarsi a incontrare colui che li ha redenti. Così la misericordia di Dio ci rende misericordiosi e la verità ci fa essere veritieri.
L’anima retta cammina per la via della verità come l’anima intrisa di bontà avanza per la via della misericordia.
Eppure questi due sentieri non si separano mai; non si tratta infatti di tendere verso scopi diversi per vie differenti; e crescere nella misericordia non è diverso dal progredire nella verità. Difatti, chi manca di verità non e misericordioso, e chi e privo di bontà non e capace di rettitudine. Non essere ricchi di entrambe queste due virtù, significa l’impossibilita di praticare sia l’una che l’altra.
La carità è la forza della fede e la fede e la fortezza della carità. Ognuna di esse merita il suo nome e porta frutto soltanto se un legame inscindibile le unisce.
Dove non sono presenti insieme, lì anche mancano entrambe, giacché si Offrono aiuto e luce a vicenda fin quando la ricompensa della visione colmerà la brama della fede e senza mutazioni vedremo e ameremo quello che ora non possiamo amare senza la fede né credere senza l’amore.
Fede e carità non permettono di soccombere sotto il peso di basse sollecitazioni, perché come ali possenti sollevano a volo il cuore puro fino all’amicizia e alla visione di Dio.”


5 Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni.
Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di San Leone Magno. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice.
Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia (451).



venerdì 6 settembre 2013

Amare per non morire

Rito romano
XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 8 settembre 2013.
Sap 9, 13-18; Sal 89; Fm 1,9b-10.12-17; Lc 14, 25-33
La rinuncia per amore è un dono gioioso.

Rito ambrosiano
II Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32
Santità non è fare grandi cose, ma obbedire come figli, cioè liberi.

1) Amare il Padre più del padre.
Alle numerose persone che camminano con Lui perché Lui è il senso della vita, Gesù rivolge l’invito a rompere tutti i legami, persino quelli con se stessi (Lc 14,25-26). L’Evangelista Luca è minuzioso e insistente nell'elencare i legami da rompere e, inoltre, conserva in tutta la sua paradossalità il verbo greco misein (odiare). San Matteo usa il verbo greco fileo1 che qui si può tradurre con «preferire», e - penso - giustamente. Anche San Luca, ovviamente, non intende odiare nel vero senso della parola. Pur collocando il verbo «odiare» nel suo significato più proprio di posporre, subordinare decisamente, queste parole di Gesù mantengono intatta la propria forza. Egli sa bene che i genitori devono essere amati e rispettati. Si tratta, anche per lui, non di odio, ma di distacco, di preferenza del Regno: tuttavia egli ha conservato il verbo greco misein che indica, senza dubbio, un distacco radicale. 
Non si tratta soltanto di rompere i legami con la famiglia, né basta un generico distacco da se stessi: l'esempio di Gesù è molto concreto e preciso: occorre essere disposti a portare la croce (versetto 27), cioè essere pronti all'effettivo e totale dono di sé. 
Le parabole della torre e del re (14,28-32) insegnano che bisogna riflettere bene prima di buttarsi in un'impresa, occorre calcolare le possibilità e creare le condizioni che permettono di concluderla con successo
La sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi, perché prima di intraprendere a seguire Gesù occorre «calcolare e riflettere». Questo non significa trovare i modi per sfuggire alla logica della croce, bensì trovare i modi per condurla fino alle estreme conseguenze. Questo è il calcolo richiesto al discepolo. 

Ma che cosa significa in concreto «calcolare e riflettere?». Ce lo dice il versetto 33: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo”. Solo nel distacco dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono totale. Come per costruire una torre è necessaria una sufficiente quantità di mattoni ed i soldi per acquistarli, così per seguire Gesù è necessario il distacco dai beni.
In effetti non si può amare il Bene se il nostro cuore è attaccato ai beni.
La differenza tra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa valutazione del sacrificio e della vita, fino a rinunciarvi perché come dice il Salmo: “La tua grazia vale più della vita”.
Il sacrificio è redentivo, perché è la strada che Cristo ha percorso per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua vera casa.
Il sacrificio è educativo, perché ci impedisce di cullare l’illusione che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di scambiare la misera via del pellegrino con la luminosa ed eterna felicità della patria.

2) Seguire per amore e senza mezze misure.
Per raggiungere questa patria dobbiamo lasciare tutto per avere il Tutto, seguendo Cristo, che ci mostra che chi ama non muore, che solamente l'amore vince la morte. In effetti amando non si muore, si vive nell’altro o, meglio, si vive in Dio per sempre. Chiamati all’esodo dietro Cristo, Mosè definitivo, i cristiani sono chiamati a combattere le mezze misure. Due mezze misure fanno un intero solo in matematica. Cristo da noi vuole la misura intera, piena. Il nostro peccatto più frequente è, penso, il peccato di omissione: non è tanto il male che si fa, qunato il bene che non si fa o, piuttosto, il bene che si fa a metà. Nella vita cristiana la somme di due mezze misura dà come risultato la mediocrità2. Questa parola è eloquente: designa lo stato di chi si stabilisce nella mezza misura, di chi serve due padroni e che non può che essere tiepido, ma “Dio vomita i tiepidi(Ap 3,16):
Seguire Cristo è una “mortificazione” (=fare morte) di ciò che è caduco per una vita liberata, redenta. La rinuncia non è nel cristianesimo fine a se stessa, è sempre la via per aprirsi agli altri e all’Altro per eccellenza. Per andare verso l’altro, bisogna prima uscire da se stessi.
Seguire Cristo, camminare con Lui esige un uscire da noi stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario. Per andare dietro a Gesù come Lui esige non basta la commozione del cuore ma bisogna assumere la sua logica d’amore che ha come vertice la Croce e come esito la Risurrezione. Il dono della vita che Cristo ha fatto fu ed è un dono che porta vita, per sempre.
Seguire Cristo è dedicarsi alla preghiera infatti “l’orazione, esercitando l’anima, la unisce a Dio e le fa seguire le vestigia di Cristo crocifisso; così Dio fa di essa un altro se stesso, per desiderio, affetto e unione d’amore” (Santa Caterina da Siena, Il Dialogo della divina Provvidenza, cap. 1). Con l’amore (agape) Dio stesso assicura in noi la continuità della sua presenza in noi. L’amore di due esseri ne fa uno.
In ciò ci sono di testimonianza le Vergini consacrate le quali offrono l’esempio di seguire Cristo abbandonandosi alla divina Provvidenza in un atteggiamento sponsale. Conformemente al Rito della loro Consacrazione quando il Vescovo chiede loro: “Volete seguire Cristo secondo il Vangelo in modo tale che la vostra vita appaia come una testimonianza d’amore e segno del Regno di Dio?”, “Volete essere consacrate al Signore Gesù Cristo, il Figlio del Dio altissimo e riconoscerlo come sposo”, esse rispondono: “Sì, lo vogliamo” (RCV 17).
In effetti la consacrazione verginale implica una confidenza illimitata nel Figlio di Dio. “Chi si dona completamente a Dio non teme di abbandonare anche tutte le umane cose, per dedicarsi unicamente alle cose divine, per dedicarsi tutto a Dio, per cercare il Regno di Lui e la sua giustizia, per sgombrare dal suo cuore tutti gli affetti terreni, in una parola, per seguire Cristo, e stringersi alla beata nudità della sua croce, morendo su di quella alla terra, e vivendo solo al cielo: mentre dove sta il suo tesoro, ivi si trova pure il suo cuore” (Antonio Rosmini, Massime di perfezione cristiana, lezione V).


1 Il verbo philéô significa “amare” nel senso di “volersi bene, avere caro, trattare con affetto, baciarsi (fra amici), accogliere amichevolmente un ospite”. Philéô era il verbo che esprimeva l'idea di “affetto fra amici” (il sostantivo philós significa infatti in greco “l'amico”). Con philéô si indicava un rapporto interpersonale fondato sull'uguaglianza, sull'affinità all'interno di una comunità, di una città, di una razza. Infatti, come aggettivo, philós significa “caro” e veniva usato nella relazione fra genitori e figli o tra fratelli. Il verbo philéô ricorre 9 volte in Giovanni, 5 volte in Matteo, 1 volta in Marco, 2 volte in Luca; 2 volte nelle Epistole. Nel senso di “avere caro, aver affetto” Gesù usa talvolta questo verbo nei confronti di Lazzaro e di Giovanni (Gv. 11, 3, 36; 20,2), rivelando così una particolare tenerezza e preferenza.
Il verbo agapáô significa “amare” nel senso di “avere caro, tenere in gran conto, preferire, prediligere”: è usato per indicare l'amore verso Dio, il Cristo, la giustizia o il prossimo. Rispetto a philéô, il verbo agapáô ha una minore sfumatura affettiva o, per meglio dire, emotiva ed esprime un moto di benevolenza ideale, un tipo di amore che parte dall'alto o che all'alto si rivolge. Nel latino della Vulgata il verbo agapáô è tradotto con díligo, da cui l'italiano “prediligere”. Agapáô ricorre 37 volte in Giovanni, 13 volte in Luca, 8 volte in Matteo, 5 volte in Marco; si trova inoltre 25 volte nelle Lettere di Giovanni. Nel discorso dell'Ultima Cena riportato in Giovanni il Cristo usa sempre questo verbo: “Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi” (15,9), “amatevi gli uni gli altri” (15,18), fino a quell'ultima preghiera (Gv. 17) in cui il Cristo, donandosi completamente agli uomini, dice: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”.
La differenza tra l'amore espresso da philéô e quello espresso da agapáô - differenza in realtà ignota ai Greci dell'epoca classica - risulta particolarmente chiara dal capitolo 21 (15-17) di Giovanni, dove il Cristo pone a Pietro per tre volte la nota domanda: "Mi ami tu?". In realtà la prima e la seconda domanda recano il verbo agapáô:
Dopo aver pranzato, dice Gesù a Simon Pietro: " Simone di Giovanni, mi ami (agapâs) tu più di costoro?”. Gli risponde: “Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio bene (philô). Gli dice: “Pasci i miei agnelli”. Gli dice per la seconda volta: “Simone di Giovanni, mi ami (agapâs) tu?”. Gli risponde: “Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio bene (philô)”. Gli dice: “Pasci il mio gregge”. Gli dice per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene (phileîs)?””.
La terza volta il Cristo usa il verbo philéô perché, prima della Pentecoste, gli apostoli, compreso Pietro, vivevano ancora l'amore secondo rapporti di sangue, secondo affinità di gruppo o di famiglia: essi recepivano insomma il valore dell'"amore" secondo la connotazione espressa dal verbo philéô. Soltanto dopo la Pentecoste, quando sarà discesa su di essi la fiamma dell'amore cristico, gli apostoli comprenderanno appieno il valore universale dell'agápê, tanto che Paolo così potrà parlarne nell’“Inno alla carità” (1 Cor 13, 1-8).

2 Mediocrità è parola che indica, per es, 1. La posizione intermedia tra due estremi; 2. la modesta qualità o lo scarso di una cosa: mediocrità della merce; 3. La qualità modesta di una persona, che, quindi, viene qualificata come mediocre.


Lettura patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Discorso 344 
L'AMORE DI DIO E AMORE DEL MONDO.

Lotta fra i due amori.
1. Lottano tra loro in questa vita, in ogni tentazione, due amori: l'amore del mondo e l'amore di Dio. Quello dei due che vince trae dalla sua parte, come per una forza di gravità, colui che tende ad esso. A Dio non veniamo con ali o con i piedi, ma con l'affetto. Per un contrario affetto anche alla terra siamo attaccati, non per nodi o legami fisici. Cristo è venuto a mutare la direzione dell'amore e a mutare l'uomo, da amatore che era di cose terrene ad amatore di vita celeste. Fattosi uomo per noi, lui che ci ha fatto uomini, lui Dio, ha assunto la natura umana per farci da uomini dèi. Questa gara ci viene proposta: una lotta con la carne, una lotta col diavolo, una lotta col mondo. Ma dobbiamo avere fiducia, perché chi ha indetto la gara, non sta lì come spettatore senza darci aiuto e neanche ci esorta a presumere delle nostre forze. Chi presume infatti delle proprie forze, in quanto è uomo, si fida delle forze dell'uomo. Ed è detto: Maledetto l'uomo che confida nell'uomo. I martiri che ardevano della fiamma di questo pio e santo amore bruciarono la paglia della carne con la forza dell'animo e giunsero integri nello spirito presso Colui da cui erano stati accesi. Anche alla carne che sia stata capace di disprezzare le cose di questa sfera materiale sarà dato il dovuto onore nella risurrezione dei morti. La carne è stata seminata in ignominia per risorgere nella gloria.
Amore ai parenti ma piú a Dio.
2. A chi è acceso di questo amore a Dio o meglio perché vi si accenda è stato detto: Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e: Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me. Dio non ha tolto l'amore dei genitori, della moglie, dei figli ma lo ha messo in gerarchia di valori. Non ha detto: " Chi ama ", ma: chi ama più di me. E` quello che la Chiesa dice nel Cantico dei Cantici: Ha messo in me un ordine nell'amore. Ama dunque il padre, ma non amarlo più del Signore, ama chi ti ha generato ma non più di chi ti ha creato. Il padre ti ha generato ma non ti ha formato lui stesso come tu sei. Ignorava quando ti seminò chi e quale figlio gli sarebbe nato. Il padre ti alimentò ma non diede a te, quando avevi fame, un pane tratto da se stesso. Infine, qualunque cosa il padre tiene in serbo per te in terra, deve morire perché tu ne venga in possesso, deve far posto con la sua morte alla tua vita. Quel padre che è Dio invece ti tiene in serbo cose che ti dà insieme a se stesso; tu possiedi l'eredità insieme con tuo padre e scompare l'alternanza predecessore- successore; non devi aspettare che muoia ma sarai sempre con lui, che rimarrà per sempre, e tu rimarrai sempre in lui. Ama dunque tuo padre, ma non più del tuo Dio. Ama tua madre, ma non più della Chiesa che ti ha generato alla vita eterna. E dallo stesso amore che unisce figli e genitori giudica quanto tu debba amare Dio e la Chiesa. Se tanto vanno amati coloro che hanno generato un mortale, quanto più coloro che hanno generato chi giungerà all'eternità e in essa rimarrà! Ama la moglie, ama i figli ma secondo Dio, in modo da aver cura che anch'essi venerino Dio insieme con te. Quando sarai congiunto a lui non avrai più da temere separazioni. Perciò non devi amarli più di Dio e li ameresti male se trascurassi di condurli a Dio insieme con te. Può presentarsi anche l'ora del martirio. Tu vuoi far professione di fede a Cristo. Per questa professione puoi subire torture, puoi subire la morte temporale. Si può dare il caso che padre, moglie, figli insistano per strapparti alla morte, e con questi tentativi ti procurerebbero la morte. Se non riescono a procurartela, ecco allora ti verrà in mente questo monito: Chi ama il padre o la madre o la moglie o i figli più di me, non è degno di me.