venerdì 31 marzo 2017

L’Amico dona la vita all’amico.

V Domenica di Quaresima – Anno A – 2 aprile 2017
Rito Romano
Ez 37, 12-14; Sal 129; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45

Rito Ambrosiano
Es 14,15-31; Sal 105; Ef 2,4-10; Gv 11,1-53
Domenica di Lazzaro

1) L’Amore eterno dà la vita eterna:
Domenica scorsa, abbiamo meditato il miracolo del cieco nato ed abbiamo visto che Gesù ci apre gli occhi sulla realtà totale, per farci vedere l’uomo nuovo, l’uomo libero a immagine di Dio.
Oggi, Cristo vuole aprirci gli occhi su quella realtà estrema davanti alla quale tutti chiudiamo gli occhi: la morte. Il nostro desiderio più profondo è quello di non morire. Abbiamo il desiderio di vita piena, d’immortalità, ma sappiamo che non è possibile salvarci da soli dalle acque della morte. In effetti, è come se per uscire da un gorgo di acqua che ci trascina in fondo al mare, ognuno con le sue mani tiri in su, in alto, i propri capelli. Questo nostro gesto, per altro assurdo, non può salvarci dall’andare a fondo nel mare della vita. Ci si salva solo tendendo la mano per stringere quella dell’Amico, che, prendendo la nostra mano tesa, ci tira fuori dal vortice di morte e ci pone accanto a Lui nell’arca della vita.
Grazie a Cristo la morte non è più il termine triste della nostra vita. Il nostro esodo non si conclude in una tomba, che non fa che glorificare la morte. Cristo, la cui morte e risurrezione è anticipata da quella di Lazzaro, ci rivela che la morte è il passaggio drammatico per entrare nella vita definitiva. La morte è la porta che la Croce, come chiave, apre per farci entrare nella vita vera e per sempre.
Certo, facciamo molta fatica ad accettare la logica della Croce, che ci mostra che chi è amato da Dio non è da Lui abbandonato. Cristo ci salva con la Croce e non nonostante la Croce. E se con occhi di fede guardiamo alla Croce, capiremo sempre di più la “logica” di questo che da strumento di morte diventa strumento di vita.
E questo è davvero per i cristiani un punto fermo: se si vuol trovare nella storia e nella vita un senso, occorre saper vedere nella Croce di Cristo la gloria di Dio. Non è possibile diversamente. La Croce “apre” alla Risurrezione, anticipata -in un certo senso- da quella di Lazzaro, che manifesta il potente amore di Dio e dimostra che l’ultima parola non spetta alla morte. L’ultima parola spetta a Dio che è Amore e che dà la vita per sempre.
Chi accetta questo Amore e vi corrisponde, vive già ora la vita eterna. Insomma, il Signore non vuol dare una ricetta a buon mercato per evitare la morte - siamo limitati, diversamente non esisteremmo. Ci vuole dare invece un nuovo modo di vivere i nostri limiti, compreso il limite ultimo della morte. Il limite non è la negazione di me; il limite è il luogo dove io posso entrare in relazione con gli altri e con l’Altro con la “A” maiuscola, grazie al quale posso avere un rapporto di amore e di comunione che non finisce più. Quando un amante dice all’amata: “Ti amo”, vuol dire “Non morire”, ma sa che è solo un forte desiderio. Quando è Dio che ci dice “Ti amo”, questo “Non morire” è una dato di fatto, non un semplice augurio. Con la risurrezione di Cristo, Dio che è Amore, porta nel suo Regno di vita l’umanità che era schiava del regno di morte.


2) Il “segno” della risurrezione di Lazzaro.
Alla luce di questa premessa capiamo che il racconto evangelico ci parla della risurrezione di Lazzaro non solo come di un miracolo eccezionale, ma come “segno” di qualcos’altro, di quella vita eterna, che viviamo già da ora e che la morte non interrompe.
Il Signore ci insegna che la vita eterna è l’amicizia con Dio, che ci fa vivere una vita libera dall’ipoteca della morte, perché viviamo già da ora questo rapporto con Lui e con i fratelli, una vita che va già oltre la morte: è un rapporto eterno con un Amore senza fine.
La risurrezione di Lazzaro è l’ultimo “segno” compiuto da Gesù prima di affrontare la passione e vincere la morte in Croce grazie alla sua Risurrezione. Anzi possiamo dire che sia il segno per eccellenza: Gesù non è un semplice guaritore, ma è “la risurrezione e la vita” per tutti. Dunque è giusto affermare che la Risurrezione di Cristo è il centro del Vangelo. La morte e risurrezione di Lazzaro ne è la conseguenza anticipata, che ci aiuta a capire la morte e risurrezione di Gesù. Parlando della morte di Lazzaro, Gesù dice: “E un sonno”. La differenza tra il sonno e la morte è che la morte è la fine, il sonno invece prelude l’inizio del nuovo giorno. Potremmo dire che la morte di Cristo non è morte, è preludio per tornare al Padre e donare vita ai fratelli, come tutta la vita.
L’accostamento tra Lazzaro (cioè noi) e Gesù è evidente nel brano evangelico di oggi. La vicenda di Lazzaro (dunque noi) si intreccia con quella di Cristo, sia perché Lazzaro è abbandonato alla morte e Gesù è abbandonato alla Croce, sia perché la risurrezione di Lazzaro Gli costa la vita. I capi del popolo decidono di ucciderlo proprio perché ha risuscitato Lazzaro. Quindi vita per vita, è risurrezione a caro prezzo per lui.
Il Redentore, che ha detto che non c’è più grande amore di quello di donare la vita per gli amici (cfr Gv 15,13), decide di andare dall’amico.
Gesù ama1 davvero Lazzaro e tuttavia lo lascia morire. Perché? Ognuno di noi comprende che si tratta del mistero dell’esistenza di noi, creature umane: una promessa di vita che sembra smentita, una promessa di Dio che sembra contraddirsi. Un mistero inquietante, anche se il Vangelo ci racconta che Gesù ha pianto di fronte alla morte dell'amico, come ha provato smarrimento di fronte all’imminenza della Sua morte in Croce. La morte, come la Croce, continua a rimanere qualcosa di incomprensibile: siamo di fronte a un Dio che ci dice di amarci e tuttavia sembra abbandonarci.
Il mistero dell’esistenza dell’uomo, amato da Dio e tuttavia abbandonato alla morte, si rispecchia e si ingigantisce nel mistero della Croce di Gesù. Ma anche si risolve se guardiamo alla Croce con occhi veri e di fede, perché c’è vedere e vedere, e possiamo guardare a Cristo in Croce in due modi:
  • lo sguardo privo di fede di chi si arresta allo scandalo, e vede nella morte dell’uomo come nella Croce di Cristo il segno del fallimento.
    E c’è
  • lo sguardo di fede, che supera lo scandalo, e vede che la risurrezione splende nella Croce di Gesù e nella morte di ogni uomo.
E questo è davvero per i cristiani un punto fermo: se si vuol trovare nella storia e nella vita un senso, occorre saper vedere nella Croce di Cristo la gloria di Dio. Non è possibile diversamente. Con questo preciso richiamo al mistero dell'esistenza dell’uomo - che nel mistero della Croce di Cristo si rispecchia, si ingigantisce e si risolve - possiamo concludere anche la nostra riflessione. Giovanni ha saputo trasformare l’episodio di Lazzaro in un discorso altamente teologico, e proprio per questo anche esistenziale, rivolto a ogni uomo che ha il coraggio di porsi l'interrogativo sull'esistenza.

3) Gesù risurrezione per la nostra vita, ora e per l’eternità.
I temi delle precedenti domeniche convergono in felice sintesi nella Liturgia di oggi: Gesù, sorgente dell’acqua viva (III domenica di Quaresima con il Vangelo della Samaritana) e della luce (IV domenica di Quaresima con il Vangelo del cieco nato), è colui che conferisce la vita a chi crede in lui (Vangelo di oggi).
Il tema centrale del Vangelo di Lazzaro è quello della vita. Il “segno della vita” è l’approdo finale del cammino battesimale. Il cristiano, consacrato nel Battesimo, vive la stessa vita di Gesù; ne segue il destino di morte e risurrezione; ne condivide il significato e custodisce nel cuore la speranza di poter stare con il suo Signore per sempre. Questa vita, iniziata con la consacrazione battesimale, è eterna e più non muore.
Come fare oggi l’esperienza di Lazzaro?
Prima di tutto lasciandoci avvicinare da Cristo che dice ancora oggi: “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo”. Gesù fa una rivelazione sorprendente e usa l’immagine del sonno per parlare della morte; i discepoli, invece, pensano al sonno come l’inizio di una guarigione che allontana la morte. Per Gesù questo “ritorno alla vita” è solo un “segno” dell’altra vita, quella divina, che è donata ai credenti. I discepoli non sospettano nulla e pensano ancora al “ritorno” in una vita la cui fine è solo rimandata.
In secondo luogo, accogliamo con rinnovata fede la rivelazione della risurrezione: “Gesù disse a Maria: Tuo fratello risorgerà. [...] Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà”. Gesù prima di compiere “il segno” lo spiega e pone il suo messaggio su un piano diverso; Gesù sta rivelando il senso stesso della sua missione. La vita che Gesù dona non è un ritorno alla vita di prima, ma è il dono della vita eterna: quella che non muore perché è lui la vita.
Infine, preghiamo con Cristo che alzò gli occhi e disse: “Padre ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. Gesù ringrazia il Padre non tanto per la risurrezione di Lazzaro quanto per la sua. Con gli stessi sentimenti di Cristo camminiamo con Lui che ci prende per mano per condurci, in questi giorni santi, sulla croce e regalarci la risurrezione.
Gesù si offre a Dio al posto nostro. La morte azzanna il Figlio illudendosi di aver vinto Dio. Ma “Dio ha preparato per lei un boccone avvelenato: la morte se ne nutre ma mangia la sua fine” (Anonimo Cristiano)

4) Verginità e risurrezione.
Termino queste riflessioni sulla risurrezione, con alcuni pensieri relativi alla testimonianza delle vergini consacrate. “La vita di queste persone è un trasferimento in terra della vita degli angeli, ed è un preannunzio della vita dopo la resurrezione … A tutta ragione la verginità è detta virtù angelica; san Cipriano scrivendo alle vergini afferma giustamente: “Quello che noi saremo un giorno, voi già cominciate ad esserlo. Voi fin da questo secolo godete la gloria della risurrezione, passate attraverso il mondo senza contagiarvene. Finché perseverate caste e vergini, siete eguali agli angeli di Dio” (De habitu virginum, 22: PL 4, 462). All'anima assetata di purezza e arsa dal desiderio del regno dei cieli, la verginità viene presentata ‘come una gemma preziosa’, per la quale un tale ‘vendette tutto ciò che aveva e la comprò’ (Mt 13, 46). Coloro che sono sposati e perfino quelli che stanno immersi nel fango dei vizi, quando vedono le vergini, ammirano spesso lo splendore della loro bianca purezza” (Pio XII, Sacra Virginitas – La Virginità Consacrata).
Ma già i Padri della Chiesa insistevano nell’affermare che nella verginità consacrata c’è in modo particolare l’immagine di Dio incorruttibile e il volto di Cristo, Verbo incarnato. Per esempio Sant’Ambrogio di Milano afferma che la verginità consacrata è il sacerdozio della castità, “in cui non è difficile percepirvi una particolare sensibilità dello spirito umano, che già nelle condizioni della temporalità sembra anticipare ciò di cui l'uomo diverrà partecipe nella futura risurrezione” (San Giovanni Paolo II, Udienza Generale del 10 marzo 1982).

1  Questo amore è ripetutamente sottolineato e l’Evangelista per designarlo usa il verbo greco “agapo”, che indica l’amore di donazione, incondizionato, disinteressato, senza la ricerca di un tornaconto personale.




Lettura Patristica
Cromazio di Aquileia
Sermo 27, 1-4

1. La risurrezione di Lazzaro

       Il Signore e Salvatore nostro Cristo Gesù ha certo manifestato la potenza della sua divinità con numerosi segni e con miracoli di ogni specie, ma particolarmente alla morte di Lazzaro, come avete appena udito, carissimi, nella presente lettura, mostrando di essere colui del quale era stato scritto: "Il Signore della potenza è con noi, nostra rocca è il Dio di Giacobbe" (Ps 45,8). Questi miracoli, il Signore e Salvatore nostro li ha operati sotto due aspetti: materiale e spirituale, cioè producendo un effetto visibile e un altro invisibile, manifestando per mezzo dell’effetto visibile la sua invisibile potenza. Prima, con un’opera visibile, rese al cieco nato la vista della luce (Jn 9,1-38) per illuminare con la luce della sua conoscenza, per mezzo della sua invisibile potenza, la cecità dei Giudei. Nella presente lettura, egli rese la vita a Lazzaro che era morto (Jn 11,1-44), al fine di risuscitare dalla morte del peccato alla vita i cuori increduli dei Giudei. Di fatto molti Giudei credettero a Cristo Signore a causa di Lazzaro: riconobbero nella sua risurrezione una manifestazione della potenza del Figlio di Dio, poiché comandare alla morte in forza della propria potenza non rientra fra le capacità della condizione umana, ma è proprio della natura divina. Leggiamo invero che anche gli apostoli hanno risuscitato dei morti, ma essi hanno implorato il Signore perché li risuscitasse (Ac 9,40 Ac 20,9-12); essi li hanno sì risuscitati, non però con le loro forze, o per virtù propria, ma dopo aver invocato il nome di Cristo che comanda alla morte e alla vita: il Figlio di Dio invece ha risuscitato Lazzaro per virtù propria. Infatti appena il Signore disse: "Lazzaro, vieni fuori" (Jn 11,43), quegli uscì subito dal sepolcro: ;la morte non poteva trattenere colui che veniva chiamato dalla Vita. Il fetore della tomba era ancora nelle narici dei presenti allorché Lazzaro era già in piedi e vivo. La morte non attese di sentirsi ripetere il comando dalla voce del Salvatore, perché essa non era in grado di resistere alla potenza della Vita; e pertanto a una sola parola del Signore la morte fece uscire dal sepolcro il corpo di Lazzaro e la sua anima dagli inferi, così tutto Lazzaro uscì vivo dal sepolcro, dove non era completo ma solo col suo corpo. Ci si risveglia più lentamente dal sonno che non Lazzaro dalla morte. Il fetore del cadavere era ancora nelle narici dei Giudei che già Lazzaro stava in piedi e vivo. Ma consideriamo ora l’inizio della stessa lettura.

       Il Signore disse dunque ai suoi discepoli, come avete udito carissimi, nella presente lettura: "Lazzaro, l’amico nostro, dorme ma io vado a risvegliarlo" (Jn 11,11). Il Signore disse bene. "Lazzaro, l’amico nostro, dorme," perché in realtà egli stava per risuscitarlo da morte come da un sonno. Ma i discepoli, ignorando il significato delle parole del Signore, gli dicono: "Signore, se dorme, guarirà" (Jn 11,12). Allora in risposta "disse loro chiaro: Lazzaro è morto, ma sono contento per voi di non essere stato là affinché crediate" (Jn 11,14-15). Se il Signore qui afferma di rallegrarsi per la morte di Lazzaro in vista dei suoi discepoli, come si spiega che in seguito pianse sulla morte di Lazzaro? (Jn 11,35). Occorre, al riguardo, badare al motivo della sua contentezza e delle sue lacrime. Il Signore si rallegrava per i discepoli, piangeva per i Giudei. Si rallegrava per i discepoli, perché con la risurrezione di Lazzaro egli sapeva di confermare la loro fede nel Cristo; ma piangeva per l’incredulità dei Giudei, perché neppure di fronte a Lazzaro risorto avrebbero creduto a Cristo Signore. O forse il Signore pianse per cancellare con le sue lacrime i peccati del mondo. Se le lacrime versate da Pietro poterono lavare i suoi peccati, perché non credere che i peccati del mondo siano stati cancellati dalle lacrime del Signore? In effetti, dopo il pianto del Signore, molti fra il popolo dei Giudei credettero. La tenerezza della bontà del Signore vinse in parte l’incredulità dei Giudei e le lacrime da lui teneramente versate addolcirono i loro cuori ostili. E forse per questo la presente lettura ci riferisce l’uno e l’altro sentimento del Signore, cioè la sua gioia e il suo pianto, perché "chi semina nelle lacrime", com’è scritto, "mieterà nella gioia" (Ps 125,5). Le lacrime del Signore sono dunque la gioia del mondo: infatti per questo egli versò lacrime, perché noi meritassimo la gioia. Ma ritorniamo al tema. Disse dunque ai suoi discepoli: "Lazzaro, l’amico nostro, è morto; ma io sono contento per voi di non essere stato là, affinché crediate". Rileviamo anche qui un mistero: come il Signore può dire di non essere stato là [dove Lazzaro era morto]? Infatti quando dice chiaramente: "Lazzaro è morto" dimostra all’evidenza di essere stato lì presente. Né il Signore avrebbe potuto parlare così, dal momento che nessuno l’aveva informato, se non fosse stato lì presente. Come il Signore poteva non essere presente nel luogo dove Lazzaro era morto, lui che abbraccia con la sua divina maestà ogni regione del mondo? Ma anche qui il Signore e Salvatore nostro manifesta il mistero della sua umanità e della sua divinità. Egli non si trovava lì con la sua umanità, ma era lì con la sua divinità, perché Dio è in ogni luogo.

       Quando il Signore giunse da Maria e da Marta, sorelle di Lazzaro, alla vista della folla dei Giudei, chiese: "Dove l’avete messo?" (Jn 11,34). Forse che il Signore poteva ignorare dove era stato posto Lazzaro, lui che, sebbene assente, aveva preannunciato la morte di Lazzaro e che con la maestà del suo essere divino è presente dappertutto? Ma il Signore, così facendo, si attenne a un’antica sua consuetudine. Infatti, allo stesso modo chiese ad Adamo: "Adamo, dove sei?" (Gn 3,9). Egli interrogò Adamo non perché ignorava dove si trovasse, ma perché Adamo confessasse il suo peccato con le proprie labbra e potesse così meritarne il perdono. Interrogò anche Caino: "Dov’è tuo fratello Abele"? ed egli rispose: "Non so" (Gn 4,9). Dio non interrogò Caino quasi che non sapesse dove si trovava Abele, ma per potergli imputare, sulla base della sua risposta negativa il delitto commesso contro il fratello. Di fatto Adamo ebbe il perdono perché confessò il peccato commesso al Signore che lo interrogava; Caino invece fu condannato alla pena eterna, perché negò il suo delitto. Così anche nel nostro caso, quando il Signore chiede: "Dove l’avete messo?" non pone la domanda quasi che ignori dove sia stato sepolto Lazzaro, ma perché la folla dei Giudei lo segua fino al suo sepolcro e, constatando nella risurrezione di Lazzaro la divina potenza di Cristo, essi divengano testimoni contro sé stessi qualora non credano a un miracolo così grande. Infatti il Signore aveva loro detto in precedenza: "Se non credete a me, credete almeno alle mie opere e sappiate che il Padre è in me e io sono in lui" (Jn 10,38). Quando poi giunse presso il sepolcro, disse ai Giudei che stavano intorno: "Levate via la pietra" (Jn 11,39). Che dobbiamo dire? Forse che il Signore non poteva rimuovere la pietra dal sepolcro con un semplice comando, lui che, con la sua potenza, ha rimosso le sbarre degli inferi? Ma il Signore ha ordinato agli uomini di fare ciò che era nelle loro possibilità; ciò che invece appartiene alla virtù divina, lo ha manifestato con la propria potenza. Infatti rimuovere la pietra dal sepolcro è possibile alle forze umane, ma richiamare un’anima dagli inferi è solo in potere di Dio. Ma, se l’avesse voluto, avrebbe potuto rimuovere facilmente la pietra dal sepolcro con una sola parola chi con la sua parola creò il mondo.

       Quand’ebbero dunque rimosso la pietra dal sepolcro, il Signore disse a gran voce: "Lazzaro, vieni fuori", dimostrando così di essere colui del quale era stato scritto: "La voce del Signore è potente, la voce del Signore è maestosa" (Ps 28,4), e ancora: "Ecco che darà una voce forte alla sua potenza" (Ps 67,34). Questa voce che ha subito richiamato Lazzaro dalla morte alla vita è veramente una voce potente e maestosa, e l’anima fu restituita al corpo di Lazzaro prima che il Signore avesse fatto uscire il suono della sua voce. Sebbene il corpo fosse in un luogo e l’anima in un altro, tuttavia questa voce del Signore restituì subito l’anima al corpo e il corpo obbedì all’anima. La morte infatti fu rimossa alla voce di una così grande potenza. E nulla di strano, certamente, che Lazzaro sia potuto risorgere per una sola parola del Signore, quando ha dichiarato egli stesso nel Vangelo che quanti sono nei sepolcri risorgeranno alla sola e unica parola, dicendo: "Viene l’ora in cui i morti ascolteranno la voce del Figlio di Dio e risorgeranno" (Jn 5,25). Senza dubbio, all’udire la parola del Signore, la morte avrebbe potuto allora lasciar liberi tutti i morti, se non avesse capito che era stato chiamato soltanto Lazzaro. Dunque, quando il Signore disse: "Lazzaro, vieni fuori, subito egli uscì legato piedi e mani e la faccia ravvolta in un sudario" (Jn 11,44). Che diremo qui ancora? Forse che il Signore non poteva spezzare le bende nelle quali Lazzaro era stato sepolto, lui che aveva spezzato i legami della morte? Ma qui il Signore e Salvatore nostro manifesta nella risurrezione di Lazzaro la duplice potenza della sua operazione per tentare d’infondere almeno così la fede nei Giudei increduli. Infatti non desta minor meraviglia veder Lazzaro poter camminare a piedi legati che vederlo risuscitare dai morti.


venerdì 24 marzo 2017

Occhi del cuore guariti per vedere la luce vera.

IV Domenica di Quaresima - LAETARE – Anno A – 26 marzo 2017
Rito Romano
Sam 16,1.4.6-7.10-13; Sal 22; Ef 5,8-14; Gv 9,1-41



Rito Ambrosiano
Es 34,27-35,1; Sal 35; 2Cor 3,7-18; Gv 9,1-38b
Domenica del cieco
1) Luce per gli occhi dell’anima.
Mentre domenica scorsa, attraverso il Vangelo della Samaritana Gesù ha promesso anche a noi il dono dell’acqua viva (Gv 4, 10.11) in questa IV domenica di Quaresima, chiamata anche “Laetare” (= Gioite), ci presenta Cristo “luce del mondo”, che guarisce un “cieco nato” (cfr Gv 9,1-41) .
Chi è un cieco nato? E’ una persona che non sa cosa sia la bellezza del creato e delle creature. E’ uno che vive senza potere o sapere dare un volto alle persone che gli sono accanto. E’ uno che vive senza vedere l’arcobaleno del cielo, i colori dei campi, l’imponenza delle montagna, la dolcezza dei campi, i colori dei fiori e degli alberi.
Questo cieco è, soprattutto, uno che non conosce la gioia di poter fissare negli occhi con amore una persona cara. E’ una grande tristezza avere gli occhi e non vedere, affidandosi solo a quanto l’orecchio e il tatto fanno percepire, ed ad essere costretti a camminare per le vie con un bastone tra le mani, indovinando gli ostacoli senza sapere dove siano.
Tuttavia vi è una cecità molto peggiore, nell'uomo che non ha fede, che non conosce Gesù, che è la sola Verità che illumina il mondo, che dà senso ai fatti, spazio all'intelligenza, profondità all'amore, gusto a tutto ciò che siamo e facciamo, affetti compresi. Costui davvero è cieco: che ne sa della Luce, o meglio con quale luce cammina, giudica cose e fatti?
Provvidenzialmente, Cristo gli sana gli occhi del corpo e quelli dell’anima, con il tocco delle sue dita. Fatto questo che ci fa ricordare anche quanto accadde a noi il giorno del nostro battesimo, quando i nostri occhi furono stati accarezzati e benedetti dal sacerdote, perché si schiudessero alla Luce, che è Cristo. Questa luce di Cristo ci è data per vivere da figli della luce, dopo avere avuto guariti gli occhi del cuore, che “malati” rendevano cieca l’anima.
Immaginiamoci la scena, soprattutto quando Gesù prende un po’ di terra e la mischia con la sua saliva. Ne fa del fango e lo spalma sugli occhi del cieco. Questo gesto allude alla creazione dell’uomo, che la Bibbia racconta con il simbolo della terra plasmata e animata dal soffio di Dio (cfr Gn 2,7). “Adamo” infatti significa “terrestre, impastato di terra” (Adamo deriva dalla parola ebraica adamah che vuol dire terra), e il corpo umano in effetti è composto di elementi della terra. Guarendo l’uomo, Gesù opera una nuova creazione. Dare la vista, in certo senso, equivale dare la vita. Non a caso si dice che un donna dà alla luce un bambino. Venire alla luce è godere dei colori del mondo, della libertà di muoversi senza paura, di correre nella luce e saltare di gioia. Tuttavia il significato più profondo di questo miracolo della luce è che non solo gli occhi del corpo possono vedere, ma anche quelli dell’anima e così si può guardare nella profondità del mistero di Cristo, vedere la sua verità ed il suo amore ed esclamare: “Io credo, Signore” (Gv 9, 38), prostrandoci davanti a Lui, in un gesto che è adorazione, come ha fatto il cieco nato appena fu guarito. Da quel momento per quell’uomo ebbe inizio un cammino di fede.

2) Cammino nella luce.
Il cammino a cui Gesù invitò il miracolato oggi ci è riproposto dalla Chiesa.
E’ un cammino di crescita nella conoscenza del Mistero di Cristo, e nell’esperienza di Lui, che è luce, e ci conduce alla pienezza della visione, anche, in mezzo agli ostacoli e alle zone d’ombra della vita.
Per questo miracolato anonimo – che, quindi, rappresenta ciascuno di noi - la grazia più grande che riceve da Cristo non è tanto quella di vedere, quanto quella di conoscere Lui, vederLo come “la luce del mondo” (Gv 9,5). Il miracolo è che Cristo non fa vedere solo la luce del sole, ma anche quella della verità.
Nel miracolo del cieco nato vediamo che la conversione è un lasciarsi aprire gli occhi su una realtà com’è davvero: in Dio e non come la vediamo quando guardiamo con occhi non di fede.
Quindi, facciamo nostro l’invito di San Bonaventura per un cammino della mente verso Dio: “Apri dunque gli occhi, tendi l’orecchio spirituale, apri le tue labbra e disponi il tuo cuore, perché tu possa in tutte le creature vedere, ascoltare, lodare, amare, venerare, glorificare, onorare il tuo Dio” (Itinerarium mentis in Deum, I, 15).
E’ un cammino, che possiamo compiere seguendo l’esortazione di San Paolo “Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; e il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro, in segreto, è vergognoso perfino parlare. Tutte queste cose, che vengono apertamente condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si manifesta è luce. Per questo sta scritto: ‘Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà’”. (Ef 5, 8 14 - II lettura di questa Domenica).
E’ un cammino in cui siamo chiamati ad essere testimoni della luce e dell’amore che nasce dalla fede. “La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! In questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità Egli vince. […] La fede… suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine di Dio” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n.39).
Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare tutti e ciascuno di noi.
Come insegna Papa Francesco: “La nostra vita - a volte - è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, a Dio e alla sua grazia. A volte purtroppo è un po’ come quella dei dottori della legge, dei farisei, che sprofondarono sempre più nella cecità interiore: dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore... Nell’episodio evangelico dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista: alla fine, mentre i “presunti vedenti” continuano a rimanere ciechi, il cieco guarito approda alla fede ed è questa la grazia più grande che gli viene fatta da Cristo: conoscere Lui, che è la luce del mondo” (Angelus, del 18 marzo 2016).

3) Verginità per la Luce.
Il cieco nato andò - a occhi chiusi ma con una buona ragione: il comando di Cristo – alla piscina di Siloe per lavarsi gli occhi impastati di fango. Quando gli occhi furono tersi, vide, credette e annunciò. La guarigione fu corporale e spirituale. Per questo vide non solo persone e cose, ma la verità di Dio e dell’uomo. Vide che Dio è per l’uomo, che Dio è amore, che Dio dona tutto, che Dio dona se stesso, che Dio dona la libertà che la libertà è l’amore e il servizio.
Questo miracolo ci invita a chiedere al Signore di guarire gli occhi della nostra anima, quindi di convertirci verso di Lui, per contemplarLo e seguirLo.
Le vergini consacrate nel mondo sono un esempio di questa conversione resa costante cammino mediante la consacrazione, che implica un’offerta piena della propria vita a Cristo. Dio “continuamente le purifica e rinnova, per farle comparire davanti a sé immacolate e sante, come spose adorne per le nozze. Nel mistero di questa Chiesa, vergine e madre, per mezzo del tuo Spirito susciti la varietà dei doni e dei carismi per l’edificazione del tuo regno. Sei tu che parli, o Padre, al cuore delle tue figlie e le attiri con vincoli di amore perché nell’attesa ardente e vigilante alimentino le loro lampade e vadano incontro a Cristo, re della gloria” (Prefazio della Messa del Rito di consacrazione delle Vergini).


Lettura Patristica
Sant’Efrem, il Siro (306 – 373)
Diatessaron, 16, 28-32

Il cieco nato

       E perché essi avevano bestemmiato a proposito delle sue parole: "Prima che Abramo fosse, io ero" (Jn 8,58), Gesù andò verso l’incontro con un uomo, cieco fin dalla nascita: "E i suoi discepoli lo interrogarono: Chi ha peccato, lui o i suoi genitori? Egli disse loro: Né lui, né i suoi genitori, ma è perché Dio sia glorificato. È necessario che io compia le opere di colui che mi ha mandato, finché è giorno" (Jn 9,2-4), fintanto che sono con voi. "Sopraggiunge la notte" (Jn 9,4), e il Figlio sarà esaltato, e voi che siete la luce del mondo, scomparirete e non vi saranno più miracoli a causa dell’incredulità. "Ciò dicendo, sputò per terra, formò del fango con la saliva, e fece degli occhi con il suo fango" (Jn 9,6), e la luce scaturí dalla terra, come al principio, quando l’ombra del cielo, "la tenebra, era estesa su tutto" ed egli comandò alla luce e quella nacque dalle tenebre (Gn 1,2-3). Così «egli formò del fango con la saliva», e guarì il difetto che esisteva dalla nascita, per mostrare che lui, la cui mano completava ciò che mancava alla natura, era proprio colui la cui mano aveva modellato la creazione al principio. E siccome rifiutavano di crederlo anteriore ad Abramo, egli provò loro con quest’opera che era il Figlio di colui che, con la sua mano, "formò" il primo "Adamo con la terra" (Gn 2,7): in effetti, egli guarì la tara del cieco con i gesti del proprio corpo.

       Fece ciò inoltre per confondere coloro che dicono che l’uomo è fatto di quattro elementi, poiché rifece le membra carenti con terra e saliva, fece ciò a utilità di coloro che cercavano i miracoli per credere: "I Giudei cercano i miracoli" (1Co 1,22). Non fu la piscina di Siloe che aprì gli occhi del cieco (Jn 9,7 Jn 11), come non furono le acque del Giordano che purificarono Naaman; è il comando del Signore che compie tutto. Ben più, non è l’acqua del nostro Battesimo, ma i nomi che si pronunciano su di essa, che ci purificano. "Unse i suoi occhi con il fango" (Jn 9,6), perché i Giudei ripulissero l’accecamento del loro cuore. Quando il cieco se ne andò tra la folla e chiese: «Dov’è Siloe?», si vide il fango cosparso sui suoi occhi. Le persone lo interrogarono, egli le informò, ed esse lo seguirono, per vedere se i suoi occhi si fossero aperti.

       Coloro che vedevano la luce materiale erano guidati da un cieco che vedeva la luce dello spirito, e, nella sua notte, il cieco era guidato da coloro che vedevano esteriormente, ma che erano spiritualmente ciechi. Il cieco lavò il fango dai suoi occhi, e vide se stesso; gli altri lavarono la cecità del loro cuore ed esaminarono sé stessi. Nostro Signore apriva segretamente gli occhi di molti altri ciechi. Quel cieco fu una bella e inattesa fortuna per Nostro Signore; per suo tramite, acquistò numerosi ciechi, che egli guarì dalla cecità del cuore.

       In quelle poche parole del Signore si celavano mirabili tesori, e, in quella guarigione era delineato un simbolo: Gesù figlio del Creatore. "Va’, lavati il viso" (Jn 9,7), per evitare che qualcuno consideri quella guarigione più come un stratagemma che come un miracolo, egli lo mandò a lavarsi. Disse ciò per mostrare che il cieco non dubitava del potere di guarigione del Signore, e perché, camminando e parlando, pubblicizzasse l’evento e mostrasse la sua fede.

       La saliva del Signore servì da chiave agli occhi chiusi, e guarì l’occhio e la pupilla con le acque, con le acque formò il fango e riparò il difetto. Agì così, affinché, allorché gli avrebbero sputato in faccia, gli occhi dei ciechi, aperti dalla sua saliva, avessero reso testimonianza contro di essi. Ma essi non compresero il rimprovero che egli volle fare a proposito degli occhi guariti dei ciechi: "Perché coloro che vedono diventino ciechi" (Mt 26,27); diceva questo dei ciechi perché lo vedano corporalmente, e di quelli che vedono perché i loro cuori non lo conoscano. Egli ha formato il fango durante il sabato (Jn 9,14). Omisero il fatto della guarigione e gli rimproverarono di aver formato del fango. Lo stesso dissero a colui "che era malato da trentotto anni: Chi ti ha detto di portare il tuo lettuccio?" (Jn 5,5 Jn 12), e non: Chi ti ha guarito? Qui, analogamente: «Ha fatto del fango durante il sabato». E così, anzi per molto meno, non si ingelosirono di lui e non lo rinnegarono, quando guarì un idropico, con una sola parola, in giorno di sabato? (Lc 14,1-6). Cosa gli fece dunque guarendolo? Egli fu purificato e guarito con la sola parola. Quindi, secondo le loro teorie, chiunque parla viola il sabato; ma allora - si dirà - chi ha maggiormente violato il sabato, il nostro Salvatore che guarisce, o coloro che ne parlano con gelosia?


venerdì 17 marzo 2017

La sete del cuore

III Domenica di Quaresima – Anno A – 19 marzo 2017
Rito Romano
Es 17,3-7; Sal 94; Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42



Rito Ambrosiano
Es 34,1-10; Sal 105; Gal 3,6-14; Gv 8,31-59
Domenica di Abramo


Premessa
In questa III domenica di Quaresima, come poi nella IV e nella V, invece del Vangelo secondo San Matteo la Liturgia della Chiesa ci propone tre brani presi da quello secondo San Giovanni, nei quali sono raccontati tre incontri di Gesù:
  • con la Samaritana che viene al pozzo di Giacobbe e riceve in dono l’acqua che disseta per sempre;
  • con il cieco nato che riceve la luce degli occhi e quella del cuore;
  • con l’amico Lazzaro, che Lui resuscita.
L’incontro con ognuna di queste tre persone mette in luce alcuni aspetti particolari della persona di Gesù, Figlio di Dio che dona la vita, dissetando con acqua “spirituale”, dando la luce per vedere Dio e non solo le cose, dando la vita all’amico, cioè a ognuno di noi

1) La sete nostra.
Poiché è amore, Dio ha sete di amare e di essere amato; l’uomo, sua creatura, ha sete di essere amato e di amare. Questa sete spinge, oggi, Cristo a domandare alla donna Samaritana: “Dammi da bere” (cfr. Gv 4,7). Il Figlio di Dio viene a noi come un mendicante, bisognoso di ciò che possiamo dargli. “La cosa più grande nell’amore di Dio non è il fatto che egli ci ama, ma il fatto che egli ci chiede l’amore, quasi non potesse fare a meno di quello che noi possiamo dare a lui. Colui che è l’infinito, colui che è l’eterno, colui che è sufficiente a se stesso, stanco riposa sull’orlo di un pozzo” (Don Divo Barsotti). La Samaritana rappresenta l’umanità intera, la cui sete di amore non può essere appagata da nessun uomo (la Samaritana ne ha avuti sei).
Cerchiamo di immaginarci la scena del Vangelo di oggi: verso mezzogiorno una donna va al pozzo di Giacobbe, che si trova vicino al villaggio dove lei abita, per prendere acqua e nel giro di pochi minuti approda alla fede che l’incontro con Cristo suscita. Gesù è lì che l’aspetta al pozzo ed esprime anche lui il suo desiderio. Cioè la fede nasce dall’incontro di due desideri profondi, che “dialogano” fra loro. La sete di Cristo svela il segreto della sete di questa donna, che ci rappresenta tutti.

Perché questa donna arriva alla fede e vi arriva rapidamente?
  • Perché accetta di dialogare con Cristo che l’aspetta al bordo di un pozzo. Perché arriva al pozzo, dove va ogni giorno, perché ogni giorno il suo corpo ha sete. Ma la Samaritana ha sete anche e soprattutto di amore e non lo trova né esasperando l’amore che già ha, né cambiando continuamente amore (dinanzi ai cinque uomini già lasciati ed a quello con il quale convive ora si presenta il Cristo, colui che è il “settimo”).
  • Perché vi arriva assetata non di solo di acqua che disseta il corpo, ma anche di quella che estingue la sete di verità, di amore, e di giustizia. Questa sete “spirituale” - davanti a Gesù che le dice “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4, 10) – spinge questa donna a mendicare, dicendo: “Signore, dammi quest’acqua” (Gv 4, 14).


Questa donna non rappresenta solo l’umanità vivente ai tempi della vita terrena di Cristo. Lei rappresenta anche tutta l’umanità di sempre, la cui sete è ben espressa da queste parole: “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua” (Sal 63,2).
La sete dell’uomo non si è estinta né allora né mai: non è estinguibile. In ogni essere umano c’“è” la domanda ineliminabile di senso (inteso come significato, direzione e gusto della vita) e apertura all’Infinito. A questa domanda di infinito, il mondo risponde con infinite cose, che non colmano mai il cuore dell’uomo, che vuole l’infinito, perché è capace di Dio. A questo riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica, al Capitolo I intitolato L’uomo è “capace” di Dio, ribadisce il fatto che il desiderio (cioè la sete) di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa. Il senso della vita umana consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio, fonte di gioia.
Se domandassimo a quanti non conoscono ancora Cristo, a chi non si è ancora incontrato con Lui, anche a quelli che non lo vogliono cercare, molti risponderebbero di essere contenti della loro sorte. Vanno a prender l’acqua, ma non hanno bisogno di Dio. Vanno al pozzo per prender l’acqua per il corpo, ma non notano di aver loro stessi sete di un’altra acqua. La presenza del Cristo rivela all’anima il suo vuoto che solo l’infinito amore di Dio può colmare. A questo riguardo cito il Beato Charles de Foucauld che, in una sua meditazione, parla della tristezza in cui lo lasciavano le passioni terrene, quando egli, ancora ateo, credeva di soffocare nelle trasgressioni questa sete di Dio che è propria dell’uomo.

2) La sete di Cristo.
Per rispondere a questa sete profonda che il nostro spirito ha, Cristo mette una sola condizione perché Lui possa donarsi, mendica un “obolo” cioè che noi gli offriamo dell’acqua per la sua sete. L’acqua che chiede di avere dalla Samaritana è un’elemosina grazie alla quale la nostra mano e il nostro cuore si aprono e possono così ricevere molto di più, infinitamente di più.
Ispirandomi ad un quadro di Duccio di Boninsegna che ritrae Gesù seduto sul bordo di un pozzo, che in realtà è un fonte battesimale1 marmoreo, solido, e la donna Samaritana con sulla testa, in precario equilibrio, una fragile brocca di argilla, posso scrivere che Gesù ha bisogno proprio della brocca di ciascuno di noi da calare nel pozzo, cioè ha bisogno della nostra libertà, del nostro amore libero, che Lui redime.
Il cammino spirituale della Samaritana è proposto oggi a noi. E’ un itinerario, che ognuno di noi è chiamato a riscoprire e a percorrere costantemente. Anche noi, battezzati siamo sempre in cammino per divenire veri cristiani e questo episodio evangelico è uno stimolo a riscoprire l’importanza e il senso della nostra vita cristiana, il vero desiderio di Dio che vive in noi.
Proponendoci il Vangelo della Samaritana, oggi la Chiesa vuole portarci a professare la nostra fede in Cristo, come questa donna ha fatto, andando ad annunciare e a testimoniare ai nostri fratelli la gioia dell’incontro con Lui e le meraviglie che il suo amore compie nella nostra esistenza.
La fede nasce dall’incontro con Gesù, riconosciuto e accolto come Salvatore, nel quale si rivela il volto di Dio. Una volta che il Signore ha conquistato il cuore della Samaritana, la sua esistenza è trasformata e lei corre senza indugio a comunicare la buona notizia alla sua gente. Diceva sant’Agostino che Dio ha sete della nostra sete di Lui, desidera cioè di essere desiderato. Più l’essere umano si allontana da Dio più Lui lo insegue con il suo amore misericordioso. Dunque, quest’oggi, il Vangelo ci spinge a rivedere il nostro rapporto con Gesù, a cercare il suo volto senza stancarci. “È il desiderio che scava il cuore”2 (Sant’Agostino) e lo dilata. E’ il desiderio che rende profondo il cuore e la “vita del buon cristiano consiste nel santo desiderio”3 (Id.).
Una testimonianza di buona vita cristiana è quella delle vergini consacrate nel mondo, che mortificano la sete di amore umano per dissetarsi solamente all’acqua di vita che sgorga da Cristo e per rispondere alla sua sete.
La verginità consacrata “non è assenza di desiderio ma intensità di desiderio” (Santa Teresa d’Avila) ed è una vocazione che esprime come sia possibile vivere una vita che si disseta solamente con Dio. Questa vita donata e, quindi, feconda va vissuta con un atteggiamento di fede e di gioia spirituale, alimentato dalla preghiera. Essa va pure vissuta con un distacco non solo dalla vita di coppia, ma anche dalle simpatie troppo limitate, per orientare tutte le energie, comprese quelle affettive, alla comunione con Cristo e con quanti diventano vicini a causa di lui.
La persona che vive la verginità consacrata è un dono prezioso per la Chiesa: testimonia infatti la presenza iniziale del regno di Dio e la sicura speranza del suo compimento; rende più disponibili al servizio. Infine non dimentichiamo che la verginità non contraddice la dignità del matrimonio, ma la presuppone, la conferma, la difende dalle interpretazioni riduttive. Essa ricorda agli sposi che devono vivere il matrimonio come un anticipo e una figura della comunione perfetta con Dio. Il “Tu” che ognuno cerca in definitiva è Dio: l’altro coniuge non può saziare il desiderio illimitato di amore; le vere nozze sono quelle con Dio.

1  E per questo richiamo al battesimo che il brano di oggi è scelto perché la quaresima soprattutto nei secoli passati era per i catecumeni il periodo di preparazione al battesimo impartito a Pasqua.

2  Desiderium sinum cordis.


3  Vita boni christiani sanctum desiderium est.


Letture Patristiche
San Nerses Snorhali (1102 – 1173)
Jesus, 442-443

Sorgente della vita, Tu hai chiesto l’acqua
Alla Samaritana nella (tua) sete;
E Tu hai promesso l’Acqua viva,
in cambio dell’effimera.

A me pure accorda, Sorgente della Vita,
La santa Bevanda spirituale,
Colui che sgorga dal seno come un fiume:
Lo Spirito da cui zampilla la grazia in abbondanza.


Sant’Efrem, il Siro (306 – 373)
Diatessaron, 12, 16-18

       Nostro Signore venne alla fontana come un cacciatore, chiese l’acqua per poterne dare; chiese da bere come uno che ha sete, per avere l’occasione di estinguere la sete. Fece una domanda alla Samaritana per poterle insegnare e, a sua volta, essa gli pose una domanda. Benché ricco, Nostro Signore non ebbe vergogna di mendicare come un indigente, per insegnare all’indigente a chiedere. E dominando il pudore, non temeva di parlare ad una donna sola, per insegnarmi che colui che si tiene nella verità non può essere turbato. "Essi si meravigliarono che si intrattenesse con una donna e le parlasse" (Jn 4,27). Egli aveva allontanato i discepoli (Jn 4,8), perché non gli scacciassero la preda; egli gettò un’esca alla colomba, sperando così di prendere tutto uno stormo. Aprì la conversazione con una domanda, con lo scopo di provocare confessioni sincere: "Dammi dell’acqua, perché io beva" (Jn 4,7). Chiese dell’acqua, poi promise l’acqua della vita; chiese, poi smise di chiedere, al pari della donna che abbandonò la sua brocca. I pretesti erano finiti, perché la verità che essi dovevano preparare, era ora presente.

       "Dammi dell’acqua, perché io beva. Essa gli disse: Ma tu sei Giudeo. Egli le disse: Se tu sapessi" (Jn 4,7 Jn 9-10); con queste parole, egli le dimostrò che essa non sapeva e che la sua ignoranza spiegava il suo errore; la istruì sulla verità; voleva rimuovere a poco a poco il velo che era sul suo cuore. Se le avesse rivelato fin dall’inizio: Io sono il Cristo, essa avrebbe avuto orrore di lui e non si sarebbe messa alla sua scuola: "Se tu sapessi chi è colui che ti ha detto: Dammi dell’acqua perché io beva, tu gli avresti chiesto... La donna gli disse: Tu non hai un secchio per attingere e il pozzo è profondo. Egli le rispose" (Jn 4,10-11 Jn 4,13): Le mie acque discendono dal cielo. Questa dottrina viene dall’alto e la mia bevanda è celeste; coloro che ne bevono non hanno più sete, poiché non vi è che un battesimo per i credenti: "Chiunque beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete. Essa gli disse: Dammi di quest’acqua perché io non abbia più sete e non debba venir più qui ad attingerne" (Jn 4,14-15).

       "Egli le disse: Va’ a chiamare tuo marito" (Jn 4,16). Come un profeta, egli le apre una porta per rivelarle cose nascoste. Ma essa gli rispose: "Io non ho marito" (Jn 4,17), per provare se egli conosceva le cose nascoste. Egli le dimostrò allora due cose; ciò che essa era e ciò che essa non era, ciò che era di nome, ma non era in verità: "Tu ne hai avuti cinque, e quello attuale non è tuo marito. Essa gli disse: Mio Signore, vedo che sei un profeta" (Jn 4,18-19). Qui, egli la portò ad un gradino superiore: "I nostri padri hanno adorato su questo monte. Egli le rispose: Non sarà più così, né su questo monte, né a Gerusalemme; ma i veri adoratori adoreranno in spirito e verità" (Jn 4,20-21 Jn 23). La esercitava perciò nella perfezione, e la istruì nella vocazione dei gentili. E per manifestare che non era una terra sterile, essa testimoniò, tramite il covone che gli offrì, che il suo seme aveva fruttificato al centuplo: "Ecco, quando verrà il Messia, ci annunzierà ogni cosa. Egli le rispose: Sono io che ti parlo" (Jn 4,25-26). Ma se tu sei re, perché mi chiedi dell ‘acqua ? È progressivamente che si rivelò a lei, prima come Giudeo, poi come profeta, quindi come il Cristo. La condusse di gradino in gradino fino al livello più alto. Essa vide in lui dapprima qualcuno che aveva sete, poi un Giudeo, quindi un profeta, e infine Dio. Essa persuase colui che aveva sete, ebbe il Giudeo in avversione, interrogò il saggio, fu corretta dal profeta e adorò il Cristo.

venerdì 10 marzo 2017

Trasfigurazione per l’Esodo di Luce.

II Domenica di Quaresima – Anno A – 12 marzo 2017
Rito Romano
Gn 12,1-4a; Sal 32; 2 Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9

Rito Ambrosiano
Es 20,2-24; Sal 18; Ef 1,15-23; Gv 4,5-42
Domenica della Samaritana


1) Trasfigurazione di Cristo
Domenica scorsa, la Liturgia quaresimale ci ha fatto rivivere il mistero delle tre tentazioni di Cristo nel deserto e della sua vittoria. In questa seconda Domenica di Quaresima ci è chiesto di capire che rivivere il mistero della vita di Cristo mediante la conversione, cioè facendo con il Redentore, nuovo Mosè, un esodo di liberazione, una sorta di “viaggio di ritorno” non tanto fisico, dall’esilio dell’Egitto a Terra Santa, quanto spirituale, dall’esilio di falsità e di male - provocato dal peccato - alla verità e alla bontà della Casa del Padre, “prodigo” di misericordia.
Nel racconto della Trasfigurazione Gesù è presentato come il nuovo Mosè che incontra Dio “su un alto monte” (Mt 17, 1) nella “nuvola luminosa” (Mt 17, 5), con il volto che brilla (Mt 17, 2). Anche Mosè incontra Dio nella nube sul monte Sinai (cfr. Es 24, 15-18), con il volto luminoso (cfr. Es 34, 29-35). Mosè fu lo strumento, il collaboratore di Dio per la liberazione del popolo ebreo. Gesù Cristo non solo libera, ma trasfigura il popolo dei redenti.
Nella storia del Cristianesimo occidentale si è pensato all'avvento della salvezza più spesso in termini di liberazione che non di trasfigurazione. Tuttavia la liberazione portata da Gesù si realizza veramente solo nella trasfigurazione. Gesù lascia l'uomo con le sue debolezze e le sue sofferenze, la sua solitudine e la sua morte, ma trasfigura tutto ciò prendendolo su di sé e facendo della condizione umana più povera il segno stesso della prossimità di Dio al mondo.
Sul Monte Tabor Gesù si trasfigura: le vesti candide e il volto splendente del Figlio di Dio ci rivelano che Gesù, anche se sta camminando verso la Croce, è in realtà il Signore, è il Risorto. La “Via Crucis” che Gesù sta percorrendo nasconde un significato pasquale, perché, in effetti, è una “Via Lucis”. La Trasfigurazione che celebriamo oggi è, un anticipo caritatevole, ma fugace: la strada da percorrere è ancora quella della Croce. Infatti per sostenere lo spettacolo di debolezza di Cristo catturato nel Getsemani e crocifisso sul Calvario, gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono chiamati a vedere in anticipo la gloria di Gesù.
La gloria dell’Unigenito, l’Amato del Padre, era stata come velata, nascosta nel mistero della sua incarnazione. Lui, infatti, non considerò come un tesoro da custodire gelosamente la sua condizione di uguaglianza al Padre, ma umiliò se stesso (cfr. Fil 2). Nella trasfigurazione, quella gloria investe con tutta la sua forza l’umile umanità di Cristo e la rende piena dello splendore della sua divinità. Rivelando il suo Volto brillante come il sole, pieno di grazia e di verità ai tre discepoli “privilegiati”, Gesù li prepara al dramma di morte che precede la risurrezione.
Ma oltre che essere di sostegno per affrontare la passione e morte del Salvatore, rivelando l’identità di Gesù e l’esito finale, positivo, del suo cammino, il fatto della Trasfigurazione rivela anche l’identità del discepolo e il cammino che deve compiere colui, che vuole seguire Cristo. Anche la via del discepolo è diretta alla croce e alla risurrezione.
La parola di Dio oggi ci introduce in una nuova dimensione della nostra partecipazione al mistero di Cristo: rivivere il mistero di Cristo, negativamente significa rinnegare noi stessi, il nostro egoismo, positivamente significa essere trasfigurati in Cristo e come Cristo.
Insomma, in questa seconda tappa del cammino penitenziale il Vangelo ci rivela il mistero della trasfigurazione di Cristo e della nostra trasfigurazione. In effetti, la Trasfigurazione é un evento che ci riguarda tutti: non solo perché noi dobbiamo assistere alla gloria del Figlio di Dio risorto da morte, ma perché noi siamo uno con il Cristo e la sua gloria investe anche noi, trasformando anche il nostro corpo, la nostra anima e soprattutto il nostro spirito. Giustamente la teologia ortodossa insegna che con la Trasfigurazione non cambia nulla in Cristo, ma cambia qualche cosa negli occhi degli apostoli, i quali finalmente vedono quello che il Cristo è sempre stato: il Figlio di Dio.
Oggi la Chiesa nella celebrazione del mistero della Trasfigurazione del Signore, ci mostra la meta a cui è orientato il nostro cammino penitenziale. Colla Trasfigurazione infatti “veniva dato fondamento alla speranza della santa Chiesa, in modo che l’intero corpo di Cristo potesse conoscere quale trasformazione gli sarebbe stata donata, e le membra potessero rendersi sicure di aver parte a quella bellezza che aveva rifulso nel capo” (S. Leone Magno, Sermone 38,3.4).

2) Trasfigurazione nostra: partecipi della bellezza di Cristo.
A questo punto nasce spontanea la domanda: “Come possiamo trasfigurarci come Cristo e far rifulgere in noi la Sua bellezza? La risposta ci è data da San Paolo nella seconda lettura di questa Domenica. L’Apostolo delle Genti ci insegna che la nostra trasfigurazione in Cristo è possibile “in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose”. Il Cristo esercita in ciascuno di noi il potere che Egli possiede, di configurarci a Sé inviando in noi il suo Santo Spirito.
E’ Questi la forza intima che, abitando in noi, ci trasfigura in Cristo. Dunque, invochiamo lo Spirito Santo perché riempia i nostri cuori ed allontani noi da tutto ciò che ci impedisce di essere pienamente trasfigurati in Cristo.
Non dimentichiamo, però, che è necessaria la nostra collaborazione, il consenso della nostra libertà all’azione trasfigurante, come già insegnava Sant’Agostino: “Chi ha fatto te senza te, non salva te senza te”.
E non dimentichiamo neppure di contemplare il “grande sacramento”, Gesù Cristo Signore trasfigurato, che durante la passione fu sfigurato. Lui è il “grande sacramento” non solo nel senso che opera la salvezza, ma perché, in primo luogo, Lui è lo splendore del Padre nella nostra umanità.
Poi con gli occhi “spirituali” contempliamo la bellezza splendente di Cristo, meditando questo verso di San Giovanni della Croce: In tua beltà a contemplarci andiamo", che lo stesso Santo spiega così: “Comportiamoci in maniera tale da arrivare a specchiarci nella tua bellezza per mezzo della pratica dell'amore, vale a dire: siamo simili nella bellezza e sia la tua bellezza tale che, mirandoci scambievolmente, io appaia a te nella tua bellezza e tu mi veda in essa, il che avverrà trasformandomi nella tua bellezza. Così io vedrò te nella tua bellezza e tu me nella tua bellezza, e tu ti vedrai in me nella tua bellezza ed io mi vedrò in te nella tua bellezza. Che io sembri te nella tua bellezza e tu sembri me nella tua bellezza e la mia bellezza sia la tua e la tua sia la mia, così io sarò te nella tua bellezza e tu sarai me nella tua bellezza poiché la tua stessa bellezza sarà la mia”. (Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, 35/3).


3) Trasfigurate dall’amore.
Gesù è “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44,3), ma è anche misteriosamente colui che “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53,2). Perché, dunque, è ragionevole guardare Cristo crocifisso? Perché la Croce ci mostra che la vera bellezza è l’amore di Dio che “sa trasfigurare anche l’oscuro mistero della morte nella luce irradiante della risurrezione” (Papa emerito Benedetto XVII). Per entrare nella vita eterna – allora – bisogna ascoltare Gesù seguendolo sulla via della croce. Ascoltarlo come fece Maria la Sempre Vergine, che diede la sua carne alla Parola.
Sull'esempio della Madre del Redentore le vergini consacrate nel mondo dicono un sì totale a Cristo offrendo il loro corpo come tempio puro, come tenda per lo Sposo Gesù e “La sua piena adesione alla volontà del Padre rende la sua umanità trasparente alla gloria di Dio, che è l’Amore che trasfigura tutto” (Papa Francesco). Queste vergini ci sono di esempio nell’ascolto della sua Parola, che è custodita nella Bibbia. La vita di queste donne è anche una testimonianza di come si può ascoltare Cristo nei fatti della vita, cercando di leggere in essi il disegno della Provvidenza e testimoniando che il loro amore verginale a Cristo non le separa dal mondo, ma le spinge ad ascoltarLo nei fratelli e nelle sorelle in umanità, specialmente nei piccoli e nei poveri, in cui Gesù stesso domanda l’amore concreto del cristiano. Infine, ci mostrano che ascoltare Cristo e ubbidire alla sua voce di Sposo è la via maestra, l’unica, che conduce alla pienezza dell’amore, che trasfigura e da gioia per sempre.

Lettura Patristica
Anastasio Sinaita, Hom. de Transfigurat.
La rivelazione del Tabor

       Oggi sul monte Tabor Cristo ha ridato alle sue sembianze umane la beltà celeste. Perciò è cosa buona e giusta che io dica: "Quanto è terribile questo luogo! È davvero la casa di Dio, è la porta dei cieli" (Gn 28,17).... Oggi, infatti, il Signore è veramente apparso sul monte. Oggi, la natura umana, già creata a somiglianza di Dio, ma oscurata dalle deformi figure degli idoli, è stata trasfigurata nell’antica bellezza fatta a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26). Oggi, sul monte, la natura, fuorviata dall’idolatria, è stata trasformata, rimanendo tuttavia la stessa, e ha cominciato a risplendere nel fulgore della divinità. Oggi, sul monte colui che un tempo fu vestito di squallidi e tristi abiti di pelli, di cui parla il libro della Gn (Gn 3,21), ha indossato la veste divina avvolgendosi di luce come di un manto (Ps 103,2). Oggi, sul monte Tabor, in modo del tutto misterioso, si è visto come sarà la vita futura nel regno del gaudio. Oggi, in modo mirabile si sono adunati sul monte, attorno a Dio, gli antichi precursori della Vecchia e della Nuova Alleanza, recando un mistero pieno di straordinari prodigi. Oggi, sul monte Tabor, si delinea il legno della Croce che con la morte dà la vita: come Cristo fu crocifisso tra due uomini sul monte Calvario, così è apparso pieno di maestà tra Mosè ed Elia.

       E la festa odierna ci mostra ancora l’altro Sinai, monte quanto più prezioso del Sinai, grazie ai prodigi e agli eventi che vi si svolsero: lì l’apparizione della Divinità oltrepassa le visioni che per quanto divine erano ancora espresse in immagini ed oscure. E così, come sul Sinai le immagini furono abbozzate mostrando il futuro, così sul Tabor splende ormai la verità. Lì regna l’oscurità, qui il sole; lì le tenebre, qui una nube luminosa. Da una parte il Decalogo, dall’altra il Verbo, eterno su ogni altra parola... La montagna del Sinai non aprì a Mosè la Terra Promessa, ma il Tabor l’ha condotto nella terra che costituisce la Promessa.


Nerses Snorhali
Jesus, 492-493
La Trasfigurazione (Mt 17,1-8)

Tu che hai manifestato la tua Divinità
Ai discepoli tuoi sulla montagna,
E del Padre hai mostrato l'ineffabile gloria
Sfolgorante ai loro occhi,

Purifica così il mio oscuro spirito
E i sensi miei sì tenebrosi,
Perché chiaramente al luogo della Parusia
Saziarmi lo possa di tua divina Gloria!