venerdì 29 maggio 2020

Colmati di Spirito Santo (cfr. At 2, 4) e stupefatti

Pentecoste – Anno A – 31 maggio 2020
Rito Romano
At 2,1-11; 1Cor 12,3-7.12-13; Gv 20,19-23
Rito Ambrosiano
At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20


    1) Pentecoste: stupore per un dono grande.
Il giorno di Pentecoste, quando i discepoli «furono colmati di Spirito Santo», fu il battesimo della Chiesa, che nacque in uscita, in partenza per annunciare a tutti la Buona Notizia” (Papa Francesco)
Questa Buona Notizia è attesa, accolta e capìta dai nostri fratelli in umanità che, oggi come allora, stupiti si chiedono: “Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? Com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?” (At. 2, 7-9).
Di fronte all’evento che oggi celebriamo, la prima reazione spirituale dell’uomo è lo stupore. A Pentecoste che cosa succede di tanto nuovo, inaspettato, imprevedibile da suscitare uno stupore tale che, chi ne fu testimone, fu come fuori di sé? Gli uomini cominciano a comprendersi, pur continuando a parlare ciascuno la propria lingua. L’avvenimento che riempie l’uomo di stupore è che lui, all’improvviso, non si sente più estraneo agli altri: è accaduta la comunione fra le persone. Ogni causa di estraneità dovuta alla diversa cultura (“Giudei o Greci”) o alla diversa condizione sociale (“schiavi o liberi”), è come tolta. Questo avvenimento, che è l’esatto contrario di quello che successe durante la costruzione della torre di Babele, riempie di stupore perché finalmente l’uomo trova risposta al suo desiderio più profondo di vita in comunione.
  Se questo è accaduto, non è stato per caso o per necessità. Il fatto che gli uomini ricomincino ad intendersi fra loro è la conseguenza di un altro avvenimento accaduto dentro la nostra storia. In realtà che cosa è accaduto? Nel giorno di Pentecoste la divina persona dello Spirito Santo è venuta ad abitare nel cuore umano, dentro la storia umana.
Chi è questa divina persona? Lui è l’Amore che unisce il Padre ed il Figlio e viene in ciascuno di noi per compiere l’opera del Cristo.
Inoltre, venendo ad abitare in ciascuno di noi, lo Spirito Santo, che è Amore, ci dona l’esperienza dell’amore stesso con cui il Padre ci ama e ci perdona (E’ questo il primo effetto del dono dell’Amore: la remissione dei peccati).
Amati dal Padre, perdonati nel nostro peccato, possiamo gustare il dono della pace: “Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi”. Ecco il miracolo che ci colma di stupore: si ricostruisce la vera comunione fra le persone. “Lo stupore, scriveva san Gregorio di Nissa, fa conoscere e genera la vita, i concetti creano gli idoli”. Viviamo questa domenica di Pentecoste non facendo come chi lascia lo stupore dei bambini, ma ne mantiene ancora i capricci.
Viviamo lo stupore di oggi nel solco dello stupore quotidiano della Madonna davanti al suo figlio che adorava. Facciamo nostro lo stupore dei pastori, che vegliavano la notte della nascita del Signore, e contemplarono la gloria di Dio in un Bambino. Stupiamoci come Pietro, Giacomo e Giovanni durante la trasfigurazione del Signore sul monte Tabor. Il Suo volto s’illuminò come il sole e i Suoi vestiti divennero bianchi come la luce… ed una nube luminosa ricoprì i presenti. Infine, stupiamoci come le pie donne, che andarono al Sepolcro di prima mattina e videro un giovane vestito di una veste bianca e si stupirono, perché il suo aspetto era come folgore e la sua veste candida come neve.
Sorpresi dall’Amore che ci ricolma, manteniamo vivo lo stupore che fa conoscere e genera la vita.


            2) La festa della Chiesa.
            La Pentecoste è mistero di amore donato e di comunione vissuta, di consolazione duratura e di gioia condivisa.
            E’ gioia per la Presenza costante di Cristo tra noi.
            E’ gioia per la certezza che il Maestro, il Signore è vivo, è con i Suoi, di ieri e di oggi, di sempre, e dona loro (a noi) il suo Spirito, guida nella conoscenza della Verità[1], che rende liberi davvero e fa vivere nella pace.
            Condividiamo questa gioia e celebriamo oggi la grande festa della Pentecoste, in cui la liturgia ci fa rivivere la nascita della Chiesa. “Possiamo dire che la Chiesa ebbe il suo solenne inizio con la discesa dello Spirito Santo” (Benedetto XVI). Oggi è la festa della Chiesa; è la nostra festa; è la festa dello Spirito Santo; la festa di Dio-Amore. “InvochiamoLo. BenediciamoLo. ViviamoLo. EffondiamoLo” (Paolo VI).
            Prima di salire al Cielo, Gesù aveva ordinato ai discepoli innanzitutto di non fare nulla ognuno per proprio conto, ma di restare insieme, in comunità, e di aspettare il dono dello Spirito Santo. E così si riunì la Chiesa nascente, il piccolo gruppo di credenti insieme con Maria e con gli Apostoli che nel frattempo, con la scelta di Mattia, erano tornati ad essere dodici. E così cinquanta giorni dopo la Pasqua, lo Spirito Santo scese sulla comunità dei discepoli – “assidui e concordi nella preghiera” – radunati “con Maria, la madre di Gesù” e con i dodici Apostoli (cfr At 1,14; 2,1).
            La concordia è condizione del dono dello Spirito Santo e la preghiera è condizione della concordia. Ma c’è anche un’altra condizione, perché questo dono possa essere da noi ricevuto, è quella di essere vigili in attesa del Signore.
            Spesso diamo la priorità all’attività, ad una operosità che ci coinvolge fino al limite delle nostre forze e, spesso, anche oltre. Però saremmo più liberi, lieti e fecondi, se dessimo più tempo alla Parola di Dio, in cui il nostro volere e il nostro agire si distendono.
            Certo, il Signore ha bisogno della nostra opera e della nostra dedizione, ma noi abbiamo bisogno della sua presenza. Dobbiamo imparare il coraggio dell’“inazione” e l’umiltà dell’attesa della Parola e delle Sue parole. Ascoltare in silenzio e nella comunione la parola di Dio fa meglio di tante parole umane; e i tempi di preghiera saranno più fruttuosi di molte azioni.
           
3) Il dono dello Spirito e la certezza del cuore.
            Durante la passione di Cristo, gli Apostoli scapparono. Alle prime notizie della Risurrezione i discepoli non vollero credere e ci sono voluti quaranta giorni, perché Gesù risorto potesse ripotarli alla superficie della vita, infondendo nel loro spirito fiducia e certezza. La Pentecoste ha segnato la loro rinascita: le lingue di fuoco li scossero e in quel mattino di Paradiso tutto divenne loro chiaro. Veramente tutto: la natura e la missione di Cristo, le persecuzioni e il martirio, che li attendevano nel compiere la loro missione per la fondazione della Chiesa. Il loro cuore si incendiò di una certezza, di una dolcezza e di una gioia irrefrenabile. Lo Spirito opera sempre così anche nei nostri cuori, con dolce forza e con forte dolcezza. Lui è innanzitutto Spirito di Verità e verità è il vedere chiaro nelle cose e in noi stessi, avere la certezza che Dio ci ama, che noi possiamo amarLo e rifugiarci in Lui.
            Lo Spirito Santo, che in un istante ha trasformato gli Apostoli, continua nella Chiesa a trasformare noi, duri di testa e ottusi di cuore: basta che Gli apriamo la porta del cuore. Allora Lui entra con il Figlio e con il Padre e fa di noi la dimora di Dio, il Quale è dimora dell’uomo, di tutta l’umanità.
            Lontana da Dio l’umanità cerca solamente se stessa, cerca di ottenere la sua salvezza nella soddisfazione dell’insorgente egoismo di ognuno, cade in una radicale contrapposizione, dove nessuno più capisce il vicino. E, con la fine della comprensione, rimane insoddisfatto anche l’egoismo.
            Lo “Spirito Santo” crea comprensione, perché è l’amore che proviene dalla croce, dal dono totale di Gesù Cristo. Non è necessario tentare qui di parlare dettagliatamente degli insegnamenti dottrinali e pratici della Pentecoste. Penso che possa essere sufficiente ricordare l’espressione con cui Agostino provò a riassumere il nucleo del racconto di Pentecoste: La storia del mondo – afferma Sant’Agostino – è una lotta tra due diversi amori: l’amore di sé fino all’odio di Dio e l’amore di Dio fino all’abbandono dell’io. Ma questo amore di Dio è la redenzione del mondo e dell’io.
            Nel primo chiarore del giorno di Risurrezione, Gesù diede un nome a questo io: “Maria”. E la salvezza dell’“uomo”: ogni essere umano è chiamato per nome da Dio. Da tutta l’eternità Dio ci conosce. Non siamo figli del caso e del caos, siamo figli dell’Amore. E’ nello Spirito Santo che Dio ci ama ed è nello Spirito che noi lo amiamo. Perciò la nostra vita è questo rapporto di amore, nel quale siamo chiamati e rispondiamo, nel quale chiamiamo e Lui risponde a ciascuno di noi, e diventiamo nella Chiesa e con la Chiesa luogo di incontro col Verbo e tempio dello Spirito.

            4) Testimonianza di unità e di perdono.
        Nella prima lettura della Messa di oggi San Luca descrive la venuta dello Spirito (At 2,1-11), utilizzando i simboli classici che accompagnano l’azione di Dio: il vento, il terremoto e il fuoco. Ma nel suo racconto c’è un simbolo in più: le lingue si dividono e si posano su ciascuno dei presenti, cosicché “incominciarono a parlare in altre lingue”. Con questo diventa chiaro il compito di unità e di universalità a cui lo Spirito chiama la sua Chiesa. L’autore sacro si dilunga anche nel dire che la folla accorsa era composta di uomini di varie nazionalità (2,19-11). E aggiunge: “Ciascuno li sentiva parlare nella sua propria lingua” (2,8). È come dire che lo Spirito non ha una sua lingua, né si lega a una lingua o a una cultura particolare, ma si esprime attraverso tutte. Con la venuta dello Spirito a Pentecoste e la nascita della comunità cristiana inizia in seno all’umanità una storia nuova, rovesciata rispetto alla storia di Babele.    Nel racconto del Genesi (11,1-9) si legge che gli uomini hanno voluto raggiungere Dio, come conquista propria e non come dono. È l’eterna tentazione dell’uomo di voler costruire una città senza Dio e cercare salvezza in se stessi. Ma al di fuori di Dio l’uomo non trova che confusione e dispersione. A Babele uomini della stessa lingua non si intendono più. A Pentecoste invece uomini di lingue diverse si incontrano e si intendono. Il compito che lo Spirito affida alla sua Chiesa è di imprimere alla storia umana un movimento di riunificazione nello Spirito, nella libertà e attorno a Dio.
            Lo Spirito trasforma un gruppo di persone racchiuse nel rifugio del Cenacolo in testimoni consapevoli e coraggiosi. Apre i discepoli sul mondo e dà loro il coraggio di proporsi in pubblico, raccontando davanti a tutti “le grandi opere di Dio”. Non va però dimenticato che Gesù risorto non soltanto dona lo Spirito in vista della missione, ma anche in vista del perdono dei peccati. In effetti l’evangelista Giovanni pone una stretta relazione fra lo Spirito, la comunità dei discepoli e il perdono.
            Nella Chiesa, luogo della festa e del perdono (Jean Vanier), hanno un posto particolare le Vergini consacrate che, pur vivendo nel mondo, vivono di preghiera per lodare Dio e intercedere il suo perdono sul mondo. Esse testimoniano che la donazione completa a Dio non è un affidarsi a qualcosa, ma a Qualcuno, e che nella fede che trasforma il cuore è possibile accogliere quotidianamente Dio stesso presente in loro (e in noi) con il suo Spirito: “L’amore di Dio è diffuso nel nostro cuore per mezzo dello Spirito che Dio ci ha dato” (Rm 5,5). La loro esistenza vissuta in modo sponsale con Cristo testimonia tenerezza, fedeltà e misericordia. La loro vita e la loro missione è di accogliere Dio per donarlo al mondo.
            La qualità di sposa di Cristo dà alla personalità della donna un notevole sviluppo affettivo. Ella mostra l’aspetto positivo della verginità, perché vi è una rinuncia solamente in vista di una pienezza d’ordine superiore. D’altra parte, l’impegno verginale è destinato, secondo il disegno divino, a suscitare una fecondità spirituale. La chiamata è un dono di Dio alla persona: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,1) che diviene un dono della persona umana mediante la consacrazione nella verginità. “Il dono della Verginità profetica ed escatologica, acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo” (Premesse al Rito della Consacrazione delle Vergini, n. 2).
            Nelle vergini, che seguono la via aperta dalla Madonna, l’amore verginale consacrato a Cristo è fonte di maternità spirituale. E’ sorprendente constatare che per esprimere la sua paternità spirituale, San Paolo si sia servito di un’immagine propriamente femminile: quella del parto doloroso “Figlioli –lui scrive ai Galati (4,19)- che io di nuovo partorisco nel dolore”[2].


NOTE
[1] Il senso della parola “verità” in Giovanni significa sia la realtà divina che la conoscenza della realtà divina. L’interpretazione tradizionale, specialmente quella cattolica, ha inteso la “verità” soprattutto nel secondo senso, nel senso dogmatico. Lo Spirito guida la chiesa attraverso i Concili, il Magistero, la Tradizione. Questo è un aspetto importante dell’azione dello Spirito di Verità – il più importante se vogliamo – ma non l’unico. C’è un aspetto più personale che dobbiamo tenere presente: lo Spirito Santo ci introduce alla vera vita di Cristo. Sant’Ireneo definisce lo Spirito Santo la nostra “comunione con Dio”, e San Basilio dice che “grazie allo Spirito diventiamo amici intimi di Dio”.
[2] Si può ricordare che per mostrare la fecondità della sofferenza, Gesù stesso ha usato il paragone della donna che partorisce: con ciò faceva comprendere ai suoi discepoli i frutti che la loro partecipazione alla sua passione può produrre (cfr Gv16, 21). Questo significa che la fecondità d’ordine spirituale si esprime più adeguatamente in termini femminili, anche se è comune agli uomini e alle donne.

Lettura patristica
Sant Ireneo
Dal trattato «Contro le eresie»
Lib. 3, 17, 1-3
SC 34, 302-306)



La missione dello Spirito Santo

Il Signore concedendo ai discepoli il potere di far nascere gli uomini in Dio, diceva loro: «Andate, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19).
E' questo lo Spirito che, per mezzo dei profeti, il Signore promise di effondere negli ultimi tempi sui suoi servi e sulle sue serve, perché ricevessero il dono della profezia. Perciò esso discese anche sul Figlio di Dio, divenuto figlio dell'uomo, abituandosi con lui a dimorare nel genere umano, a riposare tra gli uomini e ad abitare nelle creature di Dio, operando in essi la volontà del Padre e rinnovandoli dall'uomo vecchio alla novità di Cristo.
Luca narra che questo Spirito, dopo l'ascensione del Signore, venne sui discepoli nella Pentecoste con la volontà e il potere di introdurre tutte le nazioni alla vita e alla rivelazione del Nuovo Testamento. Sarebbero così diventate un mirabile coro per intonare l'inno di lode a Dio in perfetto accordo, perché lo Spirito Santo avrebbe annullato le distanze, eliminato le stonature e trasformato il consesso dei popoli in una primizia da offrire a Dio.
Perciò il Signore promise di mandare lui stesso il Paraclito per renderci graditi a Dio. Infatti come la farina non si amalgama in un'unica massa pastosa, né diventa un unico pane senza l'acqua, così neppure noi, moltitudine disunita, potevamo diventare un'unica Chiesa in Cristo Gesù senza l'«Acqua» che scende dal cielo. E come la terra arida se non riceve l'acqua non può dare frutti, così anche noi, semplice e nudo legno secco, non avremmo mai portato frutto di vita senza la «Pioggia» mandata liberamente dall'alto.
Il lavacro battesimale con l'azione dello Spirito Santo ci ha unificati tutti nell'anima e nel corpo in quell'unità che preserva dalla morte.
Lo Spirito di Dio discese sopra il Signore come Spirito di sapienza e di intelligenza, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di scienza e di pietà, Spirito del timore di Dio (cfr. Is 11, 2).
Il Signore poi a sua volta diede questo Spirito alla Chiesa, mandando dal cielo il Paraclito su tutta la terra, da dove, come disse egli stesso, il diavolo fu cacciato come folgore cadente (cfr. Lc 10, 18). Perciò è necessaria a noi la rugiada di Dio, perché non abbiamo a bruciare e a diventare infruttuosi e, là dove troviamo l'accusatore, possiamo avere anche l'avvocato.
Il Signore affida allo Spirito Santo quell'uomo incappato nei ladri, cioè noi. Sente pietà di noi e ci fascia le ferite, e dà i due denari con l'immagine del re. Così imprimendo nel nostro spirito, per opera dello Spirito Santo, l'immagine e l'iscrizione del Padre e del Figlio, fa fruttificare in noi i talenti affidatici perché li restituiamo poi moltiplicati al Signore.



venerdì 22 maggio 2020

L’Ascensione di Cristo non è uno spettacolo, ma un’evento in cui siamo inseriti.

Ascensione del Signore – Anno A – 24 maggio 2020



Rito romano

At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20



Rito ambrosiano

At 1, 6-13a; Sal 46; Ef 4, 7-13; Lc 24, 36b-53




    1) Cristo sale in cielo: la nostra umanità è portata nel cuore di Dio.

Quaranta giorni dopo la Risurrezione Gesù sale al Cielo per ritornare al Padre, che l’aveva mandato nel mondo. Il fatto che in molti Paesi l’Ascensione sia celebrata non il giovedì ma la domenica successiva non cambia il dato che si tratta di una festa la cui celebrazione – per molti cristiani – non è una ragione di gioia particolare, forse perché per essi è un avvenimento così lontano nel tempo che, più o meno, è diventato indifferente. Ma per chi sa che ogni avvenimento della vita di Cristo è rilevante per la sua vita, l’evento dell’Ascensione non può essere indifferente, come non lo è stato per Gesù stesso che ritorna nello “spazio” dell’eterno amore del Padre.

Alla gioia di Cristo si unisce quello del cristiano, quella di ciascuno di noi, perché in questo mistero dell’Ascensione contempla il fatto che Gesù, asceso al cielo non si è separato dalla nostra condizione (cfr Prefazio). In effetti, nella sua umanità il Redentore ha assunto con sé gli uomini nell’intimità del Padre e così ha rivelato la destinazione finale del nostro pellegrinaggio terreno. Come per noi è disceso dal Cielo, e per noi ha patito ed è morto sulla croce, così per noi è risorto ed è risalito a Dio, che perciò non è più lontano.

San Leone Magno spiega che con questo mistero “è proclamata non solo l’immortalità dell’anima, ma anche quella della carne. Oggi, infatti, non solo siamo confermati possessori del paradiso, ma siamo anche penetrati in Cristo nelle altezze del cielo (De Ascensione DominiTractatus 73, 2.4: CCL 138 A, 451.453). Per questo i discepoli, quando videro il Maestro sollevarsi da terra e innalzarsi verso l’alto, non furono presi dallo tristezza, ma provarono una grande gioia e si sentirono spinti a proclamare la vittoria di Cristo sulla morte. E il Signore risorto operava con loro, distribuendo a ciascuno un carisma proprio. Lo scrive ancora san Paolo: «Ha distribuito doni agli uomini … ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri … allo scopo di edificare il corpo di Cristo … fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,8.11-13).

Insomma, l’Ascensione ci dice che in Cristo la nostra umanità è portata alla altezza di Dio. Di conseguenza, ogni volta che preghiamo, la terra si congiunge al Cielo. E come l’incenso, bruciando, fa salire in alto il suo fumo, così, quando innalziamo al Signore la nostra fiduciosa preghiera in Cristo, essa attraversa i cieli e raggiunge Dio stesso e viene da Lui ascoltata ed esaudita.

Anche noi possiamo salire in alto, ma solo se rimaniamo legati a Gesù elevato sulla croce e in cielo. Lui è come un capo cordata quando si scala una montagna, che è giunto alla cima e ci attira a sé conducendoci a Dio. Se affidiamo a Lui la nostra vita, se ci lasciamo guidare da Lui siamo certi di essere in mani sicure, in mano del nostro salvatore, del nostro avvocato” (Papa Francesco, 17 aprile 2013).

Nel profondo e grande libro di san Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, leggiamo che «per vedere realizzati i desideri del nostro cuore, non v’è modo migliore che porre la forza della nostra preghiera in ciò che più piace a Dio. Allora, Egli non ci darà soltanto quanto gli chiediamo, cioè la salvezza, ma anche quanto Egli vede sia conveniente e buono per noi, anche se non glielo chiediamo» (Libro III, cap. 44, 2).




    2) L’ascensione non è un abbandono, è un “addio1”.

Il brano del Vangelo proposto oggi dalla liturgia romana termina con questa frase di Cristo:Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Con una reazione immediata ed ispirata a quello che viene chiamato buon senso, verrebbe da dire che è un po’ paradossale scegliere questa affermazione di Gesù per la Sua ascensione al cielo. L’ascensione al cielo di Gesù manifesta il mistero della Croce quale trono di gloria, abisso dell’incontenibile tenerezza del Signore “inchiodato” dall’amore per i suoi fratelli e elevato dal Padre. L’ascensione svela il mistero dell'Uomo-Dio. Noi sappiamo da dove viene Gesù perché vediamo dove va: viene dal Padre e a Lui ritorna. La nostra vita non è sospesa nel nulla: Dio è nostro principio e fine. Salendo al cielo, il Risorto ci porta nel suo cuore per metterci nel cuore del Padre.

Con l’ascensione Gesù scompare dalla vista, ma non ci lascia orfani. Ci apre la via del ritorno a casa2.

Questa casa, questo paradiso aveva visto la fuga di Adamo, ma la storia continuò e si conclude con il Cristo, il nuovo Adamo che torna al Padre. Lui è il Figlio unigenito che, diventato uomo, si è fatto primogenito di molti fratelli. Dopo una lunga passione, Lui, il capo, è uscito alla luce. Questa storia continua ancora: è la nascita progressiva del suo corpo, costituito da tutti gli uomini, suoi fratelli. La sua ascensione al Paradiso è un vortice che ci assume con lui nella gloria.

Quando nel suo Vangelo descrive l’ascensione di Gesù, San Luca ripete quattro volte che i discepoli tenevano gli occhi fissi al cielo. Guardavano lì perché lì stava colui che li ama. Dove è il tesoro, lì è anche il cuore. Ognuno va dove già sta il suo cuore. Se il nostro cuore non ha il santo desiderio, resta immobile, come un morto. Se guardiamo in alto, verso le stelle con Maria, Stella del Mare, abbiamo un orientamento sulla terra. Non è un cordone ombelicale che lega, ma la bussola che nella libertà fa camminare verso l’alto.

Dunque l’“ascensione al cielo” non è la festa per un trasferimento di luogo, è un “adDio”: è la festa dell’elevazione di Cristo, essa indica l’insediamento dell’uomo crocifisso nella regalità di Dio sul mondo. E’ una festa perché Gesù ci ha preceduto per prepararci una dimora. Dunque anche per noi c’è un posto nella reggia paterna e che sono profondamente vere e attuali le parole di Tertulliano “Consolatevi, carne e sangue: in Cristo avete preso possesso del cielo e del regno di Dio!” (De car. Chr. 7).

Il Cristo è Colui che nella sua incarnazione ha unito cielo e terra. Lui ha realizzato l’unità degli estremi: la povertà dell'uomo con l'infinito di Dio. Dunque, il cielo non è un luogo lontano, al di sopra e al di là delle stelle più lontane, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è il trovar posto dell'uomo in Dio e questo ha il suo fondamento nella compenetrazione di umanità e divinità nell'uomo Gesù crocifisso ed elevato. Cristo, l’uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo.

Cristo, “l'uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l'uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo «cielo», poiché il cielo non è uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. E noi ci avviciniamo al cielo, anzi, entriamo nel cielo, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù ed entriamo in lui.”  (J. Ratzinger, Predica per l’Ascensione 1975).

Se consideriamo tale avvenimento a partire da questa prospettiva, possiamo capire quello che San Luca scrive alla fine del suo Vangelo, quando narra che dopo l’Ascensione i discepoli tornarono a Gerusalemme “pieni di gioia” (24,52). Se si fosse trattato di un distacco, questi uomini di Cristo non sarebbero potuti essere “pieni di gioia”. Per loro l'ascensione e la resurrezione erano un medesimo evento: essi avevano la certezza che il Crocifisso viveva, che era vinta la morte che separa l’uomo da Dio, e che le porte della vita vera erano state per sempre aperte. Per loro, quindi, l'ascensione non ebbe quel significato errato che noi abitualmente le diamo, cioè quello della temporanea assenza di Cristo dal mondo. Significò piuttosto la nuova, definitiva ed insopprimibile forma della presenza di Gesù, grazie alla Sua partecipazione alla potenza regale di Dio.

Risurrezione e ritorno di Cristo sono tra loro intrecciati, ed è chiaro che nella risurrezione di Gesù, grazie alla quale ora è per sempre in mezzo ai suoi, è già iniziato il suo ritorno.

I cristiani, di allora e di oggi, non devono quindi fissarsi sul futuro e preoccuparsi di fare ipotesi circa il momento del ritorno di Cristo. Loro, e noi con loro, dobbiamo tener presente che Lui non ha mai cessato di essere presente. Anzi, per mezzo di loro e nostro, Lui vuole diventare sempre più presente: il dono dello Spirito ed il dovere della predicazione, testimonianza e della missione fino ai confine del mondo sono il modo in cui Cristo è già adesso presente.





3) Testimoni della gioia.

La festa dell'elevazione di Cristo, che oggi commemoriamo, è quindi una grande solennità e la sua nota caratteristica è la gioia. Dio ha spazio per l'uomo: a quest'annuncio ci deve succedere come ai discepoli che dal monte dell’Ascensione tornarono alle loro case “pieni di gioia”.

Nella prima lettura della Liturgia di oggi, San Luca racconta il fatto vero e proprio dell'Ascensione in una sola riga (Atti 1,9): “Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”. Preferisce soffermarsi sui discepoli, che chiedono al Signore: “È questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. Gesù li rimprovera. Il tempo è nelle mani di Dio. E questa certezza deve bastare: il resto è trascurabile curiosità.

L'importante è un'altra cosa: “Mi sarete testimoni a Gerusalemme... fino agli estremi confini della terra”. Compito dei discepoli è di testimoniare dovunque il loro Signore. Non sono i popoli che arrivano a Gerusalemme, ma sono i discepoli che sono inviati verso i popoli. E non ci sono confini, luoghi vietati, popoli o uomini ai quali il Signore non possa essere testimoniato.

Questa testimonianza va fatta nella gioia, la gioia di Cristo crocifisso e risorto, la gioia della certezza di un Dio vicino, sempre. Per avere questa gioia quindi dobbiamo toccare la Croce e questa ci toccherà, sanando il nostro male, facendoci entrare nella gioia della resurrezione, salendo in cielo con noi nel suo cuore.

L’Ascensione va vissuta da ciascuno di noi come invito ad essere testimoni del Vangelo

  • della gioia che penetra il cuore e lo conforta,
  • della gioia che non viene mai meno perché nessuno può togliercela (cfr Gv 16,22),
  • della “gioia missionaria, che va custodita da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza”(Papa Francesco),

La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana ed ha una grande forza attrattiva, perché in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana.

Le Vergini consacrate nel mondo, che appartengono all’Ordo Virginum3, sono chiamate a testimoniare la gioia di appartenere solo a Cristo. Incontrandole il 15 maggio 2008, il Papa emerito Benedetto XVI disse loro: “Siate testimoni dell’attesa vigilante e operosa, della gioia, della pace che è propria di chi si abbandona all’amore di Dio. Siate presenti nel mondo e tuttavia pellegrine verso il Regno. La vergine consacrata, infatti, si identifica con quella sposa che, insieme allo Spirito, invoca la venuta del Signore: ‘Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni’ (Ap 22,17)”.

Santa Teresa di Calcutta ha vissuto così e fra le belle cose che ha detto sulla gioia ha pronunciato anche queste parole: “Noi aspettiamo con impazienza il paradiso, dove c'è Dio, ma è in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù e fin da questo momento. Essere felici con Dio significa: amare come Lui, aiutare come Lui, dare come Lui, servire come Lui” (La gioia di darsi agli altri, Ed. Paoline, 1987, p. 143)



1   In effetti “addio” viene da “ad Deum”, verso Dio. Quando 
ci si saluta così ci si impegna in un cammino, in un esodo che
vuole dire in un ritorno alla casa di Dio e nostra. La nostra vita
 è tutta protesa verso un avvenimento: quello 
 dell'incontro con Dio-Amore.
2   E’ in questo senso che vanno intese le seguenti parole detta di Gesù
 nell’ultima Cena : “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, 
 vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato 
 e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché
 dove sono io siate anche voi” (Gv 14, 2-3).
L’Ordo virginum ha le sue radici nei primi quattro secoli del Cristianesimo:
 fin dai tempi apostolici alcune donne seguirono l’invito di Gesù ed
 abbracciarono con gioia la verginità “per il regno dei cieli” (Mt 19,12), 
come attestano anche gli scritti paolini (1Cor 7,25.34) e gli Atti degli 
Apostoli (At 21,9).. Le figure delle prime vergini cristiane menzionate 
nel Canone Romano, Agata a Catania, Lucia a Siracusa, Agnese e Cecilia
 a Roma, Cristina a Bolsena, sono figure uniche e affascinanti di donne
 coltivate dallo Spirito. Molteplici fonti storiche attestano che la verginità
 ben presto divenne una scelta di vita operata da molte: Ignazio di Antiochia,
 Policarpo, Giustino testimoniano della presenza e del ruolo delle vergini 
nelle comunità e insieme a Cipriano, Ambrogio ed Agostino le istruiscono 
e le accompagnano con paterna premura. Con il passare dei secoli, però,
 la vita monastica divenne la modalità esclusiva per condurre un’esistenza
 dedicata a Dio e ciò comportò la progressiva scomparsa delle vergini 
consacrate.
Fu lo spirito del Concilio Vaticano II, caratterizzato dalla ricerca delle
 sorgenti della Chiesa, a dare frutti nuovi anche nell’ambito della 
vita consacrata, ripristinando quella che era stata la prima forma 
consacrazione femminile nella Chiesa, l’Ordo Virginum. Papa Paolo VI 
promulgò il 31 maggio 1970 il Rito della Consacrazione delle Vergini
 inserito nel Pontificale Romano, che disponeva potessero essere 
ammesse a questa consacrazione anche donne che intendevano vivere
 nel mondo il dono totale di sé a Cristo, al di fuori di ogni appartenenza
 a strutture di vita religiosa.


Lettura Patristica

San Gregorio Magno



Omelia XXIX, 1. 2-4 in Evang. PL 76, 1213-1216.



I discepoli tardarono a credere nella risurrezione del Signore, e ciò va visto non come segno del loro vacillare ma come sostegno della fede a cui in futuro noi saremmo stati chiamati. A loro, ancora in preda ai dubbi, l'evento della risurrezione fu mostrato con molti argomenti. Ne leggiamo nelle testimonianze scritte, e non ci sentiamo forse confermati nella fede dai loro stessi dubbi? Mi dà minor aiuto Maria, giunta subito alla fede, di Tommaso che dubitò a lungo. Questi con la sua incertezza toccò le cicatrici delle ferite e allontanò dal nostro cuore la ferita dell'incredulità.
> 
> A conferma della risurrezione del Signore va anche notato ciò che scrive Luca: Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme. E poco dopo: Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. Notate le parole e il loro mistico significato: Mentre si trovava a tavola ... fu elevato in alto. Mangiò, salì, perché attraverso il prendere cibo risultasse evidente la realtà del suo corpo.


Marco ricorda anche che il Signore, prima di salire al cielo, rimproverò i discepoli per la durezza del loro cuore e per l'incredulità. In tutto ciò, cosa occorre mettere in evidenza se non che il Signore rimproverò i discepoli nell'atto di congedarsi con la sua presenza fisica da loro, perché le parole da lui pronunciate nel lasciarli restassero più saldamente impresse nel loro cuore mentre le udivano? Ascoltiamo cosa dice come esortazione dopo il rimprovero per la durezza del loro cuore: Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
> 
> Quando la Verità invia i discepoli a predicare, come interviene nel mondo se nn spargendo seme? Sono disseminati pochi granelli, perché nascano frutti di messi abbondanti dalla nostra fede. Non potrebbe nascere in tutto il mondo una messe così ricca di fedeli, se quei grani scelti dei predicatori non raggiungessero, attraverso la mano del Signore, il terreno delle anime.


Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. Qualcuno forse dirà tra sé: Io ho già creduto e quindi avrò la salvezza. Costui dice bene se accompagna la fede con le opere, perché la fede autentica è quella che non contraddice con le opere le verità credute. Per questo Paolo scrive di alcuni falsi credenti: Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti. E Giovanni: Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti è bugiardo.


A questo punto dobbiamo verificare l'autenticità della nostra fede con l'esame della nostra condotta, perché potremo dire di essere veri credenti se attuiamo con le opere le promesse fatte a parole. Nel giorno del battesimo ci siamo impegnati a rinunciare a tutte le opere e a tutte le pompe dell'Avversario antico. Ognuno di voi si esamini seriamente e se da dopo il battesimo compie ciò a cui si impegnò, si senta felice per la certezza di avere la vera fede.
> 
> E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro alcun danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno.


Forse, fratelli miei, dovete considerarvi senza fede perché non operate questi prodigi? Essi furono necessari ai primordi della Chiesa, perché la fede doveva essere alimentata dai miracoli per poter crescere. Anche noi, del resto, quando piantiamo alberi, dobbiamo annaffiarli finché non li vediamo ben solidi nel terreno, e appena hanno fissato le radici smettiamo di somministrare l'acqua. Per questo Paolo dice: Le lingue non sono un segno per i credenti ma per i non credenti.


Ci sono altre ulteriori considerazioni in ordine a questi segni e prodigi. La santa Chiesa compie ogni giorno in forma spirituale ciò che faceva allora concretamente mediante gli apostoli. Quando infatti i suoi sacerdoti con la grazia dell'esorcismo impongono le mani ai fedeli e impediscono agli spiriti maligni di prendere dimora nelle loro anime, cosa fanno se non scacciare i demoni? E i cristiani che abbandonano le dottrine mondane della vita di un tempo, che celebrano i santi misteri e annunciano con tutte le forze le lodi e la potenza del Creatore, che altro fanno se non esprimersi in lingue nuove? Quando poi con buone esortazioni spengono la malizia nel cuore degli altri, eliminano i serpenti. Quando sentono parole malvagie e suadenti senza farsi trascinare al male, prendono, sì, bevande mortifere, ma non ne subiscono danno.
> 
> Quando i credenti si accorgono che il prossimo vacilla nel compiere il bene, quando lo soccorrono con tutte le forze e l'esempio del proprio comportamento, sostengono la condotta di chi è incerto nelle scelte da compiere, altro non fanno se non imporre le mani sui malati perché ritrovino la salute. Questi prodigi sono ancora più grandi perché di ordine spirituale, e perché attraverso di essi vengono ricondotti alla vita non i corpi ma le anime.
> 
> Fratelli carissimi, voi pure potete compiere questi segni - se lo volete - con l'intervento di Dio. Si tratta di segni esterni e da essi non possono ottenere vita quelli che li compiono perché sono prodigi di natura corporea che mostrano talora la santità senza però esserne causa; invece questi prodigi spirituali compiuti nelle anime producono la realtà della vita, e non è loro compito semplicemente il mostrarla. Di essi possono fruire solo i giusti, mentre ai primi possono accedere anche i malvagi. Per questo la Verità dice di qualcuno: Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
> 
> Non vogliate perciò, fratelli, fare oggetto del vostro amore quei segni che potrebbero essere attribuiti anche ai reprobi, ma amate i prodigi della carità e del fervore, di cui ora abbiamo parlato, che sono veramente sicuri perché occulti; per essi è stabilita presso il Signore una ricompensa tanto più grande quanto minore è la loro gloria presso gli uomini.”

venerdì 15 maggio 2020

Osservare i comandamenti è mettere in pratica l’amore

VI Domenica di Pasqua – Anno A – 17 maggio 2020

Rito Romano
At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

Rito Ambrosiano
At 4,8-14; Sal 117; 1Cor 2,12-16; Gv 14,25-29


Premessa:
Il rischio che tutti possiamo correre in questo tempo di pandemia è quello di essere determinati da ciò che non si ama invece di essere determinati da ciò che si ama: Cristo risorto.
Trascorrere le giornate con il telelavoro o “ammazzando il tempo” ci fa correre il rischio di reagire o alle cose da fare o alla noia di non sapere come occupare le lunghe giornate che siamo obbligati a passare in casa.
In tutte e due i casi l’abitudine al quotidiano, all’ordinario e – spesso – al noioso, può soffocare la felicità recata dalla risurrezione di Cristo, che in questo peridio pasquale siamo chiamati a celebrare con particolare intensità.
Come fare in modo che la nostra vita, qui e ora, sia la narrazione della fedeltà all’incontro con Cristo risorto, che vivifica il nostro cuore, come il fuoco della primavera vivifica il grano seminato nella terra?
Propongo due risposte.
  1. Domandando la grazia di vivere l’amore a Cristo in modo diligente, attento, assiduo, sollecito, così che il “banale” quotidiano diventi eroico, cioè ricolmo dell’amore grande di Cristo. Questo affetto premuroso, questa domanda costante non è solo dei santi ma anche di noi peccatori. E la preghiera del peccatore pentito da pace a noi e gioia a Dio. Una gioia come quella di una madre quando il bambino neonato le sorride la prima volta.
  2. Osservando i comandamenti di Cristo come risposta amorosa al Suo amore, che ci indica la strada della verità. Amare è osservare la Parola” (i comandamenti di Cristo sono parole d’amore della Parola), perché l’amore consiste non tanto nelle parole o nei sentimenti, l’amore consiste nei fatti e nella verità. Quindi quei fatti, in quelle azioni, che corrispondono alla verità del cuore. Osservare vuol dire “guardare bene, con cura, per conoscere”, ma vuol dire anche “praticare”: è una pratica, cioè l’amore diventa conoscenza, ma anche pratica, diventa “fare”.



1) La libertà è osservare i comandamenti.
Il Vangelo ci insegna che l’essenziale è amare Cristo e custodire la sua parola per attuarla, ed anche il brano evangelico di oggi mette a tema l’amore: “Se mi amate ... chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 15.21). L'amore, che Gesù chiede, si esprime nell'osservare i suoi comandamenti1 ed è reso possibile dall'amore che per primo Dio ci ha offerto: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). In effetti, quando ci si sente amati, siamo più facilmente spinti ad amare. L’amore è il pieno compimento della vocazione di ciascuno di noi. E’ il grande dono che ci rende veramente e pienamente “umani”. E’ di questo amore che l’umanità, oggi più che mai, ha bisogno, “perché solo l’amore è credibile(Giovanni Paolo II).
Ma come possiamo credere e praticare l’amore? Il Vangelo di oggi ci offre due suggerimenti.
Il primo modo è quello di obbedire ai comandamenti di Dio, riconoscendoli come il contenuto ed il linguaggio dell’amore, che ci “afferra” teneramente.
Entrare nell'Amore di Cristo significa essere afferrati da un dinamismo, per il quale non solo si osserva la Legge come un obbligo, ma la si mette in pratica come un’esigenza del cuore: chi gusta l'Amore di Cristo non può che amare e vivere di questo Amore, che è vita. In effetti non c’è vera vita se non nel vero Amore. Un Amore che ci fa esistere come figli e vivere da fratelli e sorelle.
L'essenziale è invisibile agli occhi” (Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo Principe) è il segreto che la volpe consegna al piccolo Principe dopo che quest'ultimo l’ha addomesticata e tra loro è nato il legame indissolubile dell'amicizia vera. Il lungo e difficile cammino che Gesù ha compiuto con i suoi discepoli ha portato ad un “addomesticamento” reciproco, come quello che è narrato nel libro di Saint-Exupéry. Gesù è legato ai suoi discepoli che chiama amici, e loro sono legati a lui e tra di loro (“amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”). Questo legame affrontò la prova terribile della morte e il mistero della resurrezione, ma non si spezzò. Da parte di Gesù c’è la promessa che l'amicizia non sarebbe venuta meno: il dono dello Spirito Santo è proprio questo. Ma, come dice la volpe al piccolo principe, “non si vede bene che con il cuore”, e i comandamenti di Dio educano il cuore che così può vedere.

2) Liberi perché figli “legati” al Padre dall’amore obbediente, e non orfani “slegati” dall’Amore.
Si potrebbe obiettare: “Come si può comandare l’amore? E come l’amore può avere dei comandamenti? L’amore non è libertà?” Sì, l’amore è libertà, è quella libertà che aderisce alla verità e all’amore lietamente e decisamente. L’amore conosce molti obblighi e molti doveri, ma sono vissuti come espressione di libertà, realizzazione di sé stessi e non come costrizione. L’amore non è fare quel che mi pare e piace, l’amore è amare l’altro, volere il bene dell’altro, l’amore è servire, l’amore è mettere in gioco la propria vita, l’amore è esattamente il contrario dell’egoismo.
L'amore non è dare ciò che si ha, ma ciò che si è; allora si vuole anche ciò che gli altri sono, non le loro cose. Non il dono delle proprie cose è amore, ma il dono di sé stessi. Non per nulla nel Vangelo l'amore è identificato all'obbedienza, perché l'obbedienza è il dono di sé. Se mi amate, osservate i miei comandamenti… Chi osserva i miei comandamenti, quello è colui che mi ama, dice Gesù nell'Ultima Cena.
L’amore di Cristo è la legge suprema che mi fa capire se quell’azione, piccola o grande che sto facendo, è vera o falsa; se conduce alla vita o alla morte. L’amore per Gesù, la Sua legge d’amore e di libertà è la sorgente di ogni azione, di ogni comando. Lui ci ha amati per primo, noi “dobbiamo” rispondere a questo amore, per essere come Lui e vederLo: “L’amore di Dio è il primo che viene comandato, l’amore del prossimo è il primo però che si deve praticare... Amando il prossimo, rendi puro il tuo occhio per poter vedere Dio” (Sant’Agostino d’Ippona, In Io. Ev. tr., 17, 8).
La nostra mente ed il nostro cuore non possono mai stare vuoti, o si riempiono di una cosa oppure si colmano di un’altra. Anche durante le nostre attività quotidiane dobbiamo tenere lo sguardo fisso su Gesù, che vedremo se il nostro cuore e i nostri occhi hanno una purezza angelica.
A chi domanda come fare una preghiera continua, suggerisco di fare, durante la giornata, brevi soste per rimettere ordine, per raddrizzare la rotta, per liberarsi dai cattivi pensieri e alimentarsi di nuovo con un versetto del Vangelo, o di un salmo o di un episodio della vita del Signore. 
Per questo lo Chiesa ha stabilito le Liturgia delle “Ore”. Basta poco per smarrirsi, per perdere il centro di gravità, uscire e distrarsi. Ecco allora i salmi a intervalli regolari, per ritrovare il centro (Cristo) e ricordarsi della “presenza” che abita nel profondo del nostro cuore. Il cuore è cuore la sede dove possiamo riconoscere che Gesù non ci ha abbandonati e che il legame stabilito con i suoi discepoli non si è spezzato nonostante il passare dei secoli e le tante fragilità e limiti dei cristiani dall'inizio fino ai giorni nostri.
Questo accade nei monasteri dove niente deve essere anteposto all'Ufficio divino, perché niente deve essere anteposto all'accoglienza di questa divina “presenza”. 
Occorre praticare lo custodia del cuore e dei sensi. Il voler guardare tutto, parlare di tutto, curiosare su tutto, riempiono la nostra casa di cianfrusaglie, quando non di cose cattive. Il Signore allora, non può parlarci, entrare in colloquio di amore con noi.
Questo accade nella vita della Vergini consacrate nel mondo, che sono chiamate a vivere una vita monastica dentro la società. A questo riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: Emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, [le vergini] dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa”. Mediante questo rito solenne (Consecratio virginum), “la vergine è costituita persona consacrata” quale “segno trascendente dell'amore della Chiesa verso Cristo, immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura”.Aggiungendosi alle altre forme di vita consacrata, l'ordine delle vergini stabilisce la donna che vive nel mondo (o la monaca) nella preghiera, nella penitenza, nel servizio dei fratelli e nel lavoro apostolico, secondo lo stato e i rispettivi carismi offerti ad ognuna. Le vergini consacrate possono associarsi al fine di mantenere più fedelmente il loro proposito. (CCC, nn 923 e 924).
Queste donne consacrate mostrano con la loro esistenza donata interamente a Dio, che la profonda verità di questa affermazione di Cristo: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21). 
La conseguenza dell'amore e dell'obbedienza a Gesù è il dono del Paraclito2, inviato dal Padre su richiesta orante del Figlio Gesù. Non siamo e non saremo mai orfani, Gesù ce lo assicura nel Vangelo di oggi. L’amore con il quale il Signore Gesù ci ama si traduce nella sua preghiera costante che ci ottiene, istante dopo istante, il dono del Paraclito. E’ un nome che designava l’avvocato, colui che assiste e soccorre nel processo per difendere contro l'accusatore. E Satana3 significa appunto accusatore. Lo Spirito Santo è chiamato presso di noi, anche oggi, in questo istante, e in ogni secondo della nostra vita, per difenderci, per ricordarci e annunciarci la Verità, che siamo figli di Dio nel Figlio Gesù.
Di fronte alle accuse di infedeltà, di ipocrisa, di incostanza, di fronte al disprezzo di noi stessi cui ci spinge l'accusatore, il Paraclito ci con-sola, ci colma dell'amore del Signore, compie in noi ogni comandamento, lo custodisce e lo accoglie sprigionando in noi l'amore a Cristo. E’ vero: lo Spirito Santo è l’amore ,con il quale amiamo il Signore, lo stesso amore che unisce il Padre ed il Figlio, e ci fa intimi della loro intimità. Nello Spirito Santo siamo dimora di Dio, e la nostra vita, tutta, è trasformata in una cattedrale meravigliosa dove ogni uomo può riconoscere la presenza amorevole e misericordiosa di Dio.

1 Faccio notare che questa indicazione del v 15 è ripresa ai vv. 21 e 26, anche se in forma diversa.
2 Paraclito deriva dal greco παράκλητος (paraclētus) ossia chiamato presso, invocato accanto. Il Paràclito o Avvocato è colui che è vicino, che sta dalla mia parte, prende le mie difese, intercede per me, quindi il Consolatore, che è uno degli appellativi dello Spirito Santo.
3 Satana (in ebraico: שָׂטָן, Satàn; in greco: Σατᾶν o Σατανᾶς; Satàn o Satanâs; in latino: Satănas. Il significato in ebraico sarebbe “accusatore in giudizio”, “avversario”, “colui che si oppone”, “contraddittore”.


LETTURA PATRISTICA
Sant’Agostino d’Ippona (354 -430)
Commento al Vangelo di San Giovanni

OMELIA 74
Il dono di un altro Paraclito.
Chi ama è segno che ha lo Spirito Santo, e quanto più amerà tanto più lo avrà, affinché possa amare sempre di più.
1. Abbiamo ascoltato, o fratelli, mentre veniva letto il Vangelo, il Signore che dice: Se mi amate, osservate i miei comandamenti; ed io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Paraclito, il quale resti con voi per sempre; lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscete, perché rimane tra voi e sarà in voi (Gv 14, 15-17). Molte sono le cose da approfondire in queste poche parole del Signore; ma sarebbe troppo cercare ogni cosa che qui si può trovare, o pretendere di trovare ogni cosa che qui si può cercare. Tuttavia, prestando attenzione a ciò che noi dobbiamo dire e che voi dovete ascoltare, secondo quanto il Signore vorrà concederci e secondo la nostra e vostra capacità, ricevete per mezzo nostro, o carissimi, ciò che noi possiamo darvi, e chiedete a lui ciò che noi non possiamo darvi. Cristo promise agli Apostoli lo Spirito Paraclito; notiamo però in che termini lo ha promesso. Se mi amate - egli dice - osservate i miei comandamenti; ed io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Paraclito, il quale resti con voi per sempre: lo Spirito di verità. Senza dubbio si tratta dello Spirito Santo, una persona della Trinità, che la fede cattolica riconosce consostanziale e coeterno al Padre e al Figlio. E' di questo Spirito che l'Apostolo dice: L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5, 5). Come può dunque il Signore, riferendosi allo Spirito Santo, dire: Se mi amate, osservate i miei comandamenti; ed io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Paraclito, dal momento che senza questo Spirito non possiamo né amare Dio, né osservare i suoi comandamenti? Come possiamo amare Dio per ricevere lo Spirito, se senza lo Spirito non possiamo assolutamente amare Dio? E come possiamo osservare i comandamenti di Cristo per ricevere lo Spirito, se senza questo dono non possiamo osservarli? E' forse da pensare che prima c'è in noi la carità, che ci consente di amare Cristo, e, amandolo e osservando i suoi comandamenti, si può meritare il dono dello Spirito Santo così che la carità (non di Cristo che già era presente, ma di Dio Padre), si riversi nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato? Questa è un'interpretazione errata. Infatti, chi crede di amare il Figlio e non ama il Padre, significa che non ama il Figlio, ma una invenzione della sua fantasia. Perciò l'Apostolo dichiara: Nessuno può dire: Gesù è il Signore, se non nello Spirito Santo (1 Cor 12, 3). Chi può dire: Gesù è il Signore, nel senso che intende l'Apostolo, se non chi lo ama? Molti infatti riconoscono Gesù a parole, mentre col cuore e con le opere lo rinnegano; come appunto dice l'Apostolo: Confessano sì di conoscere Dio, ma con le opere lo negano (Tt 1, 16). Se con le opere si può negare Dio, è altrettanto vero che è con i fatti che lo si confessa. E così nessuno può dire: Gesù è il Signore - con l'animo, con le parole, con i fatti, con il cuore, con la bocca, con le opere - se non nello Spirito Santo; e nessuno lo dice in questo senso se non chi lo ama. Ora, se gli Apostoli dicevano: Gesù è il Signore, e non lo dicevano in modo finto come quelli che lo confessano con la bocca e lo negano con il cuore e con le opere, se insomma lo dicevano in modo autentico, sicuramente lo amavano. E come lo amavano, se non nello Spirito Santo? E tuttavia il Signore ordina loro, prima di tutto di amarlo e di osservare i suoi comandamenti, per poter ricevere lo Spirito Santo, senza del quale essi di sicuro non avrebbero potuto né amarlo né osservare i suoi comandamenti.
[Viene promesso lo Spirito Santo anche a chi lo ha.]
2. Dobbiamo dunque concludere che chi ama lo Spirito Santo, e, avendolo, merita di averlo con maggiore abbondanza, e, avendolo con maggiore abbondanza, riesce ad amare di più. I discepoli avevano già lo Spirito Santo, che il Signore prometteva loro e senza del quale non avrebbero potuto riconoscerlo come Signore; e tuttavia non lo avevano con quella pienezza che il Signore prometteva. Cioè, lo avevano e insieme non lo avevano, nel senso che ancora non lo avevano con quella pienezza con cui dovevano averlo. Lo avevano in misura limitata, e doveva essere loro donato più abbondantemente. Lo possedevano in modo nascosto, e dovevano riceverlo in modo manifesto; perché il dono maggiore dello Spirito Santo consisteva anche in una coscienza più viva di esso. Parlando di questo dono, l'Apostolo dice: Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo ma lo Spirito che viene da Dio, affinché possiamo conoscere le cose che da Dio ci sono state donate (1 Cor 2, 12). E non una volta, ma ben due volte il Signore elargì agli Apostoli in modo manifesto il dono dello Spirito Santo. Appena risorto dai morti, infatti, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo (Gv 20, 22). E per averlo dato allora, forse che non inviò anche dopo lo Spirito promesso? O non era il medesimo Spirito quello che Cristo alitò su di loro e poi ancora inviò ad essi dal cielo (cf. At 2, 4)? Qui si pone un'altra domanda: perché questo dono fu elargito in modo manifesto due volte? Forse questo dono fu elargito visibilmente due volte perché due sono i precetti dell'amore: l'amore di Dio e quello del prossimo, e per sottolineare che l'amore dipende dallo Spirito Santo. Se bisogna cercare un altro motivo, non è adesso il momento, dato che non possiamo tirare troppo in lungo questo discorso. L'importante è tener presente che senza lo Spirito Santo noi non possiamo né amare Cristo né osservare i suoi comandamenti, e che tanto meno possiamo farlo quanto meno abbiamo di Spirito Santo, mentre tanto più possiamo farlo quanto maggiore è l'abbondanza che ne abbiamo. Non è quindi senza ragione che lo Spirito Santo viene promesso, non solo a chi non lo ha, ma anche a chi già lo possiede: a chi non lo ha perché lo abbia, a chi già lo possiede perché lo possieda in misura più abbondante. Poiché se non si potesse possedere lo Spirito Santo in misura più o meno abbondante, il profeta Eliseo non avrebbe detto al profeta Elia: Lo Spirito che è in te, sia doppio in me (2 Sam 2, 9).
3. Quando Giovanni Battista disse: Iddio dona lo Spirito senza misura (Gv 3, 34), parlava del Figlio di Dio, al quale appunto lo Spirito è dato senza misura, perché in lui abita tutta la pienezza della divinità (cf. Col 2, 9). Non potrebbe infatti l'uomo Cristo Gesù essere mediatore tra Dio e gli uomini senza la grazia dello Spirito Santo (cf. 1 Tim 2, 5). Infatti egli stesso afferma che in lui si è compiuta la profezia: Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha unto, mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella (Lc 4, 18-21). Che l'Unigenito sia uguale al Padre, non è grazia ma natura; il fatto invece che l'uomo sia stato assunto nell'unità della persona dell'Unigenito, è grazia non natura, secondo la testimonianza del Vangelo che dice: Intanto il bambino cresceva, si fortificava ed era pieno di sapienza, e la grazia di Dio era in lui (Lc 2, 40). Agli altri, invece, lo Spirito viene dato con misura, e questa misura aumenta, finché si compie per ciascuno, secondo la sua capacità, la misura propria della sua perfezione. Donde l'esortazione dell'Apostolo: Non stimatevi più di quello che è conveniente stimarsi, ma stimatevi in maniera da sentire saggiamente di voi, secondo la misura di fede che Dio ha distribuito a ciascuno (Rm 12, 3). Lo Spirito infatti non viene diviso; sono i carismi che vengono divisi come sta scritto: Vi sono diversità di carismi, ma identico è lo Spirito (1 Cor 12, 4).
4. Dicendo poi: Io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Paraclito, il Signore ci fa capire che egli stesso è Paraclito. Paraclito corrisponde al latino avvocato; e Giovanni dice di Cristo: Abbiamo, come avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto (1 Io 2, 16). In questo senso dice che il mondo non può ricevere lo Spirito Santo, così come sta scritto: Il desiderio della carne è inimicizia contro di Dio: esso infatti non si assoggetta alla legge di Dio né lo potrebbe (Rm 8, 7). Come a dire che l'ingiustizia non può essere giusta. Per mondo qui si intende coloro che amano il mondo di un amore che non proviene dal Padre. E perciò l'amore di Dio, riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato, è l'opposto dell'amore di questo mondo, che ci sforziamo di ridurre e di estinguere in noi. Il mondo quindi non lo può ricevere perché non lo vede né conosce. L'amore mondano, infatti, non possiede occhi spirituali, senza dei quali non è possibile vedere lo Spirito Santo, che è invisibile agli occhi della carne.
5. Ma voi - dice il Signore - lo conoscerete perché rimarrà tra voi e sarà in voi. Sarà in loro per rimanervi, non rimarrà per esservi; poiché per rimanere in un luogo, prima bisogna esserci. E affinché non credessero che l'espressione: rimarrà presso di voi, volesse significare una permanenza simile a quella di un ospite in una casa, spiegò il senso delle parole: rimarrà presso di voi, aggiungendo: e sarà in voi. Lo si potrà dunque vedere in modo invisibile, e non potremmo conoscerlo se non fosse in noi. E' così che noi vediamo in noi la nostra coscienza; noi possiamo vedere la faccia di un altro, ma non possiamo vedere la nostra; mentre possiamo vedere la nostra coscienza e non possiamo vedere quella di un altro. La coscienza, però, non esiste fuori di noi, mentre lo Spirito Santo può esistere anche senza di noi; e che sia anche in noi, è un dono. E se non è in noi, non possiamo vederlo e conoscerlo così come deve essere veduto e conosciuto.