IV
Domenica di Pasqua – Anno A – 3 maggio 2020
Rito
Romano
At
2,14a.36-41; Sal 22; 1 Pt 2,20b-25; Gv 10,1-10
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Rito
Ambrosiano
At
6,1-7; Sal 134; Rm 10, 11-15; Gv 10, 11-18
1)
Il Pastore vero, quindi buono.
La
liturgia odierna ci invita a contemplare Gesù come pastore e porta
dell’ovile, mentre a Pasqua lo abbiamo contemplato come Agnello,
vittima pasquale che redime le pecore, vincendo la morte per sempre.
Oggi,
nel mondo occidentale sviluppato, l’immagine del pastore non è
molto presente e quando lo è, ciò avviene con un po di disprezzo,
tant’è vero che l’espressione “non sono una pecora” è usata
per definirsi persone adulte, indipendenti e coraggiose, quindi non
bisognose di pastori.
Nei
tempi addietro e nella civiltà ebraica la figura del pastore era
famigliare, molto nota: Abramo era pastore, Mosè era pastore del suo
popolo, e così lo fu pure il re Davide. In effetti, nella civiltà
biblica era consueta l’immagine del re pastore che guida il suo
popolo ed era consueta anche l’immagine del Dio Pastore che porta
il suo popolo verso la libertà, verso la vita.
La
Storia di Salvezza cantata nei Salmi e raccontata, in particolare,
nell’Esodo, ha reso famigliare agli Ebrei l’esperienza di un Dio
vicino che è ben espressa dall’immagine di Dio che porta ai
pascoli il suo popolo, lo difende dai nemici, lo porta in salvo
attraverso i pericoli del deserto e lo guida verso il compimento
delle Sue promesse, verso la Terra promessa.
E’
un idillio divino che riassume il tormentato rapporto tra il popolo e
Dio che usa l’immagine del pastore per teneramente dire: “Ecco,
io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore
passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue
pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie
pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei
giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò
da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò
pascolare sui monti d'Israele, nelle valli e in tutte le praterie
della regione. Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà
sui monti alti d'Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno
rigogliosi pascoli sui monti d'Israele. Io stesso condurrò le mie
pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio.
Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella
smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura
della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34,
11-16).
Gesù,
che portava in sé la verità e il compimento
di tutte le profezie, si mette in questo solco e mostra di essere il
vero, buon Pastore, che conosce le sue pecore e le sue pecore
conoscono Lui, come il Padre Lo conosce e come Lui conosce il Padre
(cfr Gv 10,14-15). Come è meravigliosa
questa conoscenza, che arriva fino fino all’eterna Verità e
all’Amore, il cui nome è il “Padre”. Proprio da questa
sorgente proviene quella particolare conoscenza, che fa nascere la
piena e pura fiducia. Non è questa una conoscenza astratta, una
certezza puramente intellettuale: è una conoscenza liberatrice che
suscita la fiducia.
2)
Il Pastore che è la Porta
Come
ho sopra accennato l’allegoria del pastore, con la quale Gesù
descrive la sua identità: “IO SONO il buon pastore” (Gv 10,11)
si muove su uno sfondo ancora molto familiare alla vita in Terra
Santa. La sera i pastori conducono il gregge in un recinto per la
notte. Un recinto comune serve generalmente a diversi greggi. Il
mattino ciascun pastore grida il suo richiamo e le pecore – le sue
pecore che conoscono la sua voce – lo seguono.
Raccontando
questa scena famigliare, Gesù sottolinea anzitutto che Lui è il
vero pastore perché – a differenza del mercenario – non viene a
rubare le pecore, ma a donare la vita. La caratteristica del vero
pastore è il dono di sé.
Ma
c'è anche un secondo pensiero: Gesù è la Porta dell'ovile: “IO
SONO la Porta” (Cfr Gv 10, 7 e 9). E questo assume due significati:
uno in direzione dei capi, e un secondo in riferimento ai fedeli.
Gesù è la porta per la quale si deve passare per essere legittimi
pastori. Nessuno può avere autorità sulla Chiesa se non legittimato
da Gesù. E, secondo, nessuno è discepolo se non passa attraverso
Gesù ed entra nella sua comunità. Come si vede, Gesù è al centro,
sia dell'autorità che in suo nome governa, sia dei fedeli che in
comunione con Lui possono appartenere veramente al popolo di Dio.
Nel
Vangelo di oggi, Gesù dice: “Io-Sono” e lo dice per quattro
volte: Io-Sono la porta, ancora Io-Sono la porta, poi Io-Sono il
Pastore bello, Io-Sono il Pastore bello; dove Io-Sono richiama
il Dio dell’Esodo, la rivelazione
del Nome di Dio, del Dio che salva l’uomo e lo libera.
Chi
entra per la porta è il Pastore, gli altri sono ladri e malfattori.
La porta è una breccia nel muro e nel recinto da dove
si può uscire verso la libertà. Gesù presenta la porta che è
l’apertura tra uomo e Dio; in quanto
Parola di Dio incarnata, è la porta
dell’uomo su Dio. È la porta dell’uomo sulla verità dell’uomo
che è figlio di Dio e chi entra per
questa porta, entra attraverso
l’intelligenza perché il Figlio è il Verbo del Padre, è
l’intelligenza; entra
attraverso la libertà e l’amore perché il figlio libero, che ama,
risponde all’amore e fa un certo tipo di vita.
Rispetto
al recinto dell’ovile, che pur necessario per la protezione delle
pecore è anche una barriera, la porta significa la capacità, la
possibilità di comunicazione, di comunione.
Quella
porta che è Gesù è la rottura di tutto ciò che separa Dio da noi
e noi da Dio e quindi la possibilità di una comunicazione e di una
comunione, desiderata da lui e anche da noi.
3)
Seguire il Pastore, per evangelizzare.
Però
nel brano del Vangelo di oggi non si descrive soltanto la figura del
Pastore Gesù e dei Pastori della Chiesa, ma si descrive anche il
comportamento delle pecore chiamate per nome a seguire. La sequela è
frutto di una chiamata (“Egli chiama le sue pecore una per una”),
implica un'appartenenza (le pecore sono sue) ed esige un ascolto
(“ascoltano la sua voce”).
Chiamata,
appartenenza e ascolto costituiscono i tratti della comunità, che
cammina insieme con Gesù. Naturalmente tutto questo richiede il
netto rifiuto di ogni altro pastore, e di ogni altro maestro (“un
estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui”).
Gesù,
luce del mondo, conduce verso i pascoli della vita: fa di noi un
unico gregge di persone libere, di figli e
fratelli tutti simili a lui e diversi tra loro. Egli è l’Agnello
che sa esporre, deporre e disporre la
sua vita a favore degli altri. È Capo perché Servo di tutti: è il
Pastore vero, diverso dai personaggi famosi che troppo spesso sono
seguiti come modello, ma sono modelli che rubano la vita, non la
donano.
Il
modello d’uomo che Gesù ci propone di vivere: è il modello del
pastore. Lui, il buon Pastore, viene per portarci alla libertà, che
vuol dire non seguire quei modelli correnti, alla moda e devianti.
Lui è il Pastore buono e vero che offre la
sua vita per le sue pecore” (cfr. Gv 10,11.15).
C'è
però anche un altro tratto, che è indicato qualche riga dopo. Gesù
Pastore non solo traccia la strada al gregge (cammina davanti al
gregge), né è soltanto colui che raduna il gregge (che ama e
chiama le sue pecore), ma è colui che – camminando davanti al
gregge – pensa alle pecore che non appartengono all'ovile. Così
Pietro: è il pastore della Chiesa, ma il suo pensiero è per il
mondo intero. La sua funzione è anche di non permettere alla
comunità cristiana di chiudersi nel particolare, di estraniarsi dal
mondo, di pensare a se stessa.
A
questo riguardo la Vergini consacrate nel mondo mostrano che essere
religioso non significa “risparmiarsi” per la vita eterna... ma è
addentrarsi, come il Verbo di Dio, nella quotidianità del lavoro,
mostrando il volto del Padre che attende, del Figlio che rifà tutte
le cose, dello Spirito che anima.
Inserirsi
nel mondo vuol dire portare l'esempio del limite dell'Incarnazione
del Verbo fino all'ambito più intensamente drammatico. San Paolo:
«Quelli che usano di questo mondo non si attacchino ad esso, perché
passa la scena di questo mondo» (cf 1Cor 7,31). Si tratta di mettere
il trascendente nel nucleo stesso della vita e dell'attività
quotidiana della nostra consegna. Questa dimensione configura una
consacrazione e una “consegna che
crea una speciale relazione con il servizio e la gloria di Dio”
(Con Vat. II, Cost. Dog. Lumen
Gentium, 44).
Lettura
Patristica
Dai
“Discorsi” di sant’Agostino, vescovo
(Serm.
229/N, 1-2, 3)
L’amore
alle pecore e al pastore
Ecco
il Signore che, apparendo di nuovo ai discepoli dopo la risurrezione,
interroga l'apostolo Pietro e lo mette in condizione di confessare
per tre volte il suo amore lui che per tre volte l'aveva rinnegato
per timore. Cristo risuscitò nella carne, Pietro nello spirito,
perché, mentre Cristo era morto soffrendo, Pietro era morto
rinnegando. Cristo Signore è risuscitato, dai morti e nel suo amore
egli, risuscita Pietro. Lo interrogò perché dichiarasse il suo
amore e gli consegnò le sue pecore. Che cosa Pietro avrebbe potuto
donare a Cristo per il fatto che amava Cristo? Se Cristo ti ama, il
vantaggio è per te, non per Cristo; e se tu ami Cristo, il vantaggio
è per te, non per Cristo. Ma volendo Cristo Signore far vedere dove
gli uomini debbano dimostrare il loro amore per Cristo, si identificò
con le sue pecorelle e lo fece capire con chiara evidenza. Mi
ami? Sì, ti amo. Pasci le mie pecorelle (Io
21, 15-17). Così una volta, così una seconda, così una
terza. Nient'altro lui rispose se non che l'amava; nient'altro il
Signore gli chiede se non se lo ami; nient'altro alla sua risposta
gli affidò se non le sue pecorelle. Amiamole e così amiamo Cristo.
Cristo infatti, Dio da sempre, è nato come uomo nel tempo. Uomo da
uomo, dagli uomini si fece vedere come uomo e, come Dio nell'uomo,
operò molte meraviglie. Come uomo, subì dagli uomini molte
sofferenze; come Dio nell'uomo, dopo la morte risuscitò. Come uomo
si intrattenne con gli uomini sulla terra per quaranta giorni; come
Dio nell'uomo davanti ai loro occhi salì al cielo e siede alla
destra del Padre. Noi tutto questo lo crediamo, non lo vediamo.
Abbiamo ordine di amare Cristo Signore, che non vediamo, e tutti
esclamiamo dicendo: Io amo Cristo. Però se non ami il
fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (Io
4, 20). Amando le pecorelle fa' vedere che hai amore per il
pastore, perché proprio esse sono le membra del pastore. Affinché
le pecorelle diventassero sue membra, lui stesso si è degnato di
farsi pecorella; perché le pecorelle diventassero sue membra, come
una pecora fu condotto al macello (Is 53, 7); perché
le pecorelle diventassero sue membra, di lui fu detto: Ecco
l'Agnello di Dio; ecco colui che toglie i peccati del mondo (Io
1, 29). Ma quanta fu la forza di quest’Agnello! Vuoi
sapere quale fu la forza che si manifestò in quest’Agnello?
L’Agnello fu crocifisso, ma restò vinto il leone. Guardate,
considerate con quale potenza Cristo Signore regge il mondo, lui che
con la sua morte ha vinto il diavolo!
Amiamolo
dunque e nulla ci sia piú a cuore di lui. Non vi pare che il Signore
interroghi anche noi? Solo Pietro meritò di essere interrogato, e
noi no? Quando si fa quella lettura, nel suo cuore viene interrogato
ogni cristiano. Quando perciò senti il Signore che dice: Pietro,
mi ami? considera quelle parole come uno specchio e guardatici
dentro. Pietro infatti che cosa rappresentava, se non la figura di
tutta la Chiesa? E allora quando il Signore interrogava la Pietro,
interrogava noi, interrogava la Chiesa.
Tutti
amiamo Cristo, tutti siamo sue membra e, quando egli affida ai
pastori le sue pecorelle, tutto il gran numero dei pastori si
riconduce al corpo dell'unico pastore. [...] L'amore dunque di quel
Cristo che noi amiamo in voi, l'amore di quel Cristo che anche voi
amate in noi, tra le prove, tra le fatiche, tra i sudori, tra le
sollecitudini, tra le miserie, tra i gemiti, ci condurrà là dove
piú non sarà fatica alcuna, alcuna miseria, alcun gemito, alcun
sospiro, alcuna molestia; dove nessuno nasce, nessuno muore, nessuno
ha paura dell'ira di un potente perché si aderisce al volto
dell'Onnipotente.
In
breve...
Quando
(Cristo) affidava le sue pecore a Pietro, affidava le sue membra alla
Chiesa. O Signore, sì, affida la tua Chiesa alla tua Chiesa! E la
tua Chiesa si affidi a Te. (Serm. 229/P, 4)
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