domenica 25 dicembre 2022

Dal Cielo alla Terra per portare la Terra in Cielo.

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Messa di Mezzanotte

Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14 

25 dicembre 2022

 

1) E’ nato a Betlemme, andiamo e inginocchiamoci. 

Nella Messa di mezzanotte e del mattino la liturgia di Natale propone la narrazione della nascita di Gesù secondo San Luca[1], riporta l’annuncio dell’angelo ai pastori“Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2, 11). 

Oggi, 25 dicembre 2022, per noi “è nato un Salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide” Questa città è Betlemme e, come fecero i pastori appena ebbero udito l’annuncio angelico, è là che dobbiamo affrettarci. 

Oggi, come la santa notte di più di 2000 anni fa questo è il segno che è dato “un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia” (Lc 2, 12). E’ un segno che colpisce per la sua totale semplicità. Ciò che meraviglia è l’assenza di ogni tratto meraviglioso. I pastori, e noi con loro, sono sì avvolti e intimoriti dalla gloria di Dio, ma il segno che ricevono è semplicemente: “Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia” (id.). E quando giungono a Betlemme non vedono altro che un umile bambino in una povera greppia. La meraviglia del Natale sta qui. Senza la rivelazione degli angeli non capiremmo che quel bambino deposto in una mangiatoia è il Signore. E senza il bambino deposto nella mangiatoia non capiremmo che la gloria del vero Dio è diversa dalla gloria dell’uomo. 

L’Amore onnipotente è “sotto le forme di un Bambino. L’Onnipotenza come non-potenza. Non-potenza come Amore, che supera tutto, che a tutto dà senso. (S. Giovanni Paolo II, Omelia del 24 dicembre 1985). Dio si è fatto piccolo Bambino perché potessimo comprenderLo, accoglierLo, amarLo. 

Questo Piccolo ci chiede di essere amato: riveriamoLo come Signore degli angeli, ma amiamolo come tenero bambino. TemiamoLo come Signore della potenza, ma amiamolo avvolto in fasce. RispettiamLo come il Re del cielo, ma amiamoLo nella mangiatoia che è trono e altare. Amiamolo mettendoci in ginocchio e cerchiamo di scorgere nei suoi occhi ridenti di bambino gli occhi commossi del Crocifisso e quelli luminosi del Risorto, pregando: “Signore, Dio nostro, concedi a noi, che godiamo di celebrare con questi misteri la nascita di nostro Signore Gesù Cristo, di meritare con una degna condotta, di giungere alla comunione con Lui” (Or. dopo la Comunione). Lui è il Pane di Vita che nasce a Betlemme, che in ebraico vuole dire “casa del pane” . 

“Questa casa del Pane è oggi la Chiesa, in cui si dispensa il corpo di Cristo, il vero pane. La mangiatoia di Betlemme è l’altare in chiesa. Qui si nutrono le creature di Cristo. Le fasce sono il velo del sacramento. Qui, sotto le specie del pane e del vino, c'è il vero corpo e sangue di Cristo. In questo sacramento noi crediamo che c’è Cristo vero, ma avvolto in fasce ossia invisibile. Non abbiamo nessun segno così grande e evidente della natività di Cristo come il corpo che mangiamo e il sangue che beviamo ogni giorno accostandoci all'altare: ogni giorno vediamo immolarsi colui che una sola volta nacque per noi dalla Vergine Maria. Affrettiamoci dunque, fratelli, a questo presepe del Signore; ma prima, per quanto ci è possibile, prepariamoci con la sua grazia a questo incontro, perché ogni giorno e in tutta la nostra vita, ‘con cuore puro, coscienza retta e fede sincera’ (2 Cor 6, 6), possiamo cantare insieme agli angeli : “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2, 14)” (Aelredo di Rievaulx, Discorso 2 per Natale). 

2) Umiltà del Natale. 

Senza la rivelazione portata con gioia e umiltà dagli Angeli non capiremmo che il bambino deposto in una mangiatoia è il Signore. E senza il bambino deposto nella mangiatoia non capiremmo che la gloria del vero Dio è diversa dalla gloria dell'uomo. 

Questa gloria si manifesta nell’umiltà ed è capita dall’umiltà. Per questo il Vangelo ci chiede di imitare l’umiltà dei pastori che, riconoscendo in un povero bambino ancora senza parola il Logos, la Parola, senso pieno della loro vita, Lo adorarono come Re dei re che, però aveva come trono una povera mangiatoia. Ed è per questo che dobbiamo imitare l’umiltà degli angeli, che nella notte stellata e benedetta cantavano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. 

Secondo San Bernardo di Chiaravalle gli angeli sono inseriti vitalmente nel piano salvifico, attuato da Cristo. Non solo perché accettano questo disegno redentivo e vi collaborano attivamente con il loro amore pieno e incondizionato. 

A ben riflettere, già prima della incarnazione del suo Verbo, Dio si è “servito” degli angeli per preparare gli uomini al grande evento della venuta di suo Figlio sulla Terra. Anche dopo l’incarnazione del Verbo, durante la sua passione morte e resurrezione, gli Angeli furono presenti ed attivi. Ed anche quando Gesù ritornerà nella gloria alla fine dei tempi, saranno ancora gli angeli ad annunciare il suo avvento finale. 

A questo punto, ispirandomi ancora a San Bernardo, faccio una precisazione circa la relazione degli Angeli con Cristo. Questi è Dio, quindi gli angeli sono sottomessi a lui, ma il Figlio di Dio ha preso la debolezza umana e in quanto uomo è inferiore ad essi. Qui si vede la loro umiltà: servono il Verbo anche come uomo, si sottomettono alla sua signoria, anche umana, perché in questo evento si attua, si concretizza, si concentra il volere superiore di Dio Padre. Così ha voluto il Padre e loro accolgono la sua altissima volontà, prostrandosi davanti al bambino che nasce a Betlemme. Gesù è un bambino, un uomo in tutto uguale a noi eccetto il peccato, quindi un essere debole, fragile, rispetto a loro che sono puri spiriti, tuttavia in quella carne umana sussiste il Verbo eterno di Dio, il loro Signore. Per questa ragione si inchinano, lo adorano, si prostrano e cantano la sua gloria, lo servono con grande disponibilità e umiltà. Facciamo altrettanto, perché l’umiltà di Cristo è servita dall’umiltà degli angeli e dei pastori, per primi, poi arriveranno gli umili Re Magi. 

Il Natale è un mistero di umiltà ed è buono se è interiore, se è celebrato nel silenzio del cuore umile, nella coscienza fatta attenta e pensosa. Ed è interiore e rinnovatore, se ci fa cogliere il discorso che, entrando nel mondo, Gesù ha pronunciato non con le parole, ma con i fatti. Quale discorso? Quello dell’umiltà; è questa la lezione fondamentale del mistero di Dio fatto uomo, ed è questa la medicina prima di cui abbiamo bisogno (cfr. S. Agostino d’Ippona, De Trin. 8, 5, 7, P.L. 42, 952). È da questa radice che può rinascere la vita buona. 

L’invito all’umiltà sarà più tardi ripetuto da Cristo adulto quando dirà: “Se non vi farete piccoli come bambini, non potrete entrare nel Regno dei cieli” (Mt 18, 2). 

Oggi, parafraserei questa frase così: “Se non diventerete come questo Bambino, non entrerete nel Regno dei Cieli”. 

 

3) Umiltà e Verginità. 

I pastori hanno capito col cuore che -nel bambino che vedevano nella grotta - la promessa del profeta Isaia era diventata realtà: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità” (Is 9,5 - I Lettura della Messa della Notte). 

L’angelo di Dio invita anche noi ad incamminarci col cuore per vedere il bambino che giace nella mangiatoia. Anche per noi il segno di Dio è la semplicità. Il segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo per noi. Questo è il suo modo di regnare: amando e lasciandosi amare con umile semplicità


Da noi Cristo non vuole nient’altro che il nostro amore. Mediante questa carità impariamo ad entrare nei suoi sentimenti, nel suo pensiero e nella sua volontà; impariamo a vivere con Gesù e a praticare con Lui anche l’umiltà della rinuncia che fa parte dell’essenza dell’amore. “L’amore cristiano o è umile o non è amore di Dio” (Papa Francesco, 8 aprile 2013). 

Un modo significativo di vivere questo umile amore è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne sull’esempio di Maria Vergine e Madre stanno accanto a Cristo imitando in modo particolare la Madonna, il cui cuore e mente sono pienamente umili. Fu per la sua singolare umiltà che Dio chiese il ‘sì’ di questa giovane donna, per realizzare il suo disegno di amore e di misericordia. 

La verginità di Maria è unica e irripetibile, ma le vergini consacrate nel mondo ci testimoniano che il suo significato spirituale riguarda ogni cristiano. Le persone vergini mostrano che chi confida profondamente e umilmente nell’amore di Dio, accoglie in sé Gesù, e lo dona al mondo in un Natale quotidiano. 

Nel nascondimento della loro vita accolgono anche e soprattutto l’insegnamento della grande umiltà di un Maestro che ancora non parla ma che per loro è davvero Tutto. 

 

Lettura Patristica
San Basilio Magno (329-379)

Omelia

Dio sulla terra, Dio in mezzo agli uomini: non un Dio che consegna la legge tra bagliori di fuoco e suoni di tromba su un monte fumante, o in densa nube fra lampi e tuoni, seminando il terrore tra coloro che lo ascoltano; ma un Dio incarnato, che con soavità e dolcezza parla a creature che hanno la sua stessa natura. Un Dio incarnato, che non agisce da lontano o per mezzo di profeti, ma attraverso l'umanità che ha assunto in proprio a rivestire la sua persona, per ricondurre a sé, nella nostra stessa carne fatta sua, tutto il genere umano. In che modo, per mezzo di uno solo, lo splendore raggiunse tutti? In che modo la divinità risiede nella carne?Come il fuoco nel ferro: non per trasfor-mazione, ma per partecipazione. Il fuoco, infatti, non passa nel ferro, ma rimanendo dov'è, gli comunica la sua virtù; né per questa comunicazione diminuisce, ma pervade di sé tutto quello a cui si comunica. Così il Dio-Verbo, senza mai separarsi da se stesso, «venne ad abitare in mezzo a noi»; senza subire alcun mutamento, «si fece carne»: il cielo che lo conteneva non rimase privo di lui mentre la terra lo accoglieva nel suo seno. 

2. Cerca di penetrare nel mistero: Dio assume la carne proprio per distruggere la morte in essa nascosta. Come gli antidoti di un veleno, una volta ingeriti, ne annullano gli effetti, e come le tenebre di una casa si dissolvono alla luce del sole, così la morte che dominava sull'umana natura fu distrutta dalla presenza di Dio. E come il ghiaccio rimane solido nell'acqua finché dura la notte e regnano le tenebre, ma tosto si scioglie al calore del sole, così la morte che aveva regnato fino alla venuta di Cristo, appena apparve la grazia di Dio Salvatore e sorse il sole di giustizia, «fu ingoiata dalla vittoria» (1 Cor 15,54), non potendo coesistere con la Vita. O grandezza della bontà e dell'amore di Dio per gli uomini! Diamogli gloria insieme ai pastori, esultiamo con gli angeli «perché oggi ci è nato il Salvatore, che è Cristo Signore» (Le 2,11). Anche a noi il Signore non è apparso nella forma di Dio, che avrebbe sgomentato la nostra fragilità, ma in quella di servo, per restituire alla libertà coloro che erano in schiavitù. Chi è così tiepido, così poco riconoscente che non gioisca, non esulti, non porti doni? Oggi è festa per tutte le creature. Nessuno vi sia che non offra qualcosa, nessuno si mostri ingrato. Esplodiamo anche noi in un canto di esultanza. 

 



[1] In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazareth, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2, 1 – 15, Vangelo della Messa della Notte, Lc 15 – 20, Vangelo della Messa dell’aurora) 

 

martedì 20 dicembre 2022

Il sì di Giuseppe si unisce a quello di Maria

 

4ª Domenica di Avvento – Anno A – 18 dicembre 2022

 

Rito Romano 

Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

 

 

Rito Ambrosiano

Is 62,10-63,3b; Sal 71; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38°

6ª Domenica di Avvento

Domenica dell’Incarnazione

o della Divina Maternità della Beata Vergine Maria 

 

1) Un modello di attesa: Giuseppe

Nella prima domenica di Avvento la Liturgia ci ha invitato a vivere intensamente l’attesa dell’Atteso come l’ha vissuta la Madonna, non lasciando che il nostro cuore si addormenti, perché appesantito da preoccupazioni varie. 

La seconda domenica di questo tempo di attesa siamo stati invitati a vivere una costante conversione. Per accogliere la Parola e non le chiacchere, occorre saper ascoltare e accogliere la Parola con la mente e col cuore trasformati dalla conversione.

La terza, facendoci riflettere sull’esperienza dolorosa del carcere e del dubbio di S. Giovanni Battista, ci ha insegnato che ci vuole la fiducia nella Parola, altrimenti rimane lettera morta, non certamente Spirito e Vita. Questa Parola è Vita e fonte di gioia. 

Nella quarta domenica di Avvento, dopo che in quelle precedenti ci ha chiesto di vivere l’Avvento come Giovanni il Battista e la Madonna hanno vissuto l’attesa di Cristo, la Liturgia ci propone un terzo modello di come vivere l’Avvento: quello di San Giuseppe. 

Dunque, in questa domenica la Chiesa ci chiede di vivere i pochi giorni che ci separano dal Natale, come San Giuseppe ha vissuto i giorni che sono passati dalla notte piena di timore, in cui - in sogno – ricevette l’annuncio che in Maria, sua promessa sposa, era germinata la Vita, alla notte piena di gioia, in cui il Figlio di Dio nacque nella grotta di Betlemme.

La traiettoria che Giuseppe ci indica è chiara: dall’ascolto della Parola dèttagli da un angelo in sogno, all’abbandono fiducioso alla volontà di Dio che gli chiede di essere il custode del Redentore che sta per nascere.

Umanamente parlando Giuseppe è grande, perché conoscendo e amando veramente Maria si arrende davanti al concepimento in Maria, non discute sulle cause di quella gravidanza inspiegabile e sceglie la via umanamente più misericordiosa: difende la dignità di Maria, rinunciando ad un pubblico rifiuto, - usanza di allora che sarebbe stato un condannare Maria al disprezzo di tutti - e la congeda ‘in silenzio”. 

Divinamente parlando Giuseppe è grande, perché quando Dio stesso lo illumina sulla vera identità del Figlio di Maria, nato non da uomo, ma dallo Spirito Santo, Giuseppe ritorna sulla sua decisione (cioè si converte) e “la prese con sé come sua sposa”. Si convertì cambiando modo di ragionare. Questa conversione della mente implicò un cambiamento di vita. Per essere il custode del Redentore, visse l’attesa della sua nascita non aspettando un’idea, ma una persona. Per Lui il Natale fu ricevere la visita di persona, fu un incontro che cambiò la vita. Organizzò la sua vita per custodire la Vita e donarla al mondo. 

Chiediamo umilmente la grazia di potere imitare questo padre legale di Gesù. Non dimentichiamo però l’aggettivo “legale” che deriva si dal sostantivo “legge”, ma la legge della Carità. Contempliamo stupiti e imitiamo tenaci la fede operosa di San Giuseppe e il suo totale abbandono a ciò che il Signore gli chiede di fare di fronte al mistero del concepimento e della nascita di Gesù: di esserne il “padre legale”. Questa espressione è più corretta di quella di “padre putativo”. In effetti, San Giuseppe non è un padre solamente perché l’opinione comune lo reputa tale. Lui è realmente padre. Certo, come ha ben scritto Sant’Agostino: “Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità”.

 

 

2) I tre sì.

Riflettiamo ora sulla frase finale del vangelo di oggi: “Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa” (Mt.1, 14). Lo sposo di Maria disse sì a Dio non parlando ma facendo. Nel silenzio il falegname di Nazareth accettò ed espletò il compito di essere il Capo-famiglia, che protegge la crescita di Cristo nel mondo. Lui è l’uomo a cui Dio Padre ha affidato Suo Figlio da custodire e proteggere, e ci è riuscito per questa semplice sequenza logica e pratica, a cui si è sempre attenuto: la parola che aveva ascoltato l'ha sempre immediatamente fatta, operata, incarnata.

Lui è il padre legale di Cristo perché ha vissuta una paternità verso Gesù che si è espressa concretamente assolvendo il compito di “custode del Redentore” (San Giovanni Paolo II) e facendo della sua vita “un servizio, un sacrificio, al mistero dell'incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell'aver usato dell'autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell'aver convertito la sua umana vocazione all'amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell'amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa” (Paolo VI, in Insegnamenti, IV, 1966, p.110).

Grazie al “sì” silenzioso di Giuseppe, Maria, la donna del “sì” totale a Dio, ebbe una casa dove il Verbo di Dio, che aveva detto “sì”, divenne l’Emmanuele, il Dio con noi, per noi e in noi. Come dice San Paolo, in Cristo non c’è stato il ‘sì’ e il ‘no’: ma solo il ‘sì’ (Cfr. 2 Cor 1, 18-19) ). Nel Getsemani ricordiamo l’atto di affidamento di Gesù alla volontà del Padre: non la mia ma la tua volontà si compia, o Padre (Cfr. Lc 22, 42) ). Il salmo 39 ci fa pregare: “Tu non hai voluto offerte e sacrifici: un corpo mi hai dato; allora io detto: ecco io vengo”. E nella lettera agli Ebrei: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà’” (10, 4-10) 

 

3) Il sì delle Vergini consacrate nel mondo: un sì dentro i tre sì.

Tutti desideriamo essere come Maria e Giuseppe e con loro essere la casa di Cristo. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni della Parola che non colpisce solo l’udito ma i cuori aprendoli e dimorandovi stabilmente. 

E se ora mi domandassi quale “utilità” ha la devozione a San Giuseppe per le vergini consacrate, che con il loro sì si impegnano ad essere testimoni speciali della fecondità della Parola, risponderei che le aiuta a vivere nell’umiltà di stare al posto scelto per loro dal Padre

Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole dono sponsale di sé in modo verginale. Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l'esclusiva appartenenza a Dio.

Inoltre la verginità rappresenta l’imitazione del modo con cui Giuseppe ha vissuto l’affetto verso Gesù e verso la Madonna e anticipa il modo compiuto di vivere gli affetti nella vita eterna. Da qui scaturisce la modalità di vivere la maternità e paternità di chi si consacra a Dio. Ma non si deve mai dimenticare che per generare bisogna essere stati generati e per essere padri e madri bisogna non solo essere stati, ma essere tuttora figli. Essere generati dall’amore ci rende a nostra volta capaci di trasmettere e di donare vita. Da qui l’importanza di vivere una effettiva appartenenza alla Chiesa, di cui San Giuseppe è il Patrono.

Sull’esempio di Gesù, Maria e Giuseppe anche noi diciamo il nostro ‘sì’ . Allora la nostra vita sarà trasfigurata dalla misericordia di Dio.

 

Lettura Patristica

San Agostino d’Ippona

Sermone 51, 16.26; 20.30

 

La vera paternità di Giuseppe

La dignità verginale ebbe origine dalla Madre del Signore, quando cioè nacque il re di tutti i popoli; fu lei a meritare non solo d’avere il figlio ma anche di non soggiacere alla corruzione. Come dunque quello era vero matrimonio e matrimonio senza corruzione, così quel che la moglie partorì castamente, perché il marito non avrebbe dovuto accoglierlo castamente? Come infatti era casta la moglie, così era casto il marito; e come era casta la madre, così era casto il padre. Colui dunque che dice: "Giuseppe non doveva essere chiamato padre, perché non aveva generato il figlio", nel procreare i figli cerca la libidine, non l’affetto ispirato dalla carità. Giuseppe con l’animo compiva meglio ciò che altri desidera compiere con la carne. Così, per esempio, anche coloro che adottano dei figli, non li generano forse col cuore più castamente, non potendoli generare carnalmente? Vedete, fratelli, i diritti dell’adozione, per cui un uomo diventa figlio di uno dal quale non è nato, in modo che ha maggior diritto nei suoi riguardi la volontà dell’adottante che non la natura del generante.

Allo stesso modo che è casto marito, così [Giuseppe] è pure casto padre. Ciò che lo Spirito Santo effettuò, lo effettuò per ambedue. È detto: Essendo un uomo giusto(Mt 1, 19). Giusto dunque l’uomo, giusta la donna. Lo Spirito Santo, che riposava nella giustizia di ambedue, diede un figlio ad entrambi. (…) L’Evangelista dice anche: E gli partorì un figlio (Lc 2, 7), parole con cui senza dubbio si afferma che Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità. Così dunque egli è padre e lo è realmente. (…) E perché è padre? Perché tanto più sicuramente padre, quanto più castamente padre. In realtà si credeva ch’egli fosse padre di nostro Signore Gesù Cristo in modo diverso; lo fosse cioè come tutti gli altri padri che generano carnalmente, non come quelli che accolgono i figli con il solo affetto spirituale. Difatti anche Luca dice: Era opinione comune che Giuseppe fosse il padre di Gesù (Lc 3, 23). Perché era opinione comune? Perché l’opinione e il giudizio della gente era portato verso ciò che di solito fanno gli uomini. Il Signore dunque non è discendente di Giuseppe per via carnale, sebbene fosse ritenuto tale. Tuttavia alla pietà e alla carità di Giuseppe nacque dalla vergine Maria un figlio, e proprio il Figlio di Dio.

 

 

sabato 10 dicembre 2022

Un invito alla gioia da condividere


 

III Domenica di Avvento – Anno A – 11 dicembre 2022

Rito Romano

Is 35,1-6.8.10; Sal 145; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

 

 

Rito Ambrosiano

Mi 5,1; Ml 3,1-5a. 6-7b; Sal 145; Gal 3, 23-28; Gv 1, 6-8. 15-18

V Domenica di Avvento 

Il Precursore

 

 

            1) Gioia per il Dio vicino. 

            Il Vangelo è gioia, è lieta e buona notizia di Dio che nasce in mezzo a noi per stare sempre con noi: Lui è l’Emmanuele, che dona ai poveri non solo qualcosa ma se stesso. Il Vangelo è l’annuncio di una Presenza che è gioia. Per questo, anche se tutto l’avvento è tempo di attesa e di gioia, questa domenica è la domenica della gioia.

            Vediamo come la liturgia di oggi ci presenta questa gioia dell’attesa che a Natale diventerà la felicità per il possesso di un bene conosciuto e amato[1]: Cristo Gesù.

            Già nell’antifona di ingresso della Messa la Chiesa ci invita ad essere sempre lieti, usando le parole di San PaoloGaudete in Domino semper – Rallegratevi nel Signore sempre”(Fil 4,4) [2]

            Poi, nella preghiera all’inizio della Messa di oggi, il Sacerdote presenta il nostro desiderio di gioia pregando così: “Guarda, o Padre, il tuo popolo che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza” (Colletta della terza domenica di Avvento).

            Questa preghiera d’inizio è seguita dalla prima lettura della Messa dove Isaia afferma: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa... come fiore di narciso fiorisca; si canti con gioia e con giubilo … Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto” (Is 35,1ss).  Il profeta Isaia propone questo inno alla gioia perché il popolo di Israele è stato liberato dalla schiavitù. 

            Il Salmo 145, poi, descrive tutta la misericordia di Dio verso i bisognosi e gli emarginati. E’ un inno di lode alla Provvidenza del Signore: “Il Signore è fedele, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri. Ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge gli stranieri. Egli sostiene l'orfano e la vedova, regna per sempre di generazione in generazione”.

            Queste espressioni le ritroviamo nella terza lettura, quella del Vangelo. 

            Nel Vangelo (terza lettura), Gesù insegna il Vangelo della gioia non proponendo un discorso ma richiamando l’attenzione sul fatto che con Lui “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo” (Mt 11, 2 - 5). 

            Gesù opera tanti miracoli, che sono il segno della sua bontà, della sua tenerezza, del suo amore, della sua salvezza per sempre: della sua gioia.

 

            2) Giovanni il Precursore e annunciatore della gioia.

            Nessuno è escluso dalla gioia che aspettiamo sempre più intensamente. Ma ciascuno di noi sa che questa non è un’attesa sempre facile. E’ per questo che la lettera di Giacomo (seconda lettura) parla della pazienza del contadino. Paziente è chi, come il contadino, attende il frutto del suo lavoro fino al tempo opportuno, che non spetta a lui determinare. Paziente è chi non si lascia piegare dalle avversità, ma rimane fermo e saldo nella sua “ostinata” speranza.

            Se ritorniamo al Vangelo di oggi, vediamo che, dopo aver indicato le opere sulle quali riflettere e in base alle quali è possibile dare un giudizio su di Lui, il Redentore esprime il suo pensiero su Giovanni il Precursore. Lo fa rivolgendosi alle folle. La grandezza di Giovanni non consiste solo nell’austerità della sua vita e nella fortezza del suo carattere. Sta piuttosto nell’aver accettato il compito di correre davanti al Messia per prepararGli il terreno. Il fatto che Giovanni è mandato per chiamare alla conversione e indicare l'arrivo del Messia lo qualifica già per questo come un messaggero di gioia.

            Giovanni il Battista è venuto per rendere testimonianza a Gesù e alla gioia da Lui portata. Come non si può essere nella gioia se Giovanni ci indica Cristo come Agnello che manifesta l’amore di Dio con la misericordia?

            Il Battista “permise” a Cristo di scendere nell’acqua del Giordano per compiere ogni giustizia (cfr Mt 3, 15), noi permettiamo a Dio di essere l’amore che scende nel nostro cuore per compiere in noi questa giustizia.

            Giovanni, da piccolo e perfino ancora prima di nascere, indicò la presenza di Gesù sussultando di gioia nel grembo di sua mamma Elisabetta. Da adulto, da grande si fece piccolo perché Cristo crescesse (cfr Gv 3,30). Anche noi facciamoci piccoli e lasciamo che Cristo nasca e cresca in noi, dilatando il nostro cuore. 

            Allora saremo nella gioia e questa gioia renderà a noi evidente la presenza del Salvatore,  come accadde a Giovanni il Precursore.

            Allora saremo testimoni che il Signore che aspettiamo e che cerchiamo di amare e di incarnare è davvero il Dio amante della vita e datore di gioia.

 

            3) Testimoni della gioia.

            Nel Vangelo di questa domenica di fronte agli inviati di Giovanni il Battista, che chiedono se sia lui il Messia, Gesù risponde dicendo quello che è mediante quello che fa: i miracoli. Queste sue azioni stupefacenti parlano da se stesse della sua origine in Dio, della sua missione redentrice. E’ lui il Messia atteso, non c'è altro da attendere, perché la sua vita è un inno alla carità, alla solidarietà in modo perfetto e definitivo. Non bisogna attendere altro consolatore degli afflitti, altro samaritano che cura il malcapitato lungo la via. Gesù si fa carico della sofferenza umana, interviene con i suoi poteri a salvare chi si trova nel bisogno e portare nel mondo la gioia evangelica.

            I santi continuano questa opera di Cristo. L’esempio più recente è quello di Santa Teresa di Calcutta.

            Questa Missionaria della Carità e madre dei poveri è una testimone bellissima ed attuale Di questa gioia evangelica, che nasce da un fatto, da un evento di liberazione. Questa Santa è stata a contatto con la miseria, il degrado umano, la morte, vivendo ogni giorno tra i più poveri dei poveri. La sua anima ha conosciuto la prova della notte oscura della fede, eppure ha donato a tutti il sorriso di Dio. Lei stessa esprime la sua esperienza di gioia così: “Noi aspettiamo con impazienza il paradiso, dove c'è Dio, ma è in nostro potere stare in paradiso fin da quaggiù e fin da questo momento. Essere felici con Dio significa: amare come Lui, aiutare come Lui, dare come Lui, servire come Lui” (La gioia di darsi agli altri, Ed. Paoline, 1987, p. 143). 

            Da questa madre dei poveri impariamo che la gioia entra nel cuore di chi si pone al servizio dei piccoli e dei poveri. In chi ama così, Dio prende dimora, e l’anima è nella gioia. Se invece si fa della felicità un idolo, si sbaglia strada ed è veramente difficile trovare la gioia di cui parla Gesù e che riceviamo nell’incontro con Gesù. Questo insegna Papa Francesco scrivendo: La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (Es. Ap. Evangelii gaudium, 1).

            Un altro esempio attuale, contemporaneo di vita spesa nella gioia di Cristo atteso e accolto con gioia ci viene dalle Vergini consacrate nel mondo. Grazie alla verginità offerta per il Regno di Dio queste donne instaurano un rapporto di amore personale ed esclusivo con la persona di Cristo. La rinuncia dell’amore umano (eros) per vivere nell’amore di Dio (agape) testimonia che Cristo è tutto per loro. La gioia è esperienza di essere amati perciò la gioia della vergine consacrata è Cristo: “Questa sarà la gioia delle Vergini di Cristo: gioia a  proposito di Cristo, gioia in Cristo, gioia con Cristo, gioia al seguito di Cristo, gioia per mezzo di Cristo, gioia a causa di Cristo” (S. Agostino d’Ippona, De virginitate, 27: PL 40, 411). Questa gioia è promessa dal Vescovo durante il Rito della consacrazione:  “Cristo, Figlio della Vergine e sposo delle vergini, sarà la vostra gioia e corona sulla terra, finché vi condurrà alle nozze eterne nel suo regno, dove cantando il canto nuovo seguirete l’Agnello dovunque vada” (RVC 27, progetto di omelia) e Ricevete l’anello delle mistiche nozze con Cristo e custodite integra la fedeltà al vostro Sposo, perché siate accolte nella gioia del convito eterno” (RCV 40)

 

 

 

Lettura patristica

San Gregorio Magno

Omelia 6, 2-5

            

 

       Ma ascoltiamo quello che [Gesù] dice di Giovanni, dopo che i discepoli di questo si sono allontanati: "Cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento?" (Mt 11,7). Così dicendo certamente intendeva negare, non affermare. La canna, infatti, alla brezza più lieve si piega in un’altra parte. E cosa s’intende per canna se non un animo carnale, che appena è sfiorato dalla lode o dal biasimo subito si piega da questa o da quella parte? Se infatti dalla bocca degli uomini soffia il vento della lode, si rallegra, si riempie di orgoglio e tutto si strugge in tenerezza. Ma se da dove veniva il vento della lode soffia il vento del biasimo, subito s’inclina dall’altra parte accendendosi d’ira. Giovanni però non era una canna agitata dal vento, poiché‚ non si lasciava blandire dal favore né il biasimo lo irritava, da qualunque parte venisse. La prosperità non lo rendeva orgoglioso e le avversità non potevano prostrarlo. Pertanto, Giovanni non era una canna agitata dal vento, dal momento che nessuna vicissitudine umana riusciva a smuoverlo dalla sua fermezza. Impariamo perciò, fratelli carissimi, a non essere come una canna agitata dal vento, rafforziamo l’animo nostro in mezzo ai soffi delle lingue, e rimanga inflessibile lo stato della mente. Nessun biasimo ci spinga all’ira, nessun favore ci inclini a una sterile debolezza. La prosperità non ci faccia insuperbire, le avversità non ci turbino, di modo che, radicati in una solida fede, non ci lasciamo smuovere dalla mutevolezza delle cose transitorie.

 

       Così continua ad esprimersi [Gesù] riguardo a Giovanni: "Ma che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito di morbide vesti? Ecco, quelli che portano morbide vesti abitano nei palazzi dei re" (Mt 11,8). Infatti descrivono Giovanni vestito con peli di cammello intrecciati. E cos’è questo: "Ecco, quelli che portano morbide vesti abitano nei palazzi dei re", se non un dire apertamente che quanti rifuggono dal soffrire amarezze per amore di Dio e sono dediti soltanto alle cose esteriori, militano non per il regno celeste, ma per quello terreno? Nessuno dunque creda che nel lusso e nella preoccupazione delle vesti non ci sia alcun peccato, poiché se non ci fosse colpa, il Signore non avrebbe affatto lodato Giovanni per l’asprezza delle sue vesti...

 

       E già Salomone aveva detto: "Le parole dei savi sono come pungoli, e come chiodi piantati profondamente" (Qo 12,11). A chiodi e a pungoli sono paragonate le parole dei sapienti, perché esse non sanno accarezzare le colpe dei peccatori, ma bensì le pungono.

 

       "Ma chi siete andati a vedere nel deserto? Un profeta? Sì, vi dico; e più che un profeta" (Mt 11,9). È infatti compito del profeta predire le cose future, non indicarle. Giovanni è più che un profeta, perché indicò, mostrandolo, colui del quale nel suo ufficio di precursore aveva profetato. Ma poiché‚ [Giovanni] non è una canna agitata dal vento, poiché non è vestito di morbide vesti, poiché‚ il nome di profeta non basta a dire il suo merito, ascoltiamo dunque in che modo possa essere degnamente chiamato. Continua [il Vangelo]: "Egli è colui del quale sta scritto: Ecco io ti mando innanzi il mio angelo, perché prepari la tua via dinanzi a te" (Ml 3,1). Ciò che in greco viene espresso col termine angelo, tradotto, significa messaggero. Giustamente, dunque, viene chiamato angelo colui che è mandato ad annunziare il sommo Giudice: affinché‚ dimostri nel nome la dignità dell’azione che compie. Il nome è certamente alto, ma la vita non gli è inferiore.

 

 

 



[1] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-IIæ, q. 31, a. 3.

[2] E’ grazie a questa antifona che questa domenica ha preso il nome di domenica “Gaudete” cioè “rallegratevi”, perché il Messia è davvero vicino.

sabato 3 dicembre 2022

Avvento come cammino di conversione.

 

II Domenica di Avvento – Anno A – 4 dicembre 2022

Rito Romano

Is 11,1-10; Sal 71; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12


Rito Ambrosiano

Is 40,1-11; Sal 71; Eb 10,5-9a; Mt 21, 1-9

IV Domenica di Avvento

L’ingresso del Messia




1) Attesa di Dio e conversione.

In questa seconda domenica di Avvento, la liturgia ci invita alla conversione che è necessaria per accogliere il Regno dei cieli1 che si avvicina: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino” (Mt 3,1). Questo Regno dei cieli è Gesù stesso, quindi il “vicino” è il Figlio di Dio che si fa carne nel grembo di una donna e porta a tutta l’umanità la salvezza. Questa salvezza portata da Cristo e attesa da noi é giustizia, gioia, pace, amore, verità, benevolenza, solidarietà, fratellanza rettitudine, bontà.

Poiché la venuta di Dio nella nostra vita è imminente, Giovanni il Battista ci chiede con energia di dedicarci alla penitenza che purifica il cuore, lo apre alla speranza e lo rende capace all’incontro con Gesù che viene nel mondo.

Va però tenuto presente che l’invito alla conversione facendo penitenza non vuol dire solo vivere - durante l’avvento - con uno stile di vita più sobrio, con una preghiera più frequente e una carità più generosa. La conversione chiama ad un cambiamento interiore, che inizia con il riconoscimento e la confessione del proprio peccato. In effetti, convertirsi indica il cambiamento della mente e quello del comportamento ed esige il riconoscimento di non essere degni che Dio venga ad abitare a casa nostra.

Va pure tenuto presente che la prima conversione consiste nella fede2, che non è solo adesione al contenuto di un messaggio, ma adesione ad una Persona, che ci chiede di venire nella nostra vita e di essere accolta. Dunque, la conversione è un radicale e profondo cambiamento dell’uomo. Essa non implica soltanto un cambiamento morale, ma un cambiamento teologico, cioè un modo nuovo di pensare Dio e di vivere in Lui. E’ un orientamento nuovo di tutta la nostra persona: mente e cuore, pensiero ed azione.

Da un lato, questo orientamento a Regno dei cieli si colloca nella linea dei profeti che intendevano la concretezza della conversione nel distacco radicale da tutto ciò che finora aveva un valore. Dall’altro, va oltre e mostra che la conversione è un volgersi verso il Regno dei cieli, verso una novità che si presenta imminente con le sue esigenze e prospettive. Si tratta di dare una svolta decisiva alla vita orientandola in una nuova direzione: il Regno dei cieli fonda e definisce la conversione e non una serie di sforzi umani.

Perché questa conversione avvenga, facciamo nostra la preghiera che il Sacerdote fa all’inizio della Messa di oggi: “Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l'incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla terra. Per il nostro Signore Gesù Cristo nostro Signore” (Colletta della II Domenica di Avvento – Anno A). Allora si realizzerà l’augurio di San Paolo: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo” (1 Ts 5, 23-24)

2) Conversione dall’alto delle stelle e conversione verso l’alto.

In questa domenica siamo chiamati ad andare spiritualmente nel deserto, perché il Vangelo di oggi ci fa ascoltare la “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico” (Mt 3, 3-4). San Giovanni Battista, la voce che annuncia la Parola, è presentato come un asceta del deserto, che indossa ruvide vesti, ha una cintura di pelle attorno ai fianchi e si nutre di insetti. Ma se non ci è chiesto di essere asceti vivendo la sua stessa vita nel deserto, ci è chiesto che la nostra conversione sia evangelica come la sua.

Questa conversione ha almeno tre caratteristiche.

La prima è la radicalità. La conversione non è un cambiamento esteriore o parziale, ma un riorientamento totale di tutto l'essere dell’uomo. Si tratta di un vero e proprio passaggio dall’egoismo all'amore, dal trattenere tutto per sé al dono di sé.

La seconda caratteristica è la religiosità: non è confrontandosi con se stesso che l'uomo scopre la misura e la direzione del proprio mutamento, ma riferendosi a Dio. La prima conversione (nel senso etimologico di voltarsi verso per essere con) non è quella della persona umana verso Dio, ma quella di Dio verso ogni essere umano. E’ un movimento di grazia che rende possibile il cambiamento dell'uomo e ne offre il modello. Nella notte e nella solitudine di una grotta sta per arrivare la primavera dell’umanità: il Figlio di Dio che si fa pellegrino dall’alto delle stelle.

La terza caratteristica della conversione evangelica è la sua profonda umanità. Convertirsi significa tornare a casa, un recupero di umanità integrale, un ritrovare la propria identità di figlio, come accade nella parabola del figlio prodigo.

Ragionando in modo non evangelico la conversione è vista come una perdita di ciò che è umano e –sbagliando- si pensa che la persona umana si ritrova non convertendosi a Cristo. E’ vero il contrario: convertendosi l’uomo non si perde, ma si ritrova, liberandosi dalle alienazioni che lo affascinano ma lo distruggono.

La conversione è un cammino costante verso Cristo per rinnovare di continuo la nostra “condotta celeste”, per mezzo di un nuovo desiderio del cielo. Rendiamo quindi diverso (cambiato) il nostro cuore con il santo desiderio di Cristo in questo modo il Cielo (Cristo) vi troverà più spazio.

Se vogliamo che la vita cresca, fiorisca e giunga a maturazione, per squarciare, un giorno, i veli della caducità, allora la cosa più importante è che questa vita metta radici sempre più profonde. Se vogliamo che la pienezza di Dio ci riempia di grazie è fondamentale che il nostro cuore si allarghi sempre di più, per contenere sempre di più.

La condotta cristiana, dunque pienamente umana, diventa più perfetta quando sgorga da un più robusto desiderio del cielo: “Vieni, Signore, per visitarci nella pace, perché ci allietiamo in Te con cuore perfetto” (cfr. Antifona al Magnificat, primi Vespri della II Domenica di Avvento).

Questa domanda: “Vieni, Signore Gesù” deve essere fatta da tutti i cristiani e le vergine consacrate nel mondo con il dono totale di sé a Cristo ce ne danno un esempio bello, grande e generoso. Sono consapevoli che lo sposo cerca la sua diletta ed ella veglia in sua attesa e fanno proprio questo brano del Cantico dei Cantici:Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. L’amato mio somiglia a una gazzella o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia dalle inferriate” (2,8-9) . Mi sono addormentata, ma veglia il mio cuore. Un rumore! La voce del mio amato che bussa: “Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba” (5,2). “Io sono del mio amato e il mio amato è mio” (6,3).

Con la loro consacrazione queste donne vergini mostrano come sia possibile e fonte di gioia accogliere Cristo come un ospite dolcemente atteso, come lo sposo a cui dedicare per sempre la propria fedeltà. Esse ci mostrano con umiltà che è possibile tenere sempre accese le lampade, aspettando con amore la venuta del Salvatore.

A partire dal loro esempio auguro che non solo in questo tempo di Avvento ma sempre tutti cerchiamo di essere attenti alla voce di Cristo e di amarlo sopra tutte le cose.

1 “Regno dei cieli” è una tipica espressione di San Matteo, che la usa trentatré volte nel suo vangelo. E’ un modo di dire ebraico che, in segno di rispetto, sostituisce “cieli” al nome di Dio. L’espressione “Regno dei cieli” sta a indicare che Dio si rivelerà a tutti gli uomini e con grande potenza: la potenza dell’Amore che si dona e non domina.

2 S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I-IIae, q. 113,a.4.


Lettura Patristica

Sant’Ilario di Poitiers (ca 315367)

In Matth. 2, 2-4


       In quei giorni venne Giovanni a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: "Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino", ecc. In Giovanni bisogna esaminare il luogo, la predicazione, il vestito, il cibo, e ciò per ricordarci che la verità dei fatti non è compromessa, se la ragione di una intelligenza interiore soggiace al compimento dei fatti. Avrebbe potuto esserci, per lui che predicava, un luogo più opportuno, un vestito più comodo e un cibo più appropriato, ma sotto i fatti c’è un esempio nel quale l’atto compiuto è di per sé una preparazione. Giunge infatti nel deserto della Giudea, regione deserta quanto alla presenza di Dio, non del popolo, e vuota quanto all’abitazione dello Spirito Santo, non degli uomini, di modo che il luogo della predicazione attestava l’abbandono di coloro ai quali la predicazione era stata indirizzata. Siccome il regno dei cieli è vicino, egli lancia anche un invito a pentirsi, grazie al quale si torna indietro dall’errore, ci si distoglie dalla colpa e ci si impegna a rinunziare ai vizi dopo averne arrossito, perché egli voleva che la deserta Giudea si ricordasse che doveva ricevere colui nel quale si trova il regno dei cieli, per non essere più vuota in futuro, a condizione di essersi purificata dai vizi di un tempo mediante la confessione del pentimento. La veste intessuta anche con peli di cammello sta a indicare la fisionomia esotica di questa predicazione profetica: è con spoglie di bestie impure, alle quali siamo pareggiati, che si veste il predicatore di Cristo; e tutto ciò che in noi era stato in precedenza o inutile o sordido è reso santo dall’abito di profeta. Il circondarsi di una cintura è una disposizione efficace per ogni opera buona, nel senso che abbiamo la nostra volontà cinta per ogni forma di servizio a Cristo. Per cibo inoltre egli sceglie delle locuste che fuggono davanti all’uomo e che volano via ogni volta che ci sentono arrivare: siamo noi, quando ci allontaniamo da ogni parola dei profeti e da ogni rapporto con essi lasciandoci analogamente portar via dai salti dei nostri colpi. Con una volontà errante, con opere inefficaci, con parole lamentose, con una dimora da stranieri, noi siamo ora quel che costituisce il nutrimento dei santi e l’appagamento dei profeti, essendo scelti nello stesso tempo del miele selvatico per fornire proveniente da noi, il cibo più dolce, estratto non dagli alveari della Legge, ma dai nostri tronchi di alberi silvestri.


       Predicando dunque in quest’abito, Giovanni chiama i Farisei e i Sadducei che vengono al battesimo "razza di vipere": li esorta a produrre un "frutto degno di penitenza" e a non gloriarsi di "avere Abramo per Padre", perché Dio, da pietre, è capace di suscitare figli ad Abramo. Non è richiesta infatti la discendenza carnale, ma l’eredità della fede. Pertanto il prestigio della discendenza consiste nel carattere esemplare delle azioni e la gloria della razza è conservata dall’imitazione della fede. Il diavolo è senza fede, Abramo ha la fede; l’uno infatti ha dimostrato la sua cattiva fede al tempo della disobbedienza dell’uomo, l’altro invece è stato giudicato mediante la fede. Si acquisiscono dunque i costumi e il genere di vita dell’uno o dell’altro grazie all’affinità di una parentela che fa sì che quanti hanno la fede sono discendenza di Abramo per la fede, e quanti non l’hanno sono mutati in progenie del diavolo per l’incredulità, giacché i Farisei sono chiamati razza di vipere e il gloriarsi di avere un padre santo è loro vietato, giacché da pietre e rocce sorgono figli ad Abramo ed essi sono invitati a produrre frutti degni di penitenza, di modo che coloro che avevano avuto prima per padre il diavolo ridiventino figli d’Abramo per la fede con quelli che sorgeranno dalle pietre. La scure posta alla radice degli alberi testimonia il diritto della potenza che agisce in Cristo, perché essa indica che, abbattendo e bruciando gli alberi sterili, si prepara la rovina dell’inutile incredulità in vista della conflagrazione del giudizio. E col pretesto che l’opera della legge era ormai inutile per la salvezza e che egli si era presentato come messaggero a coloro che dovevano essere battezzati in vista del pentimento il dovere dei profeti, infatti, consisteva nel distogliere dai peccati, mentre era proprio di Cristo salvare i credenti,Giovanni dice che egli battezza in vista del pentimento, ma che verrà uno più forte, i cui sandali egli non è degno di incaricarsi di portare, lasciando agli apostoli la gloria di portare ovunque la predicazione, poiché ad essi era riservato di annunciare coi loro bei piedi la pace di Dio. Fa dunque allusione all’ora della nostra salvezza e del nostro giudizio, quando dice a proposito del Signore: "Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco" - poiché a quanti sono battezzati in Spirito Santo resta di essere consumati dal fuoco del giudizio - "e avendo in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile". L’opera del ventilabro consiste nel separare ciò che è fecondo da ciò che non lo è. Messo nella mano del Signore, indica il verdetto della sua potenza che calcina col fuoco del giudizio il grano che deve essere riposto nei granai e sono i frutti giunti a maturità dei credenti e, d’altra parte, la pula, vacuità degli uomini inutili e sterili.