mercoledì 27 giugno 2012

XII Domenica del Tempo Ordinario – 24 giugno 2012

Rito Romano
NATIVITA' DI SAN GIOVANNI BATTISTA
Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80

Rito Ambrosiano
IV DOMENICA DOPO PENTECOSTE
Gen 18,17-21;19,1.12-13.15.23-29; Sal 32; 1Cor 6,9-12; Mt 22,1-14

            1) Un’esperienza di misericordia.
            La liturgia romana oggi offre di meditare e vivere la persona di Giovanni il Battista, il Precursore che seppe riconoscere ed indicare Gesù, quella ambrosiana che ci pone davanti l’insegnamento di Gesù in parabole, per spiegare il Regno dei Cieli.
            In entrambi i casi, non siamo invitati solamente a capire il messaggio di Gesù, ma a comprendere la Sua persona, per vivere della sua presenza.
            La liturgia romana ha scelto il brano di Luca che racconta la nascita del Battista (1,57 ss) e come i parenti e i vicini appresero la notizia. Si tratta di una nascita immersa in un'atmosfera di gioia e di stupore. E la sua notizia si diffonde in tutta la regione montuosa della Giudea. Luca vuol farci capire che la nascita di Giovanni è la «prova» che Dio è ancora in mezzo al suo popolo e ne ha compassione. Ciò che può stupire noi oggi è l’affermazione “il Signore aveva manifestato in lei (in Elisabetta) la sua grande misericordia” (Lc 1.57). Il fatto che i parenti e gli amici condividano la gioia di una donna che era stata esaudita nel suo grande desiderio di maternità è facilmente comprensibile. Soprattutto di una donna ebrea di quel tempo.  Nel libro della Genesi c’è una frase che fa capire bene questa mentalità. Una donna sterile grida a Dio: “Dammi dei figli, se no io muoio” (Gn 30,2). Considerare che un figlio sia un dono, un talento impegnativo e, non di rado, arduo da far fruttificare è evidente ai più. Ma l’affermazione che “un figlio è manifestazione della grande misericordia di Dio non è di immediata comprensione.
            Par capirla vi invito a meditare la parola “misericordia”, come
- giustizia che ricrea,
- tenerezza che accoglie,
- amore sorgivo,
- amore che si dona e dà la vita, soprattutto:
- perdono (=uguale dono al superlativo, perche in latino uno dei modi per fare superlativo e di mettere il prefisso “per” davanti alla parola). Perdono per le offese, ripresa incessante di un dialogo di “grazia e verità”.
            E per questo perdono cosa ci chiede Dio? Rispondo  con un aneddoto: “Un uomo, che aveva ricevuto da Dio il condono dei suoi debiti, Gli dice: ‘Signore, come riconoscenza ti do tutti i miei beni’. Dio gli risponde: “Ma sono io che te li ho dati”. L’uomo replica: ‘Allora ti do il mio cuore, la mia vita”, e Dio gli risponde nuovamente: ‘Ma sono io che te li ho dati’. L’uomo, un po’ esitante, gli chiede umilmente: ‘Che cosa posso darti che non sia Tuo?’ ‘I tuoi peccati’, gli rispose Dio. Più medicheremo la misericordia divina e paterna, più entreremo nell’infinito cuore di Dio. Più consegneremo a Cristo il nostro dolore, come fece S. Pietro sulla riva del lago di Tiberiade quando il Risorto gli chiese se lo amava, più Lui ci confermerà nel suo amore redentivo. La misericordia è l’esperienza dell’incontro con Dio che perdona per renderci capaci di amare.


2) Una luce calante  che illumina la Luce crescente.
                        Il celebrare la nascita di Giovanni quando i giorni cominciano a raccorciarsi e quella di Gesù, quando le giornate cominciano ad allungarsi comporta una significato simbolico. Il Venerabile Beda nell’Omelia II, par 20 (CCL 122, 328-330) a questo riguardo spiega: “In effetti, Giovanni stesso ha rivelato il segreto di questa differenza. Le folle lo scambiavano per il Messia in ragione delle sue eminenti virtù, mentre non ritenevano che Gesù fosse solamente un profeta, a causa della fragilità della sua condizione corporale. E Giovanni disse: “Occorre che lui cresca e io diminuisca” (Gv 3,30)”:
            Giovanni dunque è dono luminoso e discreto,  segno della misericordia del Padre per Elisabetta e per l'intera umanità, che, nel popolo di Israele, da secoli attendeva un redentore, perché è la luce calante che indica la Luce crescente e sanante di Gesù Cristo.
            Inoltre questo è il senso del nome: Giovanni, una novità nella cerchia della parentela, e che vuole indicare la presenza viva e amorosa di Dio. Il significato etimologico del nome Giovanni, infatti è: Jahwé è misericordioso, Dio ha concesso la  grazia. In effetti ha graziato Elisabetta, Zaccaria e poi tutti noi
            Nel nome ‘Giovanni’  che viene dato al figlio della sterile e dell’anziano poi, è già implicita la vocazione del bambino, riguardo al quale, Zaccaria, mosso dallo Spirito Santo, così proclama: "...tu bambino sarai chiamato profeta dell'Altissimo, perché andrai innanzi al Signore a preparargli la strada, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza per la remissione dei peccati... verrà a visitarci un sole dall'alto, per illuminare quelli che stanno nelle tenebre...per guidare i nostri passi sulla via della pace." ( Lc. 1,76-79)
            E noi? Oltre a nome proprio scelto dai nostri genitori abbiamo il nome datoci da Dio: “Cristiano”.
            La vocazione non viene dopo, nasce con la vita. La vita stesa è vocazione come, per esempio, Dio ci insegna attraverso il profeta Geremia. La vocazione è riconducibile al momento iniziale dell'esistenza, a quella misteriosa, inconscia vita del bimbo, che ancora si trova nel grembo della madre: «Prima di formarti nel grembo materno, recita il testo del profeta Geremia, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato: ti ho stabilito profeta delle nazioni» ( Gr. 1,4 ).
            Così Luca, nel Vangelo dell'infanzia di Gesù, dice di Giovanni, che "sobbalzò di gioia" nel grembo si sua madre, al saluto di Maria che portava ancora in sé il Figlio di Dio; ( Lc.1,41) quel sussulto di gioia, nel buio del grembo, è il segno che la potenza dello Spirito l'aveva raggiunto e l'aveva consacrato per quella che sarà la sua particolare missione. Un luce flebile nell’oscuro grembo di Elisabetta percepì ed indico la Luce da Luce nascosta nel grembo della Madonna.
            La ' Voce ', come lo stesso Giovanni si definì (Gv.1,23), voce animata dallo Spirito, si fece silenzio, solo per cedere il passo alla Parola: " Colui che ha la sposa, è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che gli sta vicino e l'ascolta, è pieno di gioia, per la voce dello sposo; questa gioia è la mia, afferma il Battista, ora, questa gioia è perfetta. Lui deve crescere, io diminuire."( Gv.3,29-30); così, portata a termine la sua missione di profeta, egli tace.
            Celebrare la nascita di quest'uomo singolare, significa, perciò, richiamare l'attenzione sul mistero della vocazione specifica di ogni uomo o donna, sul quale Dio ha un suo progetto, in vista della salvezza; celebrare la nascita di Giovanni Battista, significa, soprattutto, ripensare alla necessità che, ogni tempo, anche il nostro, abbia i suoi profeti, uomini e donne che, uniti a Cristo col battesimo, annuncino agli uomini l'urgenza di aprirsi a Dio e alla salvezza operata dal Figlio Gesù, Redentore dell'uomo, della Storia e di tutto il creato.


3) La vocazione è grazia, non un problema.
 Il vangelo di oggi  del rito Ambrosiano ha come tema principale il Regno di  Dio. Però credo di non forzare troppo dicendo che il nesso tra l’episodio relativo alla natività di Giovanni il Battista e la parabola degli invitati alle nozze regali è la vocazione come chiamata per la redenzione.
Il perdono preannunciato da Giovanni e portato da Cristo non è solo per la cancellazione dei peccati, ma per il cambiamento vale a dire per la redenzione dell’uomo e del mondo intero. Dio ci perdona perché noi cambiamo, indossando le vesti nuziale che Lui stesso ci dona. In effetti per capire bene questa parabola è utile sapere che quando in Terra Santa il Re celebrava le nozze del figlio invitava moltissime persone e non solo i notabili, e in una stanza metteva a disposizione delle vesti per la  festa, così chi non ne aveva poteva indossarle ed entrare nella sala del banchetto adeguatamente abbigliato. Gli invitati che non hanno le vesti nuziali e di cui parla la parabola, sono quindi responsabili di non aver voluto il dono del Re.
            La nostra responsabilità è di accettare oppure no questo dono, questo per-dono che è il dono che si compie nel livello massimo della gratuità. La vesta nuziale è il simbolo del dono di Dio, che quando perdona ci regala l’amore di cui abbiamo bisogno per ricominciare ad amare e a fare festa.
            Facciamo altrettanto con il nostro prossimo: a partire dai familiari e come Dio saremo ricchi di ciò che doniamo.

martedì 19 giugno 2012

XI Domenica del Tempo Ordinario – 17 giugno 2012

Rito Romano
Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34

Rito Ambrosiano
III Domenica dopo Pentecoste
Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12



            1) L’Amore sotterrato nella terra
            Il seme per essere produttivo deve essere messo sotto terra. Così Dio, perché il suo Regno nasca e cresca, ha messo il suo Amore dentro la terra, nel giardino del grembo della Vergine Maria: “così è germinato questo Fiore”(cfr. Dante).  Il vero e grande Seminatore continua a “gettare” il Figlio, il seme divino, sulla terra. Ma noi terreni, siamo terra fertile come la Madonna?
            Guardando la nostra estrema fragilità, ci viene immediato dire che non lo siamo. Guardandoci nel Cristo diciamo di sì. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Gesù Cristo, Parola di Dio, non viene a noi solamente come dono, ma come perdono.
            A noi il compito di aprire la terra del nostro cuore mendicando la misericordia, che ricrea. Una bella antifona della liturgia ambrosiana dice: “Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei”: “Prima di parlare con me, Signore, perdonami, secondo la tua grande misericordia (cfr Sal 50), secondo la tua giustizia rivestita di pietà e tenerezza”.
            Questa tenerezza di Dio ci prende come il ramoscello, di cui parla il profeta Ezechiele nelle prima lettura romana di oggi: Così dice il Signore Dio: prenderò dalla cima dei cedro, dalle punte suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sul monte alto d'Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all'ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore.
            Nelle mani di Dio, ogni uomo che accolga il Suo dono, che viva della sua Parola, che cammini sui passi del suo Figlio, può diventare annunciatore di salvezza e operaio intraprendente del Regno di amore, di giustizia e di pace a cui l’umanità intera anela..
            Certo, Dio Padre ci prende con le sue “mani” e ci pianta il alto. Certo, Dio Padre è il Seminatore, il Verbo è la Semente, il terreno è l'uomo. Ma in questo processo il terreno non è affatto passivo. La qualità del raccolto dipende infatti dalla buona predisposizione della terra, insomma dalla fertilità del terreno profondo e insondabile che è il cuore dell'uomo. Come ben si esprime un famoso esempio della Scrittura, la Parola ha sempre la sua efficacia come la pioggia che discende dal cielo (cfr Is 55, 10 - 11): essa ha in sé qualità per irrigare e predisporre alla crescita, ma se il terreno è arido e refrattario, non potrà che dare  pochi frutti.
            Il terreno dell'uomo si predispone sulla base della volontà e della predisposizione dell'uomo stesso, che di fronte alla Parola non deve mai mostrarsi sospettoso o diffidente, ma considerarla come un Dono, aprendosi deliberatamente con fiducia e lasciandosi formare da essa.
            Tuttavia, credo che ancor prima della buona volontà e della fiducia, dobbiamo essere puri ed umile per accogliere il seme, come ce ne ha dato un esempio grande la Madonna. Lei, l’Immacolata da sempre, si è messa umilmente a servizio della Parola, noi, a cui il dolore  ed il perdono tolgono il peccato, possiamo fare altrettanto. Maria con la sua purezza immensa e la sua umiltà senza limiti ha nobilitato a tal punto l’umana natura che “il suo Fattor non disdegnò di farsi sua Fattura”. Noi possiamo diventare terra degna, nobile e feconda, imitando la Madonna nella sua umiltà, grazie alla quale non era definita dall’esito delle cose da fare, ma dall’amore di Dio. E, resi puri dal perdono implorato, saremo vera dimora di Dio.


2) L’amore seminato nel cielo.
            Il frutto che nasce dalla terra permette, a chi lo mangia, di vivere, ma non gli impedisce di morire. Cristo, seme seminato nel cielo mediante la Croce, “produce” il pane di immortalità.
            Se noi lo seguiamo fino là, la Parola divina si insinua nella nostra vita, per trasformarla secondo il suo progetto d'amore, proprio come il seme che, “caduto” e disperso fra le “zolle” di cielo, si dipana misteriosamente e il nostro cuore, terra prima incolta e abbandonata in un campo fruttuoso di raccolti: il seme cresce un po' alla volta, viene alimentato dalla terra e dal clima appropriato della stagione, si tramuta prima in piccole spighe finché il terreno celestizzato non diventa grano pronto per la mietitura.
            Non dimentichiamo che prima di essere seminato in cielo mediante la Croce, Gesù si è inginocchiato davanti agli uomini, lavandolo loro i piedi. Imitiamo anche in questo il Redentore che con il gesto della lavanda dei piedi ha mostrato l’amore divino con tutte le componenti umane: simpatia, tenerezza, generosità, commozione e servizio, con quella vibrazione umana, che rende Gesù vicino a tutti e ne conquista i cuori.
            Come un granellino di senape, Gesù si è fatto piccolo, povero e indifeso, condividendo la condizione dei deboli e dei reietti e per questo è stato esaltato con un nome al di sopra di ogni altro nome (Fil 2, 9). Una volta morto e sepolto, Gesù ha apportato la crescita del Regno che aveva già diffuso in germe con le sue parole e con le sue opere: per mezzo delle sue apparizioni da Risorto, nell'Ascensione al Cielo e nella realizzazione della promessa del dono dello Spirito a Pentecoste e nella continuità del suo annuncio per mezzo della Chiesa, Cristo fa crescere costantemente il seme del Regno e ne dispiega i fruttuosi raccolti dappertutto.
            Come afferma infatti il vangelo di oggi, noi non conosciamo né saremo mai in grado di conoscere tempi e modalità con cui Dio fa crescere il suo seme, non ci è dato sapere quali procedimenti, tempi, sentieri Dio metta in atto per far crescere la propria semente, non sapremo mai quanti passi sono necessari fino al conseguimento dell'obiettivo. Nessuno può illudersi di pronosticare futuri risultati o di anticipare eventi e soluzioni. Occorre semplicemente lasciare fare a Dio, le cui vie e i cui sentieri sono differenti dai nostri (Is 55, 5) e saper attendere nell'umiltà, nella fede e nella speranza.
            Affidarci a Dio nell'essere seminatori nel suo nome comporta certamente l'essere piccoli e crescere progressivamente, senza bruciare le tappe. Chi si trova oggi a godere di una buona posizione di successo o a fare l'inventario delle copiose risorse acquisite ha dovuto iniziare con poco, affrontare le dure lotte e gli immancabili sacrifici che ogni traguardo comporta.
            Il verso successo, in ogni caso e in tutti i campi, inizia con una serie di fallimenti, di frustrazioni e di incomprensioni altrui, conosce insidie a volte precostituite, richiede costanza, fiducia e perseveranza nella prova e nella tentazione di voler abbandonare. Ma quando finalmente l'obiettivo è raggiunto, ebbene i risultati sono paragonabili alla pianta che è scaturita da un insignificante granellino di senapa: ora è talmente grande da torreggiare su tutta la flora antistante e da diventare sede di numerosi nidi di uccelli.
            Prendere parte attiva alla novità del Regno realizzata da Cristo vuol dire seguire le sue orme instancabilmente e conseguire i medesimi premi di gloria anche se la tappa necessaria e inevitabile è sempre la Croce, dove Cristo manifestò che l’amore folle di Dio ha vinto il male, dove la morte è stata vinta dalla Vita. Riceviamo Cristo come il Cielo l’ha ricevuto quando gli uomini l’hanno messo in Croce.