mercoledì 26 aprile 2023

Gesù, il buon Pastore che dà la vita per le sue pecore

IV Domenica di Pasqua – Anno A – 30 aprile 2023

Rito Romano

At 2,14.36-41; Sal 22; 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10

 

Rito Ambrosiano

At 6,1-7; Sal 134; Rm 10, 11-15; Gv 10, 11-18

 

 

 

 

            1) Il Pastore buono, che dà la vita.

            Al giorno d’oggi, soprattutto nelle società industrializzate e urbane, la figura de pastore è poco conosciuta e apprezzata. Anche l’idea di essere pecore non piace all’uomo contemporaneo, che fa coincidere la libertà con l’autonomia e che si offende quando è chiamato pecora.

            Invece, già nell’Antico Testamento la figura del pastore è molto importante. Si pensi per esempio a quanto, in nome di Dio, il profeta Ezechiele scrive: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34, 15-16). La realizzazione di questo oracolo la vediamo in Cristo, pastore buono. In effetti, nel Vangelo il pastore è figura dolce e commovente e ciascuno di noi vorrebbe essere la pecorella smarrita (Lc 15,3-7), che il Buon Pastore mette sulle sue spalle, dopo che con tenacia la cercata. 

            Ma non solo nella Bibbia la figura del Pastore è importante. Anche nella Chiesa di oggi questa figura mantiene il suo fascino e la sua efficacia. Quanto promesso da Dio al suo popolo antico: “Vi darò Pastori secondo il mio cuore” (Ger 3, 15. ), è sperimentato oggi e quotidianamente dalla Chiesa, nuovo popolo di Dio. La Chiesa sa che Gesù Cristo stesso è il compimento vivo, supremo e definitivo della promessa di Dio: “Io sono il buon pastore” (Gv 10, 11), Lui “il Pastore grande delle pecore “ (Eb 13, 20) ha affidato agli apostoli e ai loro successori il ministero di pascere il gregge di Dio (cfr. Gv 21, 15ss.; 1 Pt 5,2). Grazie ai sacerdoti il popolo di Dio può vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l’obbedienza al comando di Gesù: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28, 19) e “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19; cf 1 Cor 11, 24), cioè il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo.

            Dunque, preghiamo il Signore che mandi Pastori buoni per la messe matura del mondo e esigiamo dai pastori di oggi di avere sempre Cristo come modello. Lui è il Pastore buono 

            perché offre la vita per le pecore, 

            perché espone con coraggio la sua vita per difendere le sue pecore,

            perché come Cristo ama le sue pecore e le guida alla comunione con Lui.

            La bontà del Pastore si dimostra con il dono di sé perché le pecore a lui affidate vivano ed abbiano la vita in abbondanza e perché conosce le sue pecore. Lui le conosce una per una con amore grande, con cura personale e continua. Le pecore “sentono” questo e conoscono il loro Pastore in quanto buono. “Conoscere” è un verbo che biblicamente sta nella semantica dell’amare: si conosce per amore e solo nell’amore. Come una mamma –anche di notte, al buio- “sente” che il suo bambino sta male, anche se non si lamenta, e si alza per curarlo, così il bambino “sente” la madre che lo cura. L’amore vero è la conoscenza perfetta.

            Sull’esempio del Pastore buono, i pastori e le pecore vivano e crescano nell’appartenenza reciproca per crescere nell’appartenenza a Cristo.

 

            2) Appartenenza.

            Noi non siamo in balia di forze oscure, di un destino inesorabile: apparteniamo al Signore e siamo conosciuti da Lui che per ciascuno di noi ha donato la sua vita ed è risorto. Se noi ascoltiamo la sua voce, se noi crediamo in Lui, entriamo nel possesso della vita stessa del Signore. La fede, infatti, non è affatto una fra le tante possibili concezioni del mondo. Con essa noi compiamo un passaggio decisivo: il passaggio dalla morte alla vita. "In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non incorre nella condanna, ma è passato dalla morte alla vita" (Gv 17, 24), ha detto Gesù. Con la fede, la persona umana abbandona la regione di morte della sua vita ed entra nella terra dei viventi. 

            La Chiesa ha sempre domandato ai suoi pastori di meditare costantemente questa pagina: di specchiarsi in essa. Perché? Ogni pastore è semplicemente un "segno" del Pastore. Allora meditiamo insieme e lungamente  questa pagina e cerchiamo di riviverla vivendo la comunione fra noi, perché cosi si approfondisca la nostra conoscenza di Cristo e cresca la nostra appartenenza a Cristo. 

            Nel Vangelo di oggi, il rapporto di ciascuno di noi col Signore risorto è indicato in primo luogo come un rapporto di “appartenenza": al mercenario le pecore non appartengono, al pastore sì. L’esperienza dell’appartenenza è profonda: essa è per la persona umana ciò che sono le radici per un albero. 

            Ma in che cosa consiste questa appartenenza? In primo luogo in un rapporto di reciproca conoscenza: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). Questa reciproca conoscenza è un avvenimento assai grande se Gesù lo riporta alla reciproca conoscenza che esiste fra Lui e il Padre. In che cosa consiste? Da parte nostra essa consiste nell’accoglienza consenziente della Parola di Gesù ["ascolteranno la mia voce"], perseverando in essa e lasciandoci come penetrare da essa. Insomma, "conoscere Gesù buon pastore" significa aderire a Lui ed essere da Lui guidati nella nostra esistenza, in una grande e profonda familiarità. La conoscenza da parte nostra di Gesù implica quindi e presuppone la conoscenza da parte di Gesù della nostra persona. Il conoscere e l’essere conosciuti si realizzano come, appunto, una reciproca appartenenza ed un essere disponibili l’uno per l’altro. Questa relazione di comunione fra Gesù e noi suoi fedeli è posta in essere dal dono che Egli fa della sua vita: “e offro la mia vita per le pecore”. Lui si propone Pastore perché: espone, dispone e depone la vita a favore delle pecore. Cioè lui accetta di essere capo perché è servo di tutti, realmente fino a dare la vita, che in lui trovano luce e libertà. 

 

            3) Le vergini e il pastore.

            Meditando le parole di Cristo che si presente come pastore, cioè come uno che veglia giorno e notte a difesa da mercenari e ladri, per amore dei suoi agnelli per i quali dà la vita, viene da chiedersi se riusciremo davvero a penetrare dentro il cuore di un simile Dio ed  a capire come Lui ci ama. In Cristo vediamo che non è tanto l’uomo che cerca Dio, quanto Dio che cerca l’uomo. L’uomo è la passione ed il dramma di Dio, che per salvarlo discende dal suo Cielo, per ritornarvi con noi.

            Come rispondere a questo amore infinito che ci chiede di amare con un amore più forte della morte? Con atti di amore frequenti, recitando per esempio questo “atto di carità”:

Mio Dio,

ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità;

per amor tuo amo il prossimo come me stesso e perdono le offese ricevute.

Signore, che io ti ami sopra ogni cosa”. E così san Giovanni della Croce spiega l’atto d’amore: “L’atto di amor di Dio è l’azione più semplice, più facile, più breve che si possa fare. Basta dire con semplicità: ‘Mio Dio, io ti amo’. E’ facilissimo compiere un atto di amor di Dio. Si può fare in ogni momento, in ogni circostanza, in mezzo al lavoro, tra la folla, in qualunque ambiente, in un attimo. Iddio è sempre presente, in ascolto, in attesa affettuosa di cogliere dal cuore della sua creatura questa espressione di amore. L’atto d’amore non è un atto di sentimento: è un atto di volontà elevato infinitamente al di sopra della sensibilità ed è anche impercettibile ai sensi. Basta che l’anima dica con semplicità di cuore: Mio Dio, io ti amo” (San Giovanni della Croce).

            In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate che con il dono totale ed esclusivo a Cristo collaborano con il buon Pastore condividendo la sua  missione di guidare alla santità vivendo un amore  che non si spegna con la morte ma si eterna nel Paradiso. Il loro servizio alla pastorale è, quindi, non quello di fare ma di essere, testimoniando un’appartenenza a Cristo, la cui compito diventa la loro missione. In primo luogo sono chiamate a comunicare quello che sono: Spose di Cristo.  A questo riguardo è importante ricordare che il loro rito di consacrazione prevede la consegna tra i quattro segni, i due che esprimono il nuovo stato di consacrata. Come simbolo nuziale si usa l’anello che figura per la prima volta nel Pontificale Romano-Germanico verso l’anno 950 e la consegna del Libro della Preghiera della Chiesa, un uso noto nel sec. xv e ancor oggi attuale, perché come insegna il Concilio Vaticano II, la Liturgia delle Ore deve diventare la preghiera di ogni cristiano, per pregare in nome della Chiesa servendosi della Preghiera della Chiesa. Una preghiera sponsale ed ecclesiale i cui cardini sono la Bibbia, vista come il libro dello sposo, l’Eucaristia “sacramento nuziale”, la Liturgia delle Ore “voce della sposa allo sposo”. 

 

 

Lettura Patristica

Tommaso d’Aquino

Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.

 


       Il Signore propone la parabola della porta dell’ovile e del buon pastore. Chi non entra nell’ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: "Io sono la porta e Io sono il buon pastore".
       Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d’esser lui la porta dell’ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi". E la similitudine è introdotta con le parole: "Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: - In verità, in verità vi dico"; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei discepoli e sottolineare l’importanza di quanto il Maestro vuol dire.


       "Io sono la porta": L’ufficio della porta è quello d’immettere nella casa. E questo s’addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (
Ps 117,10): "Questa è la porta del Signore" - Cristo - "e i giusti entreranno in essa". Precisa: "Porta del gregge", perché non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com’è detto appresso: "Le mie pecore ascoltano la mia voce... e mi seguono, e io do loro la vita eterna".
       Poi, quando dice: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi", dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.


       Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l’errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l’interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.


       Prima di tutto perché contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: "Chi non entra per la porta è ladro e bandito". Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti "prima" di Cristo, ma coloro che non son passati "attraverso la porta", che è Cristo. È chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perch‚ proprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell’eternità, come Verbo di Dio (
He 13,8, "Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli"). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sg 7,27, "La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio"). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente «La Parola di Dio è giunta al Profeta», proprio perché, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.


       "Coloro che sono venuti": Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (
Jr 22,21): "Io non li mandai, ma essi correvano". Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3, "Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente"). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perché essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.
       Ed è anche falsa l’interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d’Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (
Ac 7,52, "Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?" e Mt 23,37, "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te!)".
       Bisogna dire dunque: "Tutti quelli che son venuti", non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l’intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un’autorità d’insegnamento che non gli spetta (
Is 1,23, "I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri)";e "sono banditi", perché uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: "Voi ne avete fatto una spelonca di ladri"; e Os 6,9: "Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada)". Ma "costoro", cioè i ladri e banditi, "le pecore non li ascoltarono", almeno in modo costante, perch‚ altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perché "non segue un forestiero e fugge da lui".


       "Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo".
       Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: "Potrà entrare e uscire". La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall’esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s’addice a Cristo, poiché in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch’egli vuol dire con le parole: "Se uno entrerà attraverso me" nella Chiesa, "sarà salvo". Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (
Ac 6,12, "Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi"; e Rm 5,10, "Tanto più saremo salvi nella sua vita").
       Il modo della salvezza è significato con le parole: "Entrerà e uscirà e troverà pascoli"; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.


       Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: "entrerà e uscirà", vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (
Nb 27,16, "Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perché il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore"). "E troverà pascoli", cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (Ac 5,41, "Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù").


       La seconda spiegazione è di sant’Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.
       Chi fa il bene realizza un’armonia tra ciò ch’è dentro di lui e con ciò ch’è fuori di lui. Al di dentro dell’uomo c’è lo spirito, al di fuori c’è il corpo (
2Co 6,16, "Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno). Colui dunque, ch’è unito a Cristo, "entrerà" attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sg 8,16, Entrando nella mia casa - la coscienza -, "mi riposerò con essa" -la Sapienza -); e "uscirà" fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Ps 103,23, "Uscirà l’uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera"); "e troverà pascoli", nella coscienza pura e devota (Ps 16,15, "Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria") e anche nel lavoro (Ps 125,6, "Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni").
       La terza interpretazione di san Gregorio.


       "Entrerà" nella Chiesa, credendo (
Ps 41,5, "Andrò dov’è una tenda meravigliosa"), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; "e uscirà", cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11, "Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze"); "e troverà pascoli" di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Ps 22,2, "Mi pose nel luogo del cibo"); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14, "Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi").
       La quarta spiegazione è nel libro "De Spiritu et Anima", che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi "entreranno" per contemplare la divinità di Cristo e "usciranno" per ammirare la sua umanità; e nell’una e nell’altra "troveranno pascoli", perché nell’una e nell’altra gusteranno le gioie della contemplazione (
Is 33,17, "Vedranno il re nel suo splendore").
       Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: "Io son venuto, perché abbiano la vita". Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta - che è lui - sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, "il ladro non viene che per rubare", per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sè coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene "per uccidere", diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (
Os 6,9, "Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem"). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Jr 50,6, "Il mio popolo è diventato un gregge perduto"). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.


       "Io venni perché abbiano la vita". E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l’opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. "Io son venuto perché abbiano la vita" della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (
He 10,38 Rm 1,17, "Il giusto vive di fede"). Di questa fede, è detto in Jn 3,14: "Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. E perché l’abbiano più abbondantemente"; abbiano cioè la vita eterna all’uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Jn 17,8) ch’essa consiste "nel conoscere te solo vero Dio".
       Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (
1P 2,25, "Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime"; e Is 40,11, "Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge"). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l’aggettivo "buono". Buono perché compie l’ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l’ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch’egli entra nell’ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perché egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perché attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perché nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: "Era la luce vera che illumina ogni uomo" (Jn 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sè; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Jr 3,5, Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: "Io sono il buon pastore", per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.
       Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: "Il pastore buono dà la vita per le sue pecore". Bisogna sapere che c’è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: "Guai ai pastori che pascono se stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore"? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perché non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perché ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: "Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo". Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poiché la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: "Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore"; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 
1Jn 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.

 

 

venerdì 21 aprile 2023

Emmaus: Cristo si manifesta nell’Eucaristia, Pane di Vita da condividere.

III Domenica di Pasqua – Anno A – 23 aprile 2023

Rito Romano

At 2,14.22-33; Sal 15; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35

 

Rito Ambrosiano

At 19,1b-7; Sal 106; Eb 9,11-15; Gv 1,29-34

 

 

            1) Da fuggitivi a pellegrini.

            Il Vangelo di questa terza domenica di Pasqua è incentrato sul cammino di due discepoli, per i quali Emmaus è una tappa del loro allontanarsi da Gerusalemme dove hanno assistito alla fine della loro avventura a causa della morte di Cristo. E’ vero avevano sentito da alcune donne affermare che Gesù era risorto, ma era una notizia così incredibile, che se ne vanno dalla città dove il loro “sogno” era stato infranto dalla Croce.

            Provvidenzialmente, Cristo si fa loro compagno di strada e, anche se -lungo il cammino- “vedono” in lui solamente un estraneo, accettano che cammini con loro e che lenisca la loro tristezza. Lo sconforto che hanno impedisce loro di credere che la Croce di Cristo è la chiave per entrare nella casa del Padre. 

            Con franchezza e amore questo “sconosciuto” dice loro: “O senza testa[1] e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui (Lc 24, 25-27).

            Ascoltando lo Sconosciuto, che con le sue parole ridona loro testa per capire e apre il cuore per accogliere, i due discepoli arrivano a Emmaus, dove si fermano per la notte e lo invitano a restare con loro perché a quell’ora la strada si fa pericolosa. A questo gesto di condivisione, Cristo risponde con un altro gesto di condivisione: spezza il pane per loro. Questo gesto eucaristico permette ai due “fuggitivi” di riconoscere il Signore.

            “Essi narravano le cose accadute lungo il cammino e come si era rivelato a loro nello spezzare il pane”(Lc.24,13-35). Questa frase, che conclude il racconto dell'esperienza pasquale dei due discepoli di Emmaus, sintetizza in modo meraviglioso il senso dell'esistenza cristiana di ogni discepolo di Gesù Cristo. Che cos'è la novità cristiana se non vivere la normalità della vita, con le gioie e le tristezze, le speranze e le angosce, illuminata, interpretata, dall'evento di Cristo che si rivela nella condivisione del pane spezzato? Il cammino di Emmaus con Lui che ci cambia la vita, è la descrizione dell'esperienza di ciascuno di noi, quando arriviamo a dirci l'un l'altro: "Il nostro cuore non ci bruciava dentro mentre parlava a noi sulla strada e ci spiegava le Scritture?". 

            Nella strada che conduce a Emmaus possiamo riconoscere il nostro cammino di fede, in cui invece di una locanda c’è la Chiesa, che con la Messa ci offre le Scritture e l’Eucarestia elementi indispensabili per l’incontro con il Signore. Se con le nostre preoccupazioni e difficoltà usciamo di casa per andare alla chiesa, lì potremo –almeno ogni domenica- andare spiritualmente a Emmaus, dove la Parola di Dio ci è spiegata e il Pane di Vita ci è donato. Lì Dio sta con noi, con la sua Parola ci consola con il suo Pane ci ristora, cura e guarisce, donandoci la gioia.

            Il cammino dei due discepoli di Emmaus è quello di tutti noi. Se camminando il nostro cuore non resta chiuso dalla tristezza, possiamo incontrare il Risorto nella Parola che ci accende il cuore e nel Pane che ci apre gli occhi. Nella Parola e nell’Eucaristia noi stessi passiamo dalla morte alla vita e riconosciamo che è vero quanto i primi testimoni oculari ci hanno raccontato: sappiamo che Gesù è risorto perché anche noi l’abbiamo incontrato e siamo risorti a una vita nuova nell’amore. 

            A noi in cammino, come ai due discepoli, Cristo ci annuncia il Vangelo della sua risurrezione, ci parla della storia di amore di Dio con il suo popolo, ci ricorda la perenne fedeltà di Dio, che ha stretto con noi un’alleanza eterna. Cristo ci parla ed apre il nostro cuore alle Sacre Scritture, svelando la profondità del Suo cuore ricolmo di amore, a causa o, meglio, grazie al quale “doveva” soffrire, morire. Non poteva fare altro che amarci di quell’amore assoluto e infinito, che supera le barrire della morte e della carne. 

 

            2) Un amore senza fine e sino alla fine. 

            La memoria dei discepoli (e di ciascuno di noi) è ridestata dalla presenza di Cristo, che è Parola e Pane. Ora anche gli occhi del cuore si sono aperti e allora, come oggi, è loro possibile conoscere chi è Colui che li accompagna. Per la loro mente aperta dalla Parola e dalla frazione del Pane, l’oscuro evento della morte di Cristo diventa luce. Con la mente illuminata e il cuore aperto, la nostra tristezza diventa preghiera: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno ormai tramonta”. Sull’oscurità di un evento di morte (quella di Cristo), scende la luce di Cristo risorto.     E’ stato sufficiente che i due discepoli esprimessero  loro desiderio di condivisione perché Lui, che in realtà desiderava rivelare il suo Amore per loro, accogliesse il loro invito, entrasse e rimasse con loro. 

            Facciamo altrettanto e Cristo entrerà nella nostra casa, nel nostro cuore, nella nostra vita. Allora Lui sarà a tavola con noi, come lo fu “con loro” e per noi, come “per loro”, il pane benedetto e spezzato diventa energia per il cammino, invertendo la marcia: verso Gerusalemme, per annunciare che Cristo è risorto davvero e loro lo hanno incontrato.

            A questo punto emergono due domande importanti: come e dove si può incontrare il Risorto?  Come riconoscere il Signore che cammina con noi? Nella locanda di Emmaus, a Cleopa e all’altro discepolo senza nome (nel quale quindi ciascuno di noi si può identificare) gli occhi si aprirono quando, seduto a tavola in loro compagnia,       Gesù compì quattro gesti (prese il pane, ringraziò (in greco “eucharisto”) con la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo distribuì), che portano indietro e in avanti.

            Portano indietro facendo memoria della cena eucaristica nel Cenacolo e alla vita terrena di Gesù (una vita spezzata e condivisa in dono come pane spezzato), alla croce che di quella vita è il compimento.

            Portano in avanti, nel tempo della Chiesa, tempo in cui i cristiani continuano a “spezzare il pane” (uno dei primi nomi dati alla Messa). Questo spezzare il pane è dunque un gesto sacramentale, in un certo senso riassuntivo, nel quale si concentrano, sovrapponendosi, le tre tappe dell'esistenza di Gesù: il Gesù terreno, il Risorto e il Signore ora presente nella comunità. Lo “spezzare il pane” è sempre la modalità riconoscibile della presenza del Signore: è la modalità del Crocifisso, del Risorto e del Signore glorioso presente nella Chiesa. Si tratta di un amore fino alla fine e senza fine.

 

            3) Verginità, Parola e Eucaristia.       

            A questo amore che si dona completamente, le vergini consacrate nel mondo si donano completamente e diventa particolarmente vero per loro quanto accadde alla Vergine Maria quando disse all’angelo di Dio: “Avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1,38).  Il suo cuore divenne un tabernacolo e in modo speciale ciascuna di queste consacrate potrebbe dire: “Avvenga di me secondo la tua parola riguardo alla Parola. San Bernardo di Chiaravalle in modo geniale commenta: “La Parola che era in principio presso Dio (cfr Gv 1,2) si faccia carne dalla mia carne secondo la tua parola.  Venga a me la Parola, non pronunciata, che passi, ma concepita, affinchè rimanga, rivestita cioè di carne, non di aria. Venga a me la Parola non solo udibile agli orecchi, ma anche visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile in braccio”.

            Sull’esempio delle Vergini consacrate, preghiamo con queste parole di San Bernardo: “Quanto a me prego che il Verbo di Dio s'incarni nel mio grembo, secondo la tua parola. Non voglio che venga a me solennemente declamato, o significato in modo simbolico, o sognato con l'immaginazione, ma nel silenzio ispirato, personalmente incarnato, corporalmente inviscerato. La Parola, dunque, che in sé non poteva né aveva bisogno di essere fatta, si degni di essere fatta (in me e a me secondo la tua parola”.  Insomma il Mistero eucaristico manifesta un intrinseco rapporto con la verginità consacrata, in quanto questa è espressione della dedizione esclusiva della Chiesa a Cristo, che essa accoglie come suo Sposo con fedeltà radicale e feconda. Nell’Eucaristia la verginità consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a Cristo.

 

 

 

Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona

Sermone 235, 1 – 4

 


       Il Signore Gesù, dopo essere risuscitato dai morti, trovò per via due dei suoi discepoli, che conversavano insieme dei fatti del giorno, e disse loro: "Che sono questi discorsi che andate facendo tra di voi, e perché siete tristi?", ecc.; il fatto è narrato dal solo evangelista Luca. Marco si limita a dire che apparve a due discepoli lungo la via (Mc 16,12 Mc 16,13): ma quel che essi dissero al Signore, od anche ciò che questi disse loro, egli lo ha tralasciato.

       "Cristo con i discepoli per via". Cosa dunque ci ha apportato questa lezione? Qualcosa di grande, se cerchiamo di comprendere. Gesù apparve: era visto con gli occhi, ma non era riconosciuto. Il Maestro camminava con loro per via, anzi era lui stesso la via: essi però non camminavano ancora per la via; li trovò bensì che esorbitavano dalla via. Quando infatti era stato con loro, prima della sua Passione, aveva loro tutto predetto: che avrebbe patito, che sarebbe morto e risuscitato il terzo giorno (Mt 20,18-19): tutto aveva predetto; ma la morte di lui fu oblio per loro. Così rimasero turbati quando lo videro pendente dal legno, sì da dimenticare il docente, da non aspettare il risorgente, né da tener fede all’autore delle promesse.

       "Noi", dicono essi, "speravamo che avrebbe operato la redenzione d’Israele". O discepoli, voi speravate; dunque ora non sperate più? Ecco che Cristo vive, mentre la speranza è morta in voi ! Certamente Cristo vive. E Cristo vivo trovò morti i cuori dei discepoli: ai loro occhi apparve e non apparve; ed era visto e si nascondeva. Ma se non era visto, in qual modo lo ascoltavano mentre interrogava, o rispondevano alle sue domande? Egli viaggiava per via con loro come un compagno, mentre era il capo medesimo. Senz’altro lo vedevano, però non lo riconoscevano. "I loro occhi erano infatti appesantiti e incapaci di riconoscerlo", come abbiamo sentito. Non dice che erano incapaci di vedere, bensì che erano incapaci di riconoscerlo.

       "Perché Cristo volle essere riconosciuto nella frazione del pane. Il premio dell’ospitalità". Orsù, fratelli, dove volle essere riconosciuto il Signore? Nella frazione del pane. Siamone certi, spezziamo il pane, e conosciamo il Signore. Non ha voluto essere conosciuto se non lì; il che vale per noi che non eravamo destinati a vederlo nella carne, e tuttavia avremmo mangiato la sua carne. Perciò, chiunque tu sia, o fedele; chiunque tu sia che non vuoi essere detto vanamente cristiano; chiunque tu sia che non senza ragione entri in chiesa; chiunque tu sia che ascolti con timore e speranza la parola di Dio, ti consoli la frazione del pane. L’assenza del Signore non è assenza: abbi fede, ed è con te colui che non vedi. Quei tali, quando parlava con loro il Signore, non avevano fede: perché non credevano che fosse risorto, non speravano che potesse risorgere. Avevano perduto la fede, avevano perduto la speranza. Camminavano morti in compagnia della stessa vita. Con loro camminava la vita, ma nei loro cuori la vita non era stata ancora richiamata.

       Anche tu, quindi, se vuoi avere la vita, fa’ ciò che essi fecero, affinché tu conosca il Signore. Essi gli dettero ospitalità. Il Signore era infatti simile ad uno che vuole andare oltre, essi però lo trattennero. E dopo esser giunti al luogo cui erano diretti, dissero: "Resta ancora qui con noi, si fa sera infatti e il giorno volge al declino". Accogli l’ospite, se vuoi conoscere il Salvatore. Ciò che aveva portato via l’infedeltà, lo restituì l’ospitalità. Il Signore, dunque, si fece conoscere nella frazione del pane.

Imparate dove cercare il Signore, imparate dove possedere, dove conoscere, quando mangiate. I fedeli infatti hanno conosciuto in questa lezione qualcosa che meglio comprendiamo e che quei tali non conobbero. "Cristo si è assentato con il corpo perché si edificasse la fede". Il Signore è stato conosciuto; e dopo essere stato conosciuto, mai più ricomparve. Si separò da loro con il corpo, colui che era trattenuto dalla fede. Per questo infatti il Signore si assentò con il corpo da tutta la Chiesa, e ascese al cielo, perché si edificasse la fede. Se infatti non conosci se non ciò che vedi, dove sta la fede? Ma se credi anche ciò che non vedi, godrai quando vedrai. Si edifica la fede, perché si respinge l’apparenza. Verrà ciò che non vediamo; verrà, fratelli, verrà: ma, attento a come ti troverà. Infatti, verrà ciò che dicono gli uomini: Dove, quando, come, quando sarà, quando verrà? Sta’ certo, verrà: e non soltanto verrà, ma verrà anche se tu non vuoi.

 

 

 



[1] La parola greca usata è ἀνόητος (anoetos) cioè senza testa – sarebbe ‘senza mente’, cioè la testa c’è tutta, ma non si usa la mente, il cervello. Alla testa manca ‘solo’ il cervello.

 

giovedì 13 aprile 2023

Misericordia: un nome non umano, ma divino.

II Domenica di Pasqua – della divina Misericordia – Anno A – 16 aprile 2023

Rito romano

At 2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31

 

Rito Ambrosiano

At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31

 

 

1) Domenica2 della misericordia, il “secondo nome” dell’amore.

“Cos’è la misericordia? Null’altro si potrebbe dire, che “una miseria raccolta nel cuore”. Quando la miseria altrui tocca e colpisce il tuo cuore, quella è misericordia” (P. David Maria Turoldo). Questa misericordia è possibile quando si crede in Dio Amore, che ha Misericordia “come secondo nome”, come scrisse S. Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dives in Misericordia.

E se fu questo santo Papa a dare ufficialmente il titolo di ‘Domenica della Divina Misericordia’ a questa II Domenica di Pasqua, è utile sottolineare che il motivo, almeno implicito, lo si può trovare nel Vangelo di oggi, dove si racconta che il Redentore entra nel Cenacolo e, apparendo agli Apostoli, dà loro la pace e l'incarico di “amministrare” il perdono e la riconciliazione, cioè la misericordia di Dio, che Gesù ha manifestato in lungo e in largo nella sua vita terrena. Infatti, al paralitico, prima ancora di rialzarlo in piedi, dice: “Figliolo i tuoi peccati ti sono perdonati” suscitando una certa sorpresa perché solo Dio può rimettere i peccati. Ma Gesù è davvero Dio, perciò può perdonare divinamente. Ai suoi discepoli racconta che Dio è come un pastore buono che va a ricercare la pecorella smarrita, o come quel papà che perdona il figlio che se ne era andato con metà dell'eredità e usa anche grande pazienza con l'altro che era rimasto e si era incavolato. Gesù raccomanda la misericordia nella preghiera del Padre Nostro (... rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori), di perdonare fino a settanta volte sette, di saper distinguere il peccato dal peccatore e, non limitandosi a dare solo dei bei insegnamenti, dalla croce dice addirittura: "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

E da Risorto affida alla sua Chiesa questa missione di annunciare, vivere, celebrare e diffondere la misericordia divina, che Lui ha tanto raccomandato e praticato. 

In questo modo il Risorto rivela il senso della Chiesa. Gesù l’ha voluta per annunciare - a tutti gli uomini e in tutti i tempi –il vangelo della sua morte e risurrezione, cioè la salvezza da lui portata, liberando tutti quelli che credono in lui dalla morte e dal peccato. Il Redentore manda dunque i suoi apostoli a proclamare la misericordia divina3.

Questa misericordia viene da un Dio che è Padre teneramente fermo e paternamente amorevole.

 

 

2) La fede condizione per essere perdonati e avere la vita.

Il brano del Vangelo di oggi dice anche qual è la condizione per ricevere la Misericordia Paterna. L’evangelista dichiara di aver scritto “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. E poco prima, narrando il celebre episodio dell'incredulità di Tommaso, invitato dal Risorto a toccare le ferite per cui era morto, del Risorto riferisce le consolanti e insieme inquietanti parole: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”. La fede, dunque, è la condizione per essere perdonati e “avere la vita”.

Per questo all’inizio della Messa di oggi, a nome di tutti i fedeli, il Sacerdote prega: “Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale infiammi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti” (Colletta4). E’ mediante la fede nel Vangelo e mediante il Battesimo che si “acquista” la salvezza, cioè la remissione dei peccati e il dono della vita nuova e vera.

Se “con fede la invochiamo, la misericordia ci viene concessa; mentre la confessiamo viva e reale, realmente ci trasforma. È questo un contenuto fondamentale della nostra fede, che dobbiamo conservare in tutta la sua originalità: prima di quella del peccato, abbiamo la rivelazione dell’amore con cui Dio ha creato il mondo e gli esseri umani. L’amore è il primo atto con il quale Dio si fa conoscere e ci viene incontro. Teniamo, pertanto, aperto il cuore alla fiducia di essere amati da Dio. Il suo amore ci precede sempre, ci accompagna e rimane accanto a noi nonostante il nostro peccato” (Papa Francesco, Lett. Ap. Misericordia et misera, 20 novembre 2016).

Per vivere questa fede, per credere all’amore, ci è di esempio Madre Teresa di Calcutta, Missionaria della Carità. Lei ha fatto tutto quello che ha fatto per Cristo. A chi le chiese chi è Cristo per lei, Madre Teresa disse: “Chi è Gesù per me? Gesù è il Verbo fatto uomo, è il pane della vita, è la vittima offerta per i nostri peccati sulla croce, è il sacrificio offerto per i miei peccati e per quelli del mondo, è la parola che va proclamata, è la verità, che deve essere narrata, è la via che deve essere percorsa, è la vita, che deve essere vissuta è la luce che deve essere fatta splendere, è l’amore che deve essere amato, è la gioia che deve essere condivisa, è il sacrificio che deve essere offerto, è la pace che deve essere data, è il pane della vita che deve essere mangiato, è l’affamato che deve essere nutrito, è l’assetato, che deve essere dissetato, è il nudo che deve essere vestito, è l’uomo solo, che deve essere consolato, è il non voluto, che deve essere voluto, è il drogato che bisogna aiutare, è la prostituta da sottrarre al pericolo e da sostenere, è il carcerato che bisogna visitare”.

Santa Teresa di Calcutta era così certa di Cristo risorto che spesso affermava: “Non lasciare mai che le tue preoccupazioni crescano fino al punto di farti dimenticare la gioia del Cristo risorto”.

La gioia, dono del Signore risorto, è una partecipazione alla sua stessa gioia. Non ci sono due gioie differenti, una per Dio e una per l’uomo. Si tratta sempre, in un caso come nell’altro, di una gioia che affonda le sue radici nell’amore. Questa gioia non sta nell’assenza della Croce, ma nel comprendere che il Crocifisso è risorto. La fede permette una diversa lettura della Croce e del dramma dell'uomo. Pace e gioia sono al tempo stesso i doni del Risorto e le tracce per riconoscerlo. Ma occorre infrangere l’attaccamento a se stessi. Questa piccola, grande Suora era certa del paradiso, dove anelava andare, ma era altrettanto certa che già sulla terra è possibile essere con Gesù e comunicare la sua gioia, amando il prossimo come Lui lo ama e servendolo come Lui lo serve. In questo modo questa Santa è stata Missionaria della Carità misericordiosa. Non è importante che facciamo cose grandi come lei ha fatto, l’importante è che facciamo piccole cose con grande amore.

Dio è amore. La rivelazione del suo amore è Cristo: come Figlio ci rivela la Paternità del Padre. Come Uomo ci rivela il suo amore sponsale per la Chiesa. 

A questo amore rispondono in modo particolare le Vergini consacrate che si consacrano a Cristo quale ragione della loro vita. Come san Leandro di Siviglia scrive “per le vergini consacrate Cristo è tutto: sposo, fratello, amico, parte dell’eredità, premio, Dio e Signore” (Regula sancti Leandri, Introductio). 

Consacrandosi a Cristo Sposo5, le Vergini ne condividono completamente la missione di misericordia che va fino all’estremo dono di sé sulla via della carità. Queste donne testimoniano che non serve disperdersi in tante cose secondarie o superflue, ma concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, con la sua misericordia, con il suo amore e l’amare i fratelli come lui ci ha amato. Un incontro con Cristo che è anche adorazione e donazione piena a Lui. Questo San Giovanni Paolo II volle ribadire scrivendo: “Nella verginità [consacrata] si esprime ... il radicalismo del Vangelo: lasciare tutto e seguire Cristo” (Lett. Ap. Mulieris Dignitatem, 20), amandolo e portando al prossimo la Sua misericordia.

 

1  Nell’Enciclica Dives in misericordia, San Giovanni Paolo II spiega le due parole semitiche che sono sottese alla parola italiana “misericordia»”: dare di nuovo il cuore a chi è in stato di miseria.

La prima parola è hesed. Fa riferimento ad una promessa, richiama perciò una fedeltà all’interno di una alleanza, come quella sponsale. E’ un amore che parla di solidarietà radicale vicendevole e giurata. E’ un amore che diventa anche esigente e conosce la collera della gelosia. Due amanti sono gelosi.

La seconda parola è rahamîn. Alla sua radice troviamo rehem, utero. Ci parla di tenerezza materna, di amore al frutto delle proprie viscere. Ci richiama la paternità di Dio in Osea 11: una paternità amorevole, una tenerezza ferma. Dio ama teneramente come una madre ed è al tempo stesso guida forte come un padre, superando tutte le categorie culturali che tendono ad attribuire separatamente la fermezza al padre, la dolcezza alla madre.


2  Nel 1992, San Giovanni Paolo II istituì la festa della Divina Misericordia e stabilì che fosse celebrata in tutta la Chiesa Cattolica oggi, II domenica di Pasqua, detta anche “Domenica in albis”, perché quanti erano stati battezzati durante la notte di Pasqua deponevano le vesti bianche indossate durante la Veglia di Pasqua appena ricevuto il Battesimo.

3  Mistero profondo, e tremenda responsabilità! Dio ha voluto aver bisogno di uomini per raggiungere gli altri uomini; di più, ratifica in anticipo le loro decisioni. E’ anche vero che assicura loro lo Spirito Santo, cioè la costante assistenza divina: ma il pensiero che la misericordia di Dio si consegna in fragili e indegne mani umane, fa tremare le vene e i polsi di chi è chiamato ad amministrarla.

4  Deus misericórdiæ sempitérnæ, qui in ipso paschális festi recúrsu fidem sacrátæ tibi plebis accéndis, auge grátiam quam dedísti, ut digna omnes intellegéntia comprehéndant, quo lavácro ablúti, quo spíritu regeneráti, quo sánguine sunt redémpti.

5  L’espressione «sposarsi con Dio», conviene maggiormente alla donna. Le vergini cristiane sono state considerate, fin dall'antichità come spose di Cristo. Si può dire che esse rappresentano, nella maniera più appropriata e più completa, la qualità di sposa di Cristo che si attribuisce alla Chiesa. Nelle vergini consacrate si personifica questa relazione di sposa con il Cristo. In effetti, la consacrazione verginale dà a questa relazione tutto il suo valore. La vergine che dona tutto il suo cuore a Cristo rinuncia a uno sposo umano per prendere direttamente il Signore come sposo. Nel matrimonio vi è l’attuazione delle nozze di Cristo e della Chiesa, come dice san Paolo (Ef 5,28). Nella verginità questa attuazione è più totale, perché solo Cristo diventa lo Sposo, senza la mediazione di uno sposo umano Il legame di sposa della Chiesa con il Cristo raggiunge così la sua più grande profondità.

 

 

 

Lettura Patristica

San Cipriano di Cartagine (210 – 258)

De Ecclesiae unitate

 

 

  Il Signore dice a Pietro: "Io ti dico: tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli ciò che tu legherai sulla terra, sarà legato anche in cielo, e ciò che tu scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche in cielo" (Mt 16,18s). Su uno solo egli edifica la Chiesa, quantunque a tutti gli apostoli, dopo la sua Risurrezione, abbia donato uguali poteri dicendo: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti" (Jn 20,21-23). Tuttavia, per manifestare l’unità, costituì una cattedra sola, e dispose con la sua parola autoritativa che il principio di questa unità derivasse da uno solo. Quello che era Pietro, certo, lo erano anche gli altri apostoli: egualmente partecipi all’onore e al potere; ma l’esordio procede dall’unità, affinché la fede di Cristo si dimostri unica. E a quest’unica Chiesa di Cristo allude lo Spirito Santo nel Cantico dei Cantici quando, nella persona del Signore, dice: "Unica è la colomba mia, la perfetta mia, unica di sua madre, la prediletta della sua genitrice" (Ct 6,9). Chi non conserva quest’unità della Chiesa, crede forse di conservare la fede? Chi si oppone e resiste alla Chiesa, confida forse di essere nella Chiesa? Eppure è anche il beato apostolo Paolo che lo insegna, e svela il sacro mistero dell’unità dicendo: "Un solo corpo e un solo spirito, una sola speranza della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio" (Ep 4,4-6).

       Quest’unità dobbiamo conservare salda e difendere soprattutto noi, vescovi, che nella Chiesa presidiamo, dimostrando così che lo stesso nostro episcopato è unico e indiviso. Nessuno inganni i fratelli con la menzogna, nessuno corrompa la loro fede nella verità con perfida prevaricazione! L’episcopato è unico, e i singoli ne possiedono ciascuno una parte, ma «in solido». Anche la Chiesa è unica, e si propaga in una moltitudine vastissima per la sua feconda prolificità, proprio come i raggi del sole sono molti, ma lo splendore è unico, i rami degli alberi sono molti, ma unico è il tronco saldamente attaccato alla radice, e come dalla sorgente unica defluiscono molti ruscelli e quantunque sembri che una numerosa copia di acqua largamente si diffonda tuttavia essa conserva alla sua origine l’unità. Dalla massa dei sole togli un raggio: l’unità della luce non ammette divisione; dall’albero stacca un ramo: il ramo non potrà più germogliare; dalla fonte isola un ruscello: questo subito seccherà.

       Così, anche la Chiesa del Signore diffonde luce per tutta la terra, dappertutto fa giungere i suoi raggi; tuttavia unico è lo splendore che dappertutto essa diffonde, né si scinde l’unità del corpo. Estende i suoi rami frondosi per tutta la terra riversa in ogni direzione le sue acque in piena, ma unico è il principio unica è l’origine, unica è la madre ricca di frutti e feconda. Dal suo grembo nasciamo, dal suo latte siamo nutriti, dal suo Spirito siamo vivificati.

 

giovedì 6 aprile 2023

Cristo è risorto: con la croce Lui ha aperto la porta della morte, con la risurrezione è con noi per sempre.

Domenica di Pasqua – Resurrezione del Signore – Anno A – 9 aprile 2017

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

 

 

            1) Il cristianesimo è la religione dei vivi. 

            “Fra tutti i giorni dell’anno che la Liturgia celebra in vari modi, non ce n’è uno, che superi per importanza la festa di Pasqua, perché, nella Chiesa di Dio, questa rende sacre tutte le altre solennità. Anche la nascita del Signore è orientata verso questo mistero: il Figlio di Dio non ebbe altra ragione di nascere, che quella di essere inchiodato alla croce. Nel grembo della Vergine, infatti, egli prese carne mortale; in questa carne mortale fu realizzato interamente il disegno della passione; e così avvenne che, per un piano ineffabile della misericordia di Dio, questa diventasse per noi sacrificio redento re, abolizione del peccato e inizio di risurrezione alla vita eterna” (San Leone Magno, Sermo XLVIII, 1 - P.L. 54, 298 A - 299 A). Quindi è stato giusto e doveroso preparaci alla Pasqua con il cammino (=l’esodo) quaresimale ci ha resi ancor più consapevoli che siamo un popolo “costituito da Cristo  in una comunione di vita, di carità e di verità” (Lumen Gentium, 9, e da Lui preso per essere strumento della redenzione di tutta l’umanità.

            Oggi, inizia l’esodo pasquale per camminare “nel mondo alla ricerca della città futura e permanente (cfr. Eb 13, 14) e portare al mondo Cristo, autore della salvezza e principio di unità e di pace, perché noi, Chiesa, sia per tutti e per ciascuno il sacramento visibile di questa unità salvifica” (cfr. Ibid.).

            Chi ci guida in questo cammino? Cristo risorto dalla morte, una morte alla quale l’avevano condannato assurdamente, perché Lui aveva detto al mondo la verità ed aveva dato l’amore. 

            Gesù, buon Pastore, ci guida usando come pastorale la Croce, sulla quale è morto. Il suo (di Gesù) morire in Croce tra gli insulti e i maltrattamenti, da Lui patiti fino alla morte, fu un morire per noi, povere creature, per il nostro vantaggio e al nostro posto. Mentre pativa l’odio degli uomini, prendeva questo odio su di sé; togliendolo a loro e accogliendolo nella sua misericordia. Il suo fu un morire dell’amore che non muore. 

            Cristo, buon Pastore, non solo guida le sue pecore, ma prende quella smarrita sulle sue spalle e la porta a casa. Stretti al suo Corpo viviamo, e in comunione con il suo Corpo giungiamo fino al cuore di Dio. 

            Questo cuore infinito ci è stato rivelato da Cristo che, mediante la sua risurrezione, rivela che l’amore è più forte della morte, più forte del male. La forza per mezzo della quale ci porta con sé, tenendoci stretti sulle sue spalle. Uniti al suo amore, saliamo anche con Lui verso la casa del Cielo, la dimora della Vita nell’amore.

            In Cristo crocifisso, il dolore umano ha un senso, perché non mira a distruggere la vita, ma a chi lo sa accettare serve a renderla più intensa e perfetta: santa e salvifica.

            La croce non è “scandalo” per gli ebrei e “follia” per i greci di duemila anni fa, anche oggi per molti essa “scandalo” e “follia”. Ma se contempliamo con attenzione e devozione il mistero della Pasqua capiamo che  l’ “assurdo” e “scandaloso” agire di Dio ha come ragione l’amore gratuito, misericordioso e onnipotente di Dio per gli uomini che si manifesta in pienezza e potenza sulla Croce di Cristo. In effetti, questa Croce ha due facce: l’apparente sconfitta e la vittoria, il Crocifisso e il Risorto. Nella Croce si rivela tutta la cattiveria e la miseria dell'uomo che non esita a condannare il Figlio di Dio innocente, ma si manifesta anche tutta la profondità e l'efficacia del perdono di Dio. 

            In Cristo crocifisso e risorto l’ultima parola non ce l’ha l’odio, ma l’amore. In questa totale carità, e non altrove, va cercata la vera ragione della speranza cristiana, la buona notizia[1], che dà senso e spessore alla vita e alla storia, nonostante i fallimenti. Ma è una buona e lieta notizia, che esige conversione non solo ad una vita morale buona ma alla religione della Vita vera.

            In questa religione, camminiamo con Cristo risorto che passa dalla morte alla vita, e passiamo dal sacrificio alla gloria, dall’abnegazione alla fecondità, dalla rinuncia all’amore, dall’amore alla vita. Non c’è altra via che conduce alla beatitudine, alla pienezza completa, alla Vita. E’ il cammino tracciato dalla Resurrezione.  

 

            2) Cristo è risorto, non è qui.

            Alle pie donne che, nel primo bagliore del giorni, erano andate al sepolcro per imbalsamare il corpo di Gesù, gli angeli dissero: "Voi cercate Gesù Nazareno, il crocefisso. E’ risorto, non è qui".  Questa parole esprimono tutto il mistero che oggi noi celebriamo: Gesù Nazareno, il crocefisso, è risorto.

            Cosa vuol dire questa affermazione: “E’ risorto”? Non vuol dire che Gesù morto in croce è stato rianimato, restituito cioè alla vita di prima, come per esempio era successo al figlio della vedova di Naim e a Lazzaro, che furono richiamati dalla morte ad una vita che poi doveva concludersi con una morte definitiva. La risurrezione di Gesù non è un superamento della morte fisica, che conosciamo anche oggi: superamento provvisorio che ad un certo momento termina con un morte senza ritorno. Gesù non rivive come un morto rianimato, ma in forza della potenza divina, al di sopra e al di fuori della zona di ciò che è fisicamente e chimicamente misurabile. La potenza di Dio fa sì che il corpo morto-crocefisso di Gesù sia reso partecipe della stessa vita divina: vita eterna. Vita qualitativamente diversa da quella vissuta prima. 

            Per usare parole più concrete (almeno lo spero): il Verbo incarnato è introdotto, passando attraverso la morte, con la sua umanità in quella Gloria divina di cui nella sua divinità godeva da sempre. Nell’ultima sera della sua vita terrena, Gesù aveva pregato così: “e ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,5). La mattina di Pasqua questa preghiera è stata esaudita.

 

            3) Cercatelo in Galilea, cioè tra i vivi.

            Dopo aver detto alle pie donne: “Non è qui, è risorto”, gli angeli aggiungono subito: “Andate in Galilea, là lo vedrete”. Cosa vuol dire per noi oggi questa indicazione di andare in Galilea. Secondo me, almeno per noi, “Galilea” non è un luogo geografico, è un luogo del cuore, un luogo esistenziale.

            Non dobbiamo cercare Cristo nei sepolcri dei defunti, neppure  tra i grandi personaggi impolverati dal tempo che noi chiamiamo storia, tantomeno nei libri e nelle utopie. Cerchiamolo tra i vivi, cerchiamolo perché Cristo è il Dio del fiore vivo e non dei morti pensieri.

            Ma mi si potrebbe chiedere: “Come possiamo essere sicuri che i vivi non ci ingannano?”. In questo caso risponderei così: “Cercatelo tra i viventi in Cristo, cioè nella Chiesa”. Cerchiamolo tra quelli che hanno la forza e la grazie di affermare : “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (1 Gv 1, 1-4).

            Alla luce di quanto scrive San Giovanni, cerco di indicare alcune modi di dove e come incontra Gesù Risorto. 

            Il primo – ne ho fatto cenno poco sopra - è la Chiesa, che diventa esperienza concreta nella comunità cristiana, dove la Parola ci edifica, i Sacramenti ci santificano e ci rendono partecipi della vita di Cristo. 

            Il secondo è la consuetudine con la Bibbia e, in particolare, il Vangelo da intendere come la testimonianza di chi ha incontrato Gesù e che per opera dello Spirito Santo ha consegnato la sua esperienza nello scritto dei quattro Vangeli. Il Vangelo è fondamentale: va letto, studiato, meditato, pregato, vissuto con l’aiuto dello Spirito Santo e dentro la Chiesa che, fedele lungo i secoli alla testimonianza degli Apostoli, ce lo presenta nella liturgia e ce lo mette tra le mani perché sia il nostro nutrimento di ogni giorno. 

            Il terzo modo di incontrare Cristo, morto e risorto, quello sacramenti, in particolare l’Eucaristia che ci mette in comunione con il dono di sé di Gesù e ci rende suo Corpo, e la Confessione, grazie alla quale riceviamo il frutto della redenzione che ci viene dalla croce di Cristo  e la nostra vita si rinnova con un cuore purificato e aperto al Redentore ed al prossimo.

            Il quarto modo è quello di praticare le opere di misericordia materiale e spirituale che ci permettono di percepire la presenza di Cristo nel povero, nel fratello bisognoso. A questo riguardo, teniamo presente i la parabola del giudizio finale, dove Gesù dice: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36). 

 

            4) Testimoni dell’Amore risorto.

            Ogni cristiano è chiamato ad essere testimone della risurrezione di Cristo, soprattutto in quegli ambienti umani dove più forte è l’oblio di Dio e lo smarrimento dell’uomo, coltivando nel cuore l’impegno a dimorare nell’amore di Dio, rimanendo uniti a Lui e tra di noi. Qual è allora la specificità della testimonianza delle Vergini consacrate nel mondo? Quella che è possibile vivere esclusivamente per amore di Cristo. Donandosi completamente a Cristo, vivono anche un amore di obbedienza a Lui, facendo la sua volontà e vivendo il suo amore crocifisso  Gesù ad un certo punto per amare è andato in un’esperienza progressiva di svuotamento di sé fino alla croce. Se vogliamo amare da cristiani dobbiamo saperlo e fare come lui. Questo modo di amare mette l’Altro prima di me e mi fa vivere del suo amore di Risorto. Sì, l’amore di Cristo è un amore risorto, un amore che ricomincia sempre da capo, è un amore di Pasqua. L’amore del cristiano è luminoso, come il sole del mattino, è un amore che si riprende, che non rimane adagiato, che si risolleva sempre di nuovo. È un amore pieno di coraggio perché è il dono commosso di sé. L’amore di Gesù è così ed è capace di trasformare la tristezza in gioia, di far ardere il cuore, di ricordare le Scritture, come ai due discepoli di Emmaus. L’amore verginale è, in un modo speciale, un amore risorto. La verginità consacrata testimonia che si può vivere per Dio e nel suo amore, e annunciare con la parole e con la vita la risurrezione di Cristo, testimoniando la comunione tra noi e la carità verso tutti, nessuno escluso.

 

 

 

Lettura Patristica

San Gregorio Magno

Hom. 26, 10-11

 

 

La festa degli uomini e la festa eterna



       Ecco, noi stiamo celebrando le feste pasquali; ma dobbiamo vivere in modo tale da meritare di giungere alla festa eterna. Passano tutte le feste che si celebrano nel tempo. Cercate, voi che siete presenti a queste solennità, di non essere esclusi dalla solennità eterna. Cosa giova partecipare alle feste degli uomini, se poi si è costretti ad essere assenti dalle feste degli angeli? La presente solennità è solo un’ombra di quella futura. Noi celebriamo questa una volta l’anno per giungere a quella che non è d’una volta l’anno, ma perpetua. Quando, al tempo stabilito, noi celebriamo questa, la nostra memoria si risveglia al desiderio dell’altra. Con la partecipazione, dunque, alle gioie temporali, l’anima si scaldi e si accenda verso le gioie eterne, affinché goda in patria quella vera letizia che, nel cammino terreno, considera nell’ombra del gaudio. Perciò, fratelli, riordinate la vostra vita e i vostri costumi. Pensate come verrà severo, al giudizio, colui che mite risuscitò da morte. Certamente nel terribile giorno dell’esame finale egli apparirà con gli angeli, gli arcangeli, i troni, le dominazioni, i principati e le potestà, allorché i cieli e la terra andranno in fiamme e tutti gli elementi saranno sconvolti dal terrore in ossequio a lui. Abbiate davanti agli occhi questo giudice così tremendo; temete questo giudice che sta per venire, affinché, quando giungerà, lo possiate guardare non tremanti ma sicuri. Egli infatti dev’essere temuto per non suscitare paura. Il terrore che ispira ci eserciti nelle buone opere, il timore di lui freni la nostra vita dall’iniquità. Credetemi, fratelli: più ci affannerà ora la vista delle nostre colpe, più saremo sicuri un giorno alla sua presenza.

       Certamente, se qualcuno di voi dovesse comparire in giudizio dinanzi a me domani insieme al suo avversario, passerebbe tutta la notte insonne, pensando con animo inquieto a cosa gli potrebbe essere detto, a come controbattere, verrebbe assalito da un forte timore di trovarmi severo, avrebbe paura di apparirmi colpevole. Ma chi sono io? o cosa sono io? Io, tra non molto, dopo essere stato un uomo, diventerò un verme, e dopo ancora, polvere. Se dunque con tanta ansia si teme il giudizio della polvere, con quale attenzione si dovrà pensare, e con quale timore si dovrà prevedere il giudizio di una così grande maestà?





[1] La parola “vangelo” viene da quella greca “euangelion” che vuol dire buona notizia