venerdì 25 settembre 2020

L’obbedienza è l’amore messo in pratica.

 

Rito Romano – XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 27 settembre 2020

Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32.


Rito Ambrosiano – V Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

Dt 6,4-12; Sal 17; Gal 5,1-14; Mt 22,34-40



1) Obbedire all’amore è libertà.

Dalla parabola del Padre, che manda i suoi due figli a lavorare nella vigna potrebbe nascere come prima e spontanea riflessione quella di identificarsi o in colui che dice di sì, ma poi disobbedisce, o in colui che si ribella alla richiesta paterna, ma poi obbedisce. In realtà questi due fratelli fanno entrambi lo stesso errore di fondo: entrambi considerano il Padre come un padrone.

Il primo accetta subito, vuol far credere a suo padre di essere quello che non è, ma poi, appena può, non tiene fede all’impegno preso. Il secondo risponde chiaro “Non ho voglia”, avverte il lavoro nella vigna come pesante, preferirebbe fare altro, avrebbe altri progetti, altre intenzioni, però “si pente”1 l’amore al Padre vince su di lui e si incammina verso la vigna.

In questa parabola il Padre è visto e trattato come un padrone per cui si è portati a vivere come schiavi di una volontà superiore con la quale non si è d’accordo ed alla quale ci si sottomette per timore. Con questa parabola, Cristo ci indica che con il pentimento si può seguire la volontà del Padre per attrazione d’amore e non per costrizione. Dio è un padre, non un padrone.
 Dio è il Padre che ama e invita ad accogliere il suo amore.

L’amore non è facile soprattutto quando ci dà degli ordini che non capiamo e che viviamo come limitanti la nostra libertà. A questo riguardo, Gesù ci insegna che la nostra libertà esige prima il rinnegamento del proprio egoismo, la morte al peccato perché, aderendo a Dio la nostra vita in Dio si dispieghi nel mondo. Il cammino dell’anima nella vita vera è un rapporto di obbedienza. All’inizio è certamente una rinuncia a sé (cfr Mc 8,34), un rinnegamento di sé per un ritorno dall’alienazione, in cui ci ha posto il peccato, al pieno possesso del nostro essere in Dio. Nell’adesione a Dio l’anima nostra può sempre più vivere la libertà divina e sempre più può espandersi e dilatarsi nell’immensità della vita di Dio. Per questo l’obbedienza è la via della vita! Volerci dispensare dall'obbedienza a Dio è dispensarci dalla vita, è rimanere rattrappiti nel nostro piccolo io, chiusi, soffocati nel peccato, alienati a noi stessi, al nostro vero io, amato da Dio dal cui Amore nasce il nostro amore.

A questo Amore si convertì il figlio che aveva detto di “no” al Padre. Che cosa ha disarmato il rifiuto di questo figlio? Il pentimento, provocato dal cuore e la mente cambiati. Il suo pentirsi (cfr nota 1) significò “cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere”, di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o, peggio ancora, da ingannare, ma il capo famiglia che invia il figlio nella vigna, che è anche sua, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza e di amore.

Il figlio obbediente che “si pentì” (cfr Mt 21, 30) aveva capito che l’alternativa di fondo era (ed è) tra un’esistenza sterile e un’esistenza feconda, che trasformava (e trasforma) un angolo di deserto in vigna, e la propria famiglia in un frammento del paradiso di Dio. Lungi dal diminuire la sua dignità di figlio, l’obbedienza fa crescere la sua libertà e la ordina, come una specie di ordinazione, per la missione di coltivare la vigna del mondo. E’ come l’imposizione delle mani il giorno dell’ordinazione sacerdotale, nella quale la missione del prete comincia e, in nome di Dio, il Vescovo invia ad andare nella vigna del Signore. L’obbedienza è imitazione di Cristo e partecipazione alla sua missione. Chi obbedisce si preoccupa di fare ciò che Gesù ha fatto e, al tempo stesso, ciò che Lui farebbe nella situazione in cui ognuno di noi si trova oggi.



2) L’obbedienza2 e la libertà non sono contraddittorie.

Dio “osa” affidarci la Sua vigna, ci dona la Sua “proprietà”, ci “ordina” di lavorare, affidando il suo disegno di bontà alla nostra libertà e di realizzarlo. L’obbidienza della Vergine Madre “realizzò” Dio, diede la sua carne a Dio, e fece un’esperienza grandissima di libertà. Dio ci chiede la stessa cosa, amorosamente. E l’obbedienza è la nostra risposta al suo amore. L’obbedienza è il frutto dell’amore e servizio all’Amore. Non c’è amore senza obbedienza e senza amore l’obbedienza diventa servile.

Per ogni figlio di Dio ribelle, ma pentito e capace di amore, il Figlio di Dio ha assunto la condizione umana, ha vissuto tra noi, come servo, ha affrontato il giudizio dei superbi, è salito sulla croce, ed è morto; ma, nella sua morte è stata lavata ogni colpa, e, nella sua resurrezione, ogni peccatore risorge, e diventa capace di riamare Dio, di ascoltarlo ed obbedire alla sua Parola, che ci dice parole che interpellano ognuno di noi, ogni giorno.

Ma Gesù non solamente ci mette in guardia da una religiosità vuota, fredda e formale, che si esaurisca in pratiche esteriori, ci invita a coltivare in profondità la fede e un autentico rapporto filiale con Dio, un rapporto saldamente radicato nell’amore, che accoglie, ascolta e, umilmente, obbedisce.

Gesù è tra i due fratelli il terzo che dice di “sì” subito e subito fa anche ciò che gli viene ordinato. Questo terzo fratello3 è il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, che entrando nel mondo, ha detto: “Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Questo “sì”, Lui non l’ha solo pronunciato, ma l’ha compiuto, obbedito e sofferto fin dentro la morte, ed alla morte di croce (cf Fil 2, 6-8).

In umiltà ed obbedienza, Gesù ha compiuto la volontà del Padre, è morto sulla croce per i suoi fratelli e le sue sorelle - per noi - e ci ha redenti dalla nostra superbia e testardaggine.

Queste due virtù insieme con la castità e la povertà formano la croce che ogni giorno ci è “ordinato” di prendere, per salvare noi e il mondo: “L’obbedienza consacra il nostro cuore, la castità il nostro corpo, e la povertà i nostri beni all’amore e al servizio di Dio: sono i tre bracci della croce spirituale, che poggiano sul quarto che è l’umiltà” (San Francesco di Sales, Filotea, cap. 10). 

L’umiltà non gode - al giorno d’oggi e, forse non ha mai goduto – di una grande stima, ma le Vergini consacrate nel mondo sanno che questa virtù rende fecondo il lavoro nella vigna di Dio. Umiltà viene dalla parola latina humilitas, che ha a che fare con humus (terra), cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Queste donne, che si sono donate completamente a Dio, vivono da persone umili perché vivendo in Lui e per Lui ascoltano umilmente Cristo, la Parola di Dio, e tendono avere gli stessi sentimenti del loro Sposo (“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” - Fil 2,5), da loro amato. E come diceva Sant’Agostino: “Non c’è carità senza umiltà” (Prologo del Commento alla Lettera di San Giovani) e in altro libro scrive: “Custode della verginità è la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà” (Sulla Santa virginità, 51, 52).

La vocazione a vivere la verginità consacrata come dono completo di sé a Cristo e segno della Chiesa Sposa si esplicita nel loro affidarsi senza riserve all’amore del loro Sposo, all’intensità della comunione con Lui, all’umile carità che si fa servizio disinteressato alla Chiesa e testimonianza luminosa di fede, speranza e carità, nel contesto della vita ordinaria.

Come chiede il Rito di consacrazione (cfr nn. 14-18) ogni vergine appartenente all’Ordo si impegna costantemente avendo presente che la preghiera non è solo personale, generosa risposta alla voce dello Sposo e umile richiesta di aiuto per mantenersi fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima partecipazione alla vita del corpo mistico di Cristo, intercessione instancabile per la Chiesa e per il mondo.

1 Il testo greco del Vangelo usa il participio aoristo di μεταμέλομαι (metamélomai=mi pento), che letteralmente andrebbe traddotto “avendo l’animo cambiato ebbe il cuore per fare qualcosa”, quindi per andare a lavorare nella vigna: in breve: “cambiare modo di vedere, di pensare”. Questo verbo oltre ad essere usato al versetto 30 del capitolo 21 di Matteo per il figlio obbediente è usato anche al versetto 32.

2 Obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l'altro. “Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L'obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi”. (Papa Francesco).

Il 19 agosto 2012 per la XX domenica TO anno B scrivevo: “Obbedire a Dio è “realizzare” Dio. La Madonna con il suo “sì” ha fatto Gesù. Il suo fiat ha dato carne alla Parola di Dio. Con il mio “sì” al comando di Cristo: “Fate questo in memoria di me”, faccio Lui. Quando nella Messa dico: “Questo è il mio Corpo”, faccio Lui, dò carne al Verbo di Dio. L’obbedienza affettuosa a Dio è liberante, è libertà, perché il suo comando non è un’imposizione di un Dio arbitrario e capriccioso, ma una parola (logos) con la quale amorosamente rivela il suo cuore ed il nostro futuro.

3 Si tratta di un’intuizione del Papa emerito Benedetto XVI.

 

 

Lettura Patristica


San Girolamo, In Matth. 21, 29-31

1. La parabola dei due figli


       Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò. E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado, Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse..." (Mt 21,28-31). Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta Zaccaria con le parole: "Presi con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai frusta, e pascolai il gregge" (Za 11,7). Al primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna», cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). Ma egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: "Faremo quanto ci ordinerà il Signore" (Ex 24,3), ma non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa, credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge dopo, la spiega.


       "In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio" (Mt 21,31). Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio, disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di Dio. Per questo egli dice:


       "Perché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi, nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a lui" (Mt 21,32). La versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità, ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero; così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.


      


       Efrem, Diatessaron, XVI, 18


2. I due figli


       "Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli" (Mt 21,28). Egli chiamò i suoi «figli», per incitarli al lavoro. "D’accordo, Signore", disse l’uno. Il padre l’ha chiamato: Figlio mio, ma lui ha risposto chiamandolo: "Signore"; non lo ha chiamato: Padre, e non ha adempiuto la sua parola. "Quale dei due ha fatto la volontà del padre suo"? Essi giudicarono con rettitudine e "dissero: Il secondo" (Mt 21,31). Egli non disse: Quale vi sembra? - infatti il primo aveva detto: "Ci vado" - bensì: "Quale ha fatto la volontà del padre suo? Ecco perché i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli ()", poiché voi avete promesso a parole, ma essi corrono più veloci di voi. "Giovanni è venuto a voi nella via della Giustizia" (Mt 21,32), non ha trattenuto per sé l’onore del suo Signore, ma, allorché si riteneva che egli fosse il Cristo, egli ha detto: "Io non sono degno di sciogliere i lacci dei suoi sandali" (Lc 3,16).





venerdì 18 settembre 2020

Chiamati da Dio ad ogni ora del giorno

 

Rito Romano – XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 20 settembre 2020

Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16.


Rito Ambrosiano – IV Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

Is 63,19b-64,10; Sal 76; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35


1) Dio non si stanca di chiamare.

Con la parabola evangelica di oggi siamo invitati a imparare a pensare e ad agire “per fedeltà a Colui che non si stanca mai di passare e ripassare nelle piazze degli uomini fino all’undicesima ora per proporre il suo invito d’amore” (cfr. Papa Francesco) e ricevere Cristo come “denaro”, come ricompensa del nostro lavoro nella vigna del Padre.

Con la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella sua vigna e che la sera dà a tutti la stessa paga, un denaro1, suscitando la protesta di quelli della prima ora, Gesù ci aiuta ad entrare nella logica di Dio il cui modo di pensare è davvero differente dal nostro: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore” (Is 55, 8)2.

Questa parabola è fin dall’inizio consolante perché ci assicura che l’umanità è la vigna, la passione, il campo preferito di Dio, che se ne occupa con cura uscendo per ben cinque volte3 a cercare operai.

Il punto critico del racconto risiede nel momento della paga: Dio, il Signore della vigna comincia dagli ultimi, gli operai dell’undicesima ora, e a chi ha lavorato un’ora sola dà un salario uguale a quello concordato con coloro che avevano sudato per dodici ore.

Gli operai assunti per primi, invece di essere contenti di aver lavorato per un Padrone buono, si dispiacciono di questa apparente ingiustizia, che invece è una più generosa giustizia. In effetti Lui dà a tutti quanto ha promesso, e riconosce a chi è arrivato ultimo, ma ha lavorato con eguale speranza, il diritto di godere, come gli altri, di quel Regno per il quale ha lavorato fino al tramonto.

Se il primo insegnamento della parabola è quello di ricordare che Dio si occupa con sollecitudine dell’umanità simboleggiata dalla vigna, il secondo è che l’essere chiamati a questa collaborazione è già la prima ricompensa: poter lavorare nella vigna del Signore, mettersi al suo servizio, collaborare alla sua opera, costituisce di per sé un premio inestimabile, che ripaga di ogni fatica. Certo, questo insegnamento è capito unicamente da chi ama il Signore e il suo Regno. Chi invece vi lavora solamente per il suo interesse non si accorgerà mai del valore di questo grandissimo tesoro.

Il denaro di cui parla la parabola non è tanto la moneta che permette di vivere per un giorno, è Dio stesso che si dona per farci vivere nel giorno senza fine. Dio non può donare meno che tutto, agendo con giustizia e carità, che solo per noi uomini sono due realtà differenti. Noi uomini distinguiamo attentamente un atto giusto da un atto d’amore. Giusto per noi è “ciò che è all’altro dovuto”, mentre misericordioso è ciò che è donato per bontà. E una cosa sembra escludere l’altra. Ma per Dio non è così: in Lui giustizia e carità coincidono; non c’è un’azione giusta che non sia anche atto di misericordia e di perdono e, nello stesso tempo, non c’è un’azione misericordiosa che non sia perfettamente giusta.

E’ davvero lontana la nostra logica da quella di Dio. E’ davvero diverso dal nostro il modo di agire di Dio, che ci invita a cogliere e osservare il vero spirito della legge, per darle pieno compimento nell’amore verso chi è nel bisogno. “Pieno compimento della legge è l’amore”, scrive san Paolo (Rm 13,10): la nostra giustizia sarà tanto più perfetta quanto più sarà animata dall’amore per Dio e per i fratelli.


2) La vocazione a lavorare nella vigna di Dio.

Con il pretesto di affermare il nostro umano e limitato concetto di giustizia rischiamo di contestare la bontà e la misericordia di Dio. Rischiamo di essere invidiosi perché egli è buono. Se ripensiamo alla parabola del Figlio prodigo vediamo che accadde qualcosa di simile quando il Padre misericordioso accoglie a braccia aperte il figlio scapestrato, che ha dissipato nel peggiore dei modi tutta l’eredità che aveva preteso, ed organizza per lui una grande festa, che però suscita l'indignazione e l’invidia del fratello maggiore. Anche questo figlio si ritiene ingiustamente vittima di un’evidente, ma in realtà apparente, ingiustizia.

Dio nella sua infinita bontà dona se stesso e tutti i suoi beni non in modo arbitrario, ma secondo la logica del suo amore infinito. Lui invita, dà la vocazione a tutti e se i primi hanno risposto con piena disponibilità e sincero amore al suo invito, questi hanno da più tempo la gioia di lavorare per Dio.

Penso, dunque, che il tema profondo della parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna sia la “salvezza”, che è un dono che Dio riserva a tutti a larghe mani e che ciascuno può accogliere anche all’ultima ora. A questo riguardo, viene in mente il commovente episodio, narrato dall’evangelista Luca, sul “buon ladrone” crocifisso accanto a Gesù sul Golgota. L’invito si è manifestato come iniziativa misericordiosa di Dio a lui che spirando diceva: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dalla bocca del Redentore, condannato alla morte in croce uscì la vocazione per lui: “In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,42-43).

Per annunciare il Vangelo, Gesù Cristo non ha usato il criterio del merito o della reciprocità: ha donato e perdonato. Non ha donato qualcosa, ma ha offerto se stesso. Lui, che aveva lodato la vedova che aveva donato tutto quanto aveva per vivere (cfr Lc 21, 4), ha donato tutto quanto era, la Sua vita, perché di essa l’intera umanità vivesse.

Per annunciare il Vangelo, noi dobbiamo rispondere umilmente ma prontamente alla vocazione del Signore, che ci invita ad essere operai operosi nella Sua vigna.

Subito sorge la domanda: “Come?”. Se coltiviamo il seme della fede, mediante la partecipazione ai sacramenti, saremo in grado di dedicare la nostra esistenza alla missione, a cui Cristo chiama tutti noi, testimoniando con la vita che la salvezza non è questione di interessi economici, né scaturisce da un rapporto fra datore di lavoro e dipendente. Questa collaborazione si attua a partire dalla sola, gratuita benevolenza di Dio, il quale non usa il criterio del “do ut des” (=ti do perché tu mi dia), ma del “do ut es”, cioè “ti do perché tu sia”.

Tutti noi cristiani dobbiamo usare questo metodo di Cristo e di una vita donata a Dio senza calcolo e senza misura ne sono una particolare testimonianza le Vergini consacrate nel mondo. Con l’offerta di se stesse a Cristo mostrano che la vigna non è solo il popolo di Dio ma è Cristo stesso, a cui inerire come tralci alla vite. Ripetiamoci spesso queste parole di Gesù: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo (...). Rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 1-4). Queste semplici parole ci rivelano la comunione misteriosa che lega in unità il Signore e i discepoli, Cristo e i battezzati.

Queste donne vivendo unite a Cristo ed ai fratelli mostrano una comunione viva e vivificante, per la quale i cristiani non appartengono a se stessi ma sono di Cristo, come i tralci sono della vite.

Ma queste consacrate sono testimoni “di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! E’ possibile vivere diversamente in questo mondo. Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No, non voglio dire ‘radicale’. La radicalità non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo” (Papa Francesco). Le consacrate sono donne che con la profezia della loro vita annuncia lo spirito del vangelo. Ed è perché la loro vita sia sempre una profezia che, stendendo le mani su di loro, il Vescovo prega: “Accorda, Signore, il tuo sostegno e la tua protezione a quelle che stanno davanti a Te e che attendono dalla loro consacrazione un aumento di speranza e di forza, su di loro (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 64).



1 Un denaro era ciò che era sufficiente per vivere una giornata ad una famiglia. Allora il padrone non pensa solamente ai lavoratori, ma anche a quelli che hanno a casa. Sa che se un uomo non lavora una giornata, tutta la famiglia non mangia.

Se questi che hanno lavorato un’ora ricevono tanto quanto era stato pattuito con i primi lavoratori, quelli delle sei del mattino, che hanno lavorato undici ore in più, per una giornata intera, che hanno sopportato il peso della giornata e la calura, si aspettano almeno tre volte tanto. Ma quando questi vedono che sono retribuiti con un denaro (d'altronde era stato concordato così), sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto.

Infatti, dice il Vangelo, mormorano (Mt 20,11): “Ma come? Questi che hanno lavorato un'ora sola li tratti come noi?”. Osservate che mormorano: non gli dicono la loro insoddisfazione apertamente, parlano al di sotto, alle spalle. E' tipico di chi mormora, di chi “dietro le spalle” ha sempre da dire.

Gesù prende di mira il capoccia che urla e protesta di più e gli risponde: “Amico, (lett. “caro mio, collega” con tono bonario e di rimprovero) non avevamo convenuto questo?”. "Non è quello che avevamo stabilito?". “Sì!”. “Ti tolgo qualcosa di ciò che si era detto?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso delle mie cose fare quello che voglio?”. Ma è stato ingiusto il padrone o è stato generoso? Il padrone in realtà non è ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Il padrone non toglie nulla a nessuno, anzi.

2 Prima lettura della Messa di questa Domenica, mentre la parabola degli operai chiamati alla vigna ne è il Vangelo.

3 Le ore del giorno chiamate nell'antico modo (ora terza, sesta, nona...) fanno pensare anche alla preghiera della Chiesa distribuita nel corso della giornata. Anche questa è una chiamata quotidiana; anche questa è un'opera necessaria e capace di dissodare la vigna perché i frutti maturino.



Lettura Patristica

Gregorio Magno,

Homelia XIX, 1-3.5-6


1. Le ore della divina chiamata


       L’operaio, dunque, (che fu chiamato) al mattino, all’ora terza, sesta e nona, indica quell’antico popolo ebraico che fin dagli inizi del mondo, nei suoi eletti, si studiò di onorare Dio con retta fede, come se non cessasse di faticare nel coltivare la vigna. All’undicesima ora sono chiamati i pagani, ai quali anche è chiesto: "Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?" (Mt 20,6). Essi, infatti, per così lungo tempo non si erano curati di lavorare per la loro vita, come se stessero in ozio tutto il giorno. Ma pensate, fratelli carissimi, cosa risposero alla domanda: Gli risposero: "Perché nessuno ci ha presi" (Mt 20,7). Nessun patriarca, nessun profeta era stato mandato loro. E cosa significa: «Nessuno ci ha presi a lavorare», se non questo: «Nessuno ci ha predicato le vie della vita»? Cosa dunque diremo a nostra scusa, quando abbiamo omesso di fare il bene noi che fin dal grembo della madre siamo venuti alla fede, che fin dalla culla abbiamo udito le parole di vita, che insieme al latte carnale abbiamo attinto il liquore della predicazione celeste al seno della santa Chiesa?


       Possiamo anche distinguere le diverse ore in relazione ad ogni uomo, secondo i diversi momenti delle sue età. Così il mattino è la puerizia del nostro intelletto. L’ora terza può indicare l’adolescenza, perché quando cresce il calore dell’età è come se il sole salisse in alto. L’ora sesta è la gioventù, perché come il sole sembra fermarsi nel mezzo (del cielo), in essa viene raggiunto il pieno vigore. L’ora nona raffigura la maturità, nella quale il sole comincia a declinare, perché in questa età comincia a venir meno il calore della gioventù. L’undicesima ora è quella età che viene detta decrepita, cioè la vecchiaia... Siccome poi uno chiamato alla vita santa durante la puerizia, un altro nell’adolescenza, un altro nella gioventù, un altro nella vecchiaia, un altro ancora nell’età decrepita, ecco che gli operai sono chiamati alla vigna in ore diverse. Osservate pertanto i vostri costumi, fratelli carissimi, e vedete se siete già operai di Dio. Ciascuno esamini le sue opere e consideri se sta faticando nella vigna del Signore. Chi infatti in questa vita cerca le cose sue, non è ancora giunto alla vigna del Signore. Lavorano invece per lui coloro che pensano non ai propri guadagni, ma a quelli del Signore, e che per lo zelo della carità si dedicano ad opere pie, si adoperano a conquistar anime, si affrettano a condurre con sé anche gli altri alla vita. Chi invece vive per sé e si pasce dei piaceri della sua carne, è giustamente accusato di essere ozioso, perché non aspira al frutto dell’opera divina.


       Chi poi ha trascurato fino a tarda età di vivere per Dio, è come se fosse stato in ozio fino all’undicesima ora. Per cui, giustamente, vien detto a coloro che sono rimasti indolenti fino all’undicesima ora: "Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi"? È lo stesso che dire: «Anche se non avete voluto vivere per Dio nella puerizia e nella giovinezza, ravvedetevi almeno nell’ultima età, e, sia pure in ritardo, quando ormai non c’è più molto da faticare, venite alla via della vita». Anche questi chiama il padrone di casa, e il più delle volte essi sono ricompensati prima, perché uscendo prima dal corpo, vanno al regno prima di quelli che sembravano essere stati chiamati fin dalla puerizia. Non giunse forse all’undicesima ora il buon ladrone? Se non giunse a quell’ora per l’età, vi giunse certo quanto alla sofferenza, egli che riconobbe Dio mentre era in croce e spirò quasi mentre faceva tale professione. Il padrone di casa cominciò così la distribuzione della paga dall’ultimo, perché condusse al riposo del paradiso il ladrone prima di Pietro. Quanti patriarchi vissero prima della Legge, quanti sotto la Legge, e tuttavia coloro che furono chiamati alla venuta del Signore giunsero senza alcun indugio al regno dei cieli!...


       Ma è terribile ciò che segue a queste (parole): "Molti sono chiamati, ma pochi eletti" (Mt 26,16), perché molti vengono alla fede, pochi giungono al regno dei cieli. Ecco infatti in quanti siamo convenuti alla festa di oggi e riempiamo le mura di questa chiesa; e tuttavia chissà quanto pochi sono quelli che sono annoverati nel gregge degli eletti di Dio! Ecco infatti la voce di tutti grida: «Cristo!», ma la vita di tutti non grida altrettanto. I più seguono Dio a parole, lo fuggono con la condotta pratica di vita...


       Di questi tali, fratelli carissimi, ne vedete molti nella Chiesa, ma non dovete né imitarli e neppure disperare (della loro salvezza). Noi vediamo infatti quello che è oggi ciascuno, ma non sappiamo che cosa potrà diventare domani. Molte volte anche chi sembra venire dopo di noi ci precede con l’agilità delle buone opere, e a stento seguiamo quello che oggi crediamo di precedere. Certamente, mentre Stefano moriva per la fede, Saulo custodiva le vesti di coloro che lo lapidavano. Egli dunque lapidò con le mani di tutti, perché rese tutti più spediti nel lapidare; e tuttavia con le sue fatiche precedette nella santa Chiesa quello stesso che con le sue persecuzioni aveva reso martire. Ci sono dunque due cose alle quali dobbiamo seriamente pensare. Siccome infatti "molti sono chiamati, ma pochi eletti", per prima cosa nessuno deve minimamente presumere di se stesso, perché anche se è già stato chiamato alla fede non sa se è degno del regno eterno. La seconda cosa è che nessuno osi disperare del prossimo, che forse ha visto giacere nei vizi, perché ignora le ricchezze della misericordia divina.


venerdì 11 settembre 2020

Quando perdoniamo, imitiamo “Dio, che manifesta la sua onnipotenza nel modo più alto con il perdono e la compassione” (cfr. Lit. dom.)

 

Rito Romano

XXIV Domenica del Tempo Ordinario - 13 settembre 2020

Sir 27,33-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35




Rito Ambrosiano

Is 11, 10-16; Sal 131; 1 Tm 1, 12-17; Lc 9, 18-22

III Domenica dopo il Martirio di san Giovanni il Precursore.



    1) Il perdono senza limiti per dare la vita.

Nel perdono accade un miracolo: il male diventa bene, perché mi chiede di amare di più e io accetto la sfida. Così il male è divenuto causa di maggior amore. Nel perdono ognuno fa con l’altro ciò che Cristo fa continuamente con lui e che oggi Lui ci insegna affermando la necessità di un perdono senza limiti.

Infatti, il Vangelo di questa domenica racconta di quando Pietro chiese a Cristo quante volte avrebbe dovuto perdonare al suo prossimo. Il Messia, il portatore del Vangelo della misericordia rispose che doveva perdonare “ non sette volte, fino a settanta volte sette" (Mt 18,21s). cioè sempre. Infatti il numero “settanta” per “sette” è simbolico, e significa, più che una quantità determinata, una quantità infinita, esagerata.

Dicendo che occorre perdonare “settanta volte sette”, Gesù insegna che il perdono cristiano è senza limiti e che solamente il perdono senza limiti assomiglia al perdono di Dio. Questo perdono divino è il motivo e la misura del perdono fraterno. Poiché Dio Padre ci ha già fatti oggetto di un perdono senza misura, noi dobbiamo perdonare senza misura. Il perdono fraterno è conseguenza perdono paterno di Dio da invocare su quanti ci offendono, pregando: “Padre nostro che sei nei cieliRimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo” a coloro che sono colpevoli nei nostri riguardi (= “ai nostri debitori”) e facendo nostra la preghiera di Cristo in Croce, quando, rivolgendosi al Padre, supplicò: “Perdonali”, “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). 

Perdono” è la parola pronunciata da Cristo, al quale fu fatto del male in modo ingiustissimo e senza misura. Il Messia morente perdona e apre lo spazio dell’amore infinito all’umo che l’offende e lo sta uccidendo. Pronuncia questa parola del cuore che rivela un Dio infinitamente buono: il Dio del perdono e della misericordia.

Come possiamo, noi poveri esseri limitati, mettere in pratica questo amore illimitato?

In primo luogo, mendicando la misericordia di Dio, perché non possiamo dare ciò che non abbiamo. Il Padrone, di cui Cristo parla nella parabola di oggi, si lascia impietosire dalla supplica del servitore e gli condona tutto il debito rivelando un amore non solo paziente ma sconfinato nella sua misericordia. L’errore da evitare dopo questo perdono è di non riconoscere che in quel perdono c’è il suo amore per noi e che questo amore cresce in noi, se lo condividiamo.

In secondo luogo,  prendendo coscienza che l’accoglienza del perdono di Dio si concretizza nel saper perdonare gli altri e che perdonando chi ci ha offeso, amiamo il prossimo come noi stessi e realizziamo non solo il suo ma anche il nostro bene, e la nostra felicità.

In terzo luogo, prendendo coscienza che il perdono non è solamente un atto che siamo chiamati a fare infinite volte, ma è un modo di essere che deve coinvolgere tutta la vita quotidiana per tutto l’arco della nostra esistenza. È una dimensione “religiosa”, nel senso pieno del termine perché esprime la nostra comunione con Dio, il cui amore trasforma: “Perdonare non é ignorare ma trasformare: cioè Dio deve entrare in questo mondo e opporre all’oceano dell’ingiustizia un oceano più grande del bene e dell’amore”. (Benedetto XVI, 24 luglio 2005)

Un esempio alto e umano di questo perdono ci viene dalla Madonna, che spesso è invocata come Madre di misericordia. Ai piedi del Figlio suo crocifisso, Maria ci perdonò accettando come figli gli uomini, per quali Cristo era stato messo in Croce e per i quali moriva. Con questo sì (fiat) divenne per sempre, senza limiti, nostra Madre, Madre del perdono, come pochi decenni prima si mise pienamente a disposizione di Dio e divenne la madre di Gesù, il Volto umano della divina Misericordia. Maria è diventata così e rimane per sempre la “Madre della Misericordia”, modello ed esempio di perdono.




    2) Perdono e gratuità

La parabola di oggi ci da anche un altro insegnamento circa il perdono, che non deve essere “solamente” per sempre ma gratuito e che non si deve separare il rapporto con Dio da quello con il prossimo. In effetti, il servo della parabole è condannato perché tiene il perdono per sé, e non permette che il perdono ricevuto diventi gioia e perdono anche per gli altri. L'errore di questo servo è quello di separare il rapporto con Dio dal rapporto col prossimo. E invece è un rapporto unico: come fra Dio e l’uomo c’è un rapporto di gratuità, di amore accogliente, così deve essere fra l'uomo e i suoi fratelli.

Penso che la parabola voglia sottolineare che l'amore di Dio non è anzitutto circolare, reciproco, ma espansivo, oblativo. È nella linea della gratuità, non della stretta reciprocità. Dio non si lascia rinchiudere nella stretta reciprocità. E, dunque, chi crede in Dio e parla di Dio, deve allargare lo spazio del perdono, che realizza la giustizia vera.

L’importante è capire e vivere il fatto che “la giustizia di Dio è il suo perdono”(Misericordiae Vultus, 20). Scrive papa Francesco: “La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità di ravvedersi, convertirsi e credere” (Id. 21). Dobbiamo essere Chiesa in uscita guardando gli altri con gli occhi di Gesù: occhi di amore e non di esclusione, certi che Dio è tutto e solo Amore, e proprio essendo Amore è apertura, accoglienza, dialogo, che nella sua relazione con noi, uomini peccatori, è si fa compassione, grazia, perdono: misericordia,.

Le Vergini consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale siamo tutti salvati.

L’esistenza di queste donne tiene viva l’esperienza del perdono di Dio, perché vivono nella consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato.

Dunque, la vita consacrata rimane una scuola privilegiata della «compunzione del cuore», del riconoscimento umile della propria miseria, ma è anche una scuola della fiducia nella misericordia di Dio, nel suo amore che mai abbandona. In effetti, più si è vicini a Dio, più si è uniti agli altri.

Con il dono totale di se stesse, le vergini consacrate sperimentano la grazia, la misericordia e il perdono di Dio non solo per sé, ma anche per i fratelli, perché la loro vocazione è di portare nel cuore e nella preghiera le angosce e le attese degli uomini, specie di quelli che sono lontani da Dio.

La verginità è frutto di una prolungata amicizia con Gesù maturata nell’ascolto costante della sua Parola, nel dialogo della preghiera, nell’incontro eucaristico. Per questo la vergine consacrata è testimone credibile della fede, deve essere una persona che vive per Cristo, con Cristo e in Cristo, trasformando la propria vita secondo le esigenze più alte della gratuità.

La gratuità è uno dei fulcri del vangelo. Tutto è Grazia. “Nessuno” può pretendere niente, tutto fluisce, perché tutto viene donato. Come direbbe Paolo, “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). La gratuità non è fare le cose senza motivo, ma farle con il massimo dei motivi, che è la fede che si rende operosa mediante la carità (cfr Gal 5,6).





Lettura patristica

San Giovanni Crisostomo (344/354  - 407)

In Matth. 61, 5



Questa parabola cerca di ottenere due cose: che noi riconosciamo e condanniamo i nostri peccati, e che perdoniamo quelli degli altri. E il condannare è in funzione del perdonare, affinché cioè il perdonare diventi più facile. Colui infatti che riconosce i propri peccati, sarà più disposto a perdonare al proprio fratello. E non solo a perdonare con la bocca, ma di cuore. Altrimenti noi rivolgeremo la spada contro noi stessi. Che male può farti il tuo nemico che possa essere paragonato a quello che tu fai a te stesso, accendendo la tua ira e attirando contro di te la sentenza di condanna da parte di Dio? Se infatti tu sei vigilante e vivi filosoficamente, tutto il male ricadrà sulla testa di chi ti offende e sarà lui a pagare il malfatto; ma se ti ostini nella tua indignazione e nel risentimento, allora sarai tu stesso a riportare il danno: non quello che ti procurerà l’offesa del nemico, ma quello che ti deriverà dal tuo rancore. Non dire che t’insultò e che ti calunniò e ti fece mille mali, quanti più oltraggi tu enumeri, tanto più dimostri che egli è tuo benefattore. Egli infatti ti ha dato modo di espiare i tuoi peccati. Quanto più infatti egli ti ha offeso tanto più è diventato per te causa di perdono. Infatti se noi vogliamo, nessuno potrà danneggiarci; anzi i nostri stessi nemici saranno per noi causa di bene immenso. Ma perché parlo soltanto degli uomini? C’è qualcosa di più perverso del demonio? Eppure anche lui può essere per noi occasione di grande gloria, come lo dimostra Giobbe. Se dunque il diavolo può essere per te occasione di ricompensa, perché temi un uomo, tuo nemico? Considera infatti quanto tu guadagni sopportando con mansuetudine gli attacchi dei tuoi nemici. Il primo e più grande vantaggio è il perdono dei tuoi peccati. In secondo luogo tu acquisti costanza e pazienza e inoltre mitezza e misericordia: infatti chi non sa adirarsi contro coloro che l’offendono, tanto più sarà mite verso gli amici. Infine, sradicheremo per sempre da noi l’ira: e non vi è bene pari a questo. Chi infatti è libero dall’ira, evidentemente sarà libero dalla tristezza di cui l’ira è fonte e non consumerà la sua vita in vani affanni e dolori. Chi non s’adira né odia, non sa neppure essere triste, ma godrà di gioia e di beni infiniti. Odiando infatti gli altri, noi puniamo noi stessi; e, al contrario, benefichiamo noi stessi, amando. Oltre a tutto questo, tu sarai rispettato persino dai tuoi nemici, anche se essi sono demoni; anzi, con questo tuo atteggiamento non avrai più neppure un nemico. Infine, ciò che vale più di tutto ed è prima di tutto: tu ti guadagnerai la benevolenza di Dio; se hai peccato, otterrai il perdono; e se hai praticato il bene, aggiungerai nuovi motivi di fiducia e di speranza.
       Sforziamoci dunque di non odiare nessuno, affinché Dio ci ami. Anche se noi siamo debitori di mille talenti, egli avrà misericordia di noi e ci perdonerà. Ma tu dici che sei stato offeso dal tuo nemico . Ebbene, abbi compassione di lui e non odiarlo; compiangilo vivamente, non disprezzarlo. Infatti, non sei stato tu ad offendere Dio, ma lui; tu, invece, hai acquistato gloria se hai sopportato con pazienza il suo odio. Ricorda che Cristo, quando stava per essere crocifisso, si rallegrò per sè e pianse per i suoi crocifissori. Tale deve essere la nostra disposizione d’animo; e quanto più noi siamo offesi, tanto più dobbiamo piangere per coloro che ci offendono. A noi provengono molti beni da questo fatto mentre a loro accade tutto il contrario. Costui - tu replichi - mi ha oltraggiato e schiaffeggiato dinanzi a tutti. E io ti dico che egli si è disonorato davanti a tutti ed ha aperto la bocca di mille accusatori; per te invece ha intrecciato più grandi e splendide corone e ha aumentato il numero degli araldi della tua pazienza. Ma egli mi ha insultato davanti agli altri - tu obietti ancora. E che è questo, quando Dio solo sarà il tuo giudice e non coloro che hanno inteso quelle calunnie? Per sé, infatti, ha aggiunto nuovo motivo di castigo, cosicché egli dovrà render conto non solo dei propri atti, ma anche delle parole che pronunciò contro di te. Se ti ha accusato presso gli uomini, egli però si è screditato davanti a Dio. Se poi queste considerazioni non ti bastano, pensa che anche il tuo Dio è stato calunniato non solo da Satana, ma anche dagli uomini e da quelli che amava sopra tutti.