venerdì 30 agosto 2013

Pedagogia dell’umiltà.

Rito romano
XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 1° settembre 2013.
Sir 3, 19-21.30-31; Sal 67; Eb 12, 18-19.22-24; Lc 14, 1. 7-14
Assomigliare a Cristo

Rito ambrosiano
I Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 30,8-15b; Sal 50; Rm 5,1-11; Mt 4,12-17
Il pentimento come primo passo verso la somiglianza a Cristo

1) Norma religiosa e non di galateo.

 La liturgia del rito romano ci propone nella prima lettura presa dal libro del Siracide una raccomandazione paterna: assumere un atteggiamento di attenzione e di docilità, un atteggiamento da discepoli, di fronte a colui che ci parla come un padre. Non solo riconoscerà in lui l'uomo ricco di esperienza, ma avrà fiducia nei suoi consigli dettati da paterna sollecitudine. La mitezza porta all'essere amato (v. 17), l’umiltà apre l'uomo ai doni di Dio (v. 18), lo colloca di fronte a Dio, di fronte alla grandezza della Sua potenza (v. 20) perché lo destina al posto che gli compete e ne fa un testimone di Dio e della Sua grazia. 


Passando al Vangelo di Luca, osserviamo innanzitutto che è un fatto capitato a Gesù. Arrivato a casa di un capo dei farisei che l’aveva invitato, il Messia osserva che gli ospiti fanno ressa per assicurarsi i primi posti. Sono persone convinte di avere diritto al posto d'onore. Allora il Redentore racconta una parabola, con la quale non intende ricordare una semplice regola di galateo, ma vuole offrire una regola religiosa sul come comportarsi con Dio e, di conseguenza, con gli uomini.
Per dare questo suo insegnamento religioso, il Redentore afferma: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: ‘Cedigli il posto!’. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: ‘Amico, vieni più avanti!’. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato(Lc 14,7-14).
Ci sono due brani nel Nuovo Testamento che possono illuminare questa parabola: 

Il primo è la lettera di San Paolo ai Filippesi 2,3-11 in cui la frase centrale è l'invito ad “avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù... il quale... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce... Per questo Dio lo esaltò...”. 
La verità della parola di Gesù sull’umiltà appare nel fatto che egli stesso ha vissuto questa parola nella sua stessa persona a convalida della sua missione e della sua predicazione: abbandonare il primo posto per prendere l'ultimo è appunto il senso della sua incarnazione. 

Il secondo brano è il Magnificat (Lc. 1,46-55 ): “Dio ha guardato1 l’umiltà della sua serva...”; questi ultimi due termini (umiltà e serva) indicano chiaramente che la straordinaria e unica missione affidata da Dio a Maria ha avuto l'origine nella sua stessa umiltà vissuta con semplicità e gioia, aperta e disponibile alla volontà di Dio. 


2) A scuola dell’umiltà.
Andiamo a scuola da Maria, per imparare da questa Madre umile a seguire suo Figlio, per identificarci con lo stesso Signore Gesù (che, dalla sua condizione di Figlio di Dio, si è abbassato e umiliato fino ad assumere la nostra condizione umana cfr Fil 2, 3-11), per potere con Lui e in Lui giungere alla gloria della resurrezione. 

Nella Madonna, ma ciò va detto di ogni cristiano, l'umiltà non riguarda la stima di se stessi, ma il rapporto con Dio, che guarda in giù, verso la serva prediletta, il cui amore è umile perché si mette a servizio dell’Amore e accetta di appartenere all’Amore, dandoGli carne.
Dunque l’umiltà2 insegnata e pratica dalla Madre Dio è il punto focale dove Dio fissa il Suo sguardo, dove Egli può stabilire un rapporto profondo e chiamare l’umile con il nome di “amico”. E l’amico non è il conoscente, il complice, è l’umile fedele alla Parola del Padre. Dunque, seguiamo Maria, per identificarci in lei che, come umile serva, ha accettato di diventare dimora della Sua Parola, di custodirla nel suo cuore e nel suo corpo, e di offrirla a tutta l'umanità. 

Se la Madonna non fosse stata umile, “piccola”, non avrebbe potuto accogliere la “grandezza” di Dio. Quel piccolo che portò nel grembo è la cosa grande che noi, oggi e sempre possiamo e dobbiamo accogliere come bene più grande da condividere gratuitamente.
Dunque accostiamoci ogni giorno (o almeno il più frequentemente possibile) all’Eucaristia, con un cuore puro e umile, quindi completamente libero e disponibile ad accogliere in noi il Dio vivente, a concepirLo e a darGli la vita tramite la nostra fragile carne redenta da Lui. Cristo è l’avvenimento dove l’alleanza voluta da Dio con ciascuno di noi si compie. Dio con l’uomo. Dio nell’uomo e mediante l’uomo diventa un “personaggio” concreto della storia umana e la redime.

3) Gratuità senza frontiere.
Dopo la parola ai convitati, Gesù dice anche una parola al padrone di casa: “Quando vai a un pranzo, non invitare gli amici o i ricchi vicini, ma i poveri”.
Perché invitare sempre soltanto parenti ed amici? Siamo sempre all'interno di un amore interessato, all'interno di una concezione chiusa della vita: ci si invita fra amici, fra persone alla pari, oggi io invito te e domani tu inviti me. E i poveri restano sempre fuori, sempre esclusi.
Il Vangelo vuole, invece, una fraternità con due caratteristiche ben precise: la gratuità e l'universalità.
Devi dare anche a coloro dai quali non puoi sperare nulla in cambio. Gesù sta pensando alla sua futura comunità: la sogna come un luogo di ospitalità per tutti gli esclusi. Non si tratta certo di un insegnamento nuovo. Gesù l'ha già rivolto a tutti nel discorso della montagna (Lc 6.32-34): se amate soltanto coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Anche i peccatori amano coloro che li amano. 
C'è la beatitudine per chi è povero (“beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio”) e c'è anche la beatitudine per chi trasforma i propri beni in occasione di ospitalità, ma deve trattarsi di un'ospitalità anche verso gli esclusi (“sarai beato perché non hanno da ricambiarti”).
Ma questa ospitalità è possibile solamente se accogliamo l’altro, come la Madonna ha verginalmente accolto l’Altro con una fede e un amore così grandi, che i suoi occhi ed il suo cuore si sono aperti alla Carità di Dio e “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi” (Gv 1, 14).
La vita cristiana, quindi, non è in primo luogo meditare e praticare le virtù, ma ospitare e vivere della presenza di Cristo, che ci ama di amore infinito. Se viviamo la realtà di questo mistero di carità, viviamo già in Paradiso. Le persone consacrate vivono già in Paradiso. Infatti, la vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come una anticipazione della vita del cielo.
Si dice che le suore di vita contemplativa vivono in clausura. Non è vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina.
Anche per le appartenenti all’Ordo Virginum il loro luogo è l’immensità di Dio. Non sono chiuse in casa o nei luoghi di lavoro. Sono chiusi quelli che sono nomadi, vagabondi nel mondo e non vivono altro che la loro piccola vita nel piccolo mondo, granello minuscolo dell’Universo. La loro anima respira l’Infinito. Vivono in Dio e Dio è l’immenso, vivono nel Cristo e Cristo è l’Amore infinito fatto carne. “Dio è il Dio del cuore umano” (San Francesco di Sales3, Filotea o Trattato dell’Amore di Dio, I, XV)

1 Il verbo greco utilizzato dal Vangelo di Luca andrebbe tradotto letteralmente: “ha guardato in giù”, verso la bassezza dell’umile sua schiava, perché doùlos in greco vuol dire schiavo.

2 Da humus parola latina che vuol dire terra. Essere umili è riconoscere che noi siamo polvere di terra amata da Dio.

3 “Dio è il Dio del cuore umano” (Trattato dell’Amore di Dio, I, XV): in queste parole apparentemente semplici cogliamo l’impronta della spiritualità di un grande maestro quale fu ed è san Francesco di Sales, Vescovo e Dottore della Chiesa. Nato nel 1567 e morto nel 1622, in una regione francese di frontiera, visse a cavallo tra due secoli, il Cinquecento e il Seicento, raccolse in sé il meglio degli insegnamenti e delle conquiste culturali del secolo che finiva, riconciliando l’eredità dell’umanesimo con la spinta verso l’assoluto propria delle correnti mistiche. Fra i vari suoi scritti segnalo anche uno dei libri più letti nell’età moderna, l’Introduzione alla vita devota.


Lettura Spirituale
FILOTEA - Introduzione alla vita devota
di San Francesco di Sales
Vescovo e Dottore della Chiesa
Capitolo V
L’UMILTA’ INTERIORE
“Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.
Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.
Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.
Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.
L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.
Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.
Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.
Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando sua moglie Micol glielo rimproverò come una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.
Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.”

venerdì 23 agosto 2013

Lottare per entrare nel cuore del Padre.


Rito romano
XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 25 agosto 2013.
Is 66, 18-21; Sal 116; Eb 12, 5-7.11-13; Lc 13, 22-30
Cristo Porta, Via, Verità e Vita

Rito ambrosiano
Domenica che precede il martirio di San Giovanni il Precursore
2Mac 6,1-2.18-28; Sal 140; 2Cor 4,17-5,10; Mt 18,1-10 
I bambini capiscono ed accolgono la Verità

            1) La vera questione non è chi si salva, ma come ci si salva.
            Nel brano evangelico di oggi ci viene descritto Gesù in cammino verso Gerusalemme, dove va morire e lungo la strada insegna a chi lo segue la via per entrare nella casa del Padre. Per sottolineare che la salvezza non è un problema di numero, perché essa è opera di Dio che vuole che tutti si siano salvati[1] e giungano alla conoscenza della verità, alla domanda: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13, 23), il Messia risponde con un imperativo: “Sforzatevi!” (meglio: “Lottate”[2]).
            La lotta di cui parla Gesù, alla luce della buona notizia (il Vangelo), è la lotta contro l'autosufficienza, contro la ricchezza del cuore che è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita.
            Gesù invita ad accogliere la potenza salvatrice di Dio, impegnandosi con tutte le forze nel buon combattimento della fede, passando attraverso di Lui, che è la Porta, per cui si riesce a entrare nel cuore del Padre.
            Ad entrare per questa porta sono i poveri in spirito, sono quelli che hanno piena e dolorosa coscienza della loro povertà spirituale, della imperfezione della loro anima, della scarsità di bene che c’è in noi. Solamente i poveri, che conoscono di essere davvero poveri, soffrono di questa indigenza e si sforzano e lottano per uscirne, mendicando la misericordia.
            Ce ne sono testimoni ed esempio gli Apostoli, ai quali molto è stato perdonato, perché, eccetto in qualche momento, ebbero fede in Lui; perché si sforzarono di amarlo come voleva esse amato e perché, dopo avere abbandonato l’Amore nell’Orto del Getsemani, non Lo dimenticarono più e lasciarono per l’eternità la memoria delle sue parole e della sua vita.
            Ora siamo nel tempo favorevole in cui è aperta la porta della Salvezza. E’ infatti il tempo in cui il Padre ci invita alla conversione, mediante la predicazione apostolica. La sapienza consiste nell’accogliere prontamente questo invito, che implica
-       una lotta per la perseveranza: “Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato” (Eb 12, 4),
-       uno sforzo di fedeltà nella vita di ogni giorno: “Bene servo buono e fedele. Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21),
-       una devota accoglienza della Parola: “A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome i quali non da sangue, né da volere id carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1, 12-13).

            2) L’ascesi di comunione[3]
            La lotta a cui Cristo ci invita può essere chiamata anche ascesi [4], per cui si parla anche di palestra ascetica. Tuttavia va tenuto presente che l’ascesi non una ginnastica e neppure una lotta che calpesta non gli altri ma se stessi. Secondo me è prima di tutto una modalità di “lotta” (e molti sono i metodi ascetici), il cui scopo principale è la comunione con Dio. E’ soprattutto un cammino, un pellegrinaggio che è detto ascetico perché implica un esercizio, una tensione costante, stupita e energica verso l’alto, impegnando la propria vita nel desiderio della santità attraverso una «regola» di ascesi personale, di comunione vissuta e di carità. Per esempio, Giovanni Climaco (vissuto tra il 6° ed il 7° secolo) nel suo libro La scala del Paradiso sostiene che il cristiano in questo mondo è uno straniero di passaggio, che tende alla città di Dio, avanzando nel deserto pieno di pericoli e privo di consolazioni, come gli Ebrei pellegrini nel deserto per giungere al Monte Sinai dove Dio dà la Legge per l’alleanza di comunione.
            “E l’ascesi è proprio questo: che diventi in noi familiare, nonostante tutto, la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione della vita: a Cristo, Presenza che salva. A noi tocca camminare senza smettere di domandare”[5] e di tenere vivo lo stupore di essere amati.
            La persona umana è in viaggio[6] perché è fuori di casa sua (come il figlio prodigo) e la sua casa è in qualche modo impossibile da essere raggiunta con le sole sue forze. Egli può essere risanato dalla grazia e l’ascesi è solamente una conseguenza di questa grazia che il Padre dona, con il suo perdono.
            Certo va tenuto presente che lo sforzo spirituale, la vita ascetica sono facilitate e autenticate da una sequela ad una persona autorevole e ad una immanenza nella comunità della Chiesa.


            Si pensi, per esempio, alla Vergine consacrate che vivono sulla forma di vita di Cristo e sono chiamate ad essere l’esegesi vivente della Parola di Dio, alla quale sono invitate ad accostarsi in modo costante. Alimentate dalla Parola, che è da loro ascoltata, accolta, contemplata, celebrata quotidianamente, vissuta come imperativo di vita, celebrano la Trinità, sono segno di fraternità e servono la carità. Giovanni Paolo II cita Paolo per affermare che “compito della vita consacrata è di lavorare in ogni parte della terra per consolidare e dilatare il regno di Cristo, portando l’annuncio del Vangelo dappertutto” (Vita Consacrata, 78; cf. Lumen gentium, 44).
            Il Cristianesimo non sono regole da eseguire, ma un Amore da seguire umilmente, come ci ricorda il Vangelo ambrosiano di oggi: “In verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” ( Mt 18,3). E che altro significa divenire bambini se non divenire umili? Si chiedeva San Bernardo di Chiaravalle.
            Ma per vivere l’amore e salvarsi occorre lo sforzo di imboccarne la via con umiltà e come insegnava il Card. John H. Newman avere il “culto degli affetti domestici” cioè l’amore dei parenti e degli amici è “la fonte di un amore cristiano più esteso”. Gli affetti domestici vissuti in una comunità concreta con altri sono una scuola che richiede atti di donazione e di abnegazione (quindi di ascesi) rendendo l’amore forte e perseverante.

[1] Cfr, per es., Gv 3,16-21, 6, 26-70; Mt 19, 14-29; Rm 10, 5-21; Ef  2. 1-10; Tim 2, 1-8.
[2] Alla lettera Gesù dice “lottate per entrare per la porta stretta”, infatti nel testo greco c’è: “agonìzate” = lottate, da cui le parole “agone” e “agonia”. D’altronde Cristo sta andando a Gerusalemme per affrontare la sua passione, la sua agonia.
[3] “Ascesi di comunione” è un’espressione ed il titolo di un libro di Don Divo Barsotti.
[4] dal latino ascesis che deriva dal greco ἄσκησις derivazione di ἀσκέω cioè “esercitare”. La definizione che se ne dà è: “esercizio” o “pratica” spirituale e fisica, composta di preghiera, meditazione e varie attività anche fisiche per tendere alla perfezione interiore, per distacco dal mondo materiale per ascendere verso il Cielo. Il giudizio sulla realtà senza preconcetti alienanti, irragionevoli, richiede un «distacco da sé» (cfr. Lc 17,33), un lavoro faticoso che, nella tradizione religiosa, si chiama ascesi, e che può essere realizzato solo dalla persuasione dell’«amore a noi stessi come destino, come affezione al nostro destino, che è Dio.
[5] Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano. Contributo ad una antropologia, Milano 1995, p. 92.
[6] Ysabel de Andia, La Voie et le voyageur, Essai d’anthropologie de la vie spirituelle, Paris, Editions du Cerf, 2012, pages 1024. E’un saggio di antropologia che presenta l’uomo nel suo cammino verso Dio, dalla terra al cielo. “Straniero e viaggiatore sulla terra” (Eb 11, 13), l’uomo segue la via di Dio che si rivela in Cristo “Via, Verità e Vita” (Gv 14, 6).

Lettura Patristica
Dai «Discorsi sul Cantico dei Cantici»
di san Bernardo di Chiaravalle, abate
sull’amore come ascesi

L'amore é sufficiente per se stesso, piace per se stesso e in ragione di sé. E' se stesso merito e premio. L'amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi all'infuori di Sé. Il suo vantaggio sta nell'esistere. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa é l'amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere. L'amore é il solo tra tutti i moti dell'anima, tra i sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se non alla pari; l'unico con il quale possa contraccambiare il prossimo e, in questo caso, certo alla pari. Quando Dio ama, altro non desidera che essere amato. Non per altro ama, se non per essere amato, sapendo che coloro che l'ameranno si beeranno di questo stesso amore. L'amore dello Sposo, anzi lo Sposo-amore cerca soltanto il ricambio dell'amore e la fedeltà. Sia perciò lecito all'amata di riamare. Perché la sposa, e la sposa dell'Amore non dovrebbe amare? Perché non dovrebbe essere amato l'Amore? Giustamente, rinunziando a tutti gli altri suoi affetti, attende tutta e solo all'Amore, ella che nel ricambiare l'amore mira a uguagliarlo. Si obietterà, però, che, anche se la sposa si sarà tutta trasformata nell'Amore, non potrà mai raggiungere il livello della fonte perenne dell'amore. E' certo che non potranno mai essere equiparati l'amante e l'Amore, l'anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, il Creatore e la creatura. La sorgente, infatti, dà sempre molto più di quanto basti all'assetato. Ma che importa tutto questo? Cesserà forse e svanirà del tutto il desiderio della sposa che attende il momento delle nozze, cesserà la brama di chi sospira, l'ardore di chi ama, la fiducia di chi pregusta, perché non é capace di correre alla pari con un gigante, gareggiare in dolcezza col miele, in mitezza con l'agnello, in candore con il giglio, in splendore con il sole, in carità con colui che é l'Amore? No certo. Sebbene infatti la creatura ami meno, perché é inferiore, se tuttavia ama con tutta se stessa, non le resta nulla da aggiungere. Nulla manca dove c'é tutto. Perciò per lei amare così é aver celebrato le nozze, poiché non può amare così ed essere poco amata. Il matrimonio completo e perfetto sta nel consenso dei due, a meno che uno dubiti che l'anima sia amata dal Verbo, e prima e di più.



venerdì 16 agosto 2013

Guerra alla guerra.

Rito romano
XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 18 agosto 2013.
Ger 38,4-6.8-10; Sal 39; Eb 12,1-4; Lc 12,49-53

Rito ambrosiano
XIII Domenica di Pentecoste.
Ne 1,1-4;2,1-8; Sal 83; Rm 15,25-32; Mt 21,10-16

1) La spada trasformata in aratro.
Il Vangelo di questa domenica descrive Gesù che, mentre è in cammino verso Gerusalemme dove lo attende la morte di croce, dice ai suoi discepoli: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione (nella redazione di Matteo 10,34 si parla di ‘spada)”. E aggiunge: “D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12,51-53).
Ciò dicendo, Gesù non smentiva il suo insegnamento, che era ed è messaggio di pace per eccellenza. Lui è la nostra pace” (Ef 2,14), Lui è morto e risorto per abbattere il muro dell’inimicizia e inaugurare il Regno di Dio che è amore, gioia e pace.
In effetti, Gesù Cristo intendeva dire che era venuto a portare la guerra al Male che è offesa, al Maligno che uccide l’anima ed il corpo, al mondo che segue il Maligno e diventa un luogo di costante conflitto. Possiamo considerare le sue parole come una dichiarazione di guerra alla guerra. Guerra al Male: perché la guerra umana è un male in superficie, ma prima c’è il grande male, portato dal diavolo1, che impersona l’amore-del-nulla.
Secoli prima il profeta Isaia aveva proclamato; “Forgeranno le loro spade in aratri, le loro lance in falci” (Is 2,4) quanto Gesù compì divenendo “Arator Pacis2, Lui è il seminatore l’agricoltore che mette mano all’aratro, che “divide”, apre la terra la quale può così ricevere il seme. La terra siamo noi, se noi accogliamo la semente che viene dal suo costato trafitto produrremo non erba che presto diventa secca, ma diventeremo con lui e in lui frumento di vita.
L’esito del lavoro di questo “Arator Pacis” è la pace dell'amore, di un amore che non soltanto a noi si dona, ma in sé ci trasforma. E come Dio è veramente l'Amore che ci ama, così noi diventiamo l'amore che ama; trasformati da lui noi diventiamo amore, come Egli è l'Amore! E siamo nella sua pace.
Dunque quelli che vogliono seguirlo in questa “operazione-concordia”3 devono fare altrettanto colpendo la guerra nella sua origine che è l’amor proprio, cioè un amore disordinato di sé che diventa amore delle ricchezze, orgoglio per quello che si ha, invidia di chi ha di più, disprezzo dei poveri.
Se il Vangelo, in un primo tempo almeno, è causa di separazioni e discordie, la colpa non è della verità che il Vangelo insegna, ma del fatto che questa verità non è ancora amata e praticata in verità da noi cristiani.

2) Soldati per una guerra contro la guerra.
Per questa guerra alla guerra, Gesù usa una strategia strana per quanto riguarda la scelta dei soldati, i mezzi da usare e gli ordini (sarebbe più giusto dire indicazioni, parole d’amore) da eseguire.
Il Signore della pace per la sua guerra alla guerra ha voluto scegliere i soldati più deboli. Per un misterioso disegno scelse delle persone povere e considerate mediocri dall’opinione pubblica, perché risplendesse più alto il prodigio della sovrumana postuma vittoria.
A questi soldati meschini Cristo non concesse né borsa, né bisaccia, né sandali e tantomeno armi. Inoltre li mandò come agnelli in mezzo ai lupi, come esseri benefici in mezzo a bestie feroci, dando l’ordine di non farsi divorare e di rendere gli sbranatori di agnelli mansueti come le loro antiche prede.
Gli apostoli4 furono fedeli al sublime assurdo di Colui che li mandava. E, come Cristo portarono la pace e la guerra. In effetti, va tenuto presente che se il Vangelo, in un primo tempo, era ed è causa di separazioni e di discorsi, la colpa non è delle verità che il Vangelo insegna, ma del fatto che queste verità non erano e non sono ancora praticate da tutti.
Quello che qui desidero sottolineare è che l’adempimento cristiano della pace non si realizza sul piano sociale e politico, ma nella direzione della profondità del cuore.
Come allora si adempie nel cristianesimo la battaglia per la pace? Come il male ha invaso il mondo per il peccato degli uomini e per la sua separazione da Dio, così la redenzione cristiana prima di tutto riconcilia l’uomo con Dio. Questa riconciliazione non può realizzarsi che nel più intimo centro dell’anima, là dove soltanto l’uomo può di nuovo incontrarsi con Dio in Cristo. La pace, frutto di questa riconciliazione con Cristo, non può essere che una pace interiore, che poi si irradia all’esterno verso il mondo intero.
Se vogliamo essere soldati di pace,è necessario e urgente tornare alla piena e pungente consapevolezza della centralità di Cristo. Gesù non è una scusa per parlare di altro e deve ritornare al centro di ogni nostro primario interesse e di ogni esperienza ecclesiale. Deve essere altresì l’ispiratore determinante ed efficace di ogni nostro impegno religioso, ecclesiale, culturale e sociale.
L’appartenenza a Cristo risorto, “centro del cosmo e della storia”, come scrisse Giovanni Paolo II nella sua prima indimenticabile enciclica Redemptor hominis, definisce tutto l’intendimento della nostra sequela di cristiani. Così ogni gesto in noi nasce come risposta all’avvenimento di Gesù di Nazareth e come desiderio di partecipare allo scopo per cui Egli è entrato nel tempo e nello spazio del mondo. 
Se a una persona qualsiasi, al tempo dei Vangeli, fosse stato chiesto: «Hai sentito parlare di Gesù?» e questi, poi, incontrandoLo per le strade polverose della Palestina, gli avesse rivolto questa domanda: «Ma tu che nome hai, come ti chiami?», Gesù avrebbe potuto rispondere: «Io sono il mandato (missus, in latino – apostolos, in greco) dal Padre». Queste parole definiscono la natura nuova della nostra esistenza che l’incontro con Cristo ha generato.
Siamo stati chiamati a essere come Lui “i mandati, gli inviati dal Padre”.
In questo mandato “apostolico” c’è la particolare forma di vita delle vergini consacrate che rispondono alla vocazione alla verginità perché Cristo è il centro affettivo (ed anche razionale) della loro vita e per ricordare a tutto il mondo che si vive per Cristo. Vivere nella consacrazione vuol dire vivere in pace la vita, perché la notte non è più notte, la morte non è più morte, e la verginità è sacrificio per essere nell’abbraccio del Signore, a cui ci si abbandona totalmente. Vivere la consacrazione verginale vuol dire essere come Gesù “segno di contraddizione” (Lc 2, 34) ed essere come la Madonna madri di Cristo, madri dell’uomo nuovo.
Esse testimoniano che siamo stati creati per amare e che la nostra reale ed e vera felicità sta nell’essere “posseduti” da Cristo, nel quale il cuore umano può riposare ed essere appagato. Come affermava il Card. John H. Newman5: “La fede può rendere sereni, ma l’amore ci rende felici”. 
1 Il termine “diavolo” deriva dal latino diabŏlus, traduzione fin dalla prima versione della Vulgata (traduzione in latino della Bibbia, fatta nel V secolo d.C.) del termine greco Διάβολος, diábolos, (“dividere”, “colui che divide”, “calunniatore”, “accusatore”; dal greco διαβάλλω, dia-bàllo, verbo formato da dia “attraverso, per” e bàllo “getto, metto”, quindi getto, caccio attraverso, trafiggo, metaforicamente calunnio).
 Nel greco classico διάβολος era un aggettivo denotante qualcosa o qualcuno quale calunniatore e diffamatore; fu usato nel III secolo a. C. per tradurre, nella traduzione greca della Bibbia detta dei “Settanta”, l'ebraico Śāṭān (“avversario”, “nemico”, “colui che si oppone”, “accusatore in giudizio”, “contraddittore”, reso negli scritti cristiani come Satana e qui inteso come “avversario, nemico di Dio”).
2 Arator in latino è letteralmente ‘colui che ara’, tradotto spesso con seminatore.
3 E’ un uso militare il dare un nome alle campagne di guerra e alle operazioni militari.
4 Dal greco απόστολος, apóstolo: mandato, inviato.
5 Il Beato Card. John Henry Newman (1801-1890), convertito dall’anglicanesimo, quando fu fatto cardinale scelse come motto “Cor ad cor loquitur” (= Il cuore parla al cuore). Egli fu un grande teologo e fondatore degli Oratori di San Filippo Neri, in Inghilterra.
Il motto ricalca le parole che il Cardinale Newman scelse per il suo stemma quando divenne Cardinale nel 1879 e sono di san Francesco di Sales, del quale era molto devoto. Questo motto permette di penetrare nella sua comprensione della vita cristiana come chiamata alla santità, sperimentata come l’intenso desiderio del cuore umano di entrare in intima comunione con il Cuore di Dio.

Lettura patristica
Sant'Ambrogio (circa 340-397),
Vescovo di Milano e dottore della Chiesa 

Trattato su San Luca, 12. 49 -53 - SC 52

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso”. Il Signore vuole che siamo vigilanti, attenti in ogni momento alla venuta del Salvatore...Ma poiché il guadagno è misero, e debole il merito quando soltanto il timore del supplizio impedisce di perdersi, mentre l'amore ha un valore superiore, il Signore stesso...infiamma il nostro desiderio di acquistare Dio quando dice : « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra ».
Non certo il fuoco che distrugge, bensì quello che produce la volontà buona, quello che rende migliori i vasi d'oro della casa del Signore, consumando il fieno e la paglia (1 Cor 3, 12), divorando tutta la vanità del mondo, accumulata dalla passione del piacere terreno, opera della carne che deve perire.
Questo fuoco divino bruciava le ossa dei profeti, come dichiara Geremia : « C'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa ». (Ger 20, 9). Infatti c'é un fuoco del Signore, di cui si dice : « Davanti a lui cammina il fuoco » (Sal 96, 3). Il Signore stesso è un fuoco « che arde senza consumarsi » (Es 3, 2). Il fuoco del Signore è luce eterna ; le lucerne dei credenti si accendono a questo fuoco : « Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese » (Lc 12, 35). Una lucerna è necessaria perché i giorni di questa vita sono ancora notte.
Il Signore stesso, secondo la testimonianza dei discepoli di Èmmaus, aveva messo questo fuoco nel loro cuore : « Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture ? » (Lc 24, 32) Ci mostrano con evidenza qual'è l'azione di questo fuoco, che rischiara il profondo del cuore dell'uomo. Perciò il Signore verrà con il fuoco (Is 66, 15) per consumare i vizi nel momento della risurrezione, per colmare con la sua presenza i desideri di ciascuno, e proiettare la sua luce sui meriti e i misteri.”