Rito romano
XX Domenica del
Tempo Ordinario – Anno C – 18 agosto 2013.
Ger
38,4-6.8-10; Sal 39; Eb 12,1-4; Lc 12,49-53
Rito
ambrosiano
XIII
Domenica di Pentecoste.
Ne
1,1-4;2,1-8; Sal 83; Rm 15,25-32; Mt 21,10-16
1)
La spada trasformata in aratro.
Il
Vangelo di questa domenica descrive Gesù che, mentre è in cammino
verso Gerusalemme dove lo attende la morte di croce, dice ai suoi
discepoli: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla
terra? No, vi dico, ma la divisione (nella
redazione di Matteo 10,34 si parla di ‘spada’)”.
E aggiunge: “D’ora innanzi in una casa di cinque persone si
divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e
figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre,
suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc
12,51-53).
Ciò
dicendo, Gesù non smentiva il suo insegnamento, che era ed è
messaggio di pace per eccellenza. Lui “è la nostra
pace” (Ef 2,14), Lui è morto e risorto per abbattere il muro
dell’inimicizia e inaugurare il Regno di Dio che è amore, gioia e
pace.
In
effetti, Gesù Cristo intendeva dire che era venuto a portare la
guerra al Male che è offesa, al Maligno che uccide l’anima ed il
corpo, al mondo che segue il Maligno e diventa un luogo di costante
conflitto. Possiamo considerare le sue parole come una dichiarazione
di guerra alla guerra.
Guerra al Male: perché la guerra umana è un male in
superficie, ma prima c’è il grande male, portato dal diavolo1,
che impersona l’amore-del-nulla.
Secoli
prima il profeta Isaia aveva proclamato; “Forgeranno le loro
spade in aratri, le loro lance in falci” (Is 2,4) quanto Gesù
compì divenendo “Arator Pacis”2,
Lui è il seminatore l’agricoltore che mette mano all’aratro, che
“divide”, apre la terra la quale può così ricevere il seme. La
terra siamo noi, se noi accogliamo la semente che viene dal suo
costato trafitto produrremo non erba che presto diventa secca, ma
diventeremo con lui e in lui frumento di vita.
L’esito
del lavoro di questo “Arator Pacis” è la pace dell'amore,
di un amore che non soltanto a noi si dona, ma in sé ci trasforma. E
come Dio è veramente l'Amore che ci ama, così noi diventiamo
l'amore che ama; trasformati da lui noi diventiamo amore, come Egli è
l'Amore! E siamo nella sua pace.
Dunque
quelli che vogliono seguirlo in questa “operazione-concordia”3
devono fare altrettanto colpendo la guerra nella sua origine che è
l’amor proprio, cioè un amore disordinato di sé che diventa amore
delle ricchezze, orgoglio per quello che si ha, invidia di chi ha di
più, disprezzo dei poveri.
Se
il Vangelo, in un primo tempo almeno, è causa di separazioni
e discordie, la colpa non è della verità che il Vangelo insegna, ma
del fatto che questa verità non è ancora amata e praticata in
verità da noi cristiani.
2)
Soldati per una guerra contro la guerra.
Per
questa guerra alla guerra, Gesù usa una strategia strana per quanto
riguarda la scelta dei soldati, i mezzi da usare e gli ordini
(sarebbe più giusto dire indicazioni, parole d’amore) da
eseguire.
Il
Signore della pace per la sua guerra alla guerra ha
voluto scegliere i soldati più deboli. Per un misterioso disegno
scelse delle persone povere e considerate mediocri dall’opinione
pubblica, perché risplendesse più alto il prodigio della
sovrumana postuma vittoria.
A
questi soldati meschini Cristo non concesse né borsa, né bisaccia,
né sandali e tantomeno armi. Inoltre li mandò come agnelli in mezzo
ai lupi, come esseri benefici in mezzo a bestie feroci, dando
l’ordine di non farsi divorare e di rendere gli sbranatori di
agnelli mansueti come le loro antiche prede.
Gli
apostoli4
furono fedeli al sublime assurdo di Colui che li mandava. E, come
Cristo portarono la pace e la guerra. In effetti, va tenuto presente
che se il Vangelo, in un primo tempo, era ed è causa di separazioni
e di discorsi, la colpa non è delle verità che il Vangelo insegna,
ma del fatto che queste verità non erano e non sono ancora praticate
da tutti.
Quello
che qui desidero sottolineare è che l’adempimento cristiano della
pace non si realizza sul piano sociale e politico, ma nella direzione
della profondità del cuore.
Come
allora si adempie nel cristianesimo la battaglia per la pace? Come il
male ha invaso il mondo per il peccato degli uomini e per la sua
separazione da Dio, così la redenzione cristiana prima di tutto
riconcilia l’uomo con Dio. Questa riconciliazione non può
realizzarsi che nel più intimo centro dell’anima, là dove
soltanto l’uomo può di nuovo incontrarsi con Dio in Cristo. La
pace, frutto di questa riconciliazione con Cristo, non può essere
che una pace interiore, che poi si irradia all’esterno verso il
mondo intero.
Se
vogliamo essere soldati di pace,è necessario e urgente tornare alla
piena e pungente consapevolezza della centralità di Cristo. Gesù
non è una scusa per parlare di altro e deve ritornare al centro di
ogni nostro primario interesse e di ogni esperienza ecclesiale. Deve
essere altresì l’ispiratore determinante ed efficace di ogni
nostro impegno religioso, ecclesiale, culturale e sociale.
L’appartenenza
a Cristo risorto, “centro del cosmo e della storia”, come scrisse
Giovanni Paolo II nella sua prima indimenticabile enciclica Redemptor
hominis, definisce tutto l’intendimento della nostra sequela di
cristiani. Così ogni gesto in noi nasce come risposta
all’avvenimento di Gesù di Nazareth e come desiderio di
partecipare allo scopo per cui Egli è entrato nel tempo e nello
spazio del mondo.
Se a una persona qualsiasi, al tempo dei
Vangeli, fosse stato chiesto: «Hai sentito parlare di Gesù?» e
questi, poi, incontrandoLo per le strade polverose della Palestina,
gli avesse rivolto questa domanda: «Ma tu che nome hai, come ti
chiami?», Gesù avrebbe potuto rispondere: «Io sono il mandato
(missus, in latino – apostolos, in greco) dal Padre».
Queste parole definiscono la natura nuova della nostra esistenza che
l’incontro con Cristo ha generato.
Siamo stati chiamati a essere
come Lui “i mandati, gli inviati dal Padre”.
In
questo mandato “apostolico” c’è la particolare forma di vita
delle vergini consacrate che rispondono alla vocazione alla verginità
perché Cristo è il centro affettivo (ed anche razionale) della loro
vita e per ricordare a tutto il mondo che si
vive per Cristo. Vivere nella consacrazione vuol dire vivere
in pace la vita, perché la notte non è più notte, la morte non è
più morte, e la verginità è sacrificio per essere nell’abbraccio
del Signore, a cui ci si abbandona totalmente. Vivere la
consacrazione verginale vuol dire essere come
Gesù “segno di contraddizione”
(Lc
2, 34) ed essere come la Madonna madri di Cristo, madri
dell’uomo nuovo.
Esse testimoniano
che siamo stati creati per amare e che la nostra reale ed e vera
felicità sta nell’essere “posseduti” da Cristo, nel quale il
cuore umano può riposare ed essere appagato. Come affermava il Card.
John H. Newman5:
“La fede può rendere sereni, ma l’amore ci rende felici”.
1
Il termine “diavolo” deriva dal latino diabŏlus,
traduzione fin dalla prima versione della Vulgata (traduzione in
latino della Bibbia, fatta nel V secolo d.C.) del termine greco
Διάβολος, diábolos,
(“dividere”, “colui che divide”, “calunniatore”,
“accusatore”; dal greco διαβάλλω,
dia-bàllo,
verbo formato da dia
“attraverso, per” e bàllo
“getto, metto”,
quindi
getto,
caccio attraverso,
trafiggo,
metaforicamente calunnio).
Nel greco classico διάβολος era un aggettivo denotante
qualcosa o qualcuno quale calunniatore e diffamatore; fu usato nel
III secolo a. C. per tradurre, nella traduzione greca della Bibbia
detta dei “Settanta”, l'ebraico Śāṭān
(“avversario”,
“nemico”, “colui che si oppone”, “accusatore in giudizio”,
“contraddittore”,
reso negli scritti cristiani come Satana
e qui inteso come “avversario, nemico di Dio”).
5
Il Beato Card.
John Henry Newman (1801-1890), convertito dall’anglicanesimo,
quando fu fatto cardinale scelse come motto “Cor ad cor loquitur”
(= Il cuore parla al cuore). Egli fu un grande teologo e fondatore
degli Oratori di San Filippo Neri, in Inghilterra.
Il
motto ricalca le parole che il Cardinale Newman scelse per il suo
stemma quando divenne Cardinale nel 1879 e sono di san Francesco di
Sales, del quale era molto devoto. Questo motto permette di
penetrare nella sua comprensione della vita cristiana come chiamata
alla santità, sperimentata come l’intenso desiderio del cuore
umano di entrare in intima comunione con il Cuore di Dio.
Sant'Ambrogio
(circa 340-397),
Vescovo
di Milano e dottore della Chiesa
Trattato
su San Luca, 12. 49 -53 - SC 52
“Sono
venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già
acceso”. Il Signore vuole che siamo vigilanti, attenti in ogni
momento alla venuta del Salvatore...Ma poiché il guadagno è misero,
e debole il merito quando soltanto il timore del supplizio impedisce
di perdersi, mentre l'amore ha un valore superiore, il Signore
stesso...infiamma il nostro desiderio di acquistare Dio quando dice :
« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra ».
Non
certo il fuoco che distrugge, bensì quello che produce la volontà
buona, quello che rende migliori i vasi d'oro della casa del Signore,
consumando il fieno e la paglia (1 Cor 3, 12), divorando tutta la
vanità del mondo, accumulata dalla passione del piacere terreno,
opera della carne che deve perire.
Questo
fuoco divino bruciava le ossa dei profeti, come dichiara Geremia : «
C'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa ». (Ger 20, 9).
Infatti c'é un fuoco del Signore, di cui si dice : « Davanti a lui
cammina il fuoco » (Sal 96, 3). Il Signore stesso è un fuoco « che
arde senza consumarsi » (Es 3, 2). Il fuoco del Signore è luce
eterna ; le lucerne dei credenti si accendono a questo fuoco : «
Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese » (Lc
12, 35). Una lucerna è necessaria perché i giorni di questa vita
sono ancora notte.
Il
Signore stesso, secondo la testimonianza dei discepoli di Èmmaus,
aveva messo questo fuoco nel loro cuore : « Non ci ardeva forse il
cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci
spiegava le Scritture ? » (Lc 24, 32) Ci mostrano con evidenza
qual'è l'azione di questo fuoco, che rischiara il profondo del cuore
dell'uomo. Perciò il Signore verrà con il fuoco (Is 66, 15) per
consumare i vizi nel momento della risurrezione, per colmare con la
sua presenza i desideri di ciascuno, e proiettare la sua luce sui
meriti e i misteri.”
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