Come le perle sono tenute insieme
da un filo, così le virtù dalla carità (S. Pio da Pietrelcina),
che ci fa ricchi di Dio.
XVIII Domenica del Tempo
Ordinario – Anno C – 4 agosto 2013.
Qo
1, 2; 2, 21-23; Sal 94; Col 3,1-5. 9-11; Lc 12,13-21
La
vera ricchezza: Cristo, il vero Bene.
Rito
ambrosiano
XI
Domenica di Pentecoste
1Re
21,1-19; Sal 5; Rm 12,9-18; Lc 16,19-31
Lazzaro
e il ricco “epulone (=mangione)”, povero di carità.
1)
Accumulare il Bene e non i beni.
Nella
prima lettura della liturgia romana, Qohelet individua, in
particolare, tre forme di vanità: la sterilità dello sforzo
dell'uomo; la fragilità dei traguardi raggiunti; le numerose
anomalie e ingiustizie di cui è piena la vita. Nel brano evangelico
Gesù parla del ricco che è sicuro e contento della sua ricchezza e
a cui è detto “Stolto, questa notte morirai” (cfr Lc 12,20).
Dunque questo speculatore non era poi così intelligente: non aveva
“investito” bene. Il Redentore quindi non si limita a constatare
la vanità, l’inconsistenza e la precarietà dei beni materiali.
Non credo che il Messia intenda semplicemente disincantare l'uomo,
liberandolo dal fascino del possesso. Il Cristo indica più
profondamente la vera via della liberazione: “Così
è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio”
(id. 12, 21). Dunque è il “per sé” che è sbagliato, e deve
essere sostituito da un altro orientamento (davanti a Dio).
Ma
che significa questo in concreto? La spiegazione, credo, si trova nei
versetti che seguono, che purtroppo la liturgia non riporta. Tre
insegnamenti sono visibili in questi versetti. Arricchire davanti a
Dio significa ad esempio, non cadere nella tentazione dell'affanno,
dell'ansia, come se tutto dipendesse da noi. Arricchire davanti a Dio
significa subordinare tutto – il lavoro, il possesso, la vita
stessa – al Regno di Dio. Arricchire davanti a Dio significa,
infine, “dare in elemosina”. Il “davanti a Dio” si
concretizza nel «per altri» (v. 33). L'arricchire “per sé” è
prigioniero della vanità. Invece la ricchezza donata, la fraternità,
l'amore sono valori che non vengono meno.
Fra
i tanti santi della povertà di cui la Chiesa è ricca ne cito due.
Il
primo è San Giovanni Maria Vianney, noto anche come il Santo Curato
d’Ars.
Lo
cito anche perché oggi ricorre la memoria liturgica di questo umile
e povero parroco di campagna. A suoi tempi Ars ero un paesino di 200
abitanti. Egli fu un vero seguace di San Francesco d'Assisi, di cui
fu discepolo nel Terz'Ordine Francescano. Ricco del Bene dava i beni
che aveva agli altri. Povero per sé, visse in un totale distacco dai
beni di questo mondo e il suo cuore veramente libero si apriva
largamente a tutte le miserie materiali e spirituali che affluivano a
lui. “Il mio segreto - egli diceva - è semplicissimo: Dare tutto e
non conservare niente”. Il suo disinteresse lo rendeva premuroso
verso i poveri, soprattutto quelli della parrocchia, ai quali
dimostrava un'estrema delicatezza, trattandoli “con vera tenerezza,
con molti riguardi, si deve dire con rispetto”. Raccomandava che
non bisogna mai mancare di riguardo ai poveri, perché tale mancanza
ricade su Dio; e quando i miseri bussavano alla porta, egli era
felice di poter loro dire, accogliendoli con bontà: “Io sono
povero come voi; sono oggi uno dei vostri!”. Alla fine della vita
amava ripetere: “Sono contentissimo: non ho più niente e il buon
Dio può chiamarmi quando vorrà”. Per lui i poveri erano anche i
poveri peccatori, che da tutta la Francia si recavano da lui e lui
dava loro l’elemosina del perdono di Dio e della pace de cuore.
Il
secondo é Sant’Omobono Tucenghi, Patrono della mia diocesi di
Cremona. Mentre chiedo scusa per questa vena di campanilismo, mi sta
a cuore dire che è un santo pertinente al tema di oggi perché la
Chiesa gli ha dato fin dall’inizio il titolo di “Padre dei
Poveri”, “consolatore
degli afflitti”, “uomo di pace e pacificatore”, “uomo buono
di nome e di fatto”. Mi si potrebbe obiettare che è un santo
medievale, lontano nel tempo. Ma io lo propongo perché è davvero
significativo. Questo Santo cremonese è il primo e unico fedele
laico, commerciante sposato, che è stato canonizzato nel Medioevo.
Sul finire del XII secolo non era facile che un laico sposato e
immerso negli affari terreni, non appartenente a famiglie reali o
nobili venisse proclamato Santo e ciò fu fatto a meno di due anni
dalla sua morte avvenuta il 13 novembre 1197.
Ma
Sant’Omobono (=Uomo buono) Tucenghi aveva fatto davvero onore al
suo nome. Uomo intelligente egli s'era dimostrato particolarmente
abile negli affari, acquistando ricchezze e prestigio in un periodo
in cui quella dei tessuti era a Cremona una tra le principali
attività commerciali facendone una città ricca. Nell'epoca
dei Comuni, in cui denaro e mercato tendevano (come tendono oggi) a
costituire il centro della vita cittadina, Omobono coniugò giustizia
e carità e fece dell'elemosina il segno di condivisione, con la
spontaneità con cui dalla assidua contemplazione del Crocifisso
imparò a testimoniare il valore della vita come dono
Dallo
sguardo a Cristo derivò la sua santità, che gli fece intuire che il
denaro da lui guadagnato non gli apparteneva, ma spettava di diritto
ai poveri, in particolare ai bambini miseri della città.
Trasformò
la sua abitazione in “casa di accoglienza” e si dedicò alla
sepoltura dei defunti abbandonati. La sua generosità era così
proverbiale che a Cremona – quando una richiesta è ritenuta
eccessiva – si usa ancora dire: “Non ho mica la borsa di
sant'Omobono”, perché –dice la tradizione- la borsa dei soldi di
questo Santo mercante non si esauriva mai e così lui non smetteva
mai di fare l’elemosina.
Spirò
santamente in Chiesa, al canto del Gloria
in excelsis Deo,
mentre assisteva alla celebrazione della Santa Messa, come faceva
quotidianamente.
2)
La Trasfigurazione
Un
breve cenno a questa bella festa della Trasfigurazione, che –come
ogni anno – si celebra il 6 agosto, quindi fra pochi giorni.
La
trasfigurazione di Cristo è nota. Sul volto trasfigurato di Gesù,
che era salito sul Tabor con Pietro, Giovanni e Giacomo, brillò un raggio
della luce divina che Egli custodiva nel suo intimo. Questa stessa
luce sfolgorerà sul volto di Cristo nel giorno della Risurrezione.
In questo senso la Trasfigurazione appare come un anticipo del
mistero pasquale. La Trasfigurazione ci invita ad aprire gli occhi
del cuore sul mistero della luce di Dio presente nell'intera storia
della salvezza. Non ci resta che contemplare il Signore come è, con
gli occhi della fede, come l’enciclica Lumen
fidei di Papa
Francesco ci richiama. Poveri occhi di fede che guardano a Cristo
povero in Croce per guardare come lui il Padre e il mondo (cfr Lumen
fidei, 56).
La
nostra trasfigurazione è un dono e un compito. In questo ci sono di
esempio le Vergini consacrate, che con la loro vita sono chiamate ad
essere speciali testimoni della Presenza di Dio, che è luce e dona
luce.
Così
il vergine rimane il testimone di una divina presenza.
Le
Vergini si sono impegnate a vivere la partecipazione al mistero del
Cristo, sia nel corpo che nello spirito. Di qui ne deriva che
veramente il vergine è un'apparizione costante della trasfigurante
presenza divina nel mondo. La necessità della verginità consacrata
nasce di qui. Non possiamo noi opporre il cielo di domani alla terra
di oggi; il mondo è uno solo, non ci sono due mondi. Il mondo è uno
solo, ma per noi che non viviamo ancora una nostra trasfigurazione
umana, il mondo divino rimane nascosto, lo crediamo, ma rimane
nascosto. Ma le Vergini in qualche modo lo rivelano e, nella loro
povertà di vita sono “ricche” di Dio: “E’ in Te che
possiedono tutto, perché è Te che loro preferiscono a tutto”
(Rituale della Consacrazione delle vergini, n. 24: alla fine della
preghiera solenne di consacrazione). La povertà di Cristo fu
fondamentale, continua e voluta: “Sul
suo corpo nudo in Croce i segni del suo amore erano visibilissimi,
leggibili per tutti”
(cfr Primo Mazzolari, La
Via Crucis del Povero,
Roma 1977, p. 143) E noi possiamo arricchirci di questo amore se ci
facciamo poveri e lo mendichiamo, come le Vergini consacrate ce lo
testimoniano.
Lettura
quasi patristica
L’omaggio
di Benedetto XVI alla povertà di San Francesco
“Era
l'aprile del 1207, nell'Italia piena di sole. Era il mese in cui san
Francesco d'Assisi era stato diseredato e ripudiato da suo padre. Non
aveva più' niente, non era suo nemmeno l'abito che portava addosso;
e tuttavia possedeva
qualcosa che nessuno poteva sottrargli, vale a dire l'amore di Dio al
quale ora poteva dire 'Padre' in un modo del tutto nuovo.
E sapeva che questo era molto di più che possedere il mondo intero.
Così il suo cuore era ricolmo di una grande gioia e cantando
camminava attraversando i boschi dell'Umbria.
Proprio
quel giorno, mentre San Francesco passava vicino a Gubbio,
d'improvviso, dalla boscaglia balzarono due briganti pronti ad
assalirlo; e stupiti dal suo aspetto così curioso gli chiesero: E tu
chi sei?’. E lui rispose: “Sono l'araldo del gran re”.
Francesco
d'Assisi non era un sacerdote, bensì rimase tutta la vita diacono;
ma quello che disse in quel momento è parimenti una descrizione
profonda di cosa sia e debba essere un sacerdote: è l'araldo del
gran re, di Dio, e annunciatore e predicatore della signoria di Dio
che si deve estendere nel cuore dei singoli uomini e in tutto il
mondo.
Non
sempre l'araldo percorrerà la sua strada cantando; a volte sì,
certamente, perché il buon Dio a ogni sacerdote dona sempre di nuovo
momenti nei quali, con stupore e letizia, riconosce quale grande
compito Dio gli ha dato. Ma contro questo araldo si levano sempre
anche i briganti, per così dire, ai quali quell'annuncio non piace:
sono in primo luogo gli indifferenti, che per Dio non hanno mai
tempo, quelli ai quali proprio nel momento in cui Dio li
chiamasse verrebbe in mente che in realtà hanno qualcos'altro
da fare, che hanno tanto di quel lavoro da sbrigare; poi ci sono
quelli che dicono che non bisognerebbe costruire le chiese, ma
anzitutto le case, e ai quali poi però sta bene che spuntino cinema
e luoghi di divertimento di ogni tipo” (dal Volume 12 dell’Opera
Omnia di Joseph Ratzinger).
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