venerdì 29 luglio 2016

La vita è essere non avere.

XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 31 luglio 2016
Rito Romano
Qo 1,2;2,21-23; Sal 89; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21


Rito Ambrosiano
1Re 21,1-19; Sal 5; Rm 12,9-18; Lc 16,19-31
XI Domenica dopo Pentecoste


1) Donare per vivere.
Il brano del Vangelo (Lc 12, 13-21), che la liturgia della Messa di questa 18ª Domenica propone, fa parte di un discorso di Gesù sulla fiducia in Dio che scaccia ogni timore (Id. 12, 6-7) e sull’abbandono alla provvidenza di Dio (Id. 12, 22-32). Si tratta di un testo che si integra perfettamente con la prima lettura della liturgia di oggi e che è preso dal libro del Qoelet. In questo libro dell’Antico Testamento si parla della vanità di ogni cosa umana e terrena, cioè della precarietà dell'esistenza umana e dei beni materiali.
Gesù non disprezza i beni della terra, non contesta le brevi gioie terrene. Non vuole disamorarci di questa vita. Ci dice che essa è un cammino verso la felicità e che è raggiungibile nella sua pienezza solamente con e in Lui.
Cristo insegna che non c’è domani per chi vive solo di cose materiali. Chi vive solo per il corpo, non vive o, se vive, la sua vita è come un soffio, è vanità, perché chi accumula solo per sé, disperde (Lc 11, 23). Non c'è domani duraturo per chi vive di cose, perché le cose hanno un termine e il dramma delle cose è che la loro fine è polvere.
“L’uomo che accumula per sé” spegne da solo la propria vita e sostituisce il desiderio di infinito con infinite cose vane. Chi dice a se stesso: “Riposati, mangia, bevi, godi” vive senza mistero, “senza sapere che l’essere cristiano è l’inquietudine più alta dello spirito, è l’impazienza dell'eternità in un mondo perverso che crocifigge l’amore» (Kierkegaard).
Allora la domanda giusta è “come arricchirsi davanti a Dio?”: “donando!”. Davanti a lui siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato. “Alla fine della vita saremo giudicati dall’Amore” (S. Giovanni della Croce), un amore ricevuto, donato, condiviso. L'essere umano vive di vita donata, di vita ricevuta e trasmessa. Quando smettiamo di trasmettere vita attorno a noi, in quel momento la vita in noi dissecca. L’uomo vive anche del lieto godimento del pane quotidiano, ma di un pane che sia “nostro”, da chiedere e da donare, e che ci faccia, insieme, quotidianamente dipendenti dal cielo, dal Padre “nostro”, provvidente e misericordioso.

2) La vita non dipende da quello che si ha.
La frase di Gesù: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni», esprime la sostanza della parabola di oggi che parla del ricco soddisfatto di avere tante cose e quindi pensa di avere la vita che dura. Il Messia parla di uno stolto che crede di essere al sicuro per molti anni, avendo accumulato molti beni e a cui la notte stessa viene chiesto conto della vita. Quindi, insegna quanto sia stupido e vano mettere la propria fiducia nel possesso. E' da stolti credere che la salvezza, la vita redenta consista nel possedere sempre di più. Per inciso va notato che non è condannato il semplice possesso, ma l’illusione di trovare sicurezza nel possesso.
Credo che sia lecito affermare che il Redentore ha trasformato in parabola un concetto della tradizione sapienziale dell’Antico Testamento. E’ il concetto di “vanità” che trova la sua espressione più acuta nel libro di Qoelet: “Vanità delle vanità, tutto è vanità”. Che significa? Qoelet (Ecclesiastico) è un uomo disincantato che guarda al fondo di tutte le esperienze dell'uomo: tutte le cose che l’uomo cerca e realizza non mantengono quanto promettono: al fondo sono inconsistenti. Qoelet individua, in particolare, tre forme di vanità: la sterilità dello sforzo dell'uomo; la fragilità dei traguardi raggiunti; le numerose anomalie e ingiustizie di cui è piena la vita. Ma la parabola di Gesù non si limita a constatare la vanità e non intende semplicemente disincantare l'uomo, liberandolo dal fascino del possesso. Indica più profondamente la vera via della liberazione: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio” (Lc 12, 21). Dunque, è il “per sé” che è sbagliato e che deve essere sostituito dall’orientamento di arricchirsi “davanti a Dio”.
Questo orientamento implica tre cose concrete.
La prima è che arricchirsi davanti a Dio vuol dire non cadere nella tentazione dell’affanno, dell'ansia, come se tutto dipendesse da noi e solamente da noi.
La seconda è che questo evangelico arricchirsi verso Dio significa subordinare tutto – quello che siamo e abbiamo: lavoro, beni, affetti e la vita stessa – a Dio ed al suo amore.
La terza è che l’arricchirsi davanti a Dio implica– come ho scritto più sopra – donare, soprattutto “dare in elemosina”, praticando quindi la misericordia. Questo implica vivere la vita come “elemosina” (=misericordia) e come dono di sé, nella condivisione dei beni e del bene: “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma” (Lc 12,33).
L’arricchirsi “davanti a Dio” si concretizza nel vivere “per gli altri” (Ibid. 12,33). La ricchezza davanti a Dio cresce nella condivisione. Invece l’arricchirsi “per noi stessi” ci mette nelle mani della vanità, che ci lascia con un pugno di polvere.
Se c’è qualcosa che possiamo portare con noi sempre - e, quindi, anche oltre la morte - è il bene fatto e condiviso e non i beni accumulati, che essendo terreni restano sulla terra.
Questo non vuol dire che noi cristiani disprezziamo le cose create. Anzi, quando smettiamo di volere possedere o consumare le creature, queste sono valorizzate veramente e ne vediamo la bellezza vera e non fugace. Quando usiamo i beni per il bene, già sulla terra la nostra vita è lieta. Ciò che Dio ha creato, non ce l’ha dato perché noi lo accumulassimo, ma per servircene nel cammino verso il nostro destino eterno. Per questo preghiamo: “Insegnaci, Signore, a usare saggiamente i beni della terra, sempre orientati ai beni eterni” (Liturgia delle Ore, Orazione delle Lodi – Domenica, I Settimana ).

3) Esempio delle Vergini consacrate nel mondo.
Un esempio di come vivere questo orientamento ai beni eterni è quello offerto dalle Vergini consacrate nel mondo. Il tesoro di queste donne non consiste nei beni che hanno e che –pochi o tanti che siano- loro si impegnano ad usare con spirito di povertà. La loro vera ricchezza è l’amore di Dio.
Vivendo con fedeltà la consacrazione a Dio, testimoniano con tutta la loro esistenza la verità del Salmo 15 (16): “Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: Il mio Signore sei tu, 
solo in te è il mio bene...

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: 
nelle tue mani è la mia vita.

Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: 
la mia eredità è stupenda” (vv 1-2.5-6).
Queste donne con la vita si arricchiscono verso Dio e con l’aiuto del Salmo si rivolgono a Dio con pace perché hanno scelto il Signore quale loro rifugio. Non mancano a loro le difficoltà, che la vita quotidiana porta, ma sono “ricche” di Dio e si mettono a costante servizio dei fratelli in Cristo.
Con la preghiera di questo salmo, che si concretizza nella loro vita, le vergini consacrate ripetono spesso a Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”.
Queste donne in preghiera sono certe che la loro vera sorte, la loro vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che dà loro pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”. Questa certa e vera ricchezza non è avaramente tenuta per se, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce.
Da questo salmo imparano - e lo insegnano a noi - a percorrere giorno dopo giorno “il sentiero della vita” (Ibid. v. 11), che porta all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio.
La vocazione delle vergini consacrate è scelta d’amore e di vita e diventa un segno di immortalità per tutti coloro che credono e amano Dio. La loro testimonianza aiuta a dire la preghiera: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace” (Santa Teresa d’Avila).



Lettura Patristica
San Basilio di Cesarea (329 - 379)
In illud «Destruam», 1


La tentazione è di due specie. A volte le avversità provano il cuore come l’oro nella fornace (Sg 3,6), quando attraverso la pazienza ne mettono in luce tutta la bontà; a volte, e non di rado, la prosperità della vita tiene per alcuni il posto della tentazione. È ugualmente difficile, infatti, conservare nelle avversità un animo nobile e guardarsi da un abuso nella prosperità. Della prima tentazione è modello Giobbe, quel grande atleta che sostenendo con animo indomito l’impeto scrosciante del diavolo, fu tanto più grande della tentazione, quanto più grandi e quasi inestricabili furono le prove a lui inflitte dal nemico. Esempio della tentazione che nasce dalla prosperità è quel ricco che, avendo già molte ricchezze, ne sognava ancora delle altre; ma il buon Dio a principio non lo condannò per la sua ingratitudine, anzi, lo favorì con sempre nuove ricchezze, in attesa che il suo animo si volgesse una buona volta alla generosità e alla mansuetudine. Ma: "Il campo del ricco portò frutti abbondanti ed egli andava pensando: Che farò? Demolirò i miei granai e ne farò di più grandi" (Lc 12,16-18).


       Perché fu fertile il campo di quell’uomo, che non avrebbe fatto nulla di buono con quella ricchezza? Certo perché risplendesse di più l’indulgenza di Dio, la cui bontà si estende anche a costoro, poiché: "fa piovere sui giusti e sui malvagi e fa che il sole nasca per i buoni e per i cattivi" (Mt 5,45). Ma questa bontà di Dio accresce poi la pena contro i malvagi. Dio mandò la pioggia sulla terra coltivata con mani avare, diede il sole per riscaldare i semi e moltiplicare i frutti. Da Dio viene la terra buona, il clima temperato, la fecondità dei semi, l’opera dei buoi che sono i mezzi della ricchezza dei campi. Ma qual è stata la reazione dell’uomo? Modi amari, odio, scarsezza nel dare. Questo era il ricambio a tanta magnificenza ricevuta. Non si ricordò dei suoi simili, non pensò che il superfluo dovesse essere distribuito agli indigenti, non fece nessun conto del comando: "Non ti stancare di dare al bisognoso" (Pr 3,27) e: "Spezza il tuo pane con chi ha fame" (Pr 3,3). Non sentiva la voce dei profeti, i suoi granai scoppiavano da ogni parte, ma il suo cuore avaro non era sazio. Aggiungendosi sempre nuovi prodotti ai vecchi, finì in questa inestricabile povertà di mente, che l’avarizia non gli consentiva di sottrarre ciò che superava e non aveva magazzini ove deporre la nuova ricchezza. Perciò non trova una soluzione, è affannato. "Cosa farò?" È infelice per la fertilità dei suoi campi, per quello che ha, più infelice per quello che aspetta. La terra a lui non produce dei beni, gli porta sospiri; non gli accresce abbondanza di frutti, gli porta preoccupazioni, pene, ansietà. Si lamenta come i poveri. Il suo grido cosa farò? non è il medesimo che emette l’indigente? Dove troverò il cibo, il vestito? Il ricco fa lo stesso lamento. È afflitto. Ciò che porta gioia agli altri, uccide lui. Non si rallegra, quando i granai son tutti pieni; le ricchezze sovrabbondanti e incontenibili lo feriscono; ha paura che qualche goccia, che n’esca, sia motivo di sollievo a un indigente.

venerdì 22 luglio 2016

Pregare

Rito Romano
XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 24 luglio 2016
Gen 18,20-32; Sal 137; Col 2,12-14; Lc 11,1-13

Rito Ambrosiano
X Domenica dopo Pentecoste
1Re 3,5-15; Sal 71; 1Cor 3,18-23; Lc 18,24b-30


Una premessa:
Nel suo significato etimologico pregare vuol dire chiedere, domandare aiuto ed esprimere il desiderio di ricevere qualcosa e, soprattutto la vita, rivolgendosi a Dio.
Tra le numerose definizione di “preghiera” propongo ; La preghiera è “elevazione della mente in Dio” (San Giovanni Damasceno) e “richiesta di cose oneste a Dio” (Id.), slancio del cuore (Santa Teresa del Bambino Gesù), è dono di sé, Ma è anche richiesta di essere aiutati a compiere lo scopo della propria vita..
Come dice san Tommaso la preghiera è l’espressione “espressione del desiderio che l’uomo ha di Dio”. Questa attrazione verso Dio, che Dio stesso ha posto nell’uomo, è l’anima della preghiera, che si riveste poi di tante forme e modalità secondo la storia, il tempo.
Ogni essere umano porta in sé il desiderio di Dio, tant’è vero che tutti portiamo in noi una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l’Assoluto. A questo Assoluto ci si rivolge con la preghiera, che è la posizione più realista e vera dell'uomo di fronte a Dio, il Senso pieno della vita che desideriamo conoscere e vedere.
Da sempre questo desiderio è nell’uomo come attesta questa preghiera di un cieco egiziano vissuto millenni fa e che, attesta qualcosa di universalmente umano, qual è la pura e semplice preghiera di domanda da parte di chi si trova nella sofferenza, quest’uomo prega: “Il mio cuore desidera vederti... Tu che mi hai fatto vedere le tenebre, crea la luce per me. Che io ti veda! China su di me il tuo volto diletto”.
“Che io ti veda, o Dio” è il cuore della preghiera, perché “il desiderio di conoscere Dio realmente cioè di vedere il volto di Dio, è insito in ogni uomo, anche negli atei” (Benedetto XVI)

2) Pregare con la vita.
Questo desiderio di vedere Dio si realizza seguendo Cristo e pregandolo non solo quando ne abbiamo bisogno o quando troviamo uno spazio di tempo nelle nostre occupazioni quotidiane, ma con la tutta la nostra esistenza. È tutta la nostra vita che deve essere orientata all’incontro con Lui, all’amore verso di Lui, all’amore di Lui.
In questo amore ha il suo posto l’amore al prossimo che, nella luce della Croce, ci fa riconoscere il volto di Gesù nel povero, nel debole, nel sofferente. Ciò è possibile solo se il vero volto di Gesù ci è diventato familiare nell’ascolto della sua Parola e naturalmente nel Mistero dell’Eucaristia, che è la grande scuola in cui impariamo a vedere il volto di Dio, entriamo in rapporto profondo con Lui e con i nostri fratelli e sorelle in umanità.
C’è un aneddoto che può aiutarci a capire ciò. Si racconta che una suora, Figlia della Carità, scrisse al suo Fondatore chiedendogli: “Che cosa devo fare se, mentre sto facendo l’adorazione, un povero bussa alla porta del Convento”. San Vincenzo de Paoli rispose: “Non lasci Dio, se lasci Dio per Dio”. Questa Legge della carità esige l’ascolto del cuore, un ascolto fatto di obbedienza non da servi ma da figli fiduciosi e consapevoli di essere amati dal Padre. L’ascolto della Parola è incontro personale con il Signore della vita, un incontro che deve tradursi in scelte concrete e diventare cammino e sequela. Quando gli viene chiesto cosa fare per avere la vita eterna, Gesù indica la strada dell’osservanza della Legge e dice come fare per portarla a completezza: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi” (Mc 10,21 e par.). Realizzare la Legge è seguire Gesù, andare sulla strada di Gesù, in compagnia di Gesù, che nel Vangelo di oggi ci insegna a pregare, dicendo ai discepoli di allora e di oggi: “Quando pregate dite ‘Padre’”. Parola da dire non solo con la bocca ma con tutta la nostra vita.

3) Pregare con Cristo e in Cristo.
Come suggerisce il Catechismo della Chiesa Cattolica sforziamoci “di comprendere la preghiera di Cristo, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera” (n. 2598). Possiamo poi trovare la risposta chiara al come Gesù ci insegna a pregare, nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica: “Gesù ci insegna a pregare, non solo con la preghiera del Padre nostro, ma anche quando [Lui stesso] prega. In questo modo, oltre al contenuto, ci mostra le disposizioni richieste per una vera preghiera: la purezza del cuore, che cerca il Regno e perdona i nemici; la fiducia audace e filiale, che va al di là di ciò che sentiamo e comprendiamo; la vigilanza, che protegge il discepolo dalla tentazione» (n. 544).
Dal Vangelo emerge che Gesù è interlocutore, amico, testimone e maestro per la nostra preghiera.
In Lui si rivela la novità del nostro dialogo con Dio: la preghiera filiale, che il Padre aspetta dai suoi figli.
Da Lui impariamo come la preghiera costante ci aiuti ad interpretare la nostra vita, ad operare le nostre scelte, a riconoscere e ad accogliere la nostra vocazione, a scoprire i doni che Dio ci ha dato, a compiere quotidianamente la sua volontà di Padre amoroso, unica via per realizzare nella verità la nostra esistenza.
Con Lui diciamo il Padre nostro, che è una preghiera di comunione non solo perché preghiamo con gli altri fratelli ma soprattutto con Lui che è il Fratello che ha dato la vita per noi. Se sempre di più diremo: “Padre” c on la nostra vita, saremo autentici figli nel Figlio: veri cristiani.
Con San Francesco, che seguì Cristo in modo così intenso da meritare di somigliargli anche fisicamente grazie al dono delle stigmate, poi preghiamo così:
“O santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.
Che sei nei cieli: negli angeli e nei santi, illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce, infiammandoli all'amore, perché tu, Signore, sei amore, ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine, perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene.
Sia santificato il tuo nome: si faccia luminosa in noi la conoscenza di te, affinché possiamo conoscere l'ampiezza dei tuoi benefici, l'estensione delle tue promesse, la sublimità della tua maestà e la profondità dei tuoi giudizi.
Venga il tuo regno: perché tu regni in noi per mezzo della grazia e ci faccia giungere nel tuo regno, ove la visione di te è senza veli,
l'amore di te è perfetto,
la comunione di te è beata,
il godimento di te senza fine.
Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: affinché ti amiamo con tutto il cuore, sempre pensando a te; con tutta l’anima, sempre desiderando te; con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni e in ogni cosa cercando il tuo onore; e con tutte le nostre forze, spendendo tutte le nostre energie e sensibilità dell'anima e del corpo a servizio del tuo amore e non per altro; e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi, trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore, godendo dei beni altrui come dei nostri e nei mali soffrendo insieme con loro e non recando nessuna offesa a nessuno.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano: il tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, dà a noi oggi: in memoria, comprensione e reverenza dell'amore che egli ebbe per noi e di tutto quello che per noi disse, fece e patì.
E rimetti a noi i nostri debiti: per la tua ineffabile misericordia, per la potenza della passione del tuo Figlio diletto e per i meriti e l'intercessione della beatissima Vergine e di tutti i tuoi eletti.
Come noi li rimettiamo ai nostri debitori: e quello che non sappiamo pienamente perdonare, tu, Signore, fa' che pienamente perdoniamo sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici e devotamente intercediamo presso di te, non rendendo a nessuno male per male e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti
E non ci indurre in tentazione: nascosta o manifesta, improvvisa o insistente.
Ma liberaci dal male: passato, presente e futuro. Amen”.

4) La fecondità della preghiera delle Vergini Consacrate nel mondo.
Alle donne che si donano a Cristo mediante la verginità consacrate è chiesto come primario e irrinunciabile impegno di dedicarsi in modo prioritario alla preghiera (Cfr. Rito di Consacrazione delle Vergini, Premesse, n. 2). Consegnando il libro della Liturgia delle Ore, il Vescovo si rivolge alla consacrata con queste parole: "La preghiera della Chiesa risuoni senza interruzione nel tuo cuore e sulle tue labbra come lode perenne al Padre e viva intercessione per la salvezza del mondo»”(RCV, n. 48)
Alla preghiera delle consacrate bene si è adatta quanto scriveva San Cipriano affermando che la preghiera deve essere pacifica, semplice e spirituale (De Oratione, I, 4, CC I, 541B)
Pacifica nel senso di “espressione della pace” e di “richiesta della pace”. La preghiera deve cioè: da una parte esprimere e manifestare il nostro essere in pace con tutti; dall’altra deve chiedere di impetrare lo stato di pace con Dio
Semplice perché si serve della liturgia delle Ore e di poche parole proprie che sgorgano da un cuore semplice e donato a Cristo. “Bisogna piacere agli occhi di Dio sia nel comportamento del corpo che nel tono della voce... Pensiamo che siamo davanti a Dio... abbiano dunque coloro che pregano una parola ed una voce disciplinate, soffuse di calma e di pudore»(Ibid. 538AB)
Spirituale perché è espressione della presenza dello Spirito Santo, che è Spirito di unità, di concordia e di pace.
Queste donne sono chiamate a pregare con Gesù Sposo, mediante una preghiera “pacifica, semplice e spirituale”. che non può in alcun modo essere una preghiera sterile, ma feconda (Papa Francesco).




Lettura Patristica
Teodoro di Mopsuestia
Hom. Catech., 11, 7-9


       Anzitutto - dice Cristo - bisogna che voi sappiate chi siete stati e chi siete diventati, cioè che conosciate la grandezza del dono ricevuto da Dio. Poiché sono state fatte per voi grandi cose, molto più grandi che per quelli che sono vissuti prima di voi. Ciò che io stesso faccio per coloro che credono in me e che sono divenuti miei discepoli per elezione, in verità il mette molto al di sopra dei discepoli di Mosè. Se infatti è vero che la prima Alleanza fatta sul Monte Sinai genera per la schiavitù, allora anch’essa è schiava e genera schiavi (cf. Ga 4,24s). Erano infatti schiavi tutti quelli soggetti ai comandamenti: questi regolavano la loro condotta; e la pena di morte, alla quale nessuno poteva sfuggire, era diretta contro tutti quelli che violavano i comandamenti.

       Ma voi, grazie a me, avete ricevuto il dono dello Spirito Santo; esso vi ha fatti diventare figli adottivi e così potete chiamare Dio Padre vostro. Infatti, non avete ricevuto lo Spirito per ricadere nella schiavitù e nella paura; ma lo spirito di adozione a figli, grazie al quale nella libertà chiamate Dio Padre (Rm 8,15). Adesso, voi servite in Gerusalemme con orgoglio e avete quella libertà che spetta a coloro che la risurrezione rende liberi ed immutabili, e partecipi della vita celeste già in questo mondo.

       Dunque, poiché c’è questa differenza tra voi e quelli che sono soggetti alla Legge - se è vero che la lettera della Legge uccide e condanna coloro che la violano ad una morte inevitabile, lo spirito invece vivificato dalla grazia fa sì che mediante la risurrezione diventiate immortali e immutabili - sarebbe bene che voi anzitutto sapeste mantenere costumi degni di tale nobile condizione; infatti, solo quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio, quelli invece che sono soggetti alla Legge, hanno soltanto il nome comune di figli. Ho detto: "Siete dèi e figli dell’Altissimo" (Ps 81,6s), ma come uomini morirete. Perciò, coloro che hanno ricevuto lo Spirito Santo e che quindi aspettano l’immortalità, devono vivere dello Spirito, vivere secondo lo Spirito e avere la coscienza degna di coloro che lo Spirito guida, cioè tenersi lontani dal peccato, avere costumi conformi alla vita divina. In caso contrario, non sarò con voi quando invocherete il nostro Signore e Dio.

       Bisogna naturalmente che sappiate che Dio è Signore e Creatore di tutte le cose e dunque anche di voi; infatti, è grazie a lui che godete molti beni. Eppure, chiamatelo Padre affinché, una volta compresa la vostra nobile condizione, la vostra dignità e la vostra grandezza di figli del Signore di tutte le cose e vostro Signore, possiate agire in armonia con queste verità.


       Non dite, allora: «Padre mio», ma: «Padre nostro». Egli è infatti Padre di tutti come la grazia, mediante la quale siamo diventati suoi figli adottivi. Perciò, non vogliate solo agire degnamente verso il Padre, ma vivete anche in buona armonia con i vostri fratelli, che sono nelle mani dello stesso Padre.

venerdì 15 luglio 2016

L’ospitalità

XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 17 luglio 2016
Rito Romano
Gen 18,1-10; Sal 14; Col 1,24-28; Lc 10,38-42


Rito Ambrosiano
1Sam 16, 1-13; Sal 88; 2Tm 2,8-13; Mt 22,41-46
IX Domenica dopo Pentecoste



1) Un’apparente contrapposizione.
Il Vangelo di domenica scorsa terminava con la frase “Va’ e anche tu fa’ così”, che Gesù aveva detto all’esperto della legge dopo aver raccontato la parabola del Samaritano.
Il brano del Vangelo di questa domenica racconta la visita di Gesù a casa di Marta e Maria, e termina con la frase che Gesù dice a Marta: “Maria si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta”. Molti hanno interpretato queste parole come una conferma - da parte di Gesù - del fatto che la vita contemplativa nascosta nei monasteri è migliore e più alta della vita attiva di coloro che si adoperano a testimoniare Cristo nel campo del mondo.
Rinchiudere queste parole di Cristo dentro la contrapposizione della vita attiva nel mondo (Marta) e della vita contemplativa nel monastero (Maria) significa mortificarle. La prospettiva è più ampia e tocca due atteggiamenti che devono far parte della vita di qualsiasi discepolo: l'ascolto e il servizio. La tensione non è fra l’ascolto e il servizio, ma fra l’ascolto e il servizio che distrae. In effetti, la preghiera non si contrappone all’occupazione, ma alla preoccupazione.
Dopo la grande parabola del Samaritano, iniziata con la domanda da parte del dottore della legge sul cosa è necessario “fare” per avere la vita eterna, oggi, Gesù sviluppa il suo insegnamento dicendo che la parte migliore non è tanto fare delle cose buone e farle con amore, quanto “essere” come in un rapporto d’amicizia profonda, dove ci si dedica, ma anche si contempla l’Amico e ci si lascia afferrare da Lui accogliendo le sue parole di vita eterna.


2) Ospitare Dio.
Dunque, credo sia corretto dire che il tema principale della Liturgia di questa domenica è l’ospitalità da dare a Dio. In effetti, il testo del Vangelo parla dell’accoglienza che due donne danno al Figlio di Dio e la prima lettura di oggi, che è tratta dal libro di Genesi e narra l'incontro di Abramo a Ebron con tre personaggi alle Querce di Mamre, narra dell’incontro di questo Patriarca con il Signore.
Abramo non sa che sta per incontrarsi con Dio. Non subito nel testo si dice che i tre viandanti si identificano con il Signore.
Abramo è seduto sulla soglia della sua tenda, ma è in atteggiamento vigile. Difatti nel testo si dice: “Alzò gli occhi, guardò ed ecco tre uomini stavano in piedi presso di lui. Li vide e corse loro incontro”.
Abramo agisce con spontaneità: corre verso di loro e li onora. Offre loro dell’acqua per lavarsi, cibo e dice: “rinfrancatevi il cuore”. Poi, prepara il pasto: è l’inizio dell’accoglienza ospitale dell’Altro.
Da una parte c’è l’invito: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti”. Questa è una domanda che dobbiamo imparare a fare anche noi, per incontrare Dio, la nostra vita, i fratelli.
Dall’altra, c’è una risposta sorprendente: “Tornerò da te tra un anno e allora Sara, tua moglie avrà un figlio”.
Ogni incontro è una promessa sorprendente e che ha dell’incredibile, almeno per Sara. Questa moglie di Abramo “rise dentro di sé”. Questa donna pensava che ciò che noi non governiamo non accade e invece non è così: nulla è impossibile a Dio, e con Lui la vita fiorisce. L’importante è accoglierlo.

3) Essere discepoli per ospitare Cristo.
Il passo del Vangelo di oggi ci presenta l’accoglienza offerta da Marta e Maria a Gesù.
San Luca ha inserito questo brano dopo la parabola del buon Samaritano (Vangelo di domenica scorsa), per illuminare ulteriormente il modo di Gesù di intendere l'amore di Dio e del prossimo. L'episodio di Marta e di Maria è pure legato all'episodio che segue e che sarà letto domenica prossima e che riguarderà l'insegnamento di Gesù sulla preghiera.
L’evangelista Luca costruisce così una catena di tre anelli che presentano tre aspetti inseparabili, costitutivi della vita del discepolo di Gesù: l’amore di Dio e del prossimo, l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera.
Di per sé, il brano evangelico dice: “Una donna di nome Marta, accolse Gesù in casa sua”. Il nome Marta significa “padrona di casa”. Questa padrona di casa assume nei confronti dell'ospite un ruolo tradizionalmente femminile: tutta affaccendata prepara la tavola. Maria, al contrario, si intrattiene con l'ospite, assumendo un ruolo che la mentalità del tempo riservava agli uomini. Maria, seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola.
Quello di Maria è l’atteggiamento abituale del discepolo di fronte al suo maestro. E questa è una novità. I rabbini, infatti, non usavano accettare le donne al proprio seguito, e divenire discepolo era riservato agli uomini. Per Gesù non è così. Anche le donne sono chiamate all’ascolto e ad essere discepole.
Cristo è l’ospite, a cui fare spazio nel proprio cuore. E’ questo che Lui desidera più di tutto. E’ per questo che Gesù va onorato e servito con l’ascolta della sua Parola. E’ è quello che fa Maria. La sorella di Marta è descritta nel Vangelo di San Luca nell’atteggiamento tipico del discepolo, il quale per definizione è anzitutto “colui che ascolta”, nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Sarà poi la Parola stessa a fare il suo corso nel cuore di chi l'ha accolta e indicargli i tempi e i modi del “servizio”, quello vero, sia verso il Signore che verso il prossimo. La riprova di tutto ciò è esattamente l’assenza di affanno (quello di Marta), perché il discepolo che ascolta riposa nella certezza che Dio è all’opera e, se ha cura dell’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno (cfr. Lc 12, 24), quanto più si cura dell’uomo, la sua creatura prediletta.
La sintesi perfetta tra Marta e Maria la troviamo nella Madonna, che di Cristo fu la prima ed eminente discepola. Scrive sant'Agostino, privilegiando l'atteggiamento della fede di Maria, motivo della sua divina maternità: “E' di più per Maria l'essere stata discepola di Cristo, che Madre di Cristo” (Sermone 25,7: PL 46, 937). E San Massimo Confessore aggiunge: «La santa Madre divenne discepola del suo dolce Figlio, vera Madre della sapienza e figlia della sapienza, perché non lo guardava più in maniera umana o come semplice uomo, ma lo serviva con rispetto come Dio e accoglieva le sue parole come parole di Dio” (AA.VV. [edd.], Testi mariani del primo millennio, Roma 1989, 2, 232).
Questo esempio è seguito in modo particolare dalla Vergini Consacrate nel mondo, che sono chiamate a vivere la loro vocazione fissando lo sguardo su Cristo sempre, dalla culla di Betlemme fino alla Croce di Gerusalemme, per poi guardare il mondo in cui vivono con gli occhi di Cristo. Gesù è "lo sposo con noi" (Mt 9,15). Attraverso il suo Sangue Cristo genera l'umanità nuova. La Chiesa è amata da Cristo con trasporto nuziale: vive nel suo amore, in intimità totale con Lui. Riama Cristo con cuore di sposa. La sua vita di “sposa di Cristo” “è ormai nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). O ancora “La nuova Gerusalemme ornata come una sposa pronta per andare incontro allo sposo” (Ap 21,2). Tutti i battezzati partecipano così della nuzialità della Chiesa, di cui le vergini consacrate ne sono testimonianza costante.

Lettura Patristica
Sant’Ambrogio di Milano
In Luc., 7, 85-86


       S’è parlato della misericordia; ma non c’è una sola forma di virtù. Nell’esempio di Marta e di Maria ci viene mostrata nelle opere della prima, la devozione attiva, e in quelle della seconda la religiosa attenzione dell’anima alla Parola di Dio: se questa attenzione è conforme alla fede, essa passa avanti alle stesse opere, secondo quanto sta scritto: "Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta" (Lc 10,42).

       Cerchiamo quindi di avere anche noi ciò che non ci può essere tolto, porgendo alla parola del Signore una diligente attenzione, non distratta: capita anche ai semi della parola celeste di essere portati via, se sono seminati lungo la strada.

       Stimoli anche te, come Maria, il desiderio di sapere: è questa la più grande, più perfetta opera. Che la cura del ministero non distragga dalla conoscenza della parola celeste. E non rimproverare né giudicare oziosi coloro che si dedicano alla ricerca della sapienza. Salomone il pacifico infatti ha cercato di coabitare con la sapienza.

       Marta non è certo rimproverata per i suoi buoni servigi; ma Maria ha la preferenza, perché ha scelto per sé la parte migliore. Gesù dispone infatti di molti beni, e molti ne elargisce: e così la più sapiente delle due donne ha scelto ciò che ha riconosciuto principale.

       Del resto, gli apostoli non giudicarono miglior cosa abbandonare la Parola di Dio per servire alla mensa (Ac 6,2) ma erano opera di sapienza ambedue le cose, tanto che fu Stefano, ricolmo di sapienza, a essere scelto come ministro (Ac 6,5). Ed ecco, è necessario che colui che serve obbedisca a colui che insegna, e questi esorti e rianimi il ministro.

       Uno è infatti il corpo della Chiesa, anche se diverse sono le membra: ciascuno ha bisogno dell’altro. "L’occhio non può dire alla mano: non desidero l’opera tua, né può dire così il capo ai piedi" (1Co 12,12ss), né l’orecchio può negare di far parte del corpo. Anche se tra le membra alcune sono più importanti, tuttavia le altre sono necessarie.


       La sapienza risiede nel capo, l’attività nelle mani: infatti gli occhi del sapiente sono nel suo capo, perché veramente sapiente è colui il cui spirito è in Cristo e il cui occhio interiore si innalza verso l’alto. Perciò "l’occhio del sapiente è nel suo capo" (Qo 2,14), quello dello stolto nel suo calcagno.

venerdì 8 luglio 2016

L’amore e il suo cammino.

XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 10 luglio 2016
Rito Romano
Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

Rito Ambrosiano
1Sam 8,1-22a; Sal 88; 1Tm 2,1-8; Mt 22, 15-22
VIII Domenica dopo Pentecoste


1) In cammino per amore.
Nel brano del vangelo di oggi un Dottore della Legge domanda a Gesù: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc 10,25). Il Messia risponde a quest’uomo rimandandolo alla Sacra Scrittura di cui è esperto. Attingendo da essa, questo erudito della Legge risponde con esattezza: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,27: cfr Dt 6,5 e Lv 19,18 ).
Poiché è a disagio per aver fatto una domanda di cui conosceva bene la risposta tant’è vero che ha messo insieme due versetti di due libri dell’Antico Testamento (il Deuteronomio e il Levito), quest’uomo dotto chiede: “Chi è il prossimo?” e Gesù gli risponde raccontando la parabola del Samaritano, dove insegna, secondo me in primo luogo, che il prossimo è Dio il quale ci si avvicina e ha misericordia di noi. Non dimentichiamo che Gesù ha iniziato la sua missione proprio dicendo che “il regno dei cieli si è fatto vicino”.
Di conseguenza, se il Redentore è il buon Samaritano, ciascuno di noi è quell’uomo mezzo morto gettato al bordo di una strada.
Dunque, il primo insegnamento, che possiamo ricavare dal Vangelo di oggi è che, quando la compassione di Cristo si prende cura di noi, noi siamo curati dall’amore, capiamo che la vita è amore e che per avere la vita bisogna amare.
Il secondo insegnamento ci dice come è possibile amare: imitando Cristo buon Samaritano, come Lui –e con Lui- avvicinandoci ai nostri fratelli e sorelle in umanità, guardandoli con una compassione che si fa soccorso, aiuto, medicina.
La parabola del buon Samaritano è dunque rivelazione del volto autentico dell’amore che si pratica con la misericordia e la compassione.

2)Il Samaritano.
E’ utile ricordare che nei vangeli leggiamo che Gesù fu oggetto di diverse accuse da parte dei suoi avversari: di essere un diavolo, di essere un mangione e un beone, e anche di essere un samaritano, cioè un eretico. Da tutte quelle accuse si difese Gesù, ma non da quella di essere un samaritano. Forse proprio perché voleva identificarsi nel Buon Samaritano di cui parla oggi la parabola. I Padri della Chiesa (San Girolamo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino e molti altri) hanno interpretato questa parabola come descrizione del rapporto di Dio con gli uomini, che si fa vicino all’umanità ferita e abbandonata per portarla alla salvezza.
Nell’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico ed è rapinato, i Padri della Chiesa vi hanno riconosciuto la figura di Adamo cioè l’umanità espulsa dal Paradiso terrestre a causa del peccato. Nei briganti vi hanno visto il tentatore che vuol dividere l’uomo da Dio, portandogli via gli abiti, cioè spogliandolo dell’amicizia di Dio e abbandonandolo mezzo morto sul bordo della vita simboleggiata dalla strada. Inoltre, nei personaggi del sacerdote e del levita vi hanno visto l’insufficienza dell’antica legge per la nostra salvezza.
Questa salvezza è portata a compimento dal “Samaritano” Gesù Cristo, nostro Salvatore, che partendo anche lui come noi da Gerusalemme ci viene incontro e cura le nostre ferite, il nostro peccato, con l’olio della grazia e il vino dello Spirito.
Infine, nella locanda i Padri della Chiesa vedono l’immagine della Chiesa e nella figura dell’albergatore intravedono i pastori della Chiesa, che si prendono cura del ferito. Questa attività pastorale di misericordia è esercitata grazie anche ai due denari che, sempre secondo i Padri della Chiesa, indicano a Sacra Scrittura e i Sacramenti che ci aiutano nel cammino della salvezza.

3) Seguire Cristo, Samaritano dell’umanità.
Tutti noi siamo chiamati a seguire Cristo in questo cammino di salvezza, che va fatto facendoci anche noi samaritani.
Gesù mostra come sia possibile esercitare un amore pieno di compassione come samaritani di oggi. Per poterlo imitare in questo amore condiviso, dobbiamo prima di tutto convertirci al Lui, il Signore nostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima. Così faremo esperienza della vicinanza di Dio che cura e guarisce con amore e tenerezza.
Se ci facciamo la domanda: “Chi è il mio prossimo”, che letteralmente va tradotta : “E a me chi è vicino?” e che penso sia possibile parafrasare così “E a me chi vuol bene? Perché posso voler bene, se sono voluto bene”. E Gesù risponde che Lui è colui che ci ama avendo cura di noi. Insomma il Salvatore descrive se stesso raccontando la parabola del buon samaritano, e conclude con l’invito “va’ e fa’ lo stesso”.
Dunque lasciamoci avvicinare da Cristo e con Lui avviciniamoci, facciamoci prossimi di chi la vita ha messo ai margini, lasciandolo gravemente ferito. In questo ci è di insegnamento ed esempio Papa Francesco con la sua assidua cura per i rifugiati, a cui lui, il Papa, e noi con lui siamo spinti a farci prossimi dall’amore di Cristo. L’amore è Dio. E’ il sigillo divino nell’uomo. Nell’amore realizziamo quello che siamo. Tuttavia, purtroppo, se l’amore può essere frainteso e fonte di molti equivoci. Per evitare di capirlo e viverlo male mettiamoci alla scuola di Sant’Ignazio di Loyola. Questo grande santo scomponeva la parola “amore” in tre: lode, reverenza, servizio.
- La lode nasce dall’esperienza di liberazione operata Dio come, per es., è espressa nel Salmo 86: “Ti loderò, Signore, mio Dio, con tutto il cuore e darò gloria al tuo nome per sempre, perché grande con me è la tua misericordia: hai liberato la mia vita dal profondo degli inferi”(vv. 12-13). La lode nasce nel nostro cuore aperto, che ci permette di vedere - nonostante tutti i problemi - la bellezza della creazione e la bontà che Dio mostra nella sua creazione. Lodare vuol dire esprimere la gioia che l’altro sia l’altro, cioè differente da noi; amare l’altro non è volerlo possedere ma essere pieni di gioia per la sua presenza. Quindi lo lodiamo contento che sia sé stesso, non che sia nostro. E ogni bene suo, ci dà gioia più che se fosse nostro.
- La reverenza è qui da intendere come rispetto e devozione. E’ l’amore vissuto con purezza e umiltà, perché coscienti che l’altro vale più di noi stessi. Se lo/la amiamo in verità è la nostra vita. Non è strumento nostro. La reverenza ci fa andare vicino all’altro come quando andiamo a ricevere il Corpo di Cristo Eucaristia
- Il servizio è l’amore vissuto nella concretezza, facendoci “prossimo” di chiunque abbia bisogno di aiuto. Il Samaritano, infatti, si fa carico della condizione di uno sconosciuto, che i briganti hanno lasciato mezzo morto lungo la strada; mentre un sacerdote e un levita erano passati oltre, forse pensando che a contatto con il sangue, in base ad un precetto, si sarebbero contaminati. La parabola, pertanto, deve indurci a trasformare la nostra mentalità secondo la logica di Cristo, che è la logica della carità: Dio è amore, e rendergli culto significa servire i fratelli con amore sincero e generoso.
Questa logica della carità, questo sguardo e attenzione verso gli altri è possibile solo se siamo pieni di Cristo, perché la nostra inclinazione ci spingerebbe, in prima istanza, a “possedere” l’altro, a imporsi.
Per questo è importantissima la verginità la quale non è altro che il culmine della carità (per questa ragione M. Teresa di Calcutta fece mettere tre bande blu sul velo delle sue Suore. Sono tre strisce che ricordano i tre voti: povertà obbedienza e castità. Quest’ultima è indicata con la striscia più grande perché nell’amore totale a Dio è contenuto l’amore per il prossimo) ha come effetto la gioia, perché ci permette di “affermare” l’altro, di vederlo inserito in un’ottica eterna, di guardarlo come lo guarda Dio.

3) Le Vergini consacrate e il Samaritano.
Per guardare e amare l’altro in Dio, quindi secondo il suo destino, è necessario compiere un sacrificio: bisogna, infatti, sacrificare la reazione immediata, di piacere o di dispiacere, di simpatia o di antipatia.
Tuttavia, il sacrificio sarebbe incomprensibile e, secondo me impossibile, se non si avesse Cristo come punto di riferimento. Il sacrificio cristiano è, in definitiva, l’accettare una Presenza che viene prima di noi e che è infinitamente grande. Vivere il sacrificio comporta affermare l’altro ancora prima di noi stessi, anche a prezzo della vita.
Tutti siamo chiamati a partecipare al sacrificio di se che Gesù ha fatto per salvare il mondo. In modo particolare che è chiamato a vivere la verginità ha come compito quello di testimoniare alla Chiesa ed al mondo intero che Cristo è l’unica cosa per cui vale la pena di vivere. Cristo è ciò per cui è giusto che si doni tuta la vita. Insomma la vocazione alla verginità è l’essere chiamati ad essere esempio ideale per tutta la comunità. A ricordare a tutto il popolo di Dio che ciò per cui vale la pena sposarsi, lavorare, vivere, morire, mangiare, vegliare e dormire è Cristo.
La castità perfetta è il sacrificio di se stesse che le vergini consacrate compiono, donando tutto il loro amore a Gesù Cristo e consacrandoGli il proprio corpo e tutti gli affetti del loro cuore. La verginità è potenza d’amore per essere sante nell’amore a Dio e nel servizio all’umanità e permette a questa donne di essere feconde in santità, contemplazione e opere di misericordia (cfr. Vita Consecrata, n. 88).


Lettura Patristica
Severo di Antiochia
Hom., 89, passim


   "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico" (Lc 10,29ss). Cristo si serve di una definizione specifica. Non dice: «Qualcuno scendeva», ma «un uomo scendeva», poiché questo versetto riguarda tutta l’umanità. Per il peccato di Adamo l’umanità ha perduto il diritto di stare nel paradiso, luogo posto in alto, tranquillo, libero dalle sofferenze e meraviglioso, che giustamente viene chiamato qui Gerusalemme, in quanto questo nome vuol dire «pace divina». Ed essa scende a Gerico, paese squallido e infossato in cui regna un caldo soffocante. Gerico è la vita febbrile del mondo, vita lontana da Dio e che trascina in basso. Il fuoco dei piaceri più impudichi causa lì afa ed esaurimento.

       Quando dunque l’umanità è scesa dalla retta via verso una vita del genere, quando si è lasciata trascinare dall’alto verso il basso, una torma di demoni come una banda di malfattori l’ha assalita sulla china. L’hanno depredata delle vesti della perfezione, non lasciando in essa la minima traccia né della forza dello spirito, né di purezza, né di giustizia e prudenza, né nulla che mostri l’immagine divina. Aggredendola molte volte, le hanno provocato un gran numero di ferite di peccati diversi, per abbandonarla poi in terra tramortita... La Legge data da Mosè è passata oltre. Ha visto l’umanità a terra e agonizzante. Il sacerdote ed il levita, infatti, rappresentano nella parabola l’Antico Testamento che ha istituito il sacerdozio dei leviti. La Legge ha visto veramente l’umanità, ma le è mancata la forza, è stata impotente. Non ha condotto l’umanità alla completa guarigione, non l’ha sollevata da terra. E poiché le è mancata la forza, ha dovuto necessariamente allontanarsi per l’inefficacia dei suoi interventi. Ha dovuto allontanarsi, poiché - come insegna Paolo - i suoi "doni e sacrifici non possono rendere perfetto, nella coscienza, l’offerente" (He 9,9), "poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri" (He 10,4).

       Finalmente passa un samaritano. Cristo, volutamente, si fa chiamare Samaritano. Rivolgendosi a chi conosce bene la Legge a chi sa perfettamente parlare della Legge, egli vuole in tal modo dimostrare che né il sacerdote, né il levita, né in generale nessuno di quelli che presumibilmente seguono le prescrizioni della Legge di Mosè, ma lui solo è venuto ad adempiere la Legge e a dimostrare con i fatti chi è il prossimo e che cosa significa «amare il prossimo come se stesso»; egli di cui i Giudei dicevano, volendolo oltraggiare: "Non diciamo con ragione che sei un samaritano e hai un demonio?" (Jn 8,48).

       Il Samaritano che passa - ed è Cristo che veramente è in viaggio - vede il ferito. Non va oltre, poiché lo scopo del suo viaggio è quello di «visitare» noi; noi per i quali è sceso sulla terra e in mezzo ai quali ha abitato. Perciò non solo si è manifestato agli uomini, ma è stato veramente in mezzo a loro... "Sulle sue ferite ha versato del vino", il vino della parola... E poiché le ferite gravi non hanno potuto sopportare la sua forza, ecco che ha aggiunto dell’olio, così che con la sua dolce «filantropia» si è attirato il biasimo dei farisei e ha dovuto rispondere spiegando loro il significato delle parole: "Voglio misericordia, non sacrifici" (Os 6,6).

       Quindi ha messo il ferito su una bestia da soma, mostrandoci con ciò che egli ci innalza al di sopra delle passioni bestiali, egli che anche ci porta in sé, rendendoci così membra del suo Corpo.

       Poi, ha condotto l’uomo in una locanda, chiamando così la Chiesa, luogo di dimora e di adunata per tutti; infatti, mai abbiamo sentito che impedendo agli Ammoniti e ai Moabiti l’entrata in Chiesa, l’abbia limitata solo all’Antico Patto che è ombra della Legge, o al culto delle immagini e delle profezie. Al contrario, egli ordina agli apostoli: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni" (Mt 28,19) e insegna che il Signore ama in ogni popolo colui che lo teme e vive secondo giustizia. Giunto nella locanda, il buon Samaritano ha ancora di più cura di colui che ha salvato.

       Infatti, quando la Chiesa si formò dalla comunità dei martiri, in essa era Cristo dispensatore di grazie.

       Al padrone della locanda - che rappresenta gli apostoli, i pastori e i dottori - consegna, andando via, entrando in cielo, due denari, perché abbia cura del ferito. Questi due denari vanno intesi come i due Testamenti: il Vecchio e il Nuovo, l’Antica Legge e i profeti, la Nuova Legge dataci dal Vangelo e le istituzioni apostoliche. Come i due Testamenti discendono da Dio stesso dall’alto dei cieli, così i denari recano l’effigie di un re. Tutti e due - per mezzo delle Sacre Scritture - imprimono il marchio regale, poiché uno ed uno stesso Spirito dice codeste parole.

       I pastori delle sante Chiese, una volta ricevuti i due denari, li fanno fruttare nuovi soldi nel faticoso lavoro di maestri, ed anche con lo spenderli per i propri bisogni, poiché il denaro spirituale, parola di dottrina, ha la proprietà di non diminuire, bensì di aumentare con lo spenderlo. Ognuno di loro dirà nell’ultimo giorno, quando il Signore tornerà: "Signore, mi hai consegnati due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due" (Mt 25,22); con essi ho ingrandito il tuo gregge. E il Signore rispondendo dirà: "Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone" (Mt 25,23).


venerdì 1 luglio 2016

La vita è pellegrinaggio e missione.

XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 luglio 2016
Rito Romano
Is 66,10-14; Sal 65; Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20 [forma breve: Lc 10,1-9]


Rito Ambrosiano
Gs 24,1-2a.15b-27: Sal 104; 1Ts 1,2-10: Gv 6,59-69
 VII Domenica dopo Pentecoste

1) Cristiani cioè Missionari.
Il Vangelo di Domenica scorsa ci ha ricordato che siamo stati chiamati a essere veri discepoli di Cristo mettendo il Redentore al di sopra di ogni affetto, di ogni gioia. Oggi siamo chiamati a vivere la comunione con Lui non come rifugio o come fuga dal mondo, ma come missione e compito per collaborare con Lui a redimere il mondo. Il suo compito diventa la nostra missione.
Questa missione non riguarda solamente alcuni, ma tutti i discepoli di Gesù, cioè tutti noi. Dunque, tutti noi siamo chiamati a essere missionari cioè a portare l’annuncio della Buona e lieta Notizia della presenza di un Dio che si è fatto uno di noi per farci come Lui, che è ricco di misericordia. La misericordia di Dio arriva agli uomini attraverso la testimonianza di coloro che l’hanno conosciuta e sperimentata nella loro propria persona.
Cristo chiama per mandare a portare questo annuncio di verità, carità e speranza. La missione di Gesù è di salvare il mondo con un amore che fino a quel momento non conoscevamo, salvare tutti, senza esclusione e con amore vero. Questo annuncio non consiste in primo luogo nell’insegnare verità e dottrine, ma nell’annunciare una Presenza che è incontrabile, e che fa vivere, agire e pensare in modo nuovo: da fratelli e sorelle.
In effetti, le parole “missionario” e “apostolo” derivano una dal latino e l’altra dal greco, e vogliono dire “mandato”, “inviato”. Ognuno di noi è “inviato” ai fratelli. Quindi, la dimensione missionaria, apostolica, è essenziale per ogni cristiano e si realizza seguendo Cristo e andando verso il prossimo.
Per questo quando diciamo che la Chiesa è apostolica, non intendiamo dire soltanto che è fondata sugli apostoli, ma la pianta delle Chiesa si sviluppa da quel seme che sono gli apostoli di duemila anni fa. Se è vero che la missione è l’aspetto fondamentale della Chiesa, è altrettanto vero che è anche l’aspetto fondamentale di ciascuno di noi. In effetti, in quanto figli di Dio siamo chiamati a testimoniare il nostro essere figli, facendoci fratelli degli altri sulle strade del mondo.
2) Pellegrini quindi missionari.
  E’ una delle caratteristiche dell’Evangelista Luca quella di descrivere Cristo in un atteggiamento di pellegrino, che non è riducibile a quello del viandante, perché la via per lui non è solo un mezzo per arrivare al fine ma un modo di essere, di vivere, tipico di chi sa che la terra non è la sua stabile dimora.
Il Cristiano è un viandante che si fa pellegrino con Cristo, che insegna che la nostra vita è un cammino con Lui, per imparare a donarsi per amore, come ha fatto Lui, che è la strada e la gioia.
A questo cammino ci invita anche Papa Francesco: “Sempre in cammino con quella virtù
 che è una virtù pellegrina: la gioia!”. Virtù che ci rende credibili ed esprime l’esperienza di misericordia e di appartenenza al Dio vero e amoroso.
In questo cammino possiamo lasciarci guidare da due frasi del Nuovo Testamento.
La prima è quella di Gesù che si definisce “Via”: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). La seconda è quella che definisce i cristiani che sono chiamati “quelli della via” (tou odòs) (At 9,2), che è tradotto con “i seguaci della dottrina di Cristo”. “Quelli della via” è il primo nome che è dato ai discepoli di Cristo: sono quelli che si sono messi per strada a seguire questo nuovo Maestro, che ha fatto una fine vergognosa e che è risorto. La via cristiana è quindi una strada (Cristo) da percorrere tenendo fisso un obiettivo, quello di seguire Cristo, di conformarci a Lui. Il fine diventa un percorso: seguire Cristo è la via. E’ vivere la vita con il cuore che cammina, che tende a Dio con i passi interiori della preghiera e porta agli altri la carità.
A questo riguardo San Gregorio Magno scrive: “Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte ci istruisce con le parole, alle volte con dei fatti. Le sue azioni diventano precetti, quando tacitamente, con ciò che fa, ci indica ciò che dobbiamo fare. Eccolo che manda i suoi discepoli a predicare a due a due. Perché due sono i precetti della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo, e perché ci sia amore, ci vogliono almeno due persone. L’amore che uno ha per se stesso, nessuno lo chiama carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami carità. Il Signore manda i discepoli a due a due, per farci capire che se uno non ha amore per gli altri, non deve mettersi a predicare. (Hom., 17, 1-4.7 s.)


3) Vergini e pellegrine.
Le persone chi in modo speciale fanno propria la spiritualità della vita come via, come pellegrinaggio sono le Vergini Consacrate nel mondo.
La verginità è la modalità propria di Cristo di amare e queste donne testimoniano che è possibile rispondere all’amore di Cristo con il dono totale di se stessi. In effetti, il vero amore non è dare delle cose, dei beni materiali, ma dare se stessi. Il vero amore di Dio è che lo si ama per quello che è non per quello che ha.
La verginità è anche la modalità di amare di Maria, la prima ad essere lieta non per quello che faceva ma perché certa che il suo nome era scritto nel cuore di Dio, che aveva guardato all’umile ancella.
Come Maria Vergine, Madre della Via e Arca dell’Alleanza, ha camminato sui monti di Giudea per portare Gesù e la sua gioia alla cugina Elisabetta, sulle strade d’esilio per salvare il Figlio di Dio, sulla via del Calvario per diventare nostra Madre, così le Vergini consacrate vivono portano nel mondo Gesù, attraverso la loro vita vissuta verginalmente e semplicemente.
Come Maria portò al mondo Cristo che portava sotto il suo cuore, così le Vergini consacrate portano al mondo il vangelo e la salvezza di Cristo che portano nel loro cuore. E’ un cuore dedicato solo a Lui e al suo regno. Per questo Regno di Dio occorrono persone che, a cuore pieno di Dio, si dedichino alla venuta di questo Regno. La verginità consacrata è sempre missionaria. e non riguarda soltanto i consacrati che di fatto vanno in terre lontane ad annunciare il Vangelo, ma tutte le vergini.
Come per Maria la verginità non significa sterilità, ma, al contrario, fecondità massima, così queste donne consacrate mostrano che ci può essere e c’è una fecondità su un piano diverso da quello fisico.
La prima volta che la verginità compare nella storia della salvezza, è associata alla nascita di un bambino: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio...” (Is 7, 14). La tradizione della Chiesa ha colto questo legame, associando costantemente il titolo di vergine a quello di madre. Maria è la Vergine Madre; la Chiesa è vergine e madre. “Uno è il Padre di tutti uno anche il Verbo di tutti, uno e identico è lo Spirito Santo e una sola è la vergine madre: così io amo chiamare la Chiesa” (S. Clemente Alessandrino). Infine, ogni anima, e in particolare ogni anima consacrata, è vergine e madre: “Ogni anima credente, sposa del Verbo di Dio, madre, figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta, a suo modo, vergine e feconda” (Ibid.)
Le persone consacrate ci ricordano che se è vero che il cammino-pellegrinaggio di Gesù è stato il suo amore fino alla fine, è altrettanto vero che il cammino-pellegrinaggio dietro a Gesù è quello dell’amore sponsale. Il rito di consacrazione delle Vergini è chiamata nel dizionario di liturgia, “consacrazione matrimoniale a Gesù Cristo”. Ognuna di questa donne è quindi chiamata “sponsa Christi”. E’ vero che ogni persona cristiana è sposa di Cristo, ma alle vergini consacrate è chiesto di esserlo in maniera eminente. Loro devono vivere e testimoniare l’unione sponsale con Cristo Gesù in modo pio, casto, devoto e totale. La verginità consacrata permette loro di essere finestre trasparenti tra la Chiesa e il mondo, lasciando passare la luce vera dell’amore misericordioso.

Lettura Patristica
Gregorio Magno
Hom., 17, 1-4.7 s.


       Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte ci istruisce con le parole, alle volte con dei fatti. Le sue azioni diventano precetti, quando tacitamente, con ciò che fa, c’indica ciò che dobbiamo fare. Eccolo che manda i suoi discepoli a predicare a due a due. Perché son due i precetti della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo, e perché ci sia amore, ci vogliono almeno due persone. L’amore che uno ha per se stesso, nessuno lo chiama carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami carità. Il Signore manda i discepoli a due a due, per farci capire che se uno non ha amore per gli altri, non deve mettersi a predicare.

       È detto bene che "li mandò innanzi a sé in ogni città e villaggio, love egli pensava di recarsi" (Lc 10,1). Il Signore, infatti, va dietro ai suoi predicatori, perché prima arriva la predicazione nella nostra mente e poi vi arriva il Signore, quando si accetta la verità. Perciò Is dice ai predicatori: "Preparate la via del Signore, raddrizzate le vie di Dio" (Is 40,3)...

       Sentiamo ora che cosa dice il Signore ai suoi predicatori: "La messe è molta, ma gli operai son pochi. Pregate dunque il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe" (Lc 10,2). La messe è molta, ma gli operai son pochi. Non lo possiamo dire senza rammarico. Son molti quelli che son disposti a sentire, ma son pochi a predicare. Il mondo è pieno di sacerdoti ma nella messe è difficile trovarci un operaio, perché abbiamo accettato l’ufficio sacerdotale, ma non facciamo il lavoro del nostro ufficio. Ma riflettete, riflettete, fratelli, alle parole: "Pregate il padrone della messe, che mandi operai alla sua messe". Pregate per noi, perché possiamo lavorare adeguatamente per voi, perché la nostra lingua non desista dall’esortare, perché, dopo aver preso l’ufficio della predicazione, il nostro silenzio non ci condanni. Spesso infatti la lingua tace per colpa dei predicatori; ma succede anche altre volte che, per colpa di chi deve sentire, la parola vien meno a chi deve parlare. A volte la parola manca per la cattiveria del predicatore, come dice il Salmista: "Dio disse al peccatore: Perché osi parlare della mia giustizia?" (Ps 49,16); e alle volte il predicatore è impedito per colpa degli uditori, come in Ezechiele: "Farò attaccare la tua lingua al tuo palato e sarai muto, e non potrai rimproverare, perché è una casa che esaspera" (Ez 3,26). Come se dicesse: Ti tolgo la parola, perché un popolo che mi esaspera con le sue azioni, non è degno che gli si porti la verità. Non è facile, quindi, discernere per colpa di chi vien tolta la parola al predicatore; ma è certo che il silenzio del pastore, se qualche volta è dannoso al pastore stesso, al suo gregge lo è sempre...

       Colui che prende l’ufficio di predicare, non deve fare il male ma lo deve tollerare, perché con la sua mansuetudine, gli riesca di mitigare l’ira di quelli che infieriscono contro di lui, e lui ferito riesca con le sue pene a guarire negli altri le ferite dei peccati. E anche se lo zelo della giustizia vuole che talvolta egli sia severo con gli altri, il suo furore deve nascere da amore e non da crudeltà; ed ami con amore paterno, quando col castigo difende i diritti della disciplina. E questo il superiore lo dimostra bene, quando non ama se stesso, non cerca cose del mondo, non piega il suo collo al peso di terreni desideri...

       "L’operaio è degno della sua mercede" (Lc 10,7), perché gli alimenti fanno parte della mercede, in modo che qui cominci la mercede della fatica della predicazione, che sarà compiuta in cielo con la visione della Verità. Il nostro lavoro, dunque, ha due mercedi, una qui nel viaggio e un’altra nella patria: una che ci sostiene nel lavoro, l’altra che ci premia nella risurrezione. La mercede che riceviamo qui però ci deve rendere più forti per la seconda. Il predicatore perciò non deve predicare per ricevere una mercede temporale, ma deve accettare la mercede, perché possa continuare a predicare. E chiunque predica per una mercede di lode o di danaro, si priva della mercede eterna. Colui invece che, quando parla, desidera di piacere, non perché lui sia amato, ma perché il Signore sia amato, e accetta uno stipendio solo perché non venga poi meno la voce della predicazione, certamente questi non sarà premiato meno nella patria perché ha accettato un compenso in questa vita.

       Ma che facciamo noi pastori, non posso dirlo senza dolore, che facciamo noi che prendiamo la mercede dei pastori e non ne facciamo il lavoro? Mangiamo ogni giorno il pane della santa Chiesa, ma non lavoriamo affatto per la Chiesa eterna. Riflettiamo quale titolo di dannazione sia il prendere il salario d’un lavoro senza fare il lavoro. Viviamo con le offerte dei fedeli, ma dov’è il lavoro per le loro anime? Prendiamo come paga ciò che i fedeli danno in sconto dei loro peccati, ma non ci diamo da fare con l’impegno della preghiera e della predicazione, come sarebbe giusto, contro quegli stessi peccati.