XIV
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 luglio 2016
Rito
Romano
Is
66,10-14; Sal 65; Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20 [forma breve: Lc
10,1-9]
Rito
Ambrosiano
Gs
24,1-2a.15b-27: Sal 104; 1Ts 1,2-10: Gv 6,59-69
VII
Domenica dopo Pentecoste
1)
Cristiani cioè Missionari.
Il
Vangelo di Domenica scorsa ci ha ricordato che siamo stati chiamati a
essere veri discepoli di Cristo mettendo
il Redentore al di sopra di ogni affetto, di ogni gioia. Oggi siamo
chiamati a vivere la comunione con Lui non come rifugio o come fuga
dal mondo, ma come missione e compito per collaborare con Lui a
redimere il mondo. Il suo compito diventa la nostra missione.
Questa
missione non riguarda solamente alcuni, ma tutti i discepoli di Gesù,
cioè tutti noi. Dunque,
tutti noi siamo chiamati a essere missionari cioè a portare
l’annuncio della Buona e lieta Notizia della presenza di un Dio che
si è fatto uno di noi per farci come Lui, che è ricco di
misericordia. La misericordia di Dio arriva agli uomini attraverso la
testimonianza di coloro che l’hanno conosciuta e sperimentata nella
loro propria persona.
Cristo
chiama per mandare a portare questo annuncio di verità, carità e
speranza. La missione di Gesù è di salvare il mondo con un amore
che fino a quel momento non conoscevamo, salvare tutti, senza
esclusione e con amore vero. Questo annuncio non consiste in primo
luogo nell’insegnare verità e dottrine, ma nell’annunciare una
Presenza che è incontrabile, e che fa vivere, agire e pensare in
modo nuovo: da fratelli e sorelle.
In
effetti, le parole “missionario” e “apostolo” derivano una
dal latino e l’altra dal greco, e vogliono dire “mandato”,
“inviato”. Ognuno di noi è “inviato” ai fratelli. Quindi, la
dimensione missionaria, apostolica, è essenziale per ogni cristiano
e si realizza seguendo Cristo e andando verso il prossimo.
Per
questo quando diciamo che la Chiesa è apostolica, non intendiamo
dire soltanto che è fondata sugli apostoli, ma la pianta delle
Chiesa si sviluppa da quel seme che sono gli apostoli di duemila anni
fa. Se è vero che la missione è l’aspetto fondamentale della
Chiesa, è altrettanto vero che è anche l’aspetto fondamentale di
ciascuno di noi. In effetti, in quanto figli di Dio siamo chiamati a
testimoniare il nostro essere figli, facendoci fratelli degli altri
sulle strade del mondo.
2)
Pellegrini quindi missionari.
E’
una delle caratteristiche dell’Evangelista Luca quella di
descrivere Cristo in un atteggiamento di pellegrino, che non è
riducibile a quello del viandante, perché la via per lui non è solo
un mezzo per arrivare al fine ma un modo di essere, di vivere, tipico
di chi sa che la terra non è la sua stabile dimora.
Il
Cristiano è un viandante che si fa pellegrino con Cristo, che
insegna che la nostra vita è un cammino con Lui, per imparare a
donarsi per amore, come ha fatto Lui, che è la strada e la gioia.
A
questo cammino ci invita anche Papa Francesco: “Sempre
in cammino con quella virtù
che è una virtù pellegrina: la
gioia!”. Virtù che ci rende credibili ed esprime l’esperienza di
misericordia e di appartenenza al Dio vero e amoroso.
In
questo cammino possiamo lasciarci guidare da due frasi del Nuovo
Testamento.
La
prima è quella di Gesù che si definisce “Via”: “Io sono la
via, la verità e la vita”
(Gv
14,6). La
seconda è quella che definisce i cristiani che sono chiamati “quelli
della via” (tou
odòs) (At
9,2), che è tradotto con “i seguaci della dottrina di Cristo”.
“Quelli della via” è il primo nome che è
dato ai discepoli di Cristo: sono quelli
che si sono messi per strada a seguire questo nuovo
Maestro, che ha fatto una fine
vergognosa e che è risorto. La via cristiana è quindi una strada
(Cristo) da percorrere tenendo fisso un obiettivo, quello di seguire
Cristo, di conformarci a Lui. Il fine
diventa un percorso: seguire Cristo è la via. E’ vivere la vita
con il cuore che cammina, che tende a Dio con i passi interiori della
preghiera e porta agli altri la carità.
A
questo riguardo San Gregorio Magno
scrive: “Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte
ci istruisce con le parole, alle volte
con dei fatti. Le sue azioni diventano precetti, quando tacitamente,
con ciò che fa, ci indica ciò che dobbiamo fare. Eccolo che manda i
suoi discepoli a predicare a due a due.
Perché due sono i precetti della
carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo,
e perché ci
sia amore, ci vogliono almeno due persone. L’amore che uno ha per
se stesso, nessuno lo chiama
carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami
carità. Il Signore manda i discepoli
a due a due, per farci capire che se uno
non ha amore per gli altri, non deve
mettersi a predicare. (Hom.,
17, 1-4.7 s.)
3)
Vergini e pellegrine.
Le
persone chi in modo speciale fanno propria la spiritualità della
vita come via, come pellegrinaggio sono le Vergini Consacrate nel
mondo.
La
verginità è la modalità propria di Cristo di amare e queste donne
testimoniano che è possibile rispondere all’amore di Cristo con il
dono totale di se stessi. In effetti, il vero amore non è dare delle
cose, dei beni materiali, ma dare se stessi. Il vero amore di Dio è
che lo si ama per quello che è non per quello che ha.
La
verginità è anche la modalità di amare di Maria, la prima ad
essere lieta non per quello che faceva ma perché certa che il suo
nome era scritto nel cuore di Dio, che aveva guardato all’umile
ancella.
Come
Maria Vergine, Madre della Via e Arca dell’Alleanza, ha camminato
sui monti di Giudea per portare Gesù e la sua gioia alla cugina
Elisabetta, sulle strade d’esilio per salvare il Figlio di Dio,
sulla via del Calvario per diventare nostra Madre, così le Vergini
consacrate vivono portano nel mondo Gesù, attraverso la loro vita
vissuta verginalmente e semplicemente.
Come
Maria portò al mondo Cristo che portava sotto il suo cuore, così le
Vergini consacrate portano al mondo il vangelo e la salvezza di
Cristo che portano nel loro cuore. E’ un cuore dedicato solo a Lui
e al suo regno. Per questo Regno di Dio
occorrono persone che, a cuore pieno di Dio, si dedichino alla venuta
di questo Regno. La verginità consacrata è sempre missionaria. e
non riguarda soltanto i consacrati che di fatto vanno in terre
lontane ad annunciare il Vangelo, ma tutte le vergini.
Come
per Maria la verginità non significa sterilità, ma, al contrario,
fecondità massima, così queste donne consacrate mostrano che ci può
essere e c’è una fecondità su un piano diverso da quello fisico.
La
prima volta che la verginità compare nella storia della salvezza, è
associata alla nascita di un bambino: “Ecco, la vergine concepirà
e partorirà un figlio...” (Is
7, 14). La tradizione della Chiesa ha colto questo legame, associando
costantemente il titolo di vergine a quello di madre. Maria è la
Vergine Madre; la Chiesa è vergine e madre. “Uno è il Padre di
tutti uno anche il Verbo di tutti, uno e identico è lo Spirito Santo
e una sola è la vergine madre: così io amo chiamare la Chiesa”
(S. Clemente Alessandrino). Infine, ogni anima, e in particolare ogni
anima consacrata, è vergine e madre: “Ogni anima credente, sposa
del Verbo di Dio, madre, figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta,
a suo modo, vergine e feconda”
(Ibid.)
Le
persone consacrate ci ricordano che se è
vero che il cammino-pellegrinaggio di Gesù è stato il suo amore
fino alla fine, è altrettanto vero che il cammino-pellegrinaggio
dietro a Gesù è quello dell’amore sponsale.
Il rito di consacrazione delle Vergini è chiamata nel dizionario di
liturgia, “consacrazione matrimoniale a Gesù Cristo”. Ognuna di
questa donne è quindi chiamata “sponsa
Christi”. E’ vero che ogni persona
cristiana è sposa di Cristo, ma alle vergini consacrate è chiesto
di esserlo in maniera eminente. Loro devono vivere e testimoniare
l’unione sponsale con Cristo Gesù in modo pio, casto, devoto e
totale. La verginità consacrata permette
loro di essere finestre trasparenti tra la Chiesa e il mondo,
lasciando passare la luce vera dell’amore misericordioso.
Lettura
Patristica
Gregorio
Magno
Hom.,
17, 1-4.7 s.
Il
nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte ci istruisce
con le parole, alle volte con dei fatti. Le sue azioni diventano
precetti, quando tacitamente, con ciò che fa, c’indica ciò che
dobbiamo fare. Eccolo che manda i suoi discepoli a predicare a due a
due. Perché son due i precetti della carità, carità verso Dio e
carità verso il prossimo, e perché ci sia amore, ci vogliono almeno
due persone. L’amore che uno ha per se stesso, nessuno lo chiama
carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami
carità. Il Signore manda i discepoli a due a due, per farci capire
che se uno non ha amore per gli altri, non deve mettersi a predicare.
È
detto bene che "li
mandò innanzi a sé in ogni città e villaggio, love egli pensava di
recarsi"
(Lc
10,1).
Il Signore, infatti, va dietro ai suoi predicatori, perché prima
arriva la predicazione nella nostra mente e poi vi arriva il Signore,
quando si accetta la verità. Perciò Is dice ai predicatori:
"Preparate la via del Signore, raddrizzate le vie di Dio"
(Is 40,3)...
Sentiamo
ora che cosa dice il Signore ai suoi predicatori: "La
messe è molta, ma gli operai son pochi. Pregate dunque il padrone
della messe, che mandi operai nella sua messe"
(Lc
10,2).
La messe è molta, ma gli operai son pochi. Non lo possiamo dire
senza rammarico. Son molti quelli che son disposti a sentire, ma son
pochi a predicare. Il mondo è pieno di sacerdoti ma nella messe è
difficile trovarci un operaio, perché abbiamo accettato l’ufficio
sacerdotale, ma non facciamo il lavoro del nostro ufficio. Ma
riflettete, riflettete, fratelli, alle parole: "Pregate
il padrone della messe, che mandi operai alla sua messe".
Pregate per noi, perché possiamo lavorare adeguatamente per voi,
perché la nostra lingua non desista dall’esortare, perché, dopo
aver preso l’ufficio della predicazione, il nostro silenzio non ci
condanni. Spesso infatti la lingua tace per colpa dei predicatori; ma
succede anche altre volte che, per colpa di chi deve sentire, la
parola vien meno a chi deve parlare. A volte la parola manca per la
cattiveria del predicatore, come dice il Salmista: "Dio
disse al peccatore: Perché osi parlare della mia giustizia?"
(Ps
49,16);
e alle volte il predicatore è impedito per colpa degli uditori, come
in Ezechiele: "Farò
attaccare la tua lingua al tuo palato e sarai muto, e non potrai
rimproverare, perché è una casa che esaspera"
(Ez
3,26).
Come se dicesse: Ti tolgo la parola, perché un popolo che mi
esaspera con le sue azioni, non è degno che gli si porti la verità.
Non è facile, quindi, discernere per colpa di chi vien tolta la
parola al predicatore; ma è certo che il silenzio del pastore, se
qualche volta è dannoso al pastore stesso, al suo gregge lo è
sempre...
Colui
che prende l’ufficio di predicare, non deve fare il male ma lo deve
tollerare, perché con la sua mansuetudine, gli riesca di mitigare
l’ira di quelli che infieriscono contro di lui, e lui ferito riesca
con le sue pene a guarire negli altri le ferite dei peccati. E anche
se lo zelo della giustizia vuole che talvolta egli sia severo con gli
altri, il suo furore deve nascere da amore e non da crudeltà; ed ami
con amore paterno, quando col castigo difende i diritti della
disciplina. E questo il superiore lo dimostra bene, quando non ama se
stesso, non cerca cose del mondo, non piega il suo collo al peso di
terreni desideri...
"L’operaio
è degno della sua mercede"
(Lc
10,7),
perché gli alimenti fanno parte della mercede, in modo che qui
cominci la mercede della fatica della predicazione, che sarà
compiuta in cielo con la visione della Verità. Il nostro lavoro,
dunque, ha due mercedi, una qui nel viaggio e un’altra nella
patria: una che ci sostiene nel lavoro, l’altra che ci premia nella
risurrezione. La mercede che riceviamo qui però ci deve rendere più
forti per la seconda. Il predicatore perciò non deve predicare per
ricevere una mercede temporale, ma deve accettare la mercede, perché
possa continuare a predicare. E chiunque predica per una mercede di
lode o di danaro, si priva della mercede eterna. Colui invece che,
quando parla, desidera di piacere, non perché lui sia amato, ma
perché il Signore sia amato, e accetta uno stipendio solo perché
non venga poi meno la voce della predicazione, certamente questi non
sarà premiato meno nella patria perché ha accettato un compenso in
questa vita.
Ma
che facciamo noi pastori, non posso dirlo senza dolore, che facciamo
noi che prendiamo la mercede dei pastori e non ne facciamo il lavoro?
Mangiamo ogni giorno il pane della santa Chiesa, ma non lavoriamo
affatto per la Chiesa eterna. Riflettiamo quale titolo di dannazione
sia il prendere il salario d’un lavoro senza fare il lavoro.
Viviamo con le offerte dei fedeli, ma dov’è il lavoro per le loro
anime? Prendiamo come paga ciò che i fedeli danno in sconto dei loro
peccati, ma non ci diamo da fare con l’impegno della preghiera e
della predicazione, come sarebbe giusto, contro quegli stessi
peccati.
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