venerdì 28 settembre 2018

Regole per educare il cuore al bene


Domenica XXVI del Tempo Ordinario – Anno B – 30 settembre 2018
Rito Romano
Nm 11,25-29; Sal 18; Giac 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48ESTO

Rito Ambrosiano
Dt 6,1-9; Sal 118; Rm 13,8-14a; Lc 10,25-37
V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.


1) In cammino con la Vita che dà la vita e regole di vita.
Il brano del Vangelo di Marco che è proposto in questa 26ª Domenica del tempo ordinario, ci narra due episodi.
Nel primo, Giovanni fa notare a Cristo che c’è qualcuno che scaccia i demoni in Suo nome senza essere del gruppo dei Suoi discepoli. Gesù giustamente fa osservare che ogni opera di bene, da qualsiasi parte venga, è sempre ben accetta, perché la sorgente della bontà e dell’amore è Dio stesso. Chi opera il bene è comunque e sempre dalla parte di Cristo e di Dio. La risposta di Gesù a Giovanni riguardo all'esorcista estraneo al gruppo dei discepoli si ispira a grande tolleranza ed è identico all'atteggiamento assunto da Mosè nei confronti di Eldad e Medad durante l’esodo (Nm 11,24-30 – Prima lettura della messa di oggi).
Nel secondo episodio Gesù esorta i discepoli a non scandalizzare i “piccoli” cioè i fratelli immaturi nella fede allontanandoli dal Vangelo con una condotta scorretta e un comportamento non conforme al Vangelo. Per fare questa ammonizione, il Messia usa espressioni dure: “Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala, è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mc 9, 45.47-48). Con queste parole Gesù invita i discepoli a un atteggiamento ispirato all’umiltà, alla comprensione e al sacrificio per evitare lo scandalo, che oscura la luce del Vangelo.
Potremmo formulare l’invito di Cristo con le parole che, nell’“L’annuncio a Maria” di Paul Claudel, la protagonista ormai cieca, Violaine, fa a quanti godono del dono della vista: “Ma voi che ci vedete, cosa ne avete fatto della luce?”
Se sapremo convertire anche e prima di tutto il nostro cuore, allora chi vive accanto a noi, anche se non è credente, capirà che Gesù non è un'incomprensibile e inaccettabile formula teologica nella nostra mente, ma la vita di Dio nel nostro cuore e luce ai nostri passi, e, anche se non cambierà la sua religione, cambierà il suo cuore, diventando più aperto, tollerante, libero.
Gesù chiede ai discepoli, e quindi a noi, di avere il suo pensiero che non respinge nessuno e lo stesso suo sguardo che riconosce anche i più piccoli segni della fede, come il dono di un semplice bicchiere d’acqua che, se dato a un “piccolo”, “condizionerà” il giudizio finale quando il Figlio dell'uomo giudicherà tutti i popoli della terra.
L’apertura totale, senza alcuna transenna di spazio e di tempo, è mostrata proprio da Gesù con la sua incarnazione e morte in croce, accomunato a tutta l’umanità. In ogni uomo e donna della terra è possibile una relazione misteriosa e profonda con Gesù Cristo. Anche la comunità cristiana è chiamata ad allargare i propri confini fino a considerare tutti in qualche modo come suoi figli, anche quelli che non hanno una conoscenza-esperienza piena di Gesù.
Se la "piccolezza" è la fisionomia profonda della vita del credente, anche una mano, un piede e un occhio, possono farle del male e ostacolare - nel senso di fare scandalo, inciampo - la presenza del Signore in noi. Piccolo è un bicchiere d’acqua e i piccoli sanno apprezzarlo, non mancando di ringraziare, soprattutto quando è ricevuto in nome di Gesù.

2) Il nome di Gesù.
Questo nome: “Gesù” è da “utilizzare” non solamente per servirsene ma per appartenere a Lui. Il fatto è che chi opera nel suo nome può fare cose grandi, a iniziare dagli apostoli che appartengono a Gesù Cristo. Ma chi è di Cristo? I discepoli che lo seguono, ma non si fanno proprietari di Cristo. Quando i cristiani hanno creduto di avere il monopolio di Gesù, hanno corso il rischio di essere intolleranti. Il bene, sotto ogni forma, è diritto e dovere di ogni uomo. Gesù e lo Spirito sono presenti ovunque si fa il bene. Nella pagina precedente, i discepoli si dividevano tra loro in nome del proprio io. Qui si dividono dagli altri nel nome del proprio noi. Solo il “Nome” di Gesù è radice di unità tra tutti. Lo scandalo è tutto ciò che impedisce a qualcuno di seguire Dio per giungere alla salvezza. Piuttosto che far perdere la fede anche a uno solo, sarebbe meglio morire.
Il che non significa certo mettere in secondo piano o addirittura vanificare l’impegno dell’annuncio e della chiamata a convertirsi al Vangelo, come qualcuno potrebbe pensare. Non va dimenticato che la testimonianza e l’annuncio sono parte integrante dell’autentica fede cristiana, che non può tacere l’immensa gioia di aver incontrato il Signore; e, se io non nascondo il fatto di essere cristiano convinto e praticante, ogni gesto di amicizia, di aiuto, di scambio che compio è annuncio, così come ogni parola e gesto di Gesù lo era, prima ancora che Egli dichiarasse: “Io sono il Figlio di Dio”. Dal Nuovo Testamento emerge chiaramente il “dovere” dell’annuncio: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15); “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9,16); “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi ... con dolcezza e rispetto e con una retta coscienza” (1 Pt 3,15-16).
Il primo appello di Gesù è alla “conversione del cuore” e chiede ai Suoi discepoli di non mettere l’altro in schemi preconcetti, ma di accoglierlo e di ascoltarlo. Ascoltare la sinfonia del gemito di un bambino, di un povero di un malato per portare loro la tenerezza di Dio. Ascoltare le parole del mondo e ridargli la Parola, perché tutto ciò che riguarda l’umana avventura riguarda ciascuno di noi: “Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo” (Terenzio).
La risposta di Gesù, l’uomo senza barriere, è di quelle che possono segnare una svolta della storia: gli uomini sono tutti dei nostri, come noi siamo di tutti. Prima di tutto l’uomo. “Quando un uomo muore, non domandarti per chi suona la campana: essa suona sempre un poco anche per te” (John Donne). Tutti sono dei nostri. Tutti siamo ‘uno’ in Cristo Gesù.
Ma l’annuncio di Gesù è ancora più coraggioso: ci porta a non sentirci estranei. Ci chiede di amare il prossimo e di vivere la vita come condivisione: ci porta a vivere molte vite, storie d’altri come fossero le nostre. Ci dà cento fratelli e sorelle, cento cuori su cui riposare, cento labbra da dissetare, cento bocche che non sanno a Chi gridare, di cui siamo la voce.
E’ vero, come ho detto poco sopra, che il Vangelo di oggi termina con parole dure: “Se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali, buttali via”. Vangelo delle ferite, scandalose e luminose come le stigmate di Gesù. In effetti, le parole di Cristo non sono l’invito a un’inutile auto­mutilazione, sono invece un linguaggio figurato, incisivo, per trasmettere la serietà con cui si deve pensare alle cose essenziali. Anche perdere ciò che ci è prezioso, come la mano e l’occhio, non è paragonabile al danno che deriva dall’aver sbagliato la vita. Il Signore ci invita a temere di più una vita fallita che non le ferite dolorose della vita.
Un modo speciale di accogliere Cristo e le ferite del suo amore per noi è quello delle Vergini consacrate nel mondo. Essere vergine significa mantenere il carattere sponsale del proprio corpo intatto per il Signore. Una vergine non si spreca, non cerca vita negli altri esseri umani, nella carne e sangue, la cerca in Dio. Serve molta maturità ed anche molta fede per tagliare le affettività malate verso le persone, per aspettare con fedeltà e perseveranza il Signore che viene. Occorre avere un’esperienza concreta dello stare con il Signore, non basta una conoscenza teoretica. Se uno ha la fede debole, smette di pregare, vive la solitudine per se stesso, non vuole assumere le responsabilità della vita adulta, rischia seriamente. Può conservare la verginità fisica, però perdendo il senso diventerà un egoista o narcisista, cinico o amareggiato, acido o vampiro affettivo. Sant’Agostino dice che una verginità senza l’umiltà non serve.
Essere vergine nell’anima, nello spirito vuol dire essere liberi dagli idoli, non idolatrare se stessi o gli altri, ma essere solo per Dio.
La verginità consacrata non è un mezzo di preservazione di se stessi, un seppellire il proprio talento sotto terra per restituirlo un giorno, integro ma senza interessi; è anzi un mezzo di donazione di se stesso, che accetta certe rinunce solo per poter dare tutto a Dio e di più al prossimo.
“La verginità cristiana è esperienza dell’unione sponsale intima, esclusiva, indissolubile, con lo Sposo divino che si è donato all’umanità senza riserve e per sempre, e in questo modo si è acquistato un popolo santo, la Chiesa. Iscritta nella creatura umana come capacità di vivere la comunione nella differenza tra uomo e donna, per le vergini consacrate la sponsalità è esperienza della trascendenza e della sorprendente condiscendenza di Dio; la consacrazione si compie attraverso il patto di alleanza e di fedeltà che unisce la vergine al Signore in mistiche nozze, per rendere sempre più profonda e piena la partecipazione ai suoi sentimenti e la conformazione alla sua volontà di amare” (Istruzione Ecclesiae Sponsae Imago, n. 24)

Lettura Patristica
Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 9, 38-43

       "
Giovanni gli rivolse la parola: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in nome tuo, ma non gliel’abbiamo permesso perché non è dei nostri»" (Mc 9,38).
       Giovanni, che amava con straordinario fervore il Signore e perciò era degno di essere riamato, riteneva dovesse essere privato del beneficio chi non ricopriva un ufficio. Ma viene ammaestrato che nessuno dev’essere allontanato dal bene che in parte possiede, ma che piuttosto dev’essere invitato a ciò che non ancora possiede. Continua infatti:
       "Ma Gesù gli disse: «Non gliel’impedite. Non c’è nessuno infatti che operi miracoli nel mio nome e possa subito dopo parlar male di me. Chi infatti non è contro di voi, è con voi»" (Mc 9,39-40).
       Lo stesso concetto ripete il dotto Apostolo: "Purché Cristo sia in ogni modo annunziato, per dispetto o con lealtà, io di questo godo e godrò!" (Ph 1,18). Ma anche se egli s’allieta per coloro che annunziano Cristo in modo non sincero e, poiché fanno di conseguenza talvolta miracoli per la salvezza degli altri, consiglia che non ne vengano impediti, tuttavia costoro per tali miracoli non possono sentirsi giustificati; anzi, in quel giorno in cui diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in nome tuo, e non abbiamo scacciato i demoni nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo compiuto molti miracoli?", essi riceveranno questa risposta: "Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi che operate l’iniquità" (Mt 7,22-23). Perciò, per quanto riguarda gli eretici e i cattivi cattolici, dobbiamo solennemente respingere non quelle credenze e quei sacramenti che essi hanno in comune con noi e non contro di noi, ma la scissione che si oppone alla pace e alla verità, per la quale essi sono contrari a noi e non seguono in unità con noi il Signore.
       «Infatti, chiunque vi darà da bere un bicchier d’acqua in mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41).
       Leggiamo nel profeta David (Ps 140,4) che molti, a titolo di scusa dei loro peccati, pretendono che siano giusti gli stimoli che li spingono a peccare, così che, mentre volontariamente peccano, s’illudano di farlo per necessità. Il Signore, che scruta il cuore e i reni, sarà capace di vedere i pensieri di ciascuno. Aveva detto: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli in mio nome, riceve me" (Mt 18,5). Qualcuno avrebbe potuto obiettare polemizzando: «Me lo vieta la povertà, la mia miseria mi impedisce di riceverlo», ma il Signore annulla anche questa scusa col suo lievissimo comandamento per indurci almeno a porgere con tutto il cuore un bicchier d’acqua, magari fredda, come dice Matteo (Mt 10,42). Dice un bicchiere d’acqua fredda, non calda, affinché non si cerchi in questo caso una scusa adducendo la miseria e la mancanza di legna per scaldarla.


venerdì 21 settembre 2018

Riconoscere Cristo esige fede e semplicità.


Gesù è il racconto della tenerezza di Dio” (Papa Francesco)

Domenica XXV del Tempo Ordinario – Anno B – 23 settembre 2018
Rito Romano
Sap 2,12.17-20; Sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

Rito Ambrosiano
1Re 19,4-8; Sal 33; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51
V Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.

1) La tenerezza di Dio.
Il Vangelo di oggi, secondo me, non ha come scopo principale di insegnarci come essere umili e pronti a servire Dio con umiltà, soccorrendo i piccoli di cui i bambini sono l’esempio più evidente. Oggi Gesù ci insegna la tenerezza di Dio, la quale nasce da un amore totale, che va fino alla morte di Croce. Questo amore divino non si lascia soffocare dalla morte, ma rinnova la vita e fa risorgere. E’ un amore umile perché è rivolto a noi esseri fatti di terra, che in latino si dice “humus”.
Ovviamente il Redentore è umile non nel senso etimologico di “poco elevato da terra”, ma perché non esita a scendere su questa terra e a prendere un corpo che viene dalla terra. E’ umile perché in Lui non c’è orgoglio, perché Lui è pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita.
Cristo è umile perché è misericordioso e ci manifesta il tenero amore divino.
La tenerezza di Dio non è un sentimento sdolcinato, ma l’abbraccio paterno che ci arriva attraverso il suo Figlio, che è grande perché ha saputo farsi piccolo. Lui l’amore non lo impone con la forza delle armi, ma con la dolcezza di braccia aperte verso di noi, sia nella culla a Betlemme, sia sulla Croce a Gerusalemme.
Se vogliamo essere i primi tra i suoi discepoli, dobbiamo quindi essere i primi nell’amore, che è tale quando ci doniamo a Dio senza riserva e serviamo i nostri fratelli e sorelle in umanità di tutto cuore, generosamente.
I discepoli (e di fatto noi con loro, perché oggi siamo noi i discepoli di Cristo) non capiscono le parole del Messia, tanto è vero che arrivati a Cafarnao devono confessare al loro Maestro che, durante la strada, avevano discusso su chi fosse il più grande tra di loro. In un modo ancora oggi sorprendente, il Redentore dice loro che il più grande è colui che serve e che la misura del Regno di Dio è l’accoglienza dei piccoli: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37 - Il Vangelo di San Marco continua poi con altri insegnamenti che vedremo domenica prossima). Insegnamento ben sintetizzato dalla preghiera (la colletta) della Messa di oggi: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall'alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”.
Dunque il brano evangelico di oggi non sono due parti giustapposte: una che riguarda l’annuncio della passione di Cristo e l’altra che riguarda la formazione dei discepoli. Si tratta di un unico e coerente discorso a cui possiamo dare il titolo: “La Croce di Gesù e le sue conseguenze per il discepolo”. Farsi servo e accogliere i piccoli nel suo nome sono due comportamenti che con dolcezza e decisione Gesù insegna ai suoi e che sono da “praticare” congiuntamente. Il praticare questi due comportamenti è imitare Cristo, seguendoLo fino ad andare in Croce come Lui ed essere come Lui servo di tutti: “Se uno vuole essere il primo, si consideri l’ultimo di tutti e si faccia il servo di tutti” (Mc 9, 35).
Dal giorno in cui il Figlio di Dio si è incarnato ed è entrato nella nostra storia, percorrendo un lungo cammino –che dalla culla di Betlemme fu un percorso di offerta (= una via della Croce) che culminò alla “culla” della Croce sul monte Calvario a Gerusalemme- i criteri di giudizio sul valore della persona umana e della dignità sono radicalmente capovolti: la dignità di una persona non sta nel posto che occupa, nel lavoro che fa, nelle cose che ha, nella fama che raggiunge. La grandezza dell’uomo non consiste in quello che fa di importante, ma nel servizio a Dio e all’uomo, perché la gloria e la bontà e l’amore del Signore siano manifeste.
Modalità privilegiata di questo servizio è l’accoglienza. Nel suo Vangelo San Marco utilizza il verbo “accogliere” in diverse occasioni e con diverse sfumature, tutte però in qualche modo convergenti. Questo Evangelista ci parla dell’accoglienza fatta al missionario (6,11), alla Parola (4,20), al Regno (10,15), ai piccoli. Accogliere significa ascoltare, rendersi disponibili, ospitare l’Infinito che si è fatto Bambino e i bambini che già da quando sono nella culla riflettono il cielo. Accogliere dunque vuole dire soprattutto lasciarsi “stupire” dalla Parola, o dal missionario, o dal piccolo che si accoglie, e la capacità di porsi al suo servizio.


2) Carità della Passione
Oggi, Gesù insegna ponendo dinanzi ai discepoli il segno di un bambino. Lo abbraccia perché è segno suo; lui è il segno del Padre che Lo ha mandato e il bambino è segno della tenerezza di Dio e dell'obbedienza filiale del suo Unigenito, che per amore si è fatto Bambino e che per obbedienza si è fatto crocifiggere tra i malfattori. È un bambino piccolo, ma è segno di Lui che viene da Dio; e le parole che pronuncia (“Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” Mc 9, 37) sono cariche di grande rivelazione. Il bambino posto in mezzo e abbracciato è allo stesso tempo immagine del Cristo, immagine del cristiano e immagine di Dio. Accogliere il bambino nel nome del Cristo è ricevere il mistero stesso di Dio.
Il Vangelo di oggi è un insegnamento forte sull’umanità del Figlio di Dio: Gesù dice di essere il Figlio dell’uomo. Per questo la sua morte e la sua resurrezione, sono cose concrete, vere. E poi c'è quel colloquio in casa quando il Signore si ritrova con i suoi discepoli, la sua “nuova” santa famiglia, o, meglio, in cammino verso la santità. Non li rimprovera, ma spiega loro il modo nuovo di essere primi: accogliere un piccolo è accogliere Lui e il Padre.
I discepoli fanno fatica a capire che seguire Gesù significa rinunciare a se stessi e prendere la propria croce, ma hanno paura. Noi pure abbiamo paura di capire. Il nostro non capire è un non voler capire. Quel bambino abbracciato e messo in mezzo è il segno del mistero di Dio che si consegna nelle mani dell'uomo. È l’accoglienza dei “piccoli” la verifica dell’autenticità del nostro servizio e della nostra ospitalità all’Infinito che si è fatto Piccolo per noi.
Nella passione troviamo la carità.. Nessuno ha un amore più grande di colui che da grande che era si fece piccolo e dà la vita per i suoi amici, andando in croce. La croce del Signore, in cui ci gloriamo insieme all'Apostolo: Di null'altro mi glorierò dice se non nella croce del Signore nostro Gesù Cristo (Gal 6,14), non solo quella composta da due pezzi di legno, ma è l’uomo stesso come scrive San Berardo di Chiaravalle “Forse proprio noi siamo la croce a cui Cristo si ricorda di essere stato confitto. L’uomo, infatti, ha la forma di una croce. e se distende le mani lo esprime molto chiaramente”.
E’ sulla Croce che Gesù nasce al Cielo e Maria Vergine che l’aveva messo alla luce senza dolore, lei la Madre di Dio, lo “mise alla Luce” accettando di soffrire ben più che i dolori del parto e accettando noi suoi figli nel Figlio. Questa “Mater dolorosa” che stette salda sotto la Croce è la Vergine delle vergini, che la seguono imitandolo pure nella maternità. Queste donne imitando Maria sono madri nello spirito perché il dono completo de loro stesse a Cristo.
In modo eminente e unico Maria diede il suo corpo e il suo sangue – cioè, tutta la sua vita – perché fossero il corpo e il sangue del Figlio di Dio. La Madonna fu madre nel più pieno e profondo senso della parola: diede la sua vita all’Altro, e ‘informò’ la sua vita in lui. Accettò l’unica vera essenzialità di ogni creatura e di tutto il creato: di porre, cioè, il senso e, quindi, la pienezza della sua vita in Dio. La verginità di Maria fu pienezza e totalità dell’amore, non fu una ‘negazione’ dell’amore.
È la totalità del dono di Maria a Dio e, quindi, la vera espressione, la vera qualità del suo amore. La Madre di Dio e nostra mostro e mostra ancora oggi che maternità è il compimento della femminilità perché è il compimento dell’amore come obbedienza e risposta. È offrendosi che l’amore dà vita, diviene fonte di vita.
Il gioioso mistero della maternità di Maria non è dunque opposto al mistero della sua verginità. È lo stesso mistero. Ella non è madre ‘a dispetto’ della sua verginità; anzi, questa rivela la pienezza della maternità perché la sua verginità è la pienezza dell’amore. Le Vergini consacrate testimoniano che ancora oggi questa maternità è possibile, con semplicità, fede e donazione.
Infatti, è la pienezza dell’amore che accetta la venuta di Dio a noi, dando vita a Lui che è la vita del mondo. Stimiamo e gioiamo e riconosciamo che le consacrate testimoniano il fine e la pienezza di ogni vita, di ogni amore è “accettare il Cristo”, dargli vita in noi.
Mi piace infine ricordare la vocazione di umiltà come è vissuta nell’Ordo Virginum, in cui l’umiltà verginale diventa missione nella vita di ogni giorno, al lavoro come in casa. La maternità spirituale a cui queste donne sono chiamate si identifica con l’umile ed obbediente assunzione della maternità della Chiesa.
Il Rito dell’Ordo Virginum indica bene che la donna, che si consacra in questa strada, è invitata ad un’obbedienza che nasce dalla fede, ad una speranza che nasce dalla vita vissuta poveramente, ad un permanere nell’umiltà. Mediante tale permanere queste consacrate sono chiamate a testimoniare come l’umiltà verginale diventa missione nella vita di ogni giorno, al lavoro come nella preghiera nascosta nella casa dove vivono con semplicità.
Questo ideale deve essere l’ideale pregato, domandato, richiesto, mendicato ogni giorno non solo da chi ha fatto i voti religiosi, ma da tutti i fedeli laici.
Infatti anche chi vive una vita “secolare” in famiglia può e deve avere come regola la familiarità con la presenza di Cristo. Presenza che costituì la regola di vita della Santa Famiglia e, quindi, può e deve essere la regola di ogni famiglia cristiana. Non dimentichiamo che la Famiglia di Nazareth era composta da un falegname, una casalinga ed un bambino, segno che si sin dall’inizio il cristianesimo è umiltà e dolcezza.




Lettura Patristica
San Beda il Venerabile,
In Evang. Marc., 3, 9, 28-37


       "Partiti di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»" (Mc 9,30-31).

       «Il Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte da anime pronte. Così li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso, ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).

       "Essi però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo" (Mc 9,32).

       Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore; questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.

       "E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per strada discutevano tra loro chi fosse il più grande"(Mc 9,33-34).

       Sembra che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro. Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che Pietro fosse superiore a tutti.

       "E sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere il primo, sarà l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia, disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio nome, riceve me...»"(Mc 9,35-37).

       «Il Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà, e fa loro intendere che non si deve ricercare di essere i primi, così dapprima li esorta col semplice comandamento dell’umiltà, e li ammaestra subito dopo con l’esempio dell’innocenza del fanciullo. Dicendo infatti: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me", o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti da coloro che vogliono essere più grandi per rendere così un atto d’onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia, ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo). Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi avranno messo in pratica il suo comandamento: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29), solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: "La sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi abbraccerà" (Ct 2,6). E dopo aver detto: «Chiunque di voi riceverà uno di questi fanciulli», giustamente aggiunge: «nel mio nome», in modo che anch’essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di Cristo e con l’aiuto della ragione, quello splendore della virtù che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi solo all’apparenza, aggiunge:

       ...«E chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato»,

       volendo così convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre.



venerdì 14 settembre 2018

Riconoscere Cristo esige fede e semplicità.


Domenica XXIV del Tempo Ordinario – Anno B – 16 settembre 2018
Rito Romano
Is 50,5-9a; Sal 114; Giac 2,14-18; Mc 8,27-35

Rito Ambrosiano
Is 32,15-20; Sal 50; Rm 5,5b-11; Gv 3,1-13
III Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.  


1) Riconoscere Cristo.

Tutto il Vangelo di San Marco intende rispondere alla domanda: “Chi è Gesù?”. Ma nel brano che leggiamo oggi è Gesù stesso che fa esplicitamente questa domanda: “Voi chi dite che io sia?” e quindi anche noi siamo obbligati a rispondere..
Nei capitoli precedenti che ci sono stati proposti nelle domeniche scorse, Gesù non rispondeva a questa domanda con una definizione di se stesso, ma con delle azioni che manifestano quello che Lui è attraverso quello che Lui fa:
  • fa camminare il paralitico, cioè è Colui che dà all’uomo la capacità di camminare nella vita;
  • fa udire il sordo e fa parlare il muto, cioè è Colui che ha parole di vita, che spiegano la vita;
  • fa risuscitare il morto, cioè è il Datore della vita;
  • fa vedere il cieco, cioè è la Luce che dà la luce, che fa venire alla luce;
  • fa calmare le acque del mare, cioè Lui è il Signore della natura;
  • fa e dà il pane nel deserto, cioè è Colui che nutre corpo e anima.
La conclusione a cui si dovrebbe arrivare assistendo a questo “fare”, dovrebbe essere quella di affermare: “Costui è il Messia (in greco: il Cristo)”. Purtroppo la gente di allora, ma molti anche oggi, non coglie la novità e la grandezza di Gesù, perciò alla domanda “Chi dicono che io sia”, la riposta della maggioranza è che questo “facitore” non è altro che uno dei profeti come quelli che lo avevano preceduto. Allora Gesù fa questa domanda ai suoi apostoli: “E voi, chi dite che io sia?”. Pietro, anche a nome degli altri, risponde con prontezza: “Tu sei il Cristo!”. Pietro riconosce con chiarezza che Gesù è il Messia. E dà una risposta precisa. Non c’è altra risposta. Cristo morto e risorto è Colui nel quale si è compiuto l’impossibile, l’inimmaginabile, l’unico fatto capace di cambiare il corso d’una storia dell’uomo. Senza di Lui l’uomo è “un essere per la morte” (Martin Heiddeger), mentre se è “legato” alla Croce, è “sciolto” dalla morte.
Va poi tenuto presente che la risposta di San Pietro implica un ulteriore riconoscimento: quello dell’amore crocifisso. La logica della croce “non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell'amore e del dono di sé che porta la vita” (Papa Francesco).
E’ la via della Croce che completa il discorso, chiarificandolo. Quando il Capo degli Apostoli Gli dice: “Tu sei il Cristo”, Gesù sente il bisogno di precisare che Lui è il Figlio di Dio, che deve molto soffrire. Dunque alla domanda che oggi Gesù fa a noi: “Voi chi dite che io sia?”, la risposta completa è “Sei il Cristo, l’Amore crocifisso e risorto”. Infatti, San Paolo scrive: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”, ma sapeva che la croce non è un ostacolo alla salvezza. Ne è la condizione. “La Croce non è un palo dei romani, ma il legno su cui Dio ha scritto il Vangelo” (Alda Merini, 1931 – 2009, poetessa milanese). Con Cristo in Croce il mondo riceve una dimensione nuova, quella di Gesù e di tutti quelli che danno la vita per gli altri, seguendoLo.
Il Messia invita a seguirlo sempre fino al Calvario, perché camminando dietro la Sua Croce modelliamo la nostra vita su quella dell’ “Agnello che c’insegna la fortezza, dell’Umiliato che dà lezione di dignità, del Condannato che esalta la giustizia, del Morente che conferma la vita, del Crocifisso che prepara la gloria.” (Don Primo Mazzolari, 1890 – 1959, Prete e scrittore cremonese)
Seguendo Cristo e credendo alla Carità teniamo le braccia spalancate e il cuore aperto come il Crocifisso. Certo per fare questo, come San Pietro dobbiamo riconoscere Gesù come il Messia, il Salvatore. Come San Pietro dobbiamo accettare la Croce come “chiave” con la quale il Signore ha aperto il Cielo e chiuso l’inferno per tutti quelli che lo accolgono. Questa pesante “Chiave” il Redentore l’ha portata sulle sue spalle, ne ha sentito tutto il peso e la responsabilità mentre i chiodi ne trapassavano le carni e lo univano ad essa. Questa “chiave” del Regno Cristo l’ha consegnata a San Pietro, chiamandolo ad essere crocifisso con Lui, a portare con Lui il giogo leggero e soave sulle spalle, per imparare l'umiltà e la mitezza con le quali “sciogliere” gli uomini dalla schiavitù del mondo, della carne e del demonio, e “legarli” così a Cristo in un’alleanza eterna che li faccia per sempre figli del Padre celeste.
In un’omelia attribuita a Sant’Efrem il Siro, questo Santo immagina che il buon ladrone dopo la sua morte arriva alla porta del paradiso. Sulle sue spalle porta la sua croce. Accorre il cherubino con la spada guizzante come una fiamma (Gn 3,24) per bloccare l’accesso al paradiso ai delinquenti, che non sono degni della gioia eterna. Non ci sono eccezioni. Sant’Efrem descrive una discussione accesa tra il cherubino e il buon ladrone. Il dibattito si conclude quando il buon ladrone mostra la chiave della porta del Paradiso. E qual è la chiave del paradiso? La croce, la sua croce trasfigurata dalla Croce vivificante del nostro Signore Gesù Cristo. La Croce apre la porta della vita a noi tutti che crediamo in Cristo Gesù, come il buon ladrone: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. La vita di Cristo trionfa in tutti i peccatori pentiti, anche quelli dell’ultimo momento, come il buon ladrone.
Noi peccatori pentiti di oggi siamo oggi chiamati a capire che non si tratta solo nella fede di riconoscere Cristo come l’inviato del Padre, ma di testimoniarlo con una degna condotta di vita cristiana che vuol dire capacità di amare fino al sacrificio supremo.

2) Amore vero, perché crocifisso.

Certo, come San Pietro anche noi tentiamo di allontanare Cristo dalla Via della Croce. La tentazione, che viene dal diavolo; è il tentativo di distogliere dalla via tracciata da Dio (la via della Croce) per sostituirla con una via elaborata dalla saggezza degli uomini, da ciò che spesso viene indicato come buon senso.
Cristo ha smascherato e vinto questa tentazione e la sua vita è stata un continuo sì a Dio e un no al tentatore. Gesù ha vinto diavolo. Però il diavolo cerca di ottenere dal discepolo ciò che non è riuscito ad ottenere dal Maestro: separare il Messia dal Crocifisso, la fede in Gesù Re dal suo trono che è la Croce.
Dopo aver precisato la sua identità e dopo aver smascherato la presenza della tentazione, Gesù si rivolge ai discepoli e all’altra gente e con molta chiarezza propone loro il suo stesso cammino. Non ci sono due vie, una per Gesù e una per i discepoli, ma una sola: “Chi vuole venire dietro me rinneghi se stesso e prenda la sua croce”.
La croce è simbolo e icona dell’amore verginale. E’ la sintesi più vera dell’amore ricevuto e donato, dell’amore crocifisso. In effetti niente come la croce dà la certezza di essere amati, da sempre, per sempre, totalmente e senza riserve. Il vero volto di Dio è quello del Crocifisso (Jurgen Moltman). Se dunque presentiamo al mondo Cristo con il suo vero volto, la gente può sentirlo come una risposta convincente ed è capace di seguire Lui e il suo messaggio, anche se è esigente e segnato dalla croce.
E’ vero che la croce è “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,18-24) e che è difficile per ciascuno di noi capirla e accettarla. Ma se guardiamo, per esempio, all’esempio delle vergini consacrata nel mondo siamo aiutati a capire, accettare e vivere la croce.
L’amore vissuto virginalmente è un amore crocifisso non perché è un amore mortificato, ma perché è un amore “sacrificato”, cioè reso sacro dal totale dono di se stessi a Dio. L’amore vergine è quello di Cristo, che “praticò” un amore crocifisso. Gesù per amare è andato in un’esperienza progressiva di svuotamento di sé fino alla croce. Se vogliamo amare da cristiani dobbiamo saperlo e fare come lui. Questo modo di amare mette l’altro prima di me e l’Altro (Dio) più di me. La croce è il segno più grande dell’amore più grande, e la virginità è la crocifissione di sé per donarsi a Dio, per inchiodarsi al suo amore abbracciando Cristo in Croce.
Le Vergini consacrate sono esempio significativo ed alto del fatto che l’amore di Dio è totalitario, infatti bisogna amare il Signore “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (cfr. Mc 12,30).
Queste donne mostrano che il corpo e il cuore castamente offerto non allontana da Dio, avvicina l’essere umano a Dio più degli stessi angeli (cfr. Ef 1,14) e che la vita cristiana è un progressivo configurarci a Cristo crocifisso e risorto. In effetti, come l’amore di Cristo per noi Lo ha condotto alla croce, l’amore nostro per Lui imprime in noi le sue ferite d’amore (Ct 2,5). L’amore purifica e configura, trasfigurando. Ma va tenuto presente che la conformità dolorosa con il Cristo crocifisso ha come scopo ultimo quello di portare il cristiano alla conformità gioiosa con Lui risorto.
La verginità non è semplicemente una rinuncia, ma è la manifestazione dell’amore cocente per Dio e per il prossimo. Amore che trasforma l’amante nell’Amato. La verginità vissuta come crocifissione è per testimoniare che l’Amore ha vinto attraverso il dono di sé. La verginità vissuta come risurrezione è per testimoniare che lo Sposo è davvero presente nella vita di ogni giorno e la sua condiscendente presenza dà gioia, gioia piena e compiuta (cfr. Gv 3,29). La verginità è libertà, è segno di amore perfetto, che non ha né impazienza, né invidia, né gelosia, e assicura la pace irraggiando la gioia. Queste donne testimoniano che è impossibile amare senza tentare di assomigliargli e portare la gioia della sua presenza nella vita del mondo.


Lettura Patristica
Filosseno di Mabbug,
Hom., 4, 75 s.

La sequela di Cristo esige fede e semplicità

       È così che Abramo fu chiamato e uscì alla sequela di Dio: egli non si fece giudice della parola rivoltagli e non si sentì impedito dall’attaccamento alla razza e ai parenti, al paese e agli amici, né da altri vincoli umani; ma appena intese la parola e seppe che era di Dio, l’ascoltò semplicemente e, in spirito di fedeltà, la ritenne veritiera; disprezzò tutto e uscì con la semplicità della natura che non agisce con astuzia e per il male...

       Dio non gli rivelò qual fosse questo paese per far trionfare la sua fede e mettere in risalto la sua semplicità; e quantunque sembri che lo conducesse al paese di Canaan, gli prometteva di mostrargli un altro paese, quello della vita che è nei cieli, secondo la testimonianza di Paolo: "Egli aspettava la città dalle solide fondamenta, il cui architetto e cosruttore è Dio" (He 11,10). E ha detto ancora: "È certo che ne desideravano una migliore del paese di Canaan, cioè quella celeste" (He 11,16). E per insegnarci chiaramente che quello che egli prometteva di mostrare ad Abramo non era il paese della promessa corporale, Dio lo fece dimorare ad Haran dopo averlo fatto uscire da Ur dei Caldei, e non lo introdusse nel paese di Canaan subito dopo la sua uscita; e affinché Abramo non pensasse aver inteso l’annuncio di una ricompensa e non uscisse per questa ragione secondo la parola di Dio, non gli fece conoscere fin dall’inizio il nome del paese dove lo conduceva.

       Considera perciò quella uscita, o discepolo, e sia la tua come quella; non tardare a rispondere alla viva voce di Cristo che ti ha chiamato. Là, egli non chiamava che Abramo: qui, nel suo Vangelo, egli chiama e invita a uscire alla sua sequela tutti quelli che lo vogliono, invero, è a tutti gli uomini che egli ha rivolto la sua chiamata quando ha detto: "Chi vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24 Mc 8,34 Lc 9,23); e mentre là non ha scelto che Abramo, qui, invita tutti a divenire simili ad Abramo.


venerdì 7 settembre 2018

Ascoltare per rispondere


XXIII Domenica del Tempo ordinario – anno B – 9 settembre 2018

Rito Romano
Is 35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Rito Ambrosiano

Is 63,7-17; Sal 79; Eb 3,1-6; Gv 5,37-47

II Domenica dopo il Martirio di San Giovanni, il Precursore


1) Effatà = apriti.
Nel Vangelo di questa domenica, San Marco ci racconta di un miracolo fatto da Gesù mentre compie il suo lavoro di evangelizzazione nella regione pagana di Tiro. Il percorso descritto dall’Evangelista è molto significativo. Con una lunga deviazione Gesù cammina per una strada, che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele. Il Messia percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale.
Operare in quella terra il miracolo significa l’apertura universale del Vangelo: ogni uomo e ogni donna, ovunque essi abitino e a qualunque cultura appartengano, possono essere raggiunti dalla Parola di Dio e toccati dalla Sua misericordia.
In verità con il miracolo di oggi con cui Cristo guarisce un sordomuto abbiamo già avuto a che fare già nel giorno del battesimo, quando il sacerdote ha fatto su di noi esattamente quello che Gesù compì sul sordomuto.
Al centro del brano del Vangelo di oggi c'è una piccola parola che riassume tutto il messaggio e tutta l’opera di Cristo. San Marco la riporta nella lingua stessa in cui Gesù la pronunciò: “Effatà”, che significa: “Apriti”. C'è una chiusura interiore, che riguarda il nucleo profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il “cuore”. E’ questo che Gesù è venuto ad “aprire”, a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Ecco perché questa piccola parola, “Effatà – Apriti”, riassume in sé tutta la missione di Cristo. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, diventi capace di ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell'amore, a comunicare con Dio e con gli altri. Per questo motivo la parola e il gesto dell'”effatà” sono stati inseriti nel Rito del Battesimo, come uno dei segni che ne spiegano il significato.
Toccandoci la bocca e le orecchie durante il rito del battesimo, il sacerdote ci ha detto: “Il Signore ti conceda di ascoltare presto la sua Parola e di professare la tua fede”. In questo rito dell’ “Effatà”, il sacerdote pregò su di noi bambini perché potessimo presto ascoltare la Parola di Dio e professare la fede.
Fin dall’inizio della nostra vita - quando non era ancora possibile comprendere le parole -ci è stato detto che l’ascolto della Parola è la nostra salvezza. Non è importante che la capiamo tutta e subito. I neonati non capiranno il significato intellettuale delle parole, ma sentono l’amore, da cui esse vengono, tant’è vero che rispondono con un sorriso alla mamma ed al papa che si rivolgono a loro con affetto grande e stupito.
Diventando grandi, abbiamo capito anche con l’intelligenza quelle parole che il cuore aveva da sempre percepito ed accolto. La prima lezione da trarre da ciò è che la sordità peggiore è quella del cuore. Se siamo sordi, non riusciamo a parlare: se siamo sordi all’amore che il Figlio di Dio ci ha mostrato, non riusciamo a comunicare correttamente né con Dio né con i fratelli e sorelle in umanità che Lui ci ha donato. “Che vita è la vostra, se non avete vita in comune e non c’è vita in comune se non nella lode a Dio” (T.S. Eliot, I cori della Rocca).
Dunque con la preghiera costante e frequente chiediamo al Signore che ridica anche oggi a ciascuno di noi: “Effatà- Apriti”, perché le nostre menti e i nostri cuori siano aperti alla sua Parola di Verità e Vita per ben camminare sulla Via.

2) Si diventa quello che si ama (cfr. Sant’Agostino).
Il significato spirituale del Vangelo di oggi è che Gesù guarisce il mutismo della bocca del cuore che è causato dalle orecchie sorde alla Verità, all’amore infinito di Dio.
S. Agostino scriveva: “Ciascuno è ciò che ama. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Che cosa devo dire? Che tu sarai Dio? Io non oso dirlo per conto mio. Ascoltiamo piuttosto le Scritture: Io ho detto: ‘voi siete dei, e figli tutti dell’Altissimo’. Se, dunque, volete essere degli dei e figli dell'Altissimo, non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo”. Dunque apriamo il cuore a Dio, il cui amore rompe il muro del nostro egocentrismo che ci impedisce di ascoltarLo. Chiediamo a Cristo, il cui dito che ha scritto sulla sabbia il cumulo di peccati della peccatrice perché il vento se li portasse via, di toccarci con la sua misericordia, che cancella inganni e peccati dalle nostre orecchie e della nostra bocca.
L’amore del suo cuore trafitto trafigga la corazza d’orgoglio che ci fa sordi al suo amore. E la sua saliva, che reca impresse le parole della sua stessa bocca, sciolga la nostra lingua perché canti il suo amore “eccessivo” per noi.
Faticoso e lento il cammino verso Cristo. Come il sordomuto del vangelo di oggi lasciamoci condurre da Lui. Immedesimiamoci in questo miracolato e chiediamo a Gesù di aprire le orecchie del cuore e della mente alle sue parole di verità e di amore.
Accogliendo la parola di Cristo: “Effatà – apriti” acquisteremo la capacità di ascoltare ed ascoltare la verità, la parola vera, quella che ci mette in cammino verso l'eternità, facendo risuonare nelle nostre parola la Parola.
Solamente ascoltando la Parola diventiamo capaci di parola, di risposta.
Questo implica andare oltre allo “Shemà” (ascolta) di Israele ed essere il nuovo Israele che ha inizio dall’ascolto della Vergine Maria, che risponde sì (=fiat) al suo Creatore. Grazie a questo “sì” il Verbo, la Parola si è fatta carne e ci ha messo sulla bocca la preghiera cristiana per eccellenza: il Padre nostro.
Al n° 85 dell’enciclica Laudato si’ Papa Francesco, riportando le parole di Giovanni Paolo II, scrive: “la ‘contemplazione’ del creato è paragonata all’ascoltare... una voce paradossale e silenziosa, che si aggiunge alla Rivelazione delle Sacre Scritture, per cui prestando attenzione l'essere umano impara a riconoscere se stesso in relazione alle altre creature. E mi domando (è sempre Papa Francesco che scrive): Se Gesù ‘Ha fatto bene ogni cosa’ (Mc 7,37), e Gesù è il Signore, il Dio che ha creato e fatto buona e bella ogni cosa, quando l’uomo ascolta il suo Signore e gli risponde può far tornare bella la creazione come Dio l’aveva pensata sin dal principio?”.
Ho fatto questa citazione per sottolineare che la preghiera di risposta a Dio che ci parla, implica non solamente quello che Dio dice attraverso la parole della bibbia. Lui “ha scritto” anche il libro della natura ed anche questo libro va letto e rispettato.

3) Le vergini consacrate: donne dell’ascolto e madri della Parola.
Nella vita quotidiana c’è spesso l’abitudine di dire tante parole, e di sostituire la Parola con le chiacchiere. L’atteggiamento e la “virtù” dell'ascolto sono poco praticati. Imitando in modo speciale la Madonna, Vergine dell’ascolto e Madre della Parola, le vergini consacrate conducono una vita che le rende donne dell’ascolto e madri della Parola. Sulla tipicità della loro preghiera, l’istruzione Ecclesia Sponsae Imago ai nn. 29 e 30 insegna: “La preghiera è per le consacrate una esigenza di amore per «rimirare la bellezza di Colui che le ama», e di comunione con l’Amato e con il mondo in cui sono radicate.
Per questo amano il silenzio contemplativo, che crea le condizioni favorevoli per ascoltare la Parola di Dio e conversare con lo Sposo cuore a cuore. Desiderose di approfondire la conoscenza di Lui e il dialogo della preghiera, acquisiscono familiarità con la rivelazione biblica, soprattutto attraverso la lectio divina e lo studio approfondito delle Scritture.
Riconoscono nella liturgia il luogo sorgivo della vita teologale, della comunione e della missione ecclesiale, e lasciano che la loro spiritualità prenda forma a partire dalla celebrazione dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore in obbedienza al ritmo proprio dell’anno liturgico, in modo che trovino unità e orientamento anche le altre pratiche di preghiera, il cammino di ascesi e l’intera loro esistenza”.


Lettura patristica
San Beda, il Venerabile (673 circa – 735) 
In Evang. Marc., 2, 7, 32-37




E gli conducono un sordomuto e lo pregano di imporre su di lui la mano (Mc 7,32).
       Il sordomuto è colui che non apre le orecchie per ascoltare la parola di Dio, né apre la bocca per pronunziarla. È necessario perciò che coloro i quali, per lunga abitudine, hanno già appreso a pronunziare e ascoltare le parole divine, siano loro a presentare al Signore, perché li risani, quelli che non possono farlo per l’umana debolezza; così egli potrà salvarli con la grazia che la sua mano trasmette.
       "Ed egli, traendolo in disparte dalla folla, separatamente mise le sue dita nelle orecchie di lui" (Mc 7,33).
       Il primo passo verso la salvezza è che l’infermo, guidato dal Signore, sia portato in disparte, lontano dalla folla. E questo avviene quando, illuminando l’anima di lui prostrata dai peccati con la presenza del suo amore, lo distoglie dal consueto modo di vivere e lo avvia a seguire la strada dei suoi comandamenti. Mette le sue dita nelle orecchie quando, per mezzo dei doni dello Spirito Santo, apre le orecchie del cuore a intendere e accogliere le parole della salvezza. Infatti lo stesso Signore testimonia che lo Spirito Santo è il dito di Dio, quando dice ai giudei: "Se io scaccio i demoni col dito di Dio, i vostri figli con che cosa li scacciano?" (Lc 11,19-20). Spiegando queste parole un altro evangelista dice: "Se io scaccio i demoni con lo Spirito di Dio" (Mt 12,28). Gli stessi maghi d’Egitto furono sconfitti da Mosè in virtù di questo dito, dato che riconobbero: "Qui è il dito di Dio" (Ex 8,18-19); infine la legge fu scritta su tavole di pietra (); in quanto, per mezzo del dono dello Spirito Santo, siamo protetti dalle insidie degli uomini e degli spiriti maligni, e veniamo istruiti nella conoscenza della volontà divina. Ebbene, le dita di Dio messe nelle orecchie dell’infermo che doveva essere risanato, sono i doni dello Spirito Santo, che apre i cuori che si erano allontanati dalla via della verità all’apprendimento della scienza della salvezza...
       "E levati gli occhi al cielo, emise un gemito e pronunciò: «Effata», cioè «apriti»" (Mc 7,34).
       Ha levato gli occhi al cielo per insegnare che dobbiamo prendere da lì la medicina che dà la voce ai muti, l’udito ai sordi e cura tutte le altre infermità. Ha emesso un gemito non perché abbia bisogno di gemere per chiedere qualcosa al Padre colui che in unità col Padre dona ogni cosa a coloro che chiedono, ma per presentarsi a noi come modello di sofferenza quando dobbiamo invocare l’aiuto della divina pietà per i nostri errori oppure per le colpe del nostro prossimo.
       "E subito si aprirono le orecchie di lui e subito si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente" (Mc 7,35).
       In questa circostanza sono chiaramente distinte le due nature dell’unico e solo Mediatore tra Dio e gli uomini. Infatti, levando gli occhi al cielo per pregare Dio, sospira come un uomo, ma subito guarisce il sordomuto con una sola parola, grazie alla potenza che gli deriva dalla divina maestà. E giustamente si dice che «parlava correttamente» colui al quale il Signore aprì le orecchie e sciolse il nodo della lingua. Parla infatti correttamente, sia confessando Dio, sia predicandolo agli altri, solo colui il cui udito è stato liberato dalla grazia divina in modo che possa ascoltare e attuare i comandamenti celesti, e la cui lingua è stata posta in grado di parlare dal tocco del Signore, che è la Sapienza stessa. Il malato così risanato può giustamente dire col salmista: "Signore, apri le mie labbra, e la mia bocca annunzierà la tua lode" (Ps 50,17), e con Isaia: "Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo affinché sappia rianimare chi è stanco con la parola. Ogni mattina mi sveglia l’orecchio, perché ascolti, come fanno i discepoli" (Is 50,4).
       "E ordinò loro di non dirlo a nessuno. Ma quanto più così loro ordinava, tanto più essi lo divulgavano e, al colmo dello stupore, dicevano: «Ha fatto tutto bene; ha fatto udire i sordi e parlare i muti»" (Mc 7,36-37).
       “Se il Signore, che conosceva le volontà presenti e future degli uomini, sapeva che costoro avrebbero tanto più annunziato i suoi miracoli quanto più egli ordinava loro di non divulgarli, perché mai dava quest’ordine, se non per dimostrare con quanto zelo e con quanto fervore dovrebbero annunziarlo quegli indolenti ai quali ordina di annunziare i suoi prodigi, dato che non potevano tacere coloro cui egli ordinava di non parlare?” (Agostino).