venerdì 25 luglio 2014

La Perla nascosta nel nostro quotidiano.

17ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 27 luglio 2014

Rito Romano
1 Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52

Rito Ambrosiano
7ª Domenica dopo Pentecoste
Gs 4,1-9; Sal 77; Rm 3,29-31; Lc 13,22-30


1) Regno di Dio è simile a…
Il brano evangelico della liturgia odierna conclude il cap.13° di Matteo e, insieme, il discorso in parabole di Gesù. Anche le tre brevi parabole proposte oggi sono relative al Regno di Dio, che è paragonato a un tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44), al mercante in cerca di perle preziose (Ibid. 13,45), ad una rete gettata nel mare (Ibid 13,47) della vita.
Il Regno di Dio, sorgente di pace, di verità e di amore, consiste nella carità, pace, armonia, gioia e salvezza donate da Dio agli uomini, nel suo Figlio, Gesù Cristo Signore. E’ un’assoluta novità nella nostra vicenda storica e a questa novità – indicata nel messaggio delle prime due parabole “gemelle” del tesoro e della perla - occorre decidersi con prontezza e radicalità. Si pensi per esempio a Zaccheo, che “ subito scese dalla piante, andò a casa sua e vi accolse Gesù pieno di gioia offrendoGli la metà dei suoi beni per i poveri” (cfr. Lc 19, 6-8) o alla Samaritana, che nella gioia subito “lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: ‘Ho incontrato il Salvatore (cf Gv 4, 28-29).
Due sono le caratteristiche del Regno che l’evangelista sottolinea oggi: la preziosità (“il Regno dei Cieli è simile a un tesoro...; il Regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose") e la gioia (“l’uomo...va, pieno di gioia,...e compra quel campo”) per il bene supremo trovato, anche se non lo si cercava espressamente.
In effetti il contadino e il mercante trovano tesori in modi diversi. Il primo lo trova per caso, tra rovi e sassi, in un campo non suo, è folgorato dalla sorpresa. Il secondo trova la perla perché è un intenditore appassionato e sa bene quello che cerca. In ogni caso, è possibile a tutti incontrare Dio o essere incontrati da Dio.
Trovato il tesoro, l’uomo pieno di gioia va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala. Dio ci seduce ancora perché parla il linguaggio della gioia, che muove, mette fretta, fa decidere: “Ogni uomo segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità” (sant'Agostino). La gioia duratura è il segno che stai camminando bene, sulla strada giusta.
Noi avanziamo nella vita non a colpi di volontà, ma per una passione, per scoperta di tesori (dov’è il tuo tesoro, là corre felice il tuo cuore: cfr sant’Agostino); avanziamo per innamoramenti e per la gioia che accendono. Vive chi avanza verso ciò che ama, verso chi si ama: Cristo Gesù.
Il ritrovamento del tesoro o della perla fa di noi contadini o mercanti fortunati. Di ciò non dobbiamo vantarci, perché, in ultima analisi, è un dono gratuito di Dio. Un dono deve essere fonte di non vanto, ma di gratitudine e di responsabilità. Dobbiamo dire grazie a Colui che ci ha fatto “inciampare” in un tesoro, anzi in molti tesori, lungo molte strade, in molti giorni della nostra vita. Se guardiamo alla nostra vita, una cosa ci è chiara: abbiamo tanto cercato, in tanti libri, tra tante persone, abbiamo tanto cercato ma di meglio non abbiamo trovato. Di meglio del Vangelo e della Chiesa proprio non si trova. Vendere tutto per Cristo è l’affare più bello della nostra vita. L’ha fatta diventare una vita intensa, vibrante, appassionata, gioiosa e pacificata, e spero anche, almeno un po’, che serva a qualcuno. Abbiamo capito che rinunciare per Cristo è uguale a fiorire. Scegliere Cristo non è un puro e semplice dovere, è scegliere un tesoro che è pienezza d’umano, pace e forza, sorpresa, incanto e risurrezione. Dio non è un obbligo è una Perla.
Siamo grati al Signore, perché con lui la vita non è mai una vita qualunque, mai banale, con Lui la vita è stupore, amore, pace, letizia.

3) Per Cristo noi siamo il tesoro e la perla.
Credo di non distorcere il significato delle parabole di oggi se affermo che per Cristo siamo noi il tesoro e la perla, che ci ricompera con la “moneta” della sua vita offerta totalmente per noi.
Lui è il mercante e il contadino, che ci tira fuori dal campo della nostra vita: per ciascuno di noi, per tutti i nostri fratelli e sorelle. Lui rinnova il nostro cuore e da cuore di pietra lo trasforma in cuore di carne, un cuore buono, un cuore attento. È il nostro campo che matura tesori,  in noi e per gli altri, che fa fiorire la rosa del mondo.
La terza parabola parla della rete che raccoglie tutto e poi dei pescatori che si siedono a scegliere il pesce. Essa ci ricorda che anche noi tutti siamo come pescatori, che nella vita, nel cuore, abbiamo raccolto di tutto, abbiamo tirato su cose buone e cose che non valevano niente.
Ora è il tempo dell’intelligenza del cuore, il momento di discernere, di conservare e anche di liberarsi da ciò che fa male.
Ora è il tempo di fare come l’ultima immagine che il Vangelo oggi suggerisce: fare come lo scriba diventato discepolo che trae fuori dal suo tesoro cose antiche e cose nuove.
Oggi ci è data questa bella notizia: ogni discepolo ha un tesoro, nessuno ne è privo. Quindi siamo invitati fortemente a guardare dentro di noi, nei nostri archivi interiori così ricchi di eventi, di parole, di incontri e felicità, di persone come tesori, di esperienze che dimentichiamo, ciò che non sappiamo gustare, che sprechiamo e non sappiamo accrescere.
Come a Messa osiamo dire il “Padre nostro”, oggi osiamo ancora chiedere a Dio Padre immeritati tesori. Ce ne ha già dati tanti. ChiediamoGli in dono anche occhi profondi, da scriba attento. Occhi sappiano vedere impigliati nella nostra rete i tesori raccolti nella nostra vita, breve o lunga che sia, i talenti ricevuti, le persone incontrate.
Questo cuore, diventato buono della bontà di Cristo, sia in noi riconoscente come il cuore di un bambino.

3) Delle perle che hanno dato tutto per la Perla.
L’offerta di se stessi a Dio, riconosciuto come Perla, riguarda ogni cristiano, perché tutti siamo consacrati a Lui mediante il Battesimo. Tutti siamo chiamati ad offrirci al Padre con Gesù e come Gesù, facendo della nostra vita un dono generoso, nella famiglia, nel lavoro, nel servizio alla Chiesa, nelle opere di misericordia. Tuttavia, questa consacrazione è vissuta in modo particolare dai religiosi, dai monaci, alle donne consacrate nel mondo che hanno scelto di appartenere a Dio in modo pieno ed esclusivo. Totalmente consacrate a Dio, queste donne sono totalmente consegnate alle sorelle e ai fratelli, per portare la luce di Cristo nel mondo e per diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati. Il segno particolare che indica questo tipo di consacrazione è il velo, che il Vescovo mette sul loro capo dicendo: “Ricevi questo velo segno della tua consacrazione; non dimenticare mai che sei votata al servizio di cristo e del suo Corpo la Chiesa” (Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 25)
Così intensa e vissuta, la vita consacrata appare proprio come essa è realmente: è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo! Ogni persona consacrata è un dono per il Popolo di Dio in cammino.
In un certo senso, la vita consacrata porta in superficie ciò che è di tutti, facendosi al tempo stesso memoria e profezia, attesa e anticipo già ora di ciò che verrà. È in questo modo che la vita consacrata svolge il suo più importante servizio: farsi trasparenza del Vangelo - della radice del vangelo- interpellando così ogni cristiano, qualsiasi scelta abbia fatto.

Lettura Patristica
San Giovanni Crisostomo
Omelia sul Vangelo di Matteo,   47,2

       "Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo: l’uomo che l’ha trovato, lo nasconde di nuovo e, fuor di sé dalla gioia, va, vende tutto quanto possiede, e compra quel campo. Inoltre il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra" (Mt 13,44-46). Come le due parabole del granello di senape e del lievito non differiscono molto tra di loro, così anche le parabole del tesoro e della perla si assomigliano: sia l’una che l’altra fanno intendere che dobbiamo preferire e stimare il Vangelo al di sopra di tutto. Le parabole del lievito e del chicco di senape si riferiscono alla forza del Vangelo e mostrano che esso vincerà totalmente il mondo. Le due ultime parabole, invece, pongono in risalto il suo valore e il suo prezzo. Il Vangelo cresce infatti e si dilata come l’albero di senape ed ha il sopravvento sul mondo come il lievito sulla farina; d’altra parte, il Vangelo è prezioso come una perla, e procura vantaggi e gloria senza fine come un tesoro.

       Con queste due ultime parabole noi apprendiamo non solo che è necessario spogliarci di tutti gli altri beni per abbracciare il Vangelo, ma che dobbiamo fare questo atto con gioia. Chi rinunzia a quanto possiede, deve essere persuaso che questo è un affare, non una perdita. Vedi come il Vangelo è nascosto nel mondo, al pari di un tesoro, e come esso racchiude in sé tutti i beni? Se non vendi tutto, non puoi acquistarlo e, se non hai un’anima che lo cerca con la stessa sollecitudine e con lo stesso ardore con cui si cerca un tesoro, non puoi trovarlo. Due condizioni sono assolutamente necessarie: tenersi lontani da tutto ciò che è terreno ed essere vigilanti. "Il regno dei cieli" - dice Gesù -"è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra" (Mt 13,45-46). Una sola, infatti, è la verità e non è possibile dividerla in molte parti. E come chi possiede la perla sa di essere ricco, ma spesso la sua ricchezza sfugge agli occhi degli altri, perché egli la tiene nella mano, - non si tratta qui di peso e di grandezza materiale, - la stessa cosa accade del Vangelo: coloro che lo posseggono sanno di essere ricchi, mentre chi non crede, non conoscendo questo tesoro, ignora anche la nostra ricchezza.

       A questo punto, tuttavia, per evitare che gli uomini confidino soltanto nella predicazione evangelica e credano che la sola fede basti a salvarli, il Signore aggiunge un’altra parabola piena di terrore. Quale? La parabola della rete. "Parimenti il regno dei cieli è simile a una rete che, gettata nel mare, raccoglie ogni sorta di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e, sedutisi, ripongono in ceste i buoni, buttando via i cattivi" (Mt 13,47-48). In che cosa differisce questa parabola da quella della zizzania? In realtà anche là alcuni uomini si salvano, mentre altri si dannano. Nella parabola della zizzania, tuttavia, gli uomini si perdono perché seguono dottrine eretiche e, ancor prima di questo, perché non ascoltano la parola di Dio; mentre coloro che sono raffigurati nei pesci cattivi si dannano per la malvagità della loro vita. Costoro sono senza dubbio i più miserabili di tutti, perché, dopo aver conosciuto la verità ed essere stati presi da questa rete spirituale, non hanno saputo neppure in tal modo salvarsi.


venerdì 18 luglio 2014

La Pazienza sinonimo di clemenza; la carità di pari passo con la verità.

16ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 20 luglio 2014

Rito Romano
Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43

Rito Ambrosiano
6ª Domenica dopo Pentecoste
Es 33,18-34,10; Sal 76 (77); 1Cor 3,5-11; Lc 6,20-31

1) La Pazienza è la virtù dell’Amore.
Il brano preso dal libro della Sapienza (12,13.16-19) e proposto come prima Lettura della Messa di oggi ricorda la pazienza di Dio. Questi esercita il Suo potere con la paziente mitezza, unendola alla clemenza indulgente, delicata e lenta all’ira. Grazie a questa “lentezza” Dio si distingue da tutte le altre divinità antiche ed anche dai potenti di questo mondo, che esercitano il loro potere senza la “moderazione” dell’amore, ma con la violenza della forza e non con quella dell’amore vero, che è sempre delicato. Inoltre, secondo l’autore del libro della Sapienza, il popolo di Dio dovrebbe comportarsi come il suo Dio, mostrandosi amico degli uomini e dovrebbe sempre ricordare che per quanto peccatori, si può contare ogni giorno sulla misericordia divina.
Nella Seconda Lettura presa dalla lettera di S. Paolo Apostolo ai Romani (8,26-27), ci viene ricordato che da soli e senza la preghiera siamo incapaci di raggiunger la salvezza offertaci dalla misericordia. Ora lo Spirito, che è in noi mediante il battesimo, ci aiuta a formulare quella giusta preghiera che è secondo Dio, cioè secondo il suo piano di salvezza e che ha come oggetto la nostra stessa salvezza.
Mediante la parabola del buon grano e della zizzania1, anche il Vangelo di oggi (Mt 13,24-43) parla della pazienza di Dio.
La presenza della zizzania nel campo di grano – anche se i servi mostrano di esserne sorpresi – non è ancora in realtà il tratto più imprevisto e sorprendente della parabola. Tant’è vero che ai servi che gli chiedono spiegazioni, il padrone risponde semplicemente: “Il nemico ha fatto questo”. E neppure è inattesa l’affermazione che al tempo della mietitura grano e zizzania saranno accuratamente separati: il grano raccolto nel granaio e la zizzania buttata nel fuoco. Lo stupore dell’ascoltatore - stupore che, come spesso succede, indica il punto su cui concentrarsi – sta nel fatto che ora la zizzania non debba essere strappata, ma piuttosto lasciata crescere insieme al grano fino al tempo della messe: altrimenti c'è il rischio – aggiunge ironicamente il padrone – di strappare il grano e di lasciare la zizzania.
Gesù non si separa dai peccatori ma va da loro (da noi), non li (ci) abbandona ma li (ci) perdona. Accogliamo Lui, Bontà infinita, e prima di cercare di estirpare la zizzania negli altri sforziamoci di toglierla dal nostro cuore, “approfittando” della pazienza di Dio.


2) Pazienza, fedeltà, fiducia
Dunque, il centro della parabola è qui, in questa pazienza misericordiosa di Dio, in questa sua – strana per noi - politica di attesa. Però questo brano del Vangelo non è solamente un invito alla pazienza è anche un invito alla fedeltà. Il Cristo spiega in modo chiaro che la vera giustizia arriverà alla fine dei tempi. Fino ad allora dobbiamo convivere con la zizzania evitando che il buon grano possa essere danneggiato in qualche modo. Se questo indica la fedeltà a quel buon grano che ci alimenta, la pazienza è indicata dal fatto che chi rappresenta la zizzania fino alla fine deve essere tollerato sperando che si converta. Lasciamo giudicare a Dio alla fine. Adesso, a noi non spetta fare giustizia, ma testimoniare nella carità, pregando che venga aumentata la nostra fede.
E’ la nostra fede che deve continuamente confermarsi e accrescersi. Ogni indecisione può essere rischiosa e consentire al nemico di gettare il seme cattivo anche nel campo meglio coltivato. Il Signore stesso ci avverte: “mentre tutti gli uomini dormivano (...)”. Questo è un avvertimento per tutti e non solamente per coloro che devono vigilare sull’integrità del campo. Vigilare anche quando non sembra esserci pericoli. La zizzania, infatti, appare solo dopo che è cresciuta e quando estirparla può essere pericoloso per lo stesso grano. Si tratta di chiaro invito alla saggezza previdente.
Inoltre, la parabola della zizzania è un messaggio di fiducia per i discepoli di allora e di oggi. Anche se nel mondo vi è la presenza del male, Dio già sta attuando la sua opera di salvezza. Attraverso la predicazione di Gesù, Dio sparge e fa crescere nei cuori di tutti gli uomini il seme buono, fino alla fine del mondo, quando Dio separerà i giusti dai malvagi. Il tempo in cui la Parola sembra soffocata dall'azione del nemico è il tempo della pazienza salvifica di Dio.
Soltanto Dio giudica: noi credenti dobbiamo imitare la bontà del Salvatore, e pregare, perché il peccatore si converta. Pregare significa domandare nella carità la mietitura finale, in cui il bene trionferà definitivamente sul male. Pregare è unirsi al Dio, ricco di misericordia, che cerca di riportare nell'ovile la pecorella smarrita. Pregare in Dio è aver fiducia nell'annuncio della Parola che persiste nel male del mondo. Pregare, infine, è lasciarsi penetrare dallo Spirito “che viene in aiuto alle nostre debolezze”(Rm 8,26).
Anche nella seconda parabola del Vangelo di oggi (Mt 13,31-32), Gesù ci invita fortemente ad aver fiducia nella sua attività: Egli ha vinto la morte e il peccato, e instaurando il regno con la Sua predicazione e con la Sua presenza, ci rende partecipi della vita divina.
La terza parabola (13,33) è simile alla seconda. In essa Gesù sottolinea la sproporzione fra il pizzico di lievito con il quale la donna impasta la farina, e la quantità enorme di pasta lievitata che ne deriva. Tale paragone spiega l’attività del Figlio di Dio, che agli occhi umani di allora come a quelli di oggi appare irrilevante, e la forza silenziosa e spettacolare con cui Dio trasforma il mondo e salva l’uomo. Il lievito, dunque, rappresenta la forza del Vangelo, che, anche se nascosta e silenziosa agli occhi della storia, fermenta nei cuori dei credenti fino alla fine dei secoli.
Perché la Parola di Gesù possa fermentare nei nostri cuori, dobbiamo essere disponibili al Suo ascolto: meditare quotidianamente la Sacra Scrittura e partecipare assiduamente ai sacramenti. Insomma dobbiamo lasciare entrare il Salvatore nella casa, vale a dire, nel “campo” della nostra anima.

3) La terra del nostro cuore.
Il nostro cuore è un piccolo grumo di terra, dove è stato seminato il buon seme, ma che è assediato dalla zizzania.
Con il nostro modo poco benevolo verso gli altri e anche verso noi stessi vorremmo strappare subito tutto ciò che è immaturo, sbagliato, puerile, cattivo. Il Signore dice: abbiate pazienza, non agite con violenza, perché il vostro cuore è capace di grandi cose solo se è mite e umile, non se ha grandi reazioni immediate.
Mettiamoci sulla strada su cui Dio agisce, adottiamo il suo modo di agire: per vincere la notte Lui accende il mattino, per far fiorire il campo getta infiniti semi di vita, per far lievitare la farina immobile immette un pizzico di lievito. E’ il Seminatore dell’amore che assume su di se il peccato per trasfigurare il peccatore e non distrugge l’uomo vecchio per costruire l’uomo nuovo: lo redime.
Le Vergini consacrate nel mondo mostrano che l’importante è guardare la vita come la guarda Dio. I servi vedono soprattutto le erbacce, il negativo, il pericolo. Cristo e le persone consacrate fissano il loro sguardo sul buon grano, la zizzania è secondaria. Con la loro dedizione a Cristo mostrano che noi non siamo creati a immagine del Nemico e della sua notte, ma a immagine del Creatore e del suo giorno. Nessun essere umano coincide con il suo peccato o con le sue ombre. Ma se non vediamo la luce in noi, non la vedremo in nessuno. Queste donne non si preoccupano prima di tutto della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di coltivare una venerazione profonda per le forze di bontà, di generosità, di attenzione, di accoglienza, di libertà che Dio loro consegna mediante la vocazione. Esse, secondo me, incarnano il messaggio della parabola di oggi: venerano la vita che Dio ha posto in loro, la proteggono in sé e negli altri. Con la preghiera costante pensano al buon grano, amano i germi di vita donati da Dio, custodiscono ogni germoglio buono, sono indulgenti con tutte le creature. E anche con se stesse. Prediamole come esempio e tutto il nostro essere fiorirà nella luce.

1 Nella parabola della zizzania troviamo sostanzialmente lo stesso schema della parabola del seminatore. Vi è descritta la sorte del seme (Parola di Gesù e Gesù che è la Parola), la cui crescita nel mondo è vincolata dall’azione del nemico, che semina la zizzania, un’erbaccia che si avvinghia al frumento. Perché il buon seme venisse preservato, la zizzania non veniva estirpata prima della mietitura. Solo allora era possibile dividere il seme buono dalla zizzania.





LETTURA PATRISTICA
San Giovanni Crisostomo
In Matth. 46, 1

1. La vigilanza continua

       Anche questo è proprio del sistema diabolico, che consiste nel mescolare l’errore e la menzogna alla verità, in modo che, sotto la maschera ben colorata della verosimiglianza, l’errore possa apparire verità e possa facilmente sorprendere e ingannare coloro che non sanno resistere alla seduzione, o non comprendono l’insidia. Ecco perché Gesù chiama il seme del demonio «zizzania» e non con altro nome, poiché quest’erba è assai simile, in apparenza, al frumento. E subito dopo ci indica il modo in cui il diavolo attua i suoi tranelli e coglie le anime di sorpresa.

       “Or mentre gli uomini dormivano” (Mt 13,25): queste parole mostrano il pericolo cui sono esposti coloro che hanno la responsabilità delle anime, ai quali in particolare è affidata la difesa del campo; non solo però costoro, ma anche i fedeli. Cristo precisa inoltre che l’errore appare dopo lo stabilirsi della verità, come anche l’esperienza dei fatti può testimoniare. Dopo i profeti sono apparsi gli pseudoprofeti, dopo gli apostoli i falsi apostoli, e dopo Cristo l’anticristo. Se il demonio non vede che cosa deve imitare, o a chi deve tendere le sue insidie, non saprebbe in qual modo nuocerci. Ma ora che ha visto la divina seminagione di Gesù fruttificare nelle anime il cento, il sessanta e il trenta per uno intraprende un’altra strada; poiché si è reso conto che non può strappare ciò che ha radici ben profonde, né può soffocarlo e neppure bruciarlo, allora tende un altro insidioso inganno, spargendo la sua semente.

       Ma quale differenza vi è - mi chiederete - tra coloro che in questa parabola «dormono» e coloro che, nella parabola precedente sono raffigurati nella «via»? Nel caso di coloro che sono simboleggiati nella «via» il seme è portato via immediatamente dal maligno, che non gli dà il tempo di mettere radici; mentre in quelli che «dormono» il grano ha messo radici e allora il demonio deve intervenire con una più elaborata macchinazione. Cristo dice ciò per insegnarci a vigilare continuamente, perché - egli ci avverte - quand’anche riusciste a evitare quei danni cui è sottoposta la semente, non sareste ancora al sicuro da altri pericolosi assalti. Come là il seme si perde «lungo la via», o «sul suolo roccioso», o «tra gli spini», così anche qui la rovina può derivare dal sonno; perciò siamo obbligati a una vigilanza continua. Infatti Gesù ha detto pure che si salverà chi avrà perseverato sino alla fine (Mc 4,33)...

       Ma voi osserverete: Com’è possibile fare a meno di dormire? Certo non è possibile, se ci si riferisce al sonno del corpo: ma è possibile non cadere nel sonno della volontà. Per questo anche Paolo diceva: "Vigilate e restate costanti nella fede" (1Co 16,13) ...

       Considerate, invece, l’affettuoso interessamento dei servitori verso il loro padrone. Essi si sarebbero già levati per andare a sradicare la zizzania, anche se in tal modo non avrebbero agito in modo discreto e opportuno. Questo tuttavia mostra la loro cura per il buon seme e testimonia che il loro unico scopo non sta nel punire il nemico - non è questa la necessità più urgente - ma nel salvare il grano seminato. Essi perciò cercano il mezzo per rimediare rapidamente al male fatto dal diavolo. E neppure questo vogliono fare a caso, non s’arrogano infatti questo diritto, ma attendono il parere e l’ordine del padrone. "Vuoi, dunque, che andiamo a raccoglierla?" (Mt 13,28) - gli chiedono. Cosa risponde il padrone? Egli vieta loro di farlo, dicendo che c’è pericolo, nel raccogliere la zizzania, di sradicare anche il grano. Parla così per impedire le guerre, le uccisioni, lo spargimento di sangue.

      


2. Il Logos ha seminato il buon grano

       Ma, mentre dormono coloro che non praticano il comando di Gesù che dice: "Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione" (Mt 26,41 Mc 14,38 Lc 22,40), il diavolo, che fa la posta (1P 5,8), semina quella che viene detta la zizzania, le dottrine perverse, al di sopra di ciò che alcuni chiamano i pensieri naturali, e al di sopra dei buoni semi venuti dal Logos. Secondo tale interpretazione, il campo designerebbe il mondo intero e non solamente la Chiesa di Dio; infatti è nel mondo intero che il Figlio di Dio ha seminato il buon seme e il cattivo la zizzania (Mt 13,37-38), cioè le dottrine perverse che, per la loro nocività, sono «figlie del maligno». Ma ci sarà necessariamente, alla fine del mondo, che vien detta «la consumazione del secolo», una mietitura, perché gli angeli di Dio preposti a tale compito raccolgano le cattive dottrine che si saranno sviluppate nell’anima e le consegnino alla distruzione, gettandole, perché brucino, in quello che viene definito fuoco (Mt 13,40). E così, «gli angeli», servitori del Logos, raduneranno «in tutto il regno» di Cristo, «tutti gli scandali» presenti nelle anime e i ragionamenti «che producono l’empietà», e li distruggeranno gettandoli nella «fornace di fuoco», quella che consuma (Mt 13,41-42) così del pari coloro che prenderanno coscienza che, poiché hanno dormito, hanno accolto in sé stessi i semi del cattivo, piangeranno e saranno, per così dire, in collera con sé stessi. Sta in ciò, in effetti, "lo stridor di denti" (Mt 13,42), ed è anche per questo che è detto nei Salmi: "Hanno digrignato i denti contro di me" (Ps 35,16). È soprattutto allora che "i giusti brilleranno", non tanto in modo diverso, come agli inizi, bensì tutti alla maniera di un unico "sole, nel regno del Padre loro" (Mt 13,43).

       Origene, In Matth. 10, 2

venerdì 11 luglio 2014

Gesù, il Seminatore che semina la vita.

15ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 13 luglio 2014

Rito Romano
Is 55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23

Rito Ambrosiano
5ª Domenica dopo Pentecoste
Gen 11,31.32b-12,5b; Sal 104; Eb 11,1-2.8-16b; Lc 9,57-62


  1. Le parole della Parola da seminare.
La parabola del seminatore parla in primo luogo di Gesù, il nostro Redentore, che vuole presentarci la sua missione e il senso della sua presenza in mezzo a noi con il paragone del seminatore.
In un brano precedente a quello proposto oggi, l’evangelista San Matteo scrive: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del Regno” (9,35). Gesù dunque vede se stesso come chi è mandato a “predicare il Vangelo del Regno”. Quando Gesù inizia la sua attività pubblica attribuisce a se stesso un testo del profeta Isaia che dice: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio … e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,17-19). Gesù afferma che queste parole profetiche si realizzano in Lui: Lui è stato mandato “per annunciare una bella e lieta notizia”, per “predicare il tempo favorevole”. È questo il significato profondo di questa “parabola autobiografica” (Benedetto XVI): come il seminatore esce di casa per spargere il seme, così Gesù che esce dalla casa di Nazareth, per seminare in tutti la bella notizia, il lieto messaggio di Dio che salva l’uomo.
Quando Papa Francesco parla di Chiesa in uscita (Esort. Post-sinodale Evangelii gaudium 24) si ispira al Seminatore che senza cedere alla stanchezza percorre tutto il campo del mondo fino ai luoghi delle sue fragilità e delle sue bassezze, delle sue debolezze e delle sue contraddizioni, perfino al luogo delle bestemmie contro di Lui. Il Seminatore non cessa mai di gettare il buon seme. A noi sembra che getti il seme a caso1, ma credo che oggi possiamo interpretare questo modo di seminare come insegnamento di Gesù sul modo di essere missionari. La missione non è questione di strategie o di particolari attività da aggiungere al tessuto della nostra esistenza quotidiana. La missione è, soprattutto, una questione di portare una parola carica di una Presenza e nutrita ogni giorno da un esperienza di fraternità, che ripropone, ogni giorno, ad ogni singolo essere umano la domanda “chi sono?”, da dove vengo e, soprattutto, “dove vado e perché?”.
Da queste domande ineliminabili emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. Abbiamo bisogno di credere, di guardare alla vita con gli occhi della fede,
La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un “Tu” che mi dona speranza e fiducia e amore senza misura.
La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla cattiveria dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza.
Avere fede, allora, è incontrare questo “Tu”, Dio, che ci sostiene e ci concede un amore indistruttibile che non solo tende all’eternità, ma la dona; è affidarci a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel “tu” della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini.
Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche – la Parola di Dio seminata in noi, per capire che credere cristianamente significa questo abbandonarci con fiducia al senso profondo che sostiene noi e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. Dobbiamo essere capaci di accogliere questa certezza liberante e rassicurante della fede per poi annunciare la Parola con le nostre parole e di testimoniarla con la nostra vita di cristiani.
La parabola di questo seminatore, che è il Signore, che semina in maniera abbondante, ci aiuta a crescere nella consapevolezza e nell’impegno di accogliere la Parola di Dio e di farla fruttare. Ci sono molti rischi e molte situazioni in cui la Parola di Dio non porta frutto, non per l’azione di Dio, che più abbondante di così non potrebbe essere, ma per le distrazioni, le superficialità, le tentazioni nostre. Dunque il seminatore Gesù sparge il seme dovunque, con “spreco” si direbbe, non scartando nessun terreno ma ritenendo ciascuno degno di fiducia e di attenzione. Così la Chiesa per mezzo dei Vescovi, dei Preti e di tutti i Fedeli deve offrire la Parola a tutti e deve farlo senza risparmio di energie.
E’ la vocazione di ogni cristiano. Tutti siamo seminatori della Parola, dal Papa all'ultimo battezzato. Non tutti siamo seminatori allo stesso grado e con le stesse responsabilità, ma tutti siamo incaricati di portare la Parola al mondo, sapendo che la Parola è la nostra vita prima ancora che la nostra voce.
Ogni mattina ogni cristiano dovrebbe lasciare la sua casa non solo per andare a guadagnarsi da vivere materialmente ma anche spiritualmente, “uscendo a seminare Cristo, grano che diventa Pane”, senza scoraggiarsi se una parte del seme dovesse cadere su un terreno non buono.

2) Il seme e la terra.
La figura del seminatore appare all’inizio della parabola di oggi e poi scompare: i protagonisti sono il seme e la terra, e la situazione presentata dalla parabola è quella, in cui sembra che tutto vada perduto, che l'insuccesso del Regno e della Parola sia totale o eccessivo. E invece – afferma Gesù con questa parabola – non è così. E’ vero che ci sono gli insuccessi, e anche tanti, ma è certo che da qualche parte il successo c’è. Dunque è una lezione di fiducia.
Inoltre, va tenuto presente che in questa parabola Cristo rivolge l’attenzione alla “terra” delle anime degli uomini e delle umane coscienze e mostra che cosa avviene alla Parola di Dio a secondo dei vari tipi di terra di cui è fatto il campo dell’umanità. Gesù parla di un seme che è stato portato via e non è cresciuto nel cuore dell’uomo, perché questi ha ceduto al Maligno e non ha capito la Parola. Poi parla del seme caduto sulla terra rocciosa, sulla terra dura dove non era in grado di mettere le radici, dunque non ha resistito alla prima prova. Lo udiamo parlare anche del seme caduto tra i cardi e le spine e che è stato da essi soffocato (questi cardi e spine sono le illusioni del benessere che passa). Infine ci parla del seme caduto sulla terra buona, fertile, che produce frutto. Chi è questa terra fertile? Colui che ascolta la parola e la comprende. Ascolta e comprende. Non basta ascoltare il Vangelo della nuova ed eterna Alleanza, che è la parola di questo Verbo fatto carne, bisogna accoglierlo con la mente e con il cuore.
Nel corso di duemila anni la terra è stata già abbondantemente seminata con questa parola. È soprattutto Cristo stesso come Verbo che ha reso fertile questa terra della storia umana per mezzo della redenzione mediante il sangue della sua croce. E nella Parola della Croce continua la sua semina, dando inizio a “un nuovo cielo e una nuova terra” (cf. Ap 21, 1). Tutti i seminatori della parola di Cristo attingono la forza del loro servizio da quell’indicibile mistero, quale è diventata - una volta per sempre - l’unione del Dio Verbo con la natura umana, e in un certo senso con ogni uomo (come insegna il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes, 22). Cadono le parole del Vangelo sulla terra delle anime degli uomini, ma soprattutto il Verbo Eterno stesso, generato per opera dello Spirito Santo da una Vergine-Madre, è diventato fonte di vita per l’umanità.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere, sul suo modello, “terra buona”, dove il seme della Parola possa portare molto frutto.
Le Vergini consacrate nel mondo sono fra coloro che in un modo particolarissimo hanno preso a modello la Vergine Maria. Sull’esempio della Madonna, la loro parola si fa preghiera, si fa riconoscenza, si fa dono di amore. Con questa donazione d’amore la loro parola diventa annuncio della Parola di verità che unisce l’uomo alla vita d’amore di Dio. Nel dono verginale di sé riconoscono che Gesù Cristo, loro Sposo, è Re d’Amore, nella cui misericordiosa bontà è ragionevole confidare totalmente. Con la loro vita dimostrano la verità della frasi di Sant’Ambrogio “La tua parola è custodita non in una tomba di morti, bensì nel libro dei viventi” (si veda la lettura patristica che segue)


1 Per capire bene la parabola va tenuto presente che non si tratta di un seminatore incapace che getta il seme dove capita. Ai tempi della vita terrena di Cristo i campi non erano come quelli attuali soprattutto quelli nel mondo sviluppato. Erano terreni appena dirozzati e non omogenei quindi con pietre, rovi ecc. Quindi Gesù si riferisce a questo tipo di campo, che non veniva arato prima della semina, ma dopo: la semente veniva sparsa in tutte le parti del campo, anche nei sentieri che lo attraversavano e nelle zone sassose o piene di rovi. Per questo molta semente andava perduta (i tre quarti secondo la parabola, che calca intenzionalmente le tinte). Ma il risultato finale, cioè la resa del seme caduto sulla terra buona, compensava tutte le perdite.



Lettura Patristica
Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano (340 - 397)
Inizio del trattato «Sui misteri»
(Nn. 1-7; SC 25 bis, 156-158)


”Ogni giorno abbiamo tenuto un discorso su temi morali mentre si leggevano o le gesta dei patriarchi o gli insegnamenti dei Proverbi, perché, modellati e ammaestrati da essi, vi abituaste a entrare nelle vie degli antichi, a percorrere la loro strada e a obbedire agli oracoli divini, cosicché rinnovati dal battesimo teneste quella condotta che si addice ai battezzati.
Ora è venuto il tempo di parlare dei misteri e di spiegare la natura dei sacramenti. Se lo avessi fatto prima del battesimo ai non iniziati, avrei piuttosto tradito che spiegato questa dottrina. C'è anche da aggiungere che la luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa, anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche sommaria trattazione previa.
Aprite dunque gli orecchi e gustate le armonie della vita eterna infuse in voi dal dono dei sacramenti. Ve lo abbiamo significato, quando celebrando il mistero dell'apertura degli orecchi vi dicevamo: «Effatà, cioè: Apriti!» (Mc 7, 34), perché ciascuno di voi, che stava per accostarsi alla grazia, capisse su che cosa sarebbe stato interrogato e si ricordasse che cosa dovesse rispondere. Cristo, nel vangelo, come leggiamo, ha celebrato questo mistero quando ha curato il sordomuto.
Successivamente ti è stato spalancato il Santo dei Santi, sei entrato nel sacrario della rigenerazione. Ricorda ciò che ti è stato domandato, rifletti su ciò che hai riposto. Hai rinunziato al diavolo e alle sue opere, al mondo, alla sua dissolutezza e ai suoi piaceri. La tua parola è custodita non in una tomba di morti, bensì nel libro dei viventi. Presso il fonte tu hai visto il levita, hai visto il sacerdote, hai visto il sommo sacerdote. Non badare all'esterno della persona, ma al carisma del ministero sacro. E` alla presenza di angeli che tu hai parlato, com'è scritto: Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione, perché egli è l'angelo del Signore degli eserciti (cfr. Ml 2, 7). Non si può sbagliare, non si può negare. E' un angelo colui che annunzia il regno di Cristo, colui che annunzia la vita eterna. Devi giudicarlo non dall'apparenza, ma dalla funzione. Rifletti a ciò che ti ha dato, pondera l'importanza del suo compito, riconosci che cosa egli fa.
Entrato dunque per vedere il tuo avversario, al quale si suppone che tu abbia rinunziato con la bocca, ti volgi verso l'oriente: perché chi rinunzia al diavolo si rivolge verso Cristo, lo guarda diritto in faccia.”

venerdì 4 luglio 2014

I “piccoli” non sono gli ingenui, sono gli intelligenti umili.

14ª Domenica del Tempo Ordinario Pentecoste – Anno A – 6 luglio 2014

Rito Romano
Zc 9,9-10; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

Rito Ambrosiano
4ª Domenica dopo Pentecoste
Gen 6,1-22; Sal 13; Gal 5,16-25; Lc 17,26-30.33


1) I miti1 di cuore.
Dopo il cammino della Quaresima e della Passione (la Via della Croce) e della Pasqua (la Via della Luce), dopo le solennità della Trinità (Comunione d’Amore e di Luce) e del Corpo di Cristo (il dono della Sua vita per la nostra), la Liturgia riprende i passi del “tempo ordinario”. La Liturgia ci offre la Parola di Dio per continuare il percorso iniziato a gennaio, invitandoci a seguire Gesù e ad ascoltare quello che ha da dirci nella vita ordinaria di oggi.
Oggi le parole di Cristo sono davvero consolanti: “Venite a me, stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11, 29-30). All’umiltà del Figlio di Dio che si incarna bisogna rispondere con l’umiltà della nostra fede. L’umiltà di riconoscere che per vivere ci è necessaria la bontà misericordiosa di un Dio che perdona ogni giorno. E noi ci rendiamo simili a Cristo, l’unico Perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come Lui persone di misericordia, imitando Lui che è mite e umile di cuore.
Non dobbiamo, poi, dimenticare le parole del profeta Zaccaria: “Così dice il Signore: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo Re. Egli è giusto e vittorioso; umile, cavalca un asino,
un puledro, figlio di asina. Farà sparire i carri di Efraim e i cavalli di Gerusalemme, l'arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare,
 e dal fiume ai confini della terra” (Zc 9,9-10 – Prima lettura della Messa di oggi). Parole che fanno da cornice a quelle di Gesù che oggi ci sono proposte, come a quelle della beatitudine in cui Lui dice: “Beati i miti perché possiederanno la terra” (Mt 5,5). Se teniamo unite questa beatitudine all’invito: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29), ne deduciamo che le beatitudini non sono solo un bel programma etico che il maestro traccia, per così dire a tavolino, per i suoi seguaci; sono l’autoritratto di Gesù. È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia, è lui il vero re di pace che ristora i suoi sudditi e li protegge con lo scettro della Croce, scettro di potente mitezza.
In effetti, la prova più alta della mitezza regale di Cristo è la sua passione. Nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta” (1 Pt 2, 23). Questo tratto della persona di Cristo si era talmente stampato nella memoria dei suoi discepoli che san Paolo, volendo scongiurare i Corinzi per qualcosa di caro e di sacro, scrive loro: “Vi esorto per la mitezza e la benignità di Cristo” (2 Cor 10, 1). Ma Gesù ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e pazienza eroica; ha fatto della mitezza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla Croce, dice Agostino, egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima, “Vincitore perché vittima (Victor quia victima)” (Le Confessioni, 10, 43).

2) Umili di cuore.
In un mondo in cui tutti dicono che bisogna farsi avanti, il Vangelo invita a farsi indietro. “Imparate da me che sono mite e umile di cuore e ecco troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11, 29). “Mite e umile” sono due termini che Gesù applica a se stesso. E giustamente, perché indicano il suo atteggiamento verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio un atteggiamento di confidenza, obbedienza e docilità. Verso gli uomini un atteggiamento di accoglienza, pazienza, discrezione, disponibilità e perdono, addirittura di servizio. E anche l'aggiunta “di cuore” non è senza importanza. Indica che le disposizioni di Gesù - verso il Padre e verso i fratelli - si radicano nel profondo del suo cuore e coinvolgono tutta la sua Persona.
E’ vero che l’umiltà, come la povertà, appare una condizione perché l’uomo possa vivere un rapporto con Dio, anzi è la condizione essenziale a viverlo. Ma, come San Francesco d’’Assisi l’intuì, è altrettanto vero che l’umiltà è una caratteristica di Dio,
Quando un essere umano s'inginocchia davanti a Dio, il Signore del cielo, non è umiltà, è soltanto realismo. Quando Dio si china sul malato, sul peccatore, quando s’inchina per lavare i piedi all’uomo, questa è umiltà divina. Incarnandosi, il Figlio di Dio non rinnega la sua dignità infinita, la manifesta in un modo sublime, delicato e pieno di amore. Dio si abbassa per donarsi totalmente all’uomo, per salvarlo. Si fa “nulla”, perché l’uomo sia tutto.
E ciò non avvenne solamente una volta più di duemila anni fa, avviene ogni volta che Egli si fa presente nella Messa sotto le specie del pane e del vino per donarsi, per essere mangiato: la Messa trova il suo compimento nella comunione eucaristica nella quale Egli totalmente si dà, cosi da sparire. E tutto per ciascuno di noi e in ciascuno di noi.
Dio è umiltà perché amore, insegna San Francesco d’Assisi, che conosceva Dio in modo sublime, sia perché ne aveva esperienza, sia perché meditava nella Chiesa le Sacre Scritture. In effetti, già nell'Antico Testamento Dio afferma che “le sue delizie (di Dio) sono nell'essere coi figli degli uomini”. Pensiamo alla gioia del Padre di essere nel cuore di Gesù, pensiamo alla gioia di Gesù per il fatto che Dio si è compiaciuto di nascondere la sua grandezza ai grandi per rivelarla invece ai piccoli e ai dimenticati fino al punto di farsi garante di questa nostra povera, fragile vita umana, e subirne la sorte. San Paolo accenna a questo mistero quando dice: “Lui che sussistendo in forma di Dio, non ritenne come geloso possesso l’essere a pari con Dio, ma spogliò se stesso, prese forma di servo in somiglianza di uomini ridotto, e all’aspetto trovato come uomo... Per questo Dio lo sopraesaltò e gli diede un nome che è sopra ogni nome” (cfr. Fil 2, 6-9). Ecco l'umiltà di Dio, cioè la sua Condiscendenza a ciò che al suo cospetto è nulla; possibile solo, perché egli è l’Onnipotente. Ecco l’umiltà di Gesù Cristo “Anche Lui, il Figlio di Dio, si abbassa per ricevere l’amore del Padre” (Papa Francesco, omelia del 27 giugno 2014).
Insomma, l’amor cristiano, quell’amore che la vita di Gesù porta, e che secondo San Giovanni è Dio stesso, riposa sull’umiltà.

3) Umiltà fondamento della vita spirituale.
Concludiamo accennando al fatto che l’umiltà è il fondamento della vita spirituale in particolare per le Vergini consacrate nel mondo.
La vita spirituale implica sempre il sentimento del proprio nulla nei confronti di Dio, un nulla che non esclude il fatto che la creatura esista. Esclude però ogni sentimento di opposizione, ogni sentimento di alterità, ogni sentimento che dia all’uomo la coscienza di essere qualche cosa indipendentemente da Lui e non in Lui e per Lui. La creatura per tutto quello che è, è da Dio ed è in Dio.
Con il riconoscimento di Dio come Signore è implicato dunque un certo annientamento interiore del nostro io. Nella luce infinita di Dio, l’uomo scompare; come il sole, che non appena sale all'orizzonte, eclissa le stelle.
Dio si rivela a noi attraverso la creazione, ma la sua rivelazione più perfetta è Gesù Cristo. E Cristo, per Francesco d’Assisi, è umiltà. Egli non sa riaversi dallo stupore provocato da una sua contemplazione del mistero cristiano come mistero di suprema umiltà: l’umiltà del Cristo nella sua nascita, nella sua passione, nell’Eucaristia.
Con particolare affetto e devozione le Vergini consacrate nel mondo coltivano con la Vergine Maria, modello di ogni sequela e di ogni consacrazione, l’umile confidenza filiale, la preghiera di intercessione, la contemplazione dei misteri del suo Figlio Gesù. Esse testimoniano nella Chiesa che la fedeltà del cristiano ha il suo nido nella fedeltà di Dio, che manifesta l’umiltà del suo cuore: Gesù non è venuto a conquistare gli uomini come i re e i potenti di questo mondo, ma è venuto ad offrire amore con mitezza e umiltà.
Queste donne si lasciano avvolgere dalla fedeltà umile e dalla mitezza dell’amore di Cristo, rivelazione della misericordia del Padre. La loro vocazione è quella di servire Dio nel mondo con umile coraggio, con tutta la forza del loro cuore, realizzando nella vita quotidiana la preghiera di consacrazione che il Vescovo da su di loro: “Con la grazia dello Spirito Santo, ci siano sempre in loro prudenza e semplicità, mitezza e delicatezza, umiltà e libertà” (Rituale della Consacrazione della Vergini, n 24)

1 Per scoprire chi sono i miti proclamati beati da Gesù, è utile passare brevemente in rassegna i vari termini con cui la parola miti (praeis) è resa nelle traduzioni moderne. L’italiano ha due termini: miti e mansueti. Quest’ultimo è anche il termine usato nelle traduzioni spagnole, los mansos, i mansueti. In francese la parola è tradotta con doux, alla lettera “i dolci”, coloro che possiedono la virtù della dolcezza. (Non esiste in francese un termine specifico per dire mitezza; nel “Dictionnaire de spiritualité” questa virtù è trattata alla voce douceur, dolcezza).
In tedesco si alternano diverse traduzioni. Lutero traduceva il termine con Sanftmuetigen, cioè miti, dolci; nella traduzione ecumenica della Bibbia, la Eineits Bibel, i miti sono coloro che non fanno alcuna violenza – die keine Gewalt anwenden-, dunque i non-violenti; alcuni autori accentuano la dimensione oggettiva e sociologica e traducono praeis con Machtlosen, gli inermi, i senza potere. L’inglese rende di solito praeis con the gentle, introducendo nella beatitudine la sfumatura di gentilezza e di cortesia.
Ognuna di queste traduzioni mette in luce una componente vera ma parziale della beatitudine. Bisogna tenerle insieme e non isolarne nessuna, per avere un’idea della ricchezza originaria del termine evangelico. Due associazioni costanti, nella Bibbia e nella predicazione cristiana antica, aiutano a cogliere il “senso pieno” di mitezza: una è quella che accosta tra loro mitezza e umiltà, l’altra quella che accosta mitezza e pazienza; l’una mette in luce le disposizioni interiori da cui scaturisce la mitezza, l’altra gli atteggiamenti che spinge ad avere nei confronti del prossimo: affabilità, dolcezza, gentilezza. Sono gli stessi tratti che l’Apostolo mette in luce parlando della carità: “La carità è paziente, è benigna, non manca di rispetto, non si adira…” (1 Cor 13, 4-5).


Lettura spirituale
San Francesco d’Assisi
Lettera al Capitolo Generale e a tutti i Frati

Invece della lettura patristica questa volta propongo uno dei testi più belli degli scritti francescani:

Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti, e siate santi perché Egli è santo. E come il Signore Dio onorò voi sopra tutti gli uomini, per questo mistero, cosi voi più di ogni altro uomo amate, riverite e onorate Lui.
Grande miseria sarebbe, e miserevole male se, avendo lui così presente, vi curaste di ogni altra cosa che fosse nell'universo intero!
L'umanità trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull'altare, nelle mani del sacerdote, è il Cristo Figlio di Dio vivo.
O ammirabile altezza, o degnazione stupenda! o umiltà sublime! o sublimità umile, che il Signore dell'universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane.
Guardate, frati, L’umiltà di Dio, e aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché egli vi esalti. Nulla, dunque, di voi, tenete per voi; affinché vi accolga tutti colui che a voi si da tutto” (Fonti Francescane 220).