venerdì 27 marzo 2020

La Vita dona la vita

Rito Romano – V Domenica di Quaresima – Anno A – 29 marzo 2020
Ez 37, 12-14; Sal 129; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45


Rito Ambrosiano – V Domenica di Quaresima
Es 14,15-31; Sal 105; Ef 2,4-10; Gv 11,1-53


  1. La verità della morte e la voce del cuore.
In questo drammatico periodo, in cui il coronavirus provoca molti, troppi morti, siamo messi di fronte alla morte come fatto che sconvolge le nostre vite. Questa morte, che istintivamente tutto il nostro essere rigetta, è davvero spaventosa, perché prova agli occhi dei morenti la perfetta inutilità della loro vita, come anche l’assurdità senza appello del bene che hanno creduto di fare e delle sofferenze che hanno sopportato: “Allora la morte diventa un gorgo …”, certamente.
Ma il vangelo di questa Domenica ci dice parole di speranza. La morte non è la fine di tutto. E’un momento drammatico che trasforma la nostra vita. La tomba non è l’ultima tappa della nostra vita. E’ la porta, sempre dolorosa e tragica, che ci fa entare nella vita con Dio. Per il cristiano la morte è l’ultima porta da attraversare per incontrare il Dio della Vita e vivere con Lui sempre e felici.
L’ultima parola non spetta alla morte ma al Dio Amore, che dà la vita. Chi conosce questo amore, vive già ora la vita eterna. La fede ci insegna che la vita non si interrompe con la morte biologica, ma si trasforma in vita eterna grazie all’amore di Dio condiviso quotidianamente: l’amore sa dare la vita fino in fondo. E Dio è amore, fondo senza fondo, principio di tutto e fine senza fine. L’amore umano si oppone alla morte e vuole la vita. L’amore di Dio dona questa vita ora e per l’eternità. La realtà della morte può essere espressa in tutta la sua verità solo col linguaggio dell’amore. L’amore infatti resiste alla morte, e desidera la vita , come lo esprimono Maria e Marta, parlando a Cristo di Lazzaro, loro fratello morto da pochi giorni. La verità sulla morte può essere espressa solamente a partire da una prospettiva di vita, da un desiderio di vita: cioè dalla permanenza nella comunione amorosa di una persona, della persona di Cristo. La verità sulla morte viene espressa nell’odierna liturgia in rapporto con la voce del cuore umano: quello delle due sorelle e quello (umano-divino) di Cristo, Signore della vita e della morte.
In effetti, il brano evangelico di oggi mostra Gesù quale vero Uomo e vero Dio. San Giovanni insiste sullamicizia di Cristo con Lazzaro e con le sorelle Marta e Maria. L’Apostolo prediletto sottolinea che Gesù voleva loro molto bene (Gv 11,5), e per questo volle compiere il grande miracolo: “Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo (Gv 11,11) – così parlò ai discepoli, esprimendo con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede appunto come un sonno, da cui ci può risvegliare. Gesù ha dimostrato un potere assoluto nei confronti di questa morte: lo si vede quando ridona la vita al giovane figlio della vedova di Nain (cfr Lc 7,11-17) e alla fanciulla di dodici anni (cfr Mc 5,35-43). Proprio di lei disse: Non è morta, ma dorme (Mc 5,39), attirandosi la derisione dei presenti. Ma in verità è proprio così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento.
Il fatto di essere Re della vita non impedì a Gesù di provare sincera compassione per il dolore del distacco. Vedendo piangere Marta e Maria e quanti erano venuti a consolarle, anche Gesù si commosse profondamente, si turbò e infine scoppiò in pianto (Gv 11,33.35). Il cuore di Cristo è divino-umano: in Lui Dio e Uomo si sono perfettamente incontrati, senza separazione e senza confusione. Egli è l’immagine, anzi, l’incarnazione del Dio che è amore, misericordia, tenerezza paterna e materna, del Dio che è Vita. Perciò dichiarò solennemente a Marta: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. E aggiunse: Credi tu questo? (Gv 11,25-26). Una domanda che Gesù rivolge ad ognuno di noi; una domanda che certamente ci supera, supera la nostra capacità di comprendere, e ci chiede di affidarci a Lui, come Lui si è affidato al Padre. Esemplare è la risposta di Marta: Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo (Gv 11,27).
Anche noi crediamo, malgrado i nostri dubbi e le nostre oscurità; crediamo in Cristo, perché Lui ha parole di vita eterna. Chiediamo a Gesù che aumenti la nostra fede in Lui, che ci doni una speranza sicura di vita oltre la vita, di vita autentica e piena nel suo Regno di luce e di pace.


2) L’amore vince la morte.
Il brano del Vangelo che è proposto oggi dalla Liturgia della Messa ci invita a contemplare il miracolo della resurrezione di Lazzaro1 come anticipo e profezia della resurrezione di Gesù che avverrà a Gerusalemme il giorno di Pasqua. Il fatto di Lazzaro risuscitato è anche “segno” che la vita, quando è vissuta nell’amicizia con Cristo, non è sconfitta dalla morte. Chi ama non muore, perché si dona e vive nell’altro. Di più, chi è amato da Cristo non muore, “dorme” ed è risvegliato da Cristo.
L’amore verso Lazzaro “strappa” ancora un miracolo a Gesù. Se nel Cantico dei cantici si dice che “l’amore è forte come la morte”(8,6), in questo gesto Gesù mostra che l’amore è più forte della morte, “risveglia” l’amico dal sonno mortale.
Molti sono gli aspetti che si possono sottolineare in questo episodio.
Penso sia utile iniziare dal luogo: la casa di Lazzaro, Marta e Maria a Betania2. Gesù va in questa casa perché queste tre persone sono “luogo” dell’amicizia, e quindi la loro dimora è “luogo” di condivisione e non solo di riposo o rifugio. Luogo di vita che vince la morte, che va oltre la morte è un luogo di rapporti, di amicizia vera, di comunione profonda.
Poi è importante notare la sovrapposizione di due fatti: Lazzaro è lasciato morire da Gesù come Gesù è lasciato morire in Croce dal Padre. Umanamente è scandaloso. Gesù ama Lazzaro (il Vangelo lo sottolinea ripetutamente) e tuttavia lo lascia morire: perché? E Dio Padre ama il Figlio indicandolo come l’Amato e tuttavia lo lascia morire in croce. Perché? Come credere che la parola ultima non spetta alla morte, ma al Dio amore che dà la vita e non si interrompe con la fine della vita biologica? Chiedendo che Cristo aumenti la nostra fede e contemplando Cristo nella sua vita, morte e resurrezione
Ognuno comprende che si tratta del mistero dell'esistenza dell'uomo: una promessa di vita che poi pare smentita, una promessa di salvezza da parte di Dio che poi sembra contraddirsi. Un mistero inquietante, che in nessun modo va attenuato. Anche Gesù ha pianto di fronte alla morte dell'amico, come ha provato smarrimento di fronte all'imminenza della Croce. La morte, come la Croce, continua a rimanere qualcosa di incomprensibile: Dio dice di amarci e poi ci lascia morire, sembra proprio un abbandono.


3) Il Pianto di Dio e la “risurrezione” di Marta e Maria.
Gesù piange, dimostrando in tal modo di amare Lazzaro profondamente. Ma ecco la domanda: “Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva far sì che questi non morisse?”. Fu la domanda dei presenti di allora ed è anche la nostra domanda, che siamo i presenti di oggi.
Ma la stessa domanda ci si impone davanti alla morte in Croce di Gesù. Se Gesù è Figlio di Dio, amato da Dio, perché è abbandonato alla Croce? Se Dio è con lui, non dovrebbe accadere diversamente? Eppure anche Dio ha pianto su Cristo e piange su di noi: “la Messa è il pianto di Dio” (San Pio da Pietrelcina) e “Anche Dio piange: il suo pianto è come quello di un padre che ama i figli” (Papa Francesco alla messa del 5 febbraio 2014).
Non è facile vedere nella Croce un’epifania dell’amore, ma la Quaresima e la Settimana Santa che si avvicina ci sono date per contemplare questa manifestazione di carità imparando, ad “amare il dolore il quale ci rivela l'opera del suo amore” (San Pio da Pietrelcina) e fare nostra la preghiera del salmo “È in te la sorgente della vita, alla tua luce noi vediamo la luce” (Sal 36).
Il mistero dell'esistenza dell'uomo, amato da Dio e tuttavia abbandonato alla morte, si rispecchia e si ingigantisce nel mistero della Croce di Gesù. Ma anche si risolve. Perché c'è vedere e vedere, e della Croce, come dell'esistenza dell'uomo, sono possibili due letture. C'è lo sguardo privo di fede di chi si arresta allo scandalo, e vede nella morte dell'uomo come nella Croce di Cristo il segno del fallimento. E c'è lo sguardo che si apre alla fede e supera lo scandalo, e vede che nella Croce di Gesù splende la risurrezione, come nella morte dell'uomo. E questo è davvero per i cristiani un punto fermo: se si vuol trovare nella storia e nella vita un senso, occorre saper vedere nella Croce di Cristo la gloria di Dio. Non è possibile diversamente.
La risurrezione di Lazzaro, segno di un destino più generale che coinvolge chi è convocato intorno a questa tavola. Gesù chiama Lazzaro fuori dalla tomba. Ma Lazzaro risuscitato è il segno di quanto accade anche alle sorelle Marta e Maria. Marta infatti riconosce nell'amico il Signore della vita.
Credo sia corretto dire che la risurrezione è credere in Gesù, perché chi vive e crede in lui non muore in eterno (cf Gv 11,26), la “confessione di fede” di Marta è anche la risurrezione delle due sorelle.
Le Vergini consacrate ci danno un esempio di una “vita risorta” perché vivono la loro vocazione come cammino di risurrezione e l’amicizia sponsale con Cristo come relazione personale nell’amore, basata sulla dedizione completa a Cristo e sul riconoscimento radicale di Lui. A questa testimonianza d’amore queste donne ci mostrano l’importanza della contemplazione come capacità di saper vedere trasparire il Signore dagli eventi della nostra esistenza quotidiana e da quella di tutta l'umanità. In ciò mettono in pratica quanto la Congregazione per la Vita consacrata e le Società di Vita apostolica scriveva: “La vita consacrata, nel continuo succedersi ed affermarsi di forme sempre nuove, è già in se stessa un'eloquente espressione di questa presenza di Cristo, quasi una specie di Vangelo dispiegato nei secoli. Essa appare infatti come «prolungamento nella storia di una speciale presenza del Signore risorto».8 Da questa certezza le persone consacrate devono attingere un rinnovato slancio, facendone la forza ispiratrice del loro cammino. La società odierna attende di vedere in loro il riflesso concreto dell'agire di Gesù, del suo amore per ogni persona, senza distinzioni o aggettivi qualificanti. Vuole sperimentare che è possibile dire con l'apostolo Paolo «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).” (Istruzione Ripartire da Cristo:
un rinnovato impegno della vita consacrata
nel terzo millennio, 19 maggio 2002, n. 2).
1  Il nome Lazzaro viene dall’ebraico ‘El'asar = Dio ha aiutato, colui che è assistito da Dio.
Betania: questo nome deriva dall'ebraico ed è composto da due parole di cui la prima è Beth (che è anche il nome della seconda lettera dell'alfabeto ebraico).
Beth” significa casa (o luogo), esprime l'idea di qualcosa che lo contiene è l'archetipo di tutte le case, la casa di Dio e uomo, il santuario.

Vuol dire un luogo di santità sulla terra.
Il secondo termine ebraico “ania” sarebbe venuto da una parola ebraica che significa sia palma, sia povertà o poveri o misericordia, grazia o benedizioni. Cristo va dall’amico Lazzaro a Betania e, pochi giorni dopo, lascia Betania e va a Gerusalemme (tra i due luoghi ci sono circa 3 chilometri) su un asino, accompagnato dalla folla che lo saluta con rami di palme. Questo dato conferma la presenza di palme in questo luogo e conferma l’etimologia del nome. Simbolicamente la palma è segno di fertilità e di cibo con i datteri, ma è anche il simbolo della giustizia, giustizia di riparazione per il sapore amaro che è suggerito dal suo nome ebraico “tamar”.
 “Ania” può anche venire da “Anania” = Yahweh è stato misericordioso o Hannah, grazia, benedizione. Quindi si può interpretare
“Betania” come la casa della misericordia, della grazia e della benedizione.

Lettura Patristica
S.Agostino d’Ippona
Omelia 49


La risurrezione di Lazzaro.
E' cosa più grande creare gli uomini che risuscitarli. Tuttavia il Signore si è degnato creare e risuscitare: li ha creati tutti e ne ha risuscitati alcuni. Se avesse voluto, certamente avrebbe potuto risuscitare tutti i morti. E questo farà alla fine del mondo.
1. Fra tutti i miracoli compiuti da nostro Signore Gesù Cristo, quello della risurrezione di Lazzaro è forse il più strepitoso. Ma se consideriamo chi è colui che lo ha compiuto, la nostra gioia dovrà essere ancora più grande della meraviglia. Risuscitò un uomo colui che fece l'uomo; egli infatti è l'Unigenito del Padre, per mezzo del quale, come sapete, furon fatte tutte le cose. Ora, se per mezzo di lui furon fatte le cose, fa meraviglia che per mezzo di lui sia risuscitato uno, quando ogni giorno tanti nascono per mezzo di lui? E' cosa più grande creare gli uomini che risuscitarli. Tuttavia egli si degnò creare e risuscitare: creare tutti e risuscitarne alcuni. Infatti, benché il Signore Gesù abbia compiuto molte cose, non tutte sono state scritte; lo stesso san Giovanni evangelista afferma che Cristo Signore disse e fece molte cose che non furono scritte (cf. Gv 20, 30); ma furono scelte quelle che si ritenevano sufficienti per la salvezza dei credenti. Tu hai udito che il Signore Gesù risuscitò un morto: ciò ti basti per convincerti che, se avesse voluto , avrebbe potuto risuscitare tutti i morti. Del resto si è riservato di far questo alla fine del mondo; poiché verrà l'ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri, udranno la sua voce e ne usciranno; così dice colui che, come avete sentito, con un grande miracolo risuscitò uno che era morto da quattro giorni. Egli risuscitò un morto in decomposizione; ma benché in tale stato, quel cadavere conservava ancora la forma delle membra. Nell'ultimo giorno, ad un cenno, ricostituirà il corpo dalle ceneri. Ma bisognava che intanto compisse alcune cose, che a noi servissero come segni della sua potenza per credere in lui, e prepararci a quella risurrezione che sarà per la vita, non per il giudizio. E' in questo senso che egli ha detto: Verrà l'ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri, udranno la sua voce e ne usciranno, quelli che hanno agito bene per la risurrezione della vita, quelli che hanno agito male per la risurrezione del giudizio (Gv 5, 28-29).
2. Apprendiamo dal Vangelo che tre sono i morti risuscitati dal Signore, e ciò non senza un significato. Sì, perché le opere del Signore non sono soltanto dei fatti, ma anche dei segni. E se sono dei segni, oltre ad essere mirabili, devono pur significare qualcosa; e trovare il significato di questi fatti è alquanto più impegnativo che leggerli o ascoltarli. Abbiamo ascoltato il Vangelo che racconta come Lazzaro riebbe la vita, pieni di ammirazione come se quello spettacolo meraviglioso si svolgesse davanti ai nostri occhi. Se però rivolgiamo la nostra attenzione ad opere di Cristo più meravigliose di questa ci rendiamo conto che ogni uomo che crede risorge; se poi riuscissimo a comprendere l'altro genere di morte molto più detestabile, (quello cioè spirituale), vedremmo come ognuno che pecca muore. Se non che tutti temono la morte del corpo, pochi quella dell'anima. Tutti si preoccupano per la morte del corpo, che prima o poi dovrà venire, e fanno di tutto per scongiurarla. L'uomo destinato a morire si dà tanto da fare per evitare la morte, mentre non altrettanto si sforza di evitare il peccato l'uomo che pure è chiamato a vivere in eterno. Eppure quanto fa per non morire, lo fa inutilmente: al più ottiene di ritardare la morte, non di evitarla. Se invece si impegna a non peccare, non si affaticherà, e vivrà in eterno. Oh, se riuscissimo a spingere gli uomini, e noi stessi insieme con loro, ad amare la vita che dura in eterno almeno nella misura che gli uomini amano la vita che fugge! Che cosa non fa uno di fronte al pericolo della morte? Quanti, sotto la minaccia che pendeva sul loro capo, hanno preferito perdere tutto pur di salvare la vita! Chi infatti non lo farebbe per non essere colpito? E magari, dopo aver perduto tutto, qualcuno ci ha rimesso anche la vita. Chi pur di continuare a vivere, non sarebbe pronto a perdere il necessario per vivere, preferendo una vita mendicante ad una morte anticipata? Se si dice a uno: se non vuoi morire devi navigare, esiterà forse a farlo? Se a uno si dice: se non vuoi morire devi lavorare, si lascerà forse prendere dalla pigrizia? Dio ci comanda cose meno pesanti per farci vivere in eterno, e noi siamo negligenti nell'obbedire. Dio non ti dice: getta via tutto ciò che possiedi per vivere poco tempo tirando avanti stentatamente; ti dice: dona i tuoi beni ai poveri se vuoi vivere eternamente nella sicurezza e nella pace. Coloro che amano la vita terrena, che essi non possiedono né quando vogliono né finché vogliono, sono un continuo rimprovero per noi; e noi non ci rimproveriamo a vicenda per essere tanto pigri, tanto tiepidi nel procurarci la vita eterna, che avremo se vorremo e che non perderemo quando l'avremo. Invece questa morte che temiamo, anche se non vogliamo, ci colpirà.
3. Se dunque il Signore, per sua grande grazia e misericordia, risuscita le anime affinché non si muoia in eterno, ben possiamo supporre che quei tre che egli risuscitò nei loro corpi significano e adombrano la risurrezione delle anime, che si ottiene mediante la fede. Risuscitò la figlia del capo della sinagoga, che si trovava ancora in casa (cf Mc 5, 41-42); risuscitò il giovane figlio della vedova, che era già stato portato fuori della città (cf. Lc 7 14-15); risuscitò Lazzaro, che era stato sepolto da quattro giorni. Esamini ciascuno la sua anima: se pecca muore, giacché il peccato è la morte dell'anima. A volte si pecca solo col pensiero: ti sei compiaciuto di ciò che è male, hai acconsentito, hai peccato; il consenso ti ha ucciso; però la morte è solo dentro di te, perché il cattivo pensiero non si è ancora tradotto in azione. Il Signore, per indicare che egli risuscita tal sorta di anime, risuscitò quella fanciulla che ancora non era stata portata fuori, ma giaceva morta in casa, a significare il peccato occulto. Se però non soltanto hai ceduto col pensiero al male, ma lo hai anche tradotto in opere, è come se il morto fosse uscito dalla porta; ormai sei fuori, e sei un morto portato alla sepoltura. Il Signore tuttavia risuscitò anche quel giovane e lo restituì a sua madre vedova. Se hai peccato, pentiti! e il Signore ti risusciterà e ti restituirà alla Chiesa, che è la tua madre. Il terzo morto è Lazzaro. Siamo di fronte al caso più grave, che è l'abitudine perversa. Una cosa infatti è peccare, un'altra è contrarre l'abitudine al peccato. Chi pecca, ma subito si emenda, subito riprende a vivere; perché non è ancora prigioniero dell'abitudine, non è ancora sepolto. Chi invece pecca abitualmente, è già sepolto, e ben si può dire che già mette fetore, nel senso che la cattiva fama che si è fatta comincia a diffondersi come un pestifero odore. Così sono coloro che ormai sono abituati a tutto e rotti ad ogni scelleratezza. Inutile dire a uno di costoro: non fare così! Come fa a sentirti chi è come sepolto sotto terra, corrotto, oppresso dal peso dell'abitudine? Né tuttavia la potenza di Cristo è incapace di risuscitare anche uno ridotto così. Abbiamo conosciuto, abbiamo visto, e ogni giorno vediamo uomini che, cambiate le loro pessime abitudini, vivono meglio di altri che li rimproveravano. Tu, ad esempio, avevi molto da ridire sulla condotta del tale: ebbene, guarda la sorella stessa di Lazzaro (ammesso che sia lei la peccatrice che unse i piedi del Signore, e glieli asciugò con i suoi capelli dopo averglieli lavati con le sue lacrime); la sua risurrezione è più prodigiosa di quella del fratello, perché è stata liberata dal grave peso dei suoi cattivi costumi inveterati. Era infatti una famosa peccatrice, e di lei il Signore disse: Le sono rimessi molti peccati, perché ha amato molto (Lc 7, 47). Abbiamo visto e conosciamo molti di questi peccatori: nessuno disperi, nessuno presuma di sé. E' male disperare, ed è male presumere di sé. Non disperare e scegli dove poter collocare la tua speranza.
4. Dunque il Signore risuscitò anche Lazzaro. Avete sentito in che condizioni si trovava, cioè avete capito cosa significa questa risurrezione di Lazzaro. Cominciamo a leggere, e siccome in questa lettura molte cose sono chiare, non ci soffermeremo a spiegare ogni dettaglio, onde poter dedicare l'attenzione a ciò che lo richiede. S'era ammalato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e della sorella di lei Marta (Gv 11, 1). Dalla lettura precedente ricorderete che il Signore sfuggì dalle mani di coloro che volevano lapidarlo, e si ritirò oltre il Giordano dove Giovanni battezzava (cf. Gv 10, 39-40). Ora, mentre il Signore stava in quel luogo, Lazzaro si era ammalato in Betania, un villaggio che era vicino a Gerusalemme.
5. Maria era colei che unse di unguento profumato il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli. Era suo fratello Lazzaro ch'era ammalato. Dunque, le sorelle mandarono a dire a Gesù (Gv 11, 2-3). Sappiamo già dove mandarono il messaggio a Gesù, poiché sappiamo dove egli era: era assente e si trovava al di là del Giordano. Mandarono a dire al Signore che il loro fratello era ammalato, e per pregarlo di venire a liberarlo dalla malattia. Egli ritardò a guarirlo, per poterlo risuscitare. Che cosa dunque gli mandarono a dire le sorelle di Lazzaro? Signore, vedi, colui che tu ami è malato (Gv 11, 3). Non dissero: Vieni subito! A lui che amava era sufficiente la notizia. Non osarono dire: Vieni a guarirlo; oppure: Qui comanda e là sarà fatto. Perché non dissero così anch'esse, dal momento che la fede del centurione era stata tanto lodata per essersi espressa così? Quello infatti disse: Non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito (Mt 8, 8). Le sorelle di Lazzaro non gli mandarono a dire niente di tutto questo, ma soltanto: Signore, vedi, colui che tu ami è malato. E' sufficiente che tu lo sappia; poiché non puoi abbandonare quelli che ami. Qualcuno dirà: come può Lazzaro rappresentare il peccatore ed essere quindi amato dal Signore? Ascolti la sua parola: Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (Mt 9, 13). Se infatti Dio non avesse amato i peccatori, non sarebbe disceso dal cielo in terra.
6. Udendo ciò, Gesù rispose: Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per essa sia glorificato il Figlio di Dio (Gv 11, 4). Questa glorificazione del Figlio di Dio, non aumentò la sua gloria, ma giovò a noi. Disse che non era per la morte, perché la morte stessa non era per la morte, ma l'occasione di un miracolo, grazie al quale gli uomini avrebbero creduto in Cristo, evitando così la vera morte. Osservate come il Signore in modo indiretto dice che è Dio per quanti negano che il Figlio è Dio. Ci sono infatti degli eretici i quali sostengono che il Figlio di Dio non è Dio. Ascoltino costoro le sue parole: Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio. Per quale gloria? e di quale Dio? Ascolta quanto segue: affinché sia glorificato il Figlio di Dio. Questa malattia - dice - non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa - cioè appunto per mezzo di questa malattia - sia glorificato il Figlio di Dio.
7. Gesù voleva bene a Marta e alla sorella di lei, Maria, e a Lazzaro (Gv 11, 5). Lazzaro era malato, esse erano tristi, tutti erano amati: chi li amava era il salvatore degli infermi, colui che risuscita i morti, il consolatore degli afflitti. Com'ebbe, dunque, sentito che egli era ammalato, si trattenne ancora due giorni nel luogo dov'era (Gv 11, 6). Ricevuta la notizia, rimane dov'era, lasciando passare quattro giorni. E non senza un motivo: forse, anzi certamente, il numero dei giorni racchiude un significato. Poi disse di nuovo ai suoi discepoli: Torniamo in Giudea (Gv 11, 7), dove per poco non era stato lapidato, e da dove sembrava essersi allontanato proprio per sfuggire alla lapidazione. Come uomo si era allontanato; ma ritornandovi, egli sembrava quasi dimenticare la debolezza umana, per mostrare la sua potenza. Torniamo - disse - in Giudea.
8. Notate lo spavento dei discepoli di fronte a questa risoluzione. I discepoli gli dissero: Rabbi, i Giudei cercavano or ora di lapidarti e tu vuoi tornare di nuovo colà? Gesù rispose: Non sono forse dodici le ore del giorno? (Gv 11, 8-9). Qual è il senso di questa risposta? I discepoli gli avevano fatto osservare: I Giudei cercavano or ora di lapidarti e tu vuoi tornare di nuovo colà, cioè vuoi tornare là per farti lapidare? E il Signore rispose: Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte inciampa perché la luce non è in lui (Gv 11, 9-10). Egli parla qui del giorno, ma nella nostra intelligenza fa ancora notte. Invochiamo il giorno affinché cacci via la notte e con la sua luce rischiari il nostro cuore. Che cosa ha voluto dire il Signore? Mi sembra, per quanto appare dall'altezza e profondità di queste parole, che abbia voluto rimproverare la loro esitazione e la loro poca fede. Essi infatti pretendevano consigliare il Signore a evitare la morte, mentre egli era venuto a morire per sottrarre loro alla morte. In altra circostanza san Pietro, che era pieno d'amore per il Signore, ma che ancora non aveva ben capito il motivo della sua venuta, temette per la sua morte e dispiacque alla Vita, cioè al Signore. Il Signore aveva annunciato ai discepoli che avrebbe dovuto patire a Gerusalemme da parte dei Giudei, e Pietro, parlando a nome anche degli altri, disse: Dio ti scampi, o Signore; questo non ti accadrà. E il Signore gli rispose: Indietro, Satana! perché non hai il senso delle cose di Dio, ma di quelle degli uomini. E dire che poco prima Pietro, confessando il Figlio di Dio, si era meritato questo elogio: Beato sei tu, Simone figlio di Jona, perché non carne e sangue te l'ha rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli (Mt 16, 16-23). A quello cui aveva detto Beato sei tu, ora dice: Indietro, Satana!, in quanto Pietro non era beato da sé. Ma da parte di chi? Perché non carne e sangue te l'ha rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ecco perché sei beato, non da te, ma da me. Non perché io sia il Padre, ma perché tutto ciò che appartiene al Padre è mio (cf. Gv 16, 15). Se l'esser beato, Pietro lo deve al Signore, a chi deve l'esser satana? Ecco che il Signore glielo dice. Gli ha indicato il motivo per cui è beato: perché non la carne e il sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli, ecco perché sei beato; ma ascolta anche perché ti ho detto: Indietro, satana!: perché non hai il senso delle cose di Dio ma di quelle degli uomini. Nessuno s'illuda: di per se stesso, ogni uomo è Satana; se è beato, è dono di Dio. Che vuol dire "di per se stesso" se non in forza del proprio peccato? Se togli il peccato, che rimane di tuo? La giustizia è, dice, roba mia. Infatti, che cos'hai che tu non abbia ricevuto (cf. 1 Cor 4, 7)? Siccome avevano la pretesa, essi che erano uomini, di dare consiglio a Dio, e pretendevano i discepoli insegnare al maestro, i servi al Signore, i malati al medico, egli li rimproverò dicendo: Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa. Come a dire: seguitemi, se non volete inciampare; non vi mettete a darmi consigli, proprio voi che dovreste riceverli da me. Qual è dunque il senso della frase: Non sono forse dodici le ore del giorno? Il Signore si scelse dodici Apostoli per mostrare che egli era il giorno. Se io sono il giorno - dice - e voi le ore, forse le ore possono dare consigli al giorno? Sono le ore che seguono il giorno, non viceversa. Se però essi erano le ore, Giuda che cosa rappresentava? Faceva parte anch'egli delle dodici ore? Se era un'ora, risplendeva; se risplendeva, come ha potuto consegnare il giorno alla morte? Ma il Signore con queste parole non si riferiva a Giuda, bensì al suo successore, che già egli aveva presente. Mattia infatti prese il posto di Giuda, e così gli Apostoli rimasero dodici (cf. At 1, 26). Non senza motivo dunque il Signore aveva scelto dodici Apostoli: perché egli era il giorno in senso spirituale. Le ore, dunque, seguano il giorno, le ore annuncino il giorno, e dal giorno ricevano luce e splendore, di modo che attraverso l'annuncio che ne danno le ore il mondo creda nel giorno. Questo in sostanza vuol dire il Signore con la sua esortazione: Seguite me, se non volete inciampare.
9. Così parlò, poi soggiunse: Lazzaro, l'amico nostro, dorme; ma io vado a svegliarlo (Gv 11, 11). Era la verità. Per le sorelle Lazzaro era morto, ma per il Signore egli dormiva. Per gli uomini, che non potevano risuscitarlo, era morto; ma il Signore poteva farlo uscire dal sepolcro più facilmente di quanto tu non possa svegliare e far scendere dal letto uno che dorme. Tenendo, dunque, conto della sua potenza, disse che Lazzaro stava dormendo. Spesso, del resto, nella Scrittura si parla di tutti gli altri morti come di coloro che dormono; come quando l'Apostolo dice: Noi non vogliamo, fratelli, che siate nell'ignoranza riguardo a quelli che dormono, onde non vi rattristiate alla maniera degli altri che non hanno speranza (1 Thess 4, 12). Parla dei morti come di coloro che dormono, in ordine alla risurrezione che egli annunzia. Dormono tutti i morti, tanto i buoni come i cattivi. Ma come tutti noi ci addormentiamo e ci rialziamo, ciascuno però con il suo sogno (alcuni fanno sogni lieti, altri invece sogni angosciosi, tanto che svegliandosi vorrebbero non riaddormentarsi per non ricadere in balia di essi), così tutti moriamo e risorgiamo ma ciascuno col suo giudizio particolare. Ed ancora: differiscono i generi di detenzione a cui ciascuno è sottoposto in attesa di essere giudicato; il tipo di detenzione è proporzionato alla gravità del delitto: alcuni vengono affidati ai littori, che esercitano il loro ufficio in modo umano, mite e civile; altri vengono consegnati alle guardie, altri ancora vengono gettati in carcere; e anche in carcere non tutti occupano il medesimo luogo, ma più sotterraneo se più grave è il delitto. Ora come in questo mondo differiscono secondo la sorveglianza i generi di detenzione, così differiscono per i morti, come pure differiscono le retribuzioni per i risorti. Viene accolto il povero e viene accolto il ricco; ma il primo nel seno di Abramo, il secondo dove patirà la sete e non troverà neppure una goccia d'acqua (cf. Lc 16, 22-24).
10. Profitto dell'occasione per ricordare alla vostra Carità che le anime uscendo da questo mondo non trovano tutte la medesima accoglienza. Vanno incontro al gaudio se sono buone, ai tormenti se sono malvagie. Dopo la risurrezione, il gaudio dei buoni sarà maggiore, e i tormenti dei malvagi saranno più terribili allorché ai tormenti delle anime si aggiungerà quello dei corpi. I santi Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i martiri, i buoni fedeli sono stati accolti nella pace; ma tutti dovranno aspettare la fine dei tempi per ricevere ciò che Dio ha promesso: egli infatti ha promesso anche la risurrezione della carne, la distruzione della morte, la vita eterna insieme con gli angeli. Questo lo dovremo ricevere tutti insieme. Il riposo concesso dopo questa vita a chi lo merita, lo riceve ciascuno appena muore. I primi a conseguirlo sono stati i Patriarchi (pensate da quanto tempo essi riposano in pace!); poi è stata la volta dei Profeti, più vicini a noi gli Apostoli, più vicini ancora i santi martiri, e ogni giorno i buoni fedeli. Alcuni si trovano in questo riposo da molto tempo, altri non da molto tempo, altri da pochi anni e altri infine da pochissimo tempo. Ma quando si sveglieranno dal loro sonno, tutti insieme riceveranno ciò che è stato loro promesso.
11. Lazzaro, l'amico nostro, dorme; ma vado a svegliarlo. Allora i discepoli gli dissero... Risposero secondo quanto avevano compreso: Signore, se dorme guarirà! (Gv 11, 12). Il sonno dei malati infatti viene interpretato come un sintomo di guarigione. Ora, Gesù aveva parlato della morte di lui, mentre essi avevano creduto che parlasse dell'assopimento nel sonno. Allora Gesù disse loro apertamente... In maniera velata aveva detto: dorme, in maniera aperta disse: Lazzaro è morto e sono contento per voi di non essere stato là, affinché crediate (Gv 11, 13-15). So che è morto, e io non c'ero. Infatti gli era stato detto solamente che era malato, non che era morto. Ma che cosa poteva rimanere nascosto a colui che lo aveva creato, e alle cui mani era emigrata l'anima del defunto? Egli dice: Sono contento per voi di non essere stato là, affinché crediate; perché cominciassero a meravigliarsi del fatto che il Signore sapeva che Lazzaro era morto senza aver visto né sentito che era morto. Questo serve a ricordare che la fede degli stessi discepoli, che già credevano in lui, aveva ancora bisogno di essere sostenuta dai miracoli; non perché mancasse e dovesse ancora nascere, ma perché c'era già e doveva crescere; anche se l'espressione che ha usato può far pensare che essi dovevano ancora cominciare a credere. Infatti egli non dice: Sono contento per voi perché così la vostra fede crescerà, o sarà rafforzata; dice: affinché crediate; il che si deve intendere: affinché crediate di più e con maggior fermezza.
[Significato del morto da quattro giorni.]
12. Ma andiamo da lui. Disse allora Tommaso, chiamato Didimo, agli altri discepoli: Andiamo anche noi per morire con lui. Arrivato, dunque, Gesù trovò Lazzaro già da quattro giorni nella tomba (Gv 11, 15-17). Molto si potrebbe dire su questi quattro giorni, come di altri passi oscuri della Scrittura, che consentono diverse interpretazioni secondo la diversa capacità di chi legge. Diremo anche noi quello che ci sembra voglia significare il morto di quattro giorni. Come infatti nel cieco dalla nascita vedemmo rappresentato tutto il genere umano, così in questo morto possiamo vedervi rappresentati molti; poiché una medesima cosa può esser rappresentata in più modi. Quando l'uomo nasce, nasce già con la morte; perché eredita da Adamo il peccato. E' per questo che l'Apostolo dice: Per causa di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e mediante il peccato la morte, e in tal modo la morte passò in tutti gli uomini in cui tutti hanno peccato (Rm 5, 12). Ecco il primo giorno della morte, che l'uomo deriva dalla sua triste origine. Poi cresce, comincia a toccare l'età della ragione per cui prende coscienza della legge naturale che tutti gli uomini portano scritta nel cuore: Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. Forse che questo s'impara sui libri, e non si legge invece nelle pagine della natura stessa? Vuoi forse essere derubato? Certamente non lo vuoi. Ecco la legge scolpita nel tuo cuore: Non fare ciò che non vuoi per te. Ma gli uomini trasgrediscono anche questa legge: ed ecco il secondo giorno della morte. Dio promulgò la legge per mezzo di Mosè suo servo; in essa sta scritto: Non uccidere, non commettere adulterio, non dire falsa testimonianza, onora il padre e la madre, non desiderare la roba del tuo prossimo, non desiderare la donna del tuo prossimo (Es 20, 12-17). Questa è la legge scritta, ed anch'essa viene disprezzata: ecco il terzo giorno della morte. Che cosa rimane? Viene il Vangelo, viene annunciato il Regno dei cieli, ovunque si predica Cristo; si minaccia l'inferno, si promette la vita eterna; ma anche questa legge viene disprezzata; gli uomini trasgrediscono il Vangelo: ecco il quarto giorno della morte. A ragione si può dire che ormai il morto emana fetore. Non ci sarà dunque misericordia per costoro? Non è possibile. Il Signore non disdegna di accostarsi anche a tutti questi morti per risuscitarli.
13. Molti Giudei erano venuti da Marta e da Maria per consolarle del loro fratello. Marta, appena seppe che arrivava Gesù, gli andò incontro, mentre Maria restò a casa. Marta disse a Gesù: Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto; ma anche adesso so che qualunque cosa domanderai a Dio, Dio te la concederà (Gv 11, 19-22). Non disse: Ti prego di risuscitare subito mio fratello. Come poteva sapere infatti che a suo fratello giovasse risorgere? Quindi disse soltanto: So che puoi farlo, se vuoi; ma sei tu che devi giudicare se è il caso di farlo, non io. Ma anche adesso so che qualunque cosa domanderai a Dio, Dio te la concederà.
14. Gesù le disse: Tuo fratello risorgerà. L'espressione era ambigua, perché non le disse: Ora risusciterò tuo fratello; ma le disse: Tuo fratello risorgerà. Marta gli rispose: So che risorgerà, nella risurrezione, nell'ultimo giorno (Gv 11, 23-24). Era come dire: Di quella risurrezione sono sicura, di questa no. Le disse Gesù: Io sono la risurrezione. Tu dici che tuo fratello risorgerà nell'ultimo giorno. Questo è vero. Però colui per mezzo del quale risorgerà, può farlo risorgere anche adesso, perché Io sono la risurrezione e la vita (Gv 11, 25). Ascoltate, fratelli, ascoltate ciò che dice. Tutti i circostanti erano nell'attesa di veder Lazzaro, un morto di quattro giorni, rivivere. Ebbene, ascoltiamo e risorgiamo. Quanti in questa folla sono oppressi dal peso della cattiva abitudine! Forse tra quelli che mi ascoltano ci sono taluni ai quali vien detto: Non vogliate inebriarvi di vino, che è causa di dissolutezza (Ef 5, 18). Essi rispondono: non possiamo farne a meno! Forse mi ascoltano alcuni che si sono lasciati corrompere da ogni disordine e vizio, ai quali vien detto: non fate così, se non volete perdervi. Ma essi rispondono: non riusciamo a liberarci dalle nostre abitudini. O Signore, risuscita costoro! Io sono - egli dice - la risurrezione e la vita. E' la risurrezione perché è la vita.
15. Chi crede in me anche se è morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno (Gv 11, 25-26). Che vuol dire questo? Chi crede in me, anche se è morto come è morto Lazzaro, vivrà, perché egli non è Dio dei morti ma dei viventi. Così rispose ai Giudei, riferendosi ai patriarchi morti da tanto tempo, cioè ad Abramo, Isacco e Giacobbe: Io sono il Dio di Abramo, il Dio d'lsacco e il Dio di Giacobbe; non sono Dio dei morti ma dei viventi: essi infatti sono tutti vivi (Mt 22, 32; Lc 20, 37-38). Credi dunque, e anche se sei morto, vivrai; se non credi, sei morto anche se vivi. Proviamolo. Ad un tale che indugiava a seguirlo e diceva: Permettimi prima di andare a seppellire mio padre, il Signore rispose: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu vieni e seguimi (Mt 8, 21-22). Vi era là un morto da seppellire, e vi erano dei morti intenti a seppellirlo: questi era morto nel corpo, quelli nell'anima. Quando è che muore l'anima? Quando manca la fede. Quando è che muore il corpo? Quando viene a mancare l'anima. La fede è l'anima della tua anima. Chi crede in me - egli dice - anche se è morto nel corpo, vivrà nell'anima, finché anche il corpo risorgerà per non più morire. Cioè: chi crede in me, anche se morirà vivrà. E chiunque vive nel corpo e crede in me, anche se temporaneamente muore per la morte del corpo, non morirà in eterno per la vita dello spirito e per la immortalità della risurrezione. Questo è il senso delle sue parole: E chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Lo credi tu? - domanda Gesù a Marta -; Ed essa risponde: Sì, Signore, io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, che sei venuto in questo mondo (Gv 11, 26-27). E credendo questo, ho con ciò creduto che tu sei la risurrezione, che tu sei la vita; ho creduto che chi crede in te, anche se muore, vivrà, e che chi vive e crede in te, non morirà in eterno.
16. Detto questo, andò a chiamare Maria, sua sorella, dicendole in silenzio: IL maestro è qui e ti chiama (Gv 11, 28). E' da notare che "in silenzio" significa sottovoce: come infatti avrebbe potuto dire, rimanendo in silenzio: IL maestro è qui e ti chiama? E' da notare altresì che l'evangelista non ha detto né dove né come né quando il Signore aveva chiamato Maria: per amore di brevità preferisce farcelo sapere solo attraverso le parole di Marta.
17. Ella, udito questo, si alza in fretta e va da lui. Gesù, però, non era ancora entrato nel villaggio, ma stava sempre nel luogo dove gli era venuta incontro Marta. I Giudei che erano in casa con lei a consolarla, al vedere Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando che sarebbe andata al sepolcro a piangere (Gv 11, 29-31). Perché l'evangelista si preoccupa di raccontarci questo particolare? Per informarci della circostanza che aveva raccolto tanta gente, quando Lazzaro fu risuscitato. I Giudei, pensando che Maria corresse al sepolcro per cercare nelle lacrime sollievo al suo dolore, la seguirono, e così il grande miracolo della risurrezione di uno che era morto da quattro giorni ebbe moltissimi testimoni.
18. Maria, giunta al luogo dov'era Gesù, al vederlo gli si gettò ai piedi ed esclamò: Signore, se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Gesù, vedendola piangere, e con lei piangere i Giudei che l'accompagnavano, fremette nello spirito, si turbò e disse: Dove l'avete deposto? (Gv 11, 32-34). Non so cosa abbia voluto indicarci il Signore con questo fremito e con questo suo turbamento. Chi poteva turbarlo, se non era lui a turbare se stesso? Perciò, fratelli miei, tenete ben presente la sua potenza prima di cercare il significato del suo turbamento. Tu puoi essere turbato senza volerlo; Cristo invece si turbò perché volle. E' vero che Gesù ha sentito la fame, è vero che si è rattristato ed è altrettanto vero che è morto; ma tutto questo perché l'ha voluto lui: era in suo potere soffrire questo o altro o non soffrire affatto. Il Verbo ha assunto l'anima, ma anche la carne, armonizzando, nell'unità della sua persona, la natura dell'uomo tutto intero. La luce del Verbo, è vero, illuminò l'anima di Pietro e l'anima di Paolo, illuminò le anime degli altri apostoli e dei santi profeti; di nessuna però si poté dire: Il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14); di nessuna si può dire: Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 20, 30). L'anima e la carne di Cristo formano col Verbo di Dio una sola persona, un solo Cristo. C'è in lui la massima potenza, e perciò la debolezza umana obbediva in tutto alla sua volontà. Ecco il senso dell'espressione: egli si turbò.
19. Ho parlato della potenza; ora vediamo il significato del suo turbamento. Lazzaro morto da quattro giorni e chiuso nel sepolcro è simbolo di un grande peccatore. Perché si turba il Cristo, se non per insegnarti che tu devi metterti in agitazione quando ti vedi oppresso e schiacciato da tanta mole di peccati? Ti sei esaminato, ti sei riconosciuto colpevole, ti sei detto: ho fatto quel peccato e Dio mi ha perdonato; ho commesso quell'altro e Dio ha differito il castigo; ho ascoltato il Vangelo e l'ho disprezzato; sono stato battezzato e sono ricaduto nelle medesime colpe; che faccio? dove vado? come posso uscirne? Quando parli così, già il Cristo freme perché in te freme la fede. Negli accenti di chi freme si annuncia la speranza di chi risorge. Se dentro di te c'è la fede, dentro di te c'è Cristo che freme: se in noi c'è fede, in noi c'è Cristo. Lo dice l'Apostolo: Per mezzo della fede, Cristo abita nei vostri cuori (Ef 3, 17). La presenza di Cristo nel tuo cuore è legata alla fede che tu hai in lui. Questo è il significato del fatto che egli dormiva nella barca: essendo i discepoli in pericolo, ormai sul punto di naufragare, gli si avvicinarono e lo svegliarono. Cristo si levò, comandò ai venti e ai flutti, e si fece gran bonaccia (cf. Mt 8, 24-26). E' quello che avviene dentro di te: mentre navighi, mentre attraversi il mare tempestoso e pericoloso di questa vita, i venti penetrano dentro di te; soffiano i venti, si levano i flutti e agitano la barca. Quali venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei adirato; l'insulto è il vento, l'ira è il flutto; sei in pericolo perché stai per reagire, stai per rendere ingiuria per ingiuria e la barca sta per naufragare. Sveglia Cristo che dorme. E' per questo che sei agitato e stai per ricambiare male per male, perché Cristo nella barca dorme. Il sonno di Cristo nel tuo cuore vuol dire il torpore della fede. Se svegli Cristo, se cioè la tua fede si riscuote, che ti dice Cristo che si è svegliato nel tuo cuore? Ti dice: Io mi son sentito dire indemoniato (Gv 7, 20), e ho pregato per loro. Il Signore ascolta e tace; il servo ascolta e si indigna? Ma, tu vuoi farti giustizia. E che, mi son forse fatto giustizia io? Quando la fede ti parla così, è come se si impartissero comandi ai venti e ai flutti: e viene la calma. Risvegliare Cristo che dorme nella barca è, dunque, scuotere la fede; allo stesso modo Cristo frema nel cuore dell'uomo oppresso da una grande mole e abitudine di peccato, nel cuore dell'uomo che trasgredisce anche il santo Vangelo; Cristo frema, cioè l'uomo rimproveri se stesso. Ascolta ancora: Cristo ha pianto, l'uomo pianga se stesso. Per qual motivo infatti Cristo ha pianto se non perché l'uomo impari a piangere? Per qual motivo fremette e da se medesimo si turbò se non perché la fede dell'uomo, giustamente scontento di se stesso, impari a fremere condannando le proprie cattive azioni, affinché la forza della penitenza vinca l'abitudine al peccato?
20. E disse: dove l'avete deposto? Sapevi che era morto, e non sapevi dove era stato sepolto? Questo significa che Dio quasi non conosce più l'uomo che si è perduto in questa maniera. Non ho osato dire: non conosce. Ho detto quasi, perché in effetti non c'è nulla che Dio non conosca. La prova che Dio quasi non conoscerà più l'uomo perduto si trova nelle parole che il Signore pronuncerà nel giudizio: Non vi conosco; allontanatevi da me! (Mt 7, 23). Che significa non vi conosco? Significa: non vi vedo nella mia luce, non vi vedo nella giustizia che io conosco. Così anche qui, come se egli non conoscesse più un così grande peccatore, dice: Dove l'avete deposto? Così si era espressa la voce di Dio nel paradiso dopo che l'uomo peccò: Adamo dove sei? (Gn 3, 9). Gli dicono: Signore, vieni e vedi. Che vuol dire: vedi? Vuol dire: abbi pietà. Il Signore infatti vede allorché usa misericordia. Per questo col salmista gli diciamo: Vedi la mia miseria, la mia pena, e perdona tutti i miei peccati (Sal 24, 18).
21. E Gesù pianse. Dissero allora i Giudei: Guarda come l'amava! (Gv 11, 35-36). Che vuol dire lo amava? Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori al pentimento (Mt 9, 13). Ma alcuni di loro soggiunsero: Non poteva costui, che ha aperto gli occhi al cieco, fare altresì che questo non morisse? (Gv 11,37). Colui che non ha impedito che un malato morisse, farà molto di più: risusciterà un morto.
22. Intanto Gesù, fremendo di nuovo in se stesso, giunse al sepolcro. Egli fremerà anche in te, se sei disposto a rivivere. Per ognuno che sia sotto il peso di un'abitudine perversa vien detto che Cristo si reca al sepolcro. Era una grotta, contro la quale era stata posta una pietra (Gv 11, 38). Il morto sotto la pietra rappresenta il colpevole sotto la legge. Sapete infatti che la legge data ai Giudei fu scritta sulla pietra (cf. Es 31, 18). Tutti i colpevoli sono sotto la legge, mentre quelli che vivono bene sono con la legge. La legge non serve per il giusto (cf. 1 Tim 1, 9). Che significa dunque la parola del Signore: Levate via la pietra (Gv 11, 39)? Significa: Proclamate la grazia. L'apostolo Paolo infatti dice di essere ministro del Nuovo Testamento, non della lettera ma dello spirito, poiché la lettera uccide - egli dice - mentre lo spirito vivifica (2 Cor 3, 6). La lettera che uccide, è come la pietra che opprime. Levate via la pietra! egli dice. Cioè togliete il peso della legge, e proclamate la grazia. Se si fosse data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe dalla legge; la Scrittura invece ha rinserrato ogni cosa sotto il peccato, perché venisse data la promessa in virtù della fede in Gesù Cristo a quelli che credono (Gal 3, 21-22). Dunque: Levate via la pietra!
23. Gli dice Marta, la sorella del morto: Signore, già puzza, perché son quattro giorni che è là. Gesù le dice: Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? (Gv 11, 39-40). Le dice che vedrà la gloria di Dio perché sta per risuscitare un morto di quattro giorni che già puzza. Tutti infatti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Rm 3, 23); e ancora: Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia (Rm 5, 20).
24. Tolsero, allora, la pietra. Gesù levò gli occhi al cielo e disse: Padre, ti ringrazio di avermi ascoltato. Io però sapevo che tu mi ascolti sempre, ma l'ho detto per il popolo che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato. E, detto questo, con gran voce gridò (Gv 11, 41-43). Fremette, pianse, con gran voce gridò. Quanto è difficile che si alzi chi è oppresso dal peso delle cattive abitudini! E tuttavia si alza: una grazia occulta interiormente lo vivifica e al suono della voce potente si alza. Che cosa è avvenuto? Con gran voce gridò: Lazzaro, vieni fuori! Il morto uscì con i piedi e le mani legate da fasce e la faccia avvolta in un sudario (Gv 11, 43-44). Ti meravigli che abbia potuto camminare con i piedi e le mani legati, e non ti meravigli che sia risorto un morto di quattro giorni? L'una e l'altra sono dovute alla potenza del Signore, non alla forza del morto. Esce ancora legato; è ancora avvolto, eppure viene fuori. Che significa? Quando disprezzi la grazia di Dio, giaci morto; e se la disprezzi al punto che ho detto, giaci sepolto. Ma quando confessi il tuo peccato, vieni fuori. Che significa infatti venir fuori, se non manifestarsi uscendo come da un nascondiglio? Perché tu abbia a riconoscere la tua colpevolezza, Dio ti chiama a gran voce, cioè con una grazia straordinaria. E siccome il morto era uscito ancora legato, come un reo confesso non ancora assolto, affinché fosse sciolto dai suoi peccati, il Signore disse ai servitori: Scioglietelo e lasciatelo andare (Gv 11, 44). Che significa scioglietelo e lasciatelo andare? Ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli (cf. Mt 16, 19).
25. Molti dei Giudei venuti da Maria, e che avevano visto ciò che egli aveva fatto, credettero in lui. Ma alcuni di essi si recarono dai farisei a riferire ciò che aveva fatto Gesù (Gv 11, 45-46). Non tutti i Giudei che erano venuti da Maria credettero, però in gran numero. Ma alcuni di essi, cioè alcuni dei Giudei che erano venuti, oppure anche di quelli che avevano creduto, si recarono dai farisei a riferire ciò che aveva fatto Gesù, per recare un annuncio che convincesse anche i farisei a credere, o più probabilmente per fare una denuncia che provocasse il loro furore. Comunque fossero le intenzioni di chi andò a riferire, i farisei furono informati.
26. I gran sacerdoti e i farisei radunarono allora un consiglio e dicevano: Che facciamo? (Gv 11, 47). Non dicevano mica: Crediamo! Quegli uomini perversi infatti erano più impegnati a infierire su di lui fino a eliminarlo che non a cercare la loro salvezza. E tuttavia erano perplessi e si consultavano. Infatti dicevano: Che facciamo? perché quest'uomo fa molti prodigi! Se lo lasciamo continuare, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci distruggeranno città e nazione (Gv 11, 47-48). Temevano di perdere le cose temporali e non si preoccupavano della vita eterna, e così perdettero l'una e l'altra. I Romani infatti, dopo la passione e la glorificazione del Signore, distrussero la loro città e la loro nazione, espugnando la città e deportando la popolazione. Si realizzò così la profezia: I figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre (Mt 8, 12). Temevano che se tutti avessero creduto in Cristo, non sarebbe rimasto nessuno a difendere la città e il tempio di Dio contro i Romani. Erano infatti convinti che la dottrina di Cristo fosse contraria al tempio e alle leggi dei loro padri.
27. Uno di essi, però, Caifa, che era sommo sacerdote di quell'anno, disse loro: Voi non ci capite nulla, né riflettete che è nel vostro interesse che un uomo solo muoia e non perisca la nazione intera. Ora, questo non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote di quell'anno, profetò (Gv 11, 49-51). Apprendiamo qui che lo spirito di profezia può annunciare il futuro anche per bocca di un uomo indegno; la qual cosa l'evangelista l'attribuisce a un'occulta disposizione di Dio, per il fatto che Caifa era pontefice, cioè sommo sacerdote. Può sembrare strano che l'evangelista dica di Caifa che era sommo sacerdote per quell'anno, dato che Dio aveva stabilito che un sommo sacerdote dovesse restare in carica fino alla sua morte. Ma è risaputo che in seguito, per soddisfare ambizioni ed evitare contese, si stabilì che fossero più di uno fra i Giudei, e che ciascuno a turno esercitasse la carica per un anno. Anche di Zaccaria si dice che mentre prestava servizio sacerdotale nel turno della sua classe, innanzi a Dio, secondo l'uso del sacro ministero, gli toccò in sorte di entrare nel santuario del Signore per bruciare l'incenso (Lc 1, 8-9). Questo dimostra che vi era più di un sommo sacerdote, e che prestavano il loro servizio a turno, poiché solo al sommo sacerdote spettava bruciare l'incenso (cf. Es 30, 7). E probabilmente anche durante il medesimo anno prestavano servizio in diversi, ai quali si avvicendavano altri nell'anno successivo, e tra questi veniva sorteggiato chi doveva bruciare l'incenso. E cosa profetò Caifa? Profetò che Gesù sarebbe morto per la nazione, e non per quella nazione soltanto, ma anche per radunare insieme i figli di Dio dispersi (Gv 11, 51-52). Questo lo ha aggiunto l'evangelista, in quanto la profezia di Caifa si limitava alla nazione dei Giudei, nella quale si trovavano quelle pecore di cui il Signore aveva detto: Sono stato mandato soltanto alle pecore perdute della casa d'lsraele (Mt 15, 24). Ma l'evangelista sapeva che esistevano altre pecore che non erano di quell'ovile, e che dovevano essere radunate, in modo che vi fosse un solo ovile, e un solo pastore (cf. Gv 10, 16). Tutto questo, però, l'evangelista lo dice tenendo conto della predestinazione, in quanto quelli che non credevano in lui, non erano ancora né sue pecore né figli di Dio.
28. Da quel giorno, dunque, decisero di farlo morire. Gesù non si faceva più vedere in pubblico fra i Giudei, ma si ritirò nella regione prossima al deserto, in una città chiamata Efraim, e là soggiornò con i suoi discepoli (Gv 11, 53-55). Non gli era certo venuto meno il suo potere, perché, se avesse voluto, avrebbe ben potuto rimanere pubblicamente in mezzo ai Giudei senza che essi potessero fargli del male. Egli volle invece offrire ai discepoli l'esempio di come si possa vivere accettando la debolezza umana; e mostrare loro che i suoi fedeli, che sono le sue membra, possono, senza commettere peccato, sottrarsi ai loro persecutori; e che si deve cercare di sfuggire al furore degli iniqui, anziché provocarli maggiormente col mettersi nelle loro mani.

venerdì 20 marzo 2020

La gioia di vedere

Rito Romano – IV Domenica di Quaresima – Anno A – 22 marzo 2020
1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a; Sal 22; Ef 5, 8-14; Gv 9, 1-41
Cristo Luce apre gli occhi al cieco.

Rito Ambrosiano – IV Domenica di Quaresima
Es 34,27-35,1; Sal 35; 2Cor 3,7-18; Gv 9,1-38b
Domenica del cieco.
 

  1. La Luce che guarisce e dà gioia
Il brano del Vangelo di questa quarta domenica di Quaresima ci invita a meditare la storia del cieco nato, che Cristo guarisce con il fango della sua umanità e con la potenza amorosa della sua divinità. Infatti, con un po’ di terra e di saliva, il Messia fa del fango e lo spalma sugli occhi del cieco. Questo gesto allude alla creazione dell’uomo, che la Bibbia racconta con il simbolo della terra plasmata e animata dal soffio di Dio (cfr Gn2,7).. “Adamo infatti significa “terra”, e il corpo umano in effetti è composto di elementi della terra. Guarendo l’uomo, Gesù opera una nuova creazione nella verità che illumina la via verso la vita.
Anche con questo episodio Gesù Cristo, nostro Signore, mostra di essere la Via, Verità e Vita per l’umanità. Questa volta il termine di paragone ci viene dato dalla luce, anch'essa associata alla vita e alla sussistenza delluomo, così come lo è lacqua (Riandiamo con il pensiero al vangelo di domenica scorsa che ci ha parlato della Samaritana che andava al pozzo per avere l’acqua della vita materiale e trovò anche l’acqua della vita spirituale). Anche la luce è sinonimo di vita e il suo ricorrente contrasto con la realtà delle tenebre, nella Scrittura, suggerisce che essa è un elemento caratterizzante il vivere in contrasto con il morire. Dio, che la volta scorsa abbiamo visto delineato come acqua e verità, nella persona di Gesù Cristo ci si presenta adesso come “luce che taglia le tenebre, illumina le oscurità, penetra nelle profondità del male e del peccato per averne finalmente ragione.
Il miracolo, che oggi contempliamo, è segno di una guarigione più grande: quella della salvezza. L'incontro inatteso con il profeta Gesù (Gv 9, 17) diventa un fatto che fa in modo che un cieco possa vedere per conoscere e adorare il Signore Gesù (Gv 9, 34-38). E' questo il percorso di ognuno che è battezzato. Il suo (nostro) cuore è liberato da ogni incrostazione di peccato che offusca la sua (nostra) natura di figlio di Dio. Giocando sul significato della parola Siloe che significa Inviato e che dà il nome alla piscina dove avviene il miracolo di oggi, Sant'Agostino afferma che, se Cristo non fosse stato l'Inviato (missus, parola latina che vuol dire inviato) del Padre, luomo non sarebbe stato dis-inviato (di-missus) dal peccato, cioè non sarebbe stato perdonato per poter accogliere e vivere il Vangelo della gioia.
Anche la liturgia di questa quarta domenica di Quaresima, chiamata “Laetare”, invita a rallegrarci, ad essere nella gioia, così come l’antifona d’ingresso della Messa invita a fare: Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione” (cfr Is 66,10-11). Qual è la ragione profonda di questa gioia? Ce lo dice il Vangelo odierno, nel quale Gesù guarisce un uomo cieco dalla nascita, che insieme con la luce degli occhi riceve quella della fede: “Credo, Signore!” (Gv 9,38). In questo brano evangelico vediamo come una persona semplice e sincera, in modo graduale, compie un cammino di fede: in un primo momento incontra Gesù come un “uomo” tra gli altri, poi lo considera un “profeta”, infine i suoi occhi si aprono e lo proclama “Signore”. E la gioia di questo uomo è grande.

2) La gioia
Per Papa Francesco la gioia è una dominante delle sua vita, del suo ministero apostolico e del suo insegnamento come dimostra il titolo e l’introduzione della sua Esortazione “Evangelii gaudium”: “La gioia del vangelo” che merita di essere riletta in questa Domenica “Laetare”1.
Il Santo Padre in questo documento programmatico scrive: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall'isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”.
Nel tempo dell’amarezza, della stanchezza, dell’approccio intellettuale, astratto alla vita di fede, nella “Evangelii gaudium” il Papa pone con forza la gioia del Vangelo come completamento del messaggio di Cristo che ha affermato” “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta”,
Oggi siamo invitati a “questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda” (Dante Alighieri, Divina Commedia, Par. 24, 90-91) perché la Pasqua si avvicina e la liturgia crea un’aurora che annuncia il sole di Pasqua, ci invita ad un momento di contentezza serena nel mezzo della austerità della quaresima.
La colletta della Messa di questa domenica recita: “Concedi al popolo cristiano di correre incontro alle feste che si avvicinano pieno di sollecito fervore e di fede alacre”. La fatica del cammino è il prezzo per la gioia della meta. Questo ci ricorda, ancora una volta, la finalità della Quaresima che è quella di prepararsi alla Pasqua, al mondo pasquale che fiorirà dalla Croce, sulla quale l’Amore eterno si immola per fare da contrappeso a tutti i nostri rifiuti di amore.
La gioia inizia dalle piccole e grandi gioie umane che ciascuno sperimenta fin da bambino gustando l’amore dei genitori, degli amici e dei fratelli e sorelle in umanità e nella fede. Questa gioia però si fa piena con Cristo. Essa viene da Gesù Redentore che porta la lieta buona notizia che Dio è sempre con noi.
Ecco alcuni esempi per capire ciò: la prima “epifania” di gioia è l’annunciazione, che fa dire alla Madonna: “L’anima mia magnifica il signore e il mio spirito gioisce in Dio mio Salvatore” (Lc 2,10) . La seconda la si ha quando il saluto di Maria, che porta il Salvatore nel suo seno, raggiunge Elisabetta: Giovanni Battista esulta di gioia nel seno di lei (Lc 1,44). 
Alla natività di Cristo l’angelo annunzia ai pastori "una grande gioia" (Lc 2,10). Quando i Magi vedono nuovamente la stella che li conduce a Cristo "provano una grandissima gioia" (Mt 2,10). Zaccheo riceve Gesù nella sua casa "pieno di gioia" (Lc 19,6). Nel giorno dell’ingresso messianico in Gerusalemme "tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto" (Lc 19,37). E questi sono solamente alcuni degli episodi di gioia suscitata dalla presenza di Cristo ed anche quella della sua attesa.
Gli annunzi profetici del Salvatore sono carichi di parole gioiose e di soprassalti di felicità. “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda... Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine” (Is 9,1-6; cfr. Mt 4,14-15 e liturgia del Natale). 
Ma questa gioia è stata preceduta già dalla gioia dei patriarchi. E lo dirà Gesù stesso: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (Gv 8,56).
Come ho già accennato, c’è la gioia dell’Incarnazione e del Natale. Gioia annunziata dall’angelo (Lc 2,10), scoperta dai pastori (Lc 2, 20) e dai magi (Mt 2,10), manifestata dal vecchio Simeone e dalla profetessa Anna (Lc 2,25-38). La gioia del Natale scaturisce dalla contemplazione dell’inizio del nostro stupendo destino di redenti e del nostro ritorno al paradiso. "In questo giorno è stata piantata sulla terra la condizione dei cittadini celesti, gli angeli entrano in comunione con gli uomini, i quali si intrattengono senza timore con gli angeli. Ciò perché Dio è sceso sulla terra e l’uomo è salito al cielo. Ormai non c’è più separazione fra cielo e terra, tra angeli ed esseri umani" (S. Giovanni Crisostomo). La liturgia bizantina esclama: "O mondo, alla notizia (del parto verginale di Maria) canta e danza: con gli angeli e i pastori glorifica Colui che ha voluto mostrarsi bambino, il Dio di prima dei secoli".
Gioia dell’amore, gioia dell’unione, altissime tenerezze della felicità sovrabbondante e luminosissima.
Infine c’è la gioia pasquale alla quale ci stiamo preparando. Essa tocca i vertici più alti e scoppia definitivamente nella risurrezione, completamento indispensabile alla morte del Signore e alla nostra salvezza. I vangeli zampillano il fuoco beatificante della gioia che passa dagli angeli a Maria Maddalena, agli apostoli, ai discepoli di Emmaus. Sulla fede sconcertata di tutti i suoi, Gesù getta la luce della sua vita gloriosa, li illumina e li rallegra. "Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli" (Mt 28,8). "I discepoli gioirono al vedere il Signore" (Gv 20,20).
Tutto ciò è sintetizzato in modo splendido da San Tommaso d’Aquino che afferma: “La gioia è il godimento di un bene certo”, bene che la fede permette di gustare e vedere.
3) Il Pane di Verità è Pane di Gioia.
Si dice che la fede è cieca, ed è un modo di dire sbagliato. La fede fa vedere quello che gli occhi del corpo e della semplice intelligenza umana non vedono. La fede fa vedere quello che vede Dio. “Infatti l’uomo vede l'apparenza, ma il Signore vede il cuore” (Ia Lettura).
Guarigione oppure no è solo la fede che mi permette di “vedere” come Dio vede dall'alto della sua infinita sapienza. Come sta scritto: “Alla tua luce vediamo la luce” (Sal 35,10).
“Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente”. (IIa Lettura).
In questa Quaresima, tempo di conversione alla luce che viene da Dio, meditiamo sul fatto che la nostra vita è un soffio, che in un attimo finisce, e chiediamo al Signore che accresca in noi la luce della fede per non discutere di chi sia la colpa dei mali del mondo, ma per fare del Vangelo e di Gesù Cristo la regola della nostra vita. Siamo morti ancora prima di morire se non crediamo nella risurrezione dai morti e in Colui che ci guida verso la Pasqua.
Immedesimiamoci nel cieco nato che uscito dalla cecità e dall'interrogatorio entra deluso e confuso nel mondo di quelli che credono di vedere. Con lui andiamo di nuovo ad incontrare Gesù che gli chiede se crede in Lui, se vede in Lui il vero uomo e il vero Dio, il Salvatore del mondo.
Cerchiamo di percepire il fremito del cieco quando sentì la voce di Gesù e poté fissare il suo sguardo in quegli occhi pieni di luce. Inginocchiamoci insieme a con lui dinanzi a Gesù nell'Eucaristia. Crediamo che la nostra vita è un miracolo, anche quando è avvolta dal buio. Crediamo che Dio ci ama e si fa vicino a ciascuno di noi. Ascoltiamo la sua voce nella Bibbia, facciamo quello che Lui ci dice per il tramite della Chiesa, andiamo dove Egli ci invia.
Confessiamoci per essere lavati dal suo sangue innocente e guarire dal nostro male colpevole e dalle nostre incapacità di vedere come Egli vede tutto ciò che siamo, ciò che potremmo essere, ciò che ci accade, e saremo nella gioia.
Questa gioia è un connotato delle Vergini consacrate che sono chiamate a dare nella gioia « una particolare testimonianza di carità e segno visibile del Regno futuro (Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 30). Questa donne sono chiamate a dedicare la loro vita a Cristo e a vivere la loro esistenza rendendo testimonianza di amore a Cristo. Esse ci mostrano una modalità alta e bella di camminare alla sequela del Redentore come viene proposta nel Vangelo e, con intima gioia, assumono lo stesso stile di vita che Egli scelse per Sé.

1 La IV domenica di Quaresima è detta “la domenica della gioia” = Laetare (=Rallegrati), che è la prima parola dell’introito (antifona di ingresso) della Messa di oggi, il cui testo è preso da Isaia 66, 10 e 11: “Rallegrati Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione”.

Questa domenica ha una “sorella gemella” nella terza domenica di Avvento  che inizia con la parola “Gaudete” (=Gioite).

Lettura Patristica
Efrem
Diatessaron, 16, 28-32

1. Il cieco nato
       E perché essi avevano bestemmiato a proposito delle sue parole: "Prima che Abramo fosse, io ero" (Jn 8,58), Gesù andò verso l’incontro con un uomo, cieco fin dalla nascita: "E i suoi discepoli lo interrogarono: Chi ha peccato, lui o i suoi genitori? Egli disse loro: Né lui, né i suoi genitori, ma è perché Dio sia glorificato. È necessario che io compia le opere di colui che mi ha mandato, finché è giorno" (Jn 9,2-4), fintanto che sono con voi. "Sopraggiunge la notte" (Jn 9,4), e il Figlio sarà esaltato, e voi che siete la luce del mondo, scomparirete e non vi saranno più miracoli a causa dell’incredulità. "Ciò dicendo, sputò per terra, formò del fango con la saliva, e fece degli occhi con il suo fango" (Jn 9,6), e la luce scaturí dalla terra, come al principio, quando l’ombra del cielo, "la tenebra, era estesa su tutto" ed egli comandò alla luce e quella nacque dalle tenebre (Gn 1,2-3). Così «egli formò del fango con la saliva», e guarì il difetto che esisteva dalla nascita, per mostrare che lui, la cui mano completava ciò che mancava alla natura, era proprio colui la cui mano aveva modellato la creazione al principio. E siccome rifiutavano di crederlo anteriore ad Abramo, egli provò loro con quest’opera che era il Figlio di colui che, con la sua mano, "formò" il primo "Adamo con la terra" (Gn 2,7): in effetti, egli guarì la tara del cieco con i gesti del proprio corpo.

       Fece ciò inoltre per confondere coloro che dicono che l’uomo è fatto di quattro elementi, poiché rifece le membra carenti con terra e saliva, fece ciò a utilità di coloro che cercavano i miracoli per credere: "I Giudei cercano i miracoli" (1Co 1,22). Non fu la piscina di Siloe che aprì gli occhi del cieco (Jn 9,7 Jn 11), come non furono le acque del Giordano che purificarono Naaman; è il comando del Signore che compie tutto. Ben più, non è l’acqua del nostro Battesimo, ma i nomi che si pronunciano su di essa, che ci purificano. "Unse i suoi occhi con il fango" (Jn 9,6), perché i Giudei ripulissero l’accecamento del loro cuore. Quando il cieco se ne andò tra la folla e chiese: «Dov’è Siloe?», si vide il fango cosparso sui suoi occhi. Le persone lo interrogarono, egli le informò, ed esse lo seguirono, per vedere se i suoi occhi si fossero aperti.

       Coloro che vedevano la luce materiale erano guidati da un cieco che vedeva la luce dello spirito, e, nella sua notte, il cieco era guidato da coloro che vedevano esteriormente, ma che erano spiritualmente ciechi. Il cieco lavò il fango dai suoi occhi, e vide se stesso; gli altri lavarono la cecità del loro cuore ed esaminarono sé stessi. Nostro Signore apriva segretamente gli occhi di molti altri ciechi. Quel cieco fu una bella e inattesa fortuna per Nostro Signore; per suo tramite, acquistò numerosi ciechi, che egli guarì dalla cecità del cuore.

       In quelle poche parole del Signore si celavano mirabili tesori, e, in quella guarigione era delineato un simbolo: Gesù figlio del Creatore. "Va’, lavati il viso" (Jn 9,7), per evitare che qualcuno consideri quella guarigione più come un stratagemma che come un miracolo, egli lo mandò a lavarsi. Disse ciò per mostrare che il cieco non dubitava del potere di guarigione del Signore, e perché, camminando e parlando, pubblicizzasse l’evento e mostrasse la sua fede.

       La saliva del Signore servì da chiave agli occhi chiusi, e guarì l’occhio e la pupilla con le acque, con le acque formò il fango e riparò il difetto. Agì così, affinché, allorché gli avrebbero sputato in faccia, gli occhi dei ciechi, aperti dalla sua saliva, avessero reso testimonianza contro di essi. Ma essi non compresero il rimprovero che egli volle fare a proposito degli occhi guariti dei ciechi: "Perché coloro che vedono diventino ciechi" (Mt 26,27); diceva questo dei ciechi perché lo vedano corporalmente, e di quelli che vedono perché i loro cuori non lo conoscano. Egli ha formato il fango durante il sabato (Jn 9,14). Omisero il fatto della guarigione e gli rimproverarono di aver formato del fango. Lo stesso dissero a colui "che era malato da trentotto anni: Chi ti ha detto di portare il tuo lettuccio?" (Jn 5,5 Jn 12), e non: Chi ti ha guarito? Qui, analogamente: «Ha fatto del fango durante il sabato». E così, anzi per molto meno, non si ingelosirono di lui e non lo rinnegarono, quando guarì un idropico, con una sola parola, in giorno di sabato? (Lc 14,1-6). Cosa gli fece dunque guarendolo? Egli fu purificato e guarito con la sola parola. Quindi, secondo le loro teorie, chiunque parla viola il sabato; ma allora - si dirà - chi ha maggiormente violato il sabato, il nostro Salvatore che guarisce, o coloro che ne parlano con gelosia?