venerdì 26 agosto 2016

Il primato dell’amore umile

XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 28 agosto 2016
Rito Romano
Sir 3,19-21.30-31; Sal 67; Eb 12,18-19.22-24; Lc 14,1.7-14

Rito Ambrosiano
2Mac 6,1-2.18-28; Sal 140; 2Cor 4,17-5,10; Mt 18,1-10
Domenica che precede il Martirio di San Giovanni il Precursore.


Premessa.
Le parole di Gesù proposte dal Vangelo di oggi sembrano un manuale di galateo o uno dei consigli sul come comportarsi, quando si è invitati a un banchetto per evitare una brutta figura e farne una bella. L’intenzione di Gesù non è quella di dare una regola di comportamento nella vita di società. Le parole del Redentore illustrano la logica cristiana, a cui si deve convertire chi ha fatto l’esperienza dell’incontro con Lui.
Durante il pranzo di quel sabato Gesù diede due insegnamenti importanti. Il primo, riguardante l’umiltà, era rivolto agli invitati che cercavano il posto più alto, più onorifico. Il secondo, concernente la gratuità, fu diretto all’invitante: il padrone di casa, che così veniva invitato ad un amore disinteressato. Questi due insegnamenti sull’umiltà e sulla gratuità ci spingono a capire che il posto migliore è quello vicino a Cristo.

1) Umiltà e logica cristiana.
Quando si vive secondo una logica pagana, si seguono le tre concupiscenze di cui parla San Giovanni nella sua prima lettera, dove parla di tre tipi di incontrollato desiderio o libidine: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita (cfr. 1 Gv 2,16). Le cose del mondo, cioè la struttura, l’organizzazione della vita del cosmo lontano da Dio, si basano su queste tre concupiscenze che si potrebbero indicare anche così: la brama di avere, la brama di potere, la brama di apparire.
Quando si vive secondo la logica cristiana, il mondo è organizzato secondo la legge dell’amore e praticato secondo la logica cristiana, che è logica di amore nella verità. In questa logica (cioè intelligente) vita cristiana uno è grande (sarebbe meglio dire: santo) non per quello che ha, ma quello ciò che dà. In secondo luogo, non brama il potere che domina, ma desidera fortemente il potere che umilmente serve. Quindi, la vera realizzazione umana non sta nel poter di dominare, ma nel potere di servire. In terzo luogo, per ribadire il primato dell’amore, nel vangelo di oggi Gesù dice che l’importante non è l’apparire, ma è l’umiltà. Per questo San Agostino d’Ippona scrisse: “Ascolta fratello, Dio è molto alto. Se tu sali, Lui va più in alto; ma se tu ti abbassi, Lui viene a te”. Gesù crocifisso è all’altezza di Dio, perché l’altezza della Croce è l’altezza dell’amore di Dio, l’altezza della rinuncia di se stessi e la dedizione agli altri. Questo è il posto divino e, quindi, preghiamo il Signore perché ci conceda di capire questo sempre di più e di accettare con umiltà questo mistero di esaltazione e umiliazione.
L’umiltà è la virtù che permette di comprendere il posto che l’Amore ha scelto per noi e di accogliere l’Amore che viene ad abitare da noi. Al pranzo della vita, dove siamo invitati, il Signore vuole che ognuno scopra il proprio posto. Quello che conta non è essere né avanti, né indietro, ma proprio quel posto che Dio ha preparato per noi e nel quale c'è la nostra felicità e la nostra realizzazione. Quel posto, proposto da Dio e accolto da noi, ha il nome della nostra vocazione.


2) L’umiltà e il banchetto o convivio.
Nella situazione raccontata dal vangelo di oggi, come in altre occasioni conviviali1, il banchetto è immagine della vita. Il convivio cristiano della vita, il banchetto del Regno è il tessuto delle relazioni tra noi con Dio.
Nella Bibbia il banchetto prefigura il Regno di Dio. Anche Gesù, che si pone sempre in continuità con la rivelazione dell’Antico Testamento, utilizza molto questo simbolismo, sia nei suoi discorsi che partecipando di fatto a momenti conviviali, un “segno” anticipatorio della mensa eucaristica, e della futura definitiva comunione con Dio. Il cap. 14° del Vangelo di San Luca è divisibile in due scene: prima l’invito a pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, in giorno di festa, sabato (Lc 14, 1-6); poi l'insegnamento con due piccole parabole sul modo di scegliere i posti a tavola e i criteri per fare gli inviti (Lc 14, 7-14); infine la parabola sulla grande cena (Lc 14,15-16), che riguarda ancora il problema degli invitati: chi parteciperà alla mensa del regno? Questa si prepara fin d'ora nel rapporto con un Gesù, che convoca attorno a sé le persone nella Chiesa – comunione di salvati.
Noi, membri di questa Comunità di Redenti, siamo chiamati a “con-vivere” con Cristo nutrendoci del Suo Corpo eucaristico. Il “galateo” da seguire è quello dell’umiltà. Praticare questa virtù non vuol dire affermare che siamo nulla e che non valiamo niente. La persona umile dà il meglio di sé, fa il più possibile, apre il suo cuore più che può. L’umiltà verso il prossimo è comprensione, accettazione e servizio. L’umiltà verso Dio è adorazione, ringraziamento, preghiera e amore.
Per essere e crescere nell’umiltà occorre amare.
E’ quello che ha fatto Gesù. L’amore misericordioso l’ha fatto scendere dal cielo. L’amore misericordioso e gratuito l’ha spinto sulle strade della Palestina. Questa carità disinteressata l’ha condotto a cercare i malati, i peccatori, i sofferenti. Questa carità, che è dono commosso di sé, l’ha portato, senza indugi, alla sua meta, il Calvario, dove “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).
 “L’umiltà è stata la forma esteriore della sua carità divina” (Divo Barsotti).
Contempliamo l’umiltà di Cristo come espressione più alta di amore. La sua umiltà è rivelazione dell’amore di Dio che si fa totalmente uomo, incarnandosi per la salvezza di tutta l’umanità. Lui sceglie l’ultimo posto, la Croce, per salvarci. Si fa “nulla” perché l’essere umano sia tutto. Si fa cibo eucaristico per il convivio del cielo. In questo banchetto, nella Messa, Lui si fa presenta sotto le specie del pane e del vino per donarsi, per essere mangiato. La Messa trova il suo compimento nella comunione eucaristica, nella quale Lui si dona totalmente a noi così da sparire. Lui è tutto per noi e in noi, per la nostra salvezza.
Se stupisce contemplare l’umiltà del Figlio di Dio, quando Gli dice “Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di colui, che mi ha mandato”, stupisce ancora di più sentire dire dall’umile Creatore ad un’umile creatura: “Tu sei mia madre”.
Questo è il Dio che si è rivelato a noi: un amore che si svuota di sé per donarsi, perché l’amore è dono.
San Francesco vedeva Dio come umiltà. Per il Santo di Assisi Dio stesso è umiltà. Dio si rivela a noi attraverso la creazione, ma la sua rivelazione più perfetta è Gesù Cristo. E Cristo, per San Francesco, è umiltà: umiltà di Cristo nella sua nascita, nella sua passione, nell’Eucaristia.
Ma questo grande Santo va ancora più in là e “osa” dire che l’umiltà è la stessa rivelazione dell’amore. “Dio è amore e l’amore non può essere che umiltà cioè l’amore che vive per l’altro, in relazione all’altro” (Divo Barsotti).
L’umile Figlio di Dio si incarna per essere lo Sposo che si dà tutto alla sposa. Questo aspetto di rapporto nuziale della Chiesa sposa di Cristo, umile e povero, è sottolineato in modo molto significativo dalle Vergini Consacrate nel mondo, dove portano la luce di Cristo con la lampada del cuore.

1 Infatti, nel Vangelo si parla abbastanza spesso di pranzi e cene. Gesù non disdegna di mettersi a tavola con amici e nemici, e ne profitta per trasmettere i suoi insegnamenti. Lo fa con parabole (una per tutte: quella del ricco epulone dai lauti banchetti, incurante del povero Lazzaro mendico alla sua porta) o prospettando il futuro (l'abbiamo sentito domenica scorsa: tutti i popoli siederanno a mensa con Abramo Isacco e Giacobbe); lo fa lasciando i frutti del suo operato sotto forma di cibo, di cui nutrirci in quel banchetto che è la Messa; lo fa', come nel brano odierno (Lc 14,1.7-14), rilevando i comportamenti di chi invita e di chi è invitato


 A questo riguardo, in una lettera che è catalogata come XXIII e che propongo come lettura “patristica”, Santa Caterina da Siena scriveva alla nipote Nanna Benincasa per sostenerla nella sua vocazione di vergine consacrata:
“A volere essere sposa di Cristo, ti conviene avere la lampada, e l’olio, e il lume. Sai come s'intende questo, figliuola mia? Per la lampada s’intende il cuore nostro: poiché il cuore debba esser fatto come la lampada. Tu vedi bene che la lampada è larga di sopra, e di sotto stretta; e cosi è fatto il cuore, a significare che noi il dobbiamo sempre tenere largo di sopra, cioè per santi pensieri, e per sante immaginazioni, e per continua orazione; avendo sempre in memoria i benefici di Dio, e massimamente il beneficio del sangue, per lo quale siamo ricomperati. Perocchè Cristo benedetto, figliuola mia, non ci ricomprò d'oro nè d'argento nè di perle o d'altra pietra preziosa; anco, ci ricomprò del sangue suo prezioso. Onde tanto beneficio non si vuole mai dimenticare, ma sempre portarlo dinanzi agli occhi suoi, con un santo e dolce ringraziamento, vedendo quanto Dio ci ama inestimabilmente: che non curò di dare l'unigenito suo Figliuolo alla obbrobriosa morte della croce per dare a noi la vita della Grazia. Dissi che la lampada è stretta di sotto: e così il cuore nostro; a significare che il cuore debba essere stretto verso queste cose terrene, cioè in non desiderarle nè amarle disordinatamente, nè appetire più che Dio ci voglia dare; ma sempre ringraziarlo, vedendo come dolcemente ci provvede, si che mai non ci manca cavelle. Ora a questo modo sarà il cuore nostro veramente una lampada. Ma pensa, figliuola mia, che questo non basterebbe, se non ci fosse l'olio dentro. Per l'olio s'intende quella dolce virtù piccola della profonda umiltà: perchè si conviene che la sposa di Cristo sia umile e mansueta e paziente; e tanto sarà umile quanto paziente, e tanto paziente quanto umile. Ma a questa virtù dell'umiltà non potremo venire se non per vero cognoscimento di noi medesimi, cioè cognoscendo la miseria e fragilità nostra, e che noi per noi medesimi non possiamo alcun atto virtuoso, nè levarci neuna battaglia o pena: perocchè se noi abbiamo la infermità corporale, o una pena o una battaglia mentale, non ce la possiamo levare o tollere; perocchè, se noi potessimo, subito la leveremmo via. Dunque bene è vero che noi per noi non siamo nulla, altro che obbrobri, miseria, puzza, fragilità e peccati: per la quale cosa sempre dobbiamo star bassi e umili. Ma a stare solamente in questo cognoscimento di sè, non sarebbe buono; perocchè l'anima verrebbe a tedio, e a confusione; e dalla confusione verrebbe alla disperazione: onde il demonio non vorrebbe altro se non farci venire a confusione, per farci poi venire a disperazione. Convienci dunque stare nel cognoscimento della bontà di Dio in sè, vedendo che egli ci ha creati alla imagine e similitudine sua, e ricreati a grazia nel sangue dell'unigenito suo Figliuolo, Verbo dolce incarnato; e come continuamente la bontà di Dio adopera in noi. Ma vedi, che stare solamente in questo cognoscimento di Dio non sarebbe buono; perocchè l'anima ne verrebbe a presunzione e superbia. Convienci dunque che sia mescolato l'uno coll'altro insieme, cioè stare nel cognoscimento santo della bontà di Dio, e nel cognoscimento di noi medesimi: e cosi saremo umili, pazienti e mansueti; e a questo modo averemo l'olio nella lampada”.



venerdì 19 agosto 2016

La porta stretta del dono della vita.

XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 21 agosto 2016
Rito Romano
Is 66,18-21; Sal 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30


Rito Ambrosiano
Esd 2,70-3,7.10-13; Sal 101; Ef 4,17-24; Mt 5,33-48
XIV Domenica dopo Pentecoste




1) Il dono della vita per entrare nella Vita è una lotta.
Se leggiamo con attenzione il brano del Vangelo di questa Domenica, ci accorgiamo che Gesù non risponde direttamente alla domanda: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,23), ma invita alla serietà dei propositi e delle scelte: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non vi riusciranno” (Lc 13,24).
Per Cristo non è importante rispondere alla domanda su quanti si salvano. Per Lui è importante dire come ci si può salvare ed indica il cammino della salvezza che passa per una porta stretta. La vera domanda che dobbiamo farci non è: “Sono pochi quelli che si salvano?”, ma “Cosa dobbiamo fare per non essere esclusi dalla salvezza?”. E’ per questo che il Cristo inizia la sua risposta con un imperativo: “Lottate”. La traduzione ufficiale in italiano è “Sforzatevi!”, ma il testo greco usa “agonìzesthe” da “agonizzo” (da cui viene la parola “agonia” che è la lotta finale prima della morte), che va tradotto “lottate” con ogni forza, senza sosta e con fermezza di orientamento, cioè con lo sguardo e il cuore fermamente orientati a Cristo.
Inoltre occorre fare attenzione al fatto che invece di rispondere da una domanda sugli altri (“quanti sono ‘quelli’ che si salvano?”), Gesù da una risposta che riguarda direttamente chi lo ascolta: “Lottate”.
“Lottate”, “sforzatevi” di entrare per la porta stretta. Per la porta larga passa chi crede di avere addosso l’odore di Dio, preso tra incensi, riti e preghiere, e di questo si vanta. Per la porta stretta entra “chi ha addosso l’odore delle pecore” (Papa Francesco), l’operaio di Dio con le mani segnate dal lavoro, dal cuore buono. È la porta del servizio d’amore, del mettersi a disposizione di Dio e del prossimo.
Gesù ci dice che occorre percorrere la via tracciata da Lui e passare per quella porta che è Lui stesso: “Io sono la porta; se uno entra attraverso di me sarà salvo” (Gv 10,9). Per salvarsi bisogna prendere come lui la nostra croce, rinnegare noi stessi nelle nostre aspirazioni contrarie all'ideale evangelico e seguirlo nel suo cammino: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).
Per tutti quelli che lo vogliono il passaggio alla vita eterna è aperto, ma è ‘stretto’ perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo: è crocifiggente. Ma vale davvero la pena di accogliere la chiamata dell’unico Redentore che invita tutti al banchetto della vita immortale.
Già da ora e per l’eternità, la vita è bella e lieta non quando è nell’egoismo, ma quando si appropria della croce e la riempie di un amore che libera e fa sprigionare tutto il bene che è dentro di noi.
Ma c’è da soddisfare un’unica condizione uguale per tutti: quella di lottare, di sforzarsi di seguire Cristo ed imitarlo, prendendo su di sé, come Lui ha fatto, la propria croce e dedicando la vita al servizio dei fratelli.

2) Porta della misericordia.
Gesù parla di se stesso come Porta e andando in croce mostra che la chiave di questa porta è la Croce. E’ una porta “stretta” perché il suo è un amore esigente e perché noi siamo larghi, gonfi di superbia e di amor proprio. Cristo è la Porta di misericordia che perdona al nostro cuore contrito, cioè sminuzzato, sbriciolato perché da cuore di pietra è diventato cuore di carne. Porta stretta la cui chiave è la Croce, che permette di aprire la porta del Cuore di Gesù anche se sono gli ultimi istanti di vita, come è accaduto al buon ladrone, che grazie a questa chiave ha avuto aperta la porta del Cielo, dove è stato accolto (Lc 23, 39-43). Anche noi possiamo e dobbiamo “usare” questa chiave, che ci fa rinunciare alla vita per avere la Vita, entrando nel Regno di Dio per restare sempre nel suo amore e nella sua gioia.
Cristo è la porta “stretta”, ma è anche la porta “larga”, perché ha la larghezza dell'infinita misericordia di Dio.
Mi spiego con un esempio preso dalla vita di San Girolamo1, che - dopo la conversione - per far penitenza dei suoi peccati scelse Betlemme per 35 anni della sua vita. Fino alla morte, per tutti questi anni visse in una povera cella accanto alla grotta della Natività, pregando, studiando e traducendo in latino la Bibbia. In una notte di Natale gli appare Gesù Bambino che gli chiede: Non hai niente da darmi nel giorno della mia Nascita? Il Santo gli risponde: Ti do il mio cuore! - Va bene, ma desidero ancora qualche altra cosa. - Ti do le mie preghiere! Va bene; ma voglio qualche cosa di più, insisteva Gesù. - Non ho più niente, che vuoi che ti dia? - Dammi i tuoi peccati o Girolamo, rispose Gesù Bambino, perché io possa avere la gioia di perdonarli ancora. Gesù ci domanda tutto, persino i peccati, per donarci (per-donarci) tutto.
Con dolce violenza, l’amore misericordioso di Gesù continua il suo cammino alla conquista dei cuori. Tra questi cuori, occupano un posto speciale quelli delle Vergini Consacrate nel mondo che, vivendo nella verginità il dono totale di sè a Cristo, accettano lietamente di passare per la porta stretta per appartenere strettamente a Lui, che dice: “Ecco Io sto alla porta (del cuore) e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre Io verrò da lui e farò grande festa con lui” (cfr. Ap 3, 20).
Con la loro esistenza vissuta nella semplicità e nel nascondimento, queste donne testimoniano che la porta stretta è l’adesione sponsale a Cristo mediante 'accettazione umile, nella fede pura e nella fiducia serena, della parola di Dio, del suo disegno di amore esigente, stringente sulla loro persone, sul mondo e sulla storia; è l'osservanza dei comandamenti, come manifestazione della volontà amorosa di Dio, in vista di un bene superiore che realizza la vera felicità. E’ pure l’accettazione della sofferenza come mezzo di espiazione e di redenzione per sé e per gli altri, e quale espressione suprema di amore.
Le vergini consacrate testimoniano che la porta stretta è, in una parola, l’accoglienza della mentalità evangelica, che trova nel discorso della montagna la più pura sintesi e nella verginità la più alta realizzazione. E’ l’amore puro e casto che salva, l’amore che è già sulla terra beatitudine interiore di chi, nei modi più svariati, nella mansuetudine, nella pazienza, nella giustizia, nella sofferenza e nel pianto, si dimentica di sé e si dona. La croce – porta stretta perché stringente, esigente - è simbolo e icona dell’amore verginale, perché la croce è la pienezza massima dell’amore per Dio e per ogni persona umana. E’ un amore che abbraccia tutti e non esclude nessuno; è la sintesi al massimo grado di amore ricevuto e donato, di amore crocifisso e già risorto o illuminato dai chiarori dell’alba della risurrezione. La croce è il cuore del mondo, così è stato nella storia della salvezza, e le donne che hanno scelto questo amore verginale ospitano in sé questo cuore.

1  Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l’attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l’interesse per la religione cristiana. Ricevuto il Battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica. Partì poi per l’Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi. Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell’ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7) e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana. Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali.
Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa poi in Egitto. Nel 386 si fermò a Betlemme, dove furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa. A Betlemme restò fino alla morte. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.


Lettura patristica
San Girolamo (347 - 419/420)
Epist., 148, 31-32




«Il Signore ama il cuore puro»

       Questo mistero è grande, ed è arduo il percorso della castità; ma è grande pure la ricompensa, e il Signore vi ci chiama quando dice nel Vangelo: "Venite, benedetti del Padre mio, e prendete possesso del regno che vi è stato preparato fin dall’origine del mondo" (Mt 25,34). E ancora, sempre il Signore in persona, dice: "Venite a me, tutti voi che soffrite e che vi sentite stanchi, ed io vi ristorerò. Prendete su di voi il mio giogo, e imparate da me, perché sono dolce ed umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre, perché il mio giogo è soave e il mio peso leggero" (Mt 11,28-30).

       Ancora il Signore, invece, dirà a quelli che saranno alla sua sinistra: "Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno che il Padre mio ha preparato per il diavolo e per i suoi satelliti. Non vi conosco, voi che siete operatori d’iniquità. Là vi sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,41 Lc 13,27-28).

       E certamente in quel luogo vi saranno gemiti e pianti da parte di tutti coloro che si sono ingolfati negli affari di questa vita tanto da dimenticarsi di quella futura, di coloro che la venuta del Signore sorprenderà sotto il peso del sonno dell’ignoranza, oppressi dalle onde d’una dannosa spensieratezza. È per questo, appunto, che ancora lui dice nel Vangelo: "State all’erta, perché non vi succeda di appesantirvi il cuore nei bagordi, nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questa vita, e che quel giorno vi colga all’improvviso come un laccio, perché piomberà così su tutti coloro che si troveranno sulla faccia della terra" (Lc 21,34-35); e ancora: "Vegliate e pregate, perché non sapete quando arriverà questo momento" (Mc 13,33).

       Sono fortunati coloro che quel giorno l’aspettano, lo stanno a spiare, direi, per fare in modo di prepararvisi giorno per giorno; e senza starsene tranquilli per la vita trascorsa nella giustizia, si rinnovano di giorno in giorno nella virtù (2Co 4,16). È un fatto che dal giorno in cui uno smette di esser giusto, la giustizia del passato non gli servirà proprio a niente, come pure l’ingiustizia non porterà alcun danno al malfattore dal momento in cui questi si convertirà dalla sua vita iniqua (Ez 18,26-28).

       Per conseguenza, un santo non deve essere sicuro di se stesso finché si trova a combattere in questa vita, ma neppure deve disperarsi chi è peccatore, poiché in base alla massima del Profeta che abbiamo riportato può diventar giusto in un solo giorno.

       Ma tu mettiti sotto per far sì che lungo il tempo di tua vita riesca a praticare la giustizia; e non fidarti della rettitudine in cui hai trascorso la vita passata, perché questo ti renderebbe più rilassata. Fa’ invece come dice l’Apostolo: "Dimentico il passato, e proteso a ciò che mi sta davanti corro verso la meta per conseguire il premio della mia sublime vocazione" (Ph 3,13-14), ben sapendo che sta scritto come chi scruta il nostro cuore è Dio (Pr 24,12). Appunto per questo si preoccupa di aver l’anima monda dal peccato, in quanto sta scritto ancora: "Salvaguarda il tuo cuore con ogni attenzione possibile" (Pr 4,23), e anche: "Il Signore ama i cuori puri, e tutti coloro che sono senza macchia li guarda con amore" (Pr 22,11).

       Sotto, dunque, a regolare il tempo che ti resta di vita in modo da passarlo senza colpa alcuna. Potrai allora tranquillamente cantare col Profeta: "M’aggiravo dentro casa mia con l’innocenza nel cuore" (Ps 100,2), e anche: "M’accosterò all’altare di Dio, al Dio che rende gioiosa la mia giovinezza" (Ps 42,4).

       Non basta, infatti, cominciare. La giustizia sta nel portare a termine.

domenica 14 agosto 2016

Solennità di Maria Assunta in Cielo – 15 agosto 2016

La vera sapienza è vivere con i piedi a terra, ma con gli occhi al Cielo, dove la Madonna fu assunta in cielo quando si addormentò per sempre sulla terra.
L’assunzione al cielo di Maria è la Pasqua di Gesù pienamente realizzata in Lei. La Vergine Madre che aveva dato la sua carne a Verbo di Dio è intimamente unita al suo Figlio risorto, che ha perdonato il peccato e vinto la morte.
L’Assunzione è un fatto che tocca anche noi, perché ci mostra in modo luminoso il destino di ciascuno di noi e quello di tutta l’umanità. Celebrando questa Solennità facciamo memoria del fatto che aprendoci a Dio non perdiamo niente. Anzi la nostra vita diventa ricca, grande e piena, come fu la vita di Maria.
La vita della nostra cara Mamma fu una esistenza vissuta nella pienezza della Grazia, senza sfuggire ai suoi compiti di sposa, di madre, nella semplicità della vita di Nazareth, seguendo con tanta riservatezza il Figlio nella sua missione fino a stargli saldamente vicino ‘sotto la croce', con una condivisione di amore e dolore totale.
Fu, infine, ricolmata di gioia per la Risurrezione del Figlio, e con la Chiesa nascente visse la Pentecoste e attese il ritorno al Padre, presso il Figlio: l'Assunzione, appunto.
Questo modo di vivere è proposto da questa Mamma a tutti noi suoi figli. È stupendo sapere che la nostra vita non è un vicolo cieco, ma una strada che, superato il limite della morte, trova la sua eternità in Cielo. Quante chiese sono dedicate all'Assunta, come ad indicare a tutti noi la bellezza della vita che ci attende, se seguiamo Maria. Ha detto Papa Francesco: “Il cammino di Maria verso il Cielo è cominciato dal ‘sì’ pronunciato a Nazareth, in risposta all’Angelo Gabriele, che le annunciava la volontà di Dio per lei”. E in realtà è proprio così: ogni ‘sì’ a Dio è un passo verso il Cielo, verso la vita eterna. Perché questo vuole il Signore: che tutti i suoi figli abbiano la vita in abbondanza. Dio Padre vuole tutti noi, suoi figli, con Lui nella sua casa.



venerdì 12 agosto 2016

Fuoco d’amore

XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 14 agosto 2016
Rito Romano
Ger 38,4-6.8-10; Sal 39; Eb 12,1-4; Lc 12,49-53


Rito Ambrosiano
Ne 1,1-4;2,1-8; Sal 83; Rm 15,25-32; Mt 21,10-16
XIII Domenica dopo Pentecoste

1) Desiderio.
Nel Vangelo di oggi, Gesù, il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti, parla del suo intenso e angoscioso desiderio di realizzare nel tempo la missione che il Padre gli ha affidato. Con parole di fuoco Cristo ci comunica un amore senza fine, che ha come fine quello di farci entrare nell’Amore.
Prima di commentare queste parole, ne propongo la rilettura: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere, e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone, si divideranno due contro tre: padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12, 49-53).
Naturalmente, quando il Redentore parla di divisione, di “odio”, non lo intende nel significato che gli diamo noi, ossia un perverso sentimento contro qualcuno, ma il totale distacco da sé per fare posto all'Amore: un Amore che in Gesù davvero è un “battesimo”, un “fuoco” di amore che gli brucia dentro.
Il Figlio di Dio ha il desiderio di accendere il fuoco dell’amore sulla terra. Si tratta di un fuoco di luce e di amore, perché:
è il fuoco dello Spirito Santo donato a Pentecoste;
è il fuoco che fa in modo che la verità diventi in noi carità e la carità accenda come fuoco anche il prossimo che incontriamo, perché l’amore è come il fuoco, se non lo ravvivi si spegne;
è il fuoco purificatore del giudizio di Dio, fuoco d’Amore misericordioso che salva il mondo.
Dunque, Gesù ha questo grande desiderio di accendere il fuoco,
che è l’Amore che plasma il mondo,
che è l’Amore che purifica e trasforma,
che è l’Amore potente che dona luce e calore.
Se passiamo accanto a un fuoco acceso, ne sentiamo il calore. E Cristo è fuoco acceso, che riscalda e rinnova, e rende capaci di amare e di servire l’uomo con amore divino. Gesù è il fuoco da portare nella terra del nostro cuore.
Fino a quando tutti i cuori e le menti umane non saranno incendiate da questo fuoco, la parola del Vangelo sarà un inefficace suono e il Regno sarà ancora lontano. Per rinnovare la fragile e malata famiglia degli uomini è necessario un incendio di dolore e passione. La sporcizia che deturpa il corpo, ottura le orecchie e soffoca i cuori, deve esser incenerita dal fuoco spirituale che Gesù è venuto ad accendere. Questo fuoco non è solamente distruzione del male ma è salvezza del bene, fuoco di santità.
Cristo ci dà il fuoco che non si estingue, che viene dal cielo, è il fuoco dello Spirito di Cristo. Un fuoco dello Spirito che rinnova la faccia della terrea e la rende espressione luminosa e calda della presenza divina fra noi: è il fuoco del suo Spirito, è il battesimo dell’amore, battesimo di Spirito e fuoco.

2) Angoscia.
Nel Vangelo di oggi, Cristo parla del suo desiderio di accendere il fuoco dell’amore sulla terra. Al tempo stesso, parla anche dell’angoscia perché sa che questo fuoco deve passare attraverso l’acqua, il “battesimo” della sua morte. Anche il nostro presente è sempre una lotta tra il desiderio del bene e l’angoscia del male, tra pace e scelte difficili. E’ una conflittualità che siamo chiamati a vivere con discernimento, sapendo che sempre, in ogni giorno della nostra vita, siamo chiamati a scegliere ciò che è giusto, anche se ci sono dei costi da pagare.
Ma perché Gesù parla di angoscia? Gesù ci dice di essere nell’angoscia, perché sa che questo fuoco sarà acceso e condiviso attraverso la sua morte in Croce. Questo santo Legno è la culla della nuova Betlemme (che vuol dire città del pane), è la nuova mangiatoia del Pane consumato, è la nuova locanda di Emmaus del Pane spezzato, la nuova Betania, casa del Pane profumato offerto agli uomini per sempre. Fu a Betania che Maria lavò i piedi a Cristo con il balsamo di nardo, simbolo della misericordia.
Gesù è angosciato, perché sa che questo fuoco viene da un battesimo, da un’acqua, che sgorga da Lui in croce. La Croce è il crogiolo capace di trasformarci in testimoni (in greco martiri) che seguono Cristo, il Martire per eccellenza. Nel cuore della Chiesa pulsa il cuore di Cristo: l’angoscia e il desiderio ardente che lo hanno spinto nell’urgenza di testimoniare la Verità, muovono da duemila anni gli apostoli e tutti i cristiani ad annunciare il Vangelo.

3) Divisione o pace?
Il fuoco di Cristo è capace di espandersi senza fare i danni di un incendio. Crea legami calorosi di vivace scambio: un fuoco vivace e di pace. La pace di Gesù si fonda sull’amore disinteressato e libero, che si dona gratuitamente.
A questo punto, nasce una domanda spontanea: “Perché se Cristo è il Principe della pace, dice di essere venuto a portare la divisione e non la pace?”.
Questa contraddizione nasce non perché Gesù è venuto per portare nel mondo la divisione e la guerra, ma perché la divisione e il contrasto nascono inevitabilmente dalla sua venuta a causa del fatto che Lui mette le persone davanti alla decisione. E davanti alla necessità di decidersi, la libertà umana reagisce in modo diverso e contraddittorio. La parola del Redentore e la sua stessa persona fanno venire a galla quello che c’è di più nascosto nel profondo del cuore umano. Il vecchio Simeone lo aveva predetto, prendendo in braccio il bambino Gesù: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 35). E la prima vittima di questa contraddizione, il primo a soffrire della “spada” che egli è venuto a portare sulla terra, sarà proprio lui, che in questo contrasto ci rimetterà la vita per dare a noi la Vita.

4) Le Vergini consacrate nel mondo e la divisione.
Nella vita, l’attesa delle cose belle apre il cuore alla gioia; mentre l'attesa delle cose tristi e brutte pone di fronte al dramma della paura, dell'incognito, dello sconosciuto, dell'ignoto. In questo caso è davvero un salto nel buio. Gesù, invece, è luce, speranza, felicità, serenità: è Tutto.
A questo Tutto le Vergini consacrate nel mondo si offrono senza riserve. E per questo anche loro sperimentano la divisione che porta Cristo, Si tratta di divisione che origina il distacco dalla carne ma che prelude alla comunione eterna. In effetti, la verginità implica questo distacco radicale per essere in totale ed esclusiva comunione con Cristo.
Non è solo una divisione da qualcosa ma per Qualcuno che ama fino a dare la vita. Dunque la loro divisione dal mondo diventa condivisione di grazia e segno per tutti che è bello e lieto donarsi a Dio, che è il loro costante interlocutore. Queste donne consacrate nel dialogo con Dio si aprono al dialogo con tutte le persone che vivono nel mondo verso le quali esse diventano madri, madri dei figli e figlie di Dio. (Cfr. RCV, 29).
In questo modo con la loro offerta verginale, le vergini consacrate testimoniano che essere discepoli di Cristo significa essere suoi, che non ci apparteniamo più. E' questo il senso più profondo delle parole dure e difficili del Vangelo di oggi: occorre “osare” l’odio, la divisione, anche la più dura, senza voltarsi indietro per seppellire o salutare; per amore dei nostri più intimi, spesso siamo chiamati a tagliare radicalmente, perché “l’astuto avversario, quando si vede scacciato dal cuore dei buoni, cerca quanti sono molto amati da loro, e parla per mezzo di essi con parole carezzevoli: affinché, penetrato il cuore con la forza dell'amore, la spada della sua persuasione irrompa facilmente nelle fortificazioni della rettitudine interiore” (S. Gregorio Magno).

Lettura Patristica
Sant’Ambrogio di Milano
In Luc., 7, 132, 135 s., 145


       "Fuoco sono venuto a portare sulla terra" (Lc 12,49). Non si tratta certo di fuoco che consuma i buoni, ma del fuoco che suscita la buona volontà, che rende migliori i vasi d’oro della casa del Signore, consumando il fieno e la paglia (cf. 1Co 3,12ss). Questo fuoco divino divora tutte le cose del mondo accumulate dalla voluttà, brucia le opere effimere della carne, ed è quello stesso che infiammava le ossa dei profeti, come dice il santo Geremia: "È divenuto come un fuoco ardente che infiamma le mie ossa" (Jr 20,9). È infatti il fuoco del Signore, a proposito del quale sta scritto: "Un fuoco arderà davanti a lui" (Ps 96,3). Ma il Signore medesimo è fuoco, dato che egli stesso ha detto: "Io sono il fuoco che brucia e non si consuma" (Ex 3,2 Ex 24,17 Dt 4,24 He 12,29); il fuoco del Signore è infatti la luce eterna, ed è a questo fuoco che si accendono le lucerne delle quali poco prima ha detto: "I vostri fianchi siano cinti e le lampade accese" (Lc 12,35). La lampada è necessaria, perché i giorni di questa vita sono come notte. Ammaus e Cleopa testimoniano che il Signore ha messo questo fuoco anche in loro, quando dicono: "Or non ci ardeva il cuore per via, mentre ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32). Essi così hanno manifestato con evidenza qual è l’azione di questo fuoco, che illumina l’intimo del cuore. È forse proprio per questo che il Signore verrà nel fuoco (Is 66,15-16), per consumare tutte le colpe al momento della risurrezione, ricolmare con la sua presenza i desideri di ciascuno, e proiettare la sua luce sui meriti e sui misteri...

       Come potrebbe allora il Signore essere "la nostra pace, egli che di due ne fece uno?" (Ep 2,14). E com’è che egli stesso dice: "Io vi do la mia pace, vi lascio la mia pace" (Jn 14,27), se è venuto per separare i padri dai figli, e i figli dai padri, distruggendo i loro vincoli? Come può essere "maledetto chi non onora suo padre" (Dt 27,16), e religioso chi lo abbandona?

       Ma se noi ci ricordiamo che la religione sta al primo posto e al secondo la pietà, comprenderemo anche come sia facile questa questione: tu devi infatti porre l’umano dopo il divino. Se abbiamo doveri d’amore verso i genitori, quanto maggior dovere non abbiamo per il Padre dei nostri genitori, cui dobbiamo riconoscenza anche per i nostri stessi genitori? E, se essi non riconoscono il loro Padre, come potrai tu riconoscerli? Il Signore non dice che si deve rinunciare ai parenti, ma che si deve anteporre a tutti Dio. Perciò in un altro libro tu puoi leggere- "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me" (Mt 10,37). Non ti è vietato di amare i tuoi genitori, ma ti è vietato di preferirli a Dio: gli affetti naturali sono infatti un beneficio del Signore, e nessuno deve amare il beneficio più di Dio stesso che gliel’ha concesso.

       Dunque, anche stando al solo significato letterale, a coloro che intendono con pietà non manca una spiegazione religiosa. Tuttavia stimiamo che c’è da cercare un significato più profondo, per quello che egli aggiunge...


       Così, fino a quando, a causa dell’unione dei vizi, vi era nella stessa casa un accordo indivisibile e inseparabile, sembrava che non vi fosse alcuna divisione. Ma quando Cristo portò sulla terra il fuoco, con cui egli consuma le colpe della carne, e la spada, che significa il dispiegamento della potenza in atto, che penetra nell’intimo dello spirito e delle midolla (He 4,12), allora la carne e l’anima, rinnovate nel mistero della rigenerazione, dimenticando ciò che erano e cominciando a essere ciò che non erano, si separano dalla compagnia antica del vizio, amato sino a quel momento, e spezzano tutti i legami con la loro degenere posterità. È così che i genitori sono divisi e si pongono contro i figli, in quanto la nuova temperanza del corpo rinnega l’antica intemperanza, e l’anima evita ogni legame con la colpa, né resta più posto per la straniera venuta dal di fuori, la voluttà.

venerdì 5 agosto 2016

Il fine è meglio della fine.

XIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 7 agosto 2016
Rito Romano
Sap 18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48


Rito Ambrosiano
2Re 25,1-17 [forma breve 25,1-6. 8-12]; Sal 77; Rm 2,1-10; Mt 23,37-24,2
XII Domenica dopo Pentecoste


1) Il fine e la fine.
In questa XIX Domenica del tempo ordinario, il Vangelo mostra Gesù che sta ancora predicando alle folle e dà loro degli insegnamenti sull'atteggiamento da assumere nella vita quotidiana, confidando nella provvidenza e mantenendo una giusta responsabilità nei confronti dei beni di questa terra. Al tempo stesso il Messia ricorda a loro e a noi che c’è un padrone, a cui dovremo rendere conto e che sarà molto esigente. Questo padrone, al suo ritorno, ci chiederà conto dei beni che ci ha affidati affinché amministriamo santamente i beni della terra, fino a prendere sul serio il suo invito: “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma” (Lc 12, 33). Per poter fare ciò, per potere vivere la “libertà della povertà” (M. Teresa di Calcutta) occorre recuperare una fede più sicura e decisa, ad essere pronti e vigilanti e ad avere un’apertura di mente e di cuore all’eternità.
Quindi, nel Vangelo di oggi Gesù ci insegna non solo come “usare” le cose ma come “usare” il tempo. Ci dice che dobbiamo vivere la nostra esistenza quotidiana alla luce dell’orizzonte definitivo, che è l’eternità. Questo orizzonte non è la fine ma il fine della vita da raggiungere camminando e servendo.
Per camminare senza inciampare occorreva, a quei tempi, avere la cintura stretta ai fianchi in modo di avere la tunica un po’ sollevata per evitare di inciamparvi. Questa era la tenuta di chi era pronto per mettersi in viaggio, come gli ebrei durante la celebrazione della Pasqua in Egitto (cfr. Es 12, 11). Per questo, il Cristo ci invita a essere “pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese” (Lc 12, 35). Ma la tunica rialzata non era solamente la tenuta da viaggio ma quella da lavoro e, quindi, la tenuta per servire. Certo a quei tempi i servitori erano per lo più schiavi.
Ma gli ebrei, allora, e noi oggi siamo chiamati a compiere il cammino dell’esodo per servire Dio adorandolo e servendolo nel prossimo. L’esodo a cui siamo chiamati è un cammino di libertà, che non implica di fare quello che ci pare e piace. Questa non è libertà, è egoismo. La vera libertà è quella di amare e di servire. Siamo chiamati a servire, non ad asservire, a sottomettere gli altri servendoci di loro
Il fatto, poi, che Cristo chieda di avere le lampade accese vuol dire che siamo chiamati a camminare nella notte e a vivere vegliando nell’attesa di qualcuno, nell’attesa del ritorno di Lui, che non ci avvisa sul quando arriverà.
Solamente Lui conosce il giorno e l’ora in cui ci inviterà a fare l’ultimo e non meno doloroso tratto della nostra vita terrena per iniziare quella eterna: “Arda nei nostri cuori, o Padre, la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino, e non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell'attesa della tua ora siamo introdotti da te nella patria eterna” (Colletta di oggi). Cristo ci chiede di avere cuori e occhi aperti, ai quali le lampade accese permettono di vedere Colui, che viene, che bussa alla porta. Se Gli apriamo, Lui entra e cena con noi e noi con Lui (Ap 3,20)


2) Vigile e fedele attesa.
Con la parabola del padrone che ritorna di notte, Gesù presenta la vita come una veglia d’attesa. L'immagine della vita terrena come una veglia notturna in attesa del giorno indica che l’uomo è attesa e che la “notte” della vita terrena non è un tempo vuoto, durante il quale si può solo cercare di resistere alla paura di minacce e pericoli incombenti. E’ un tempo attivo, in cui darsi da fare al meglio delle proprie capacità.
Dopo questa breve parabola del padrone che ritorna dalle nozze e del Signore che viene all'improvviso come un ladro, Gesù racconta la parabola dell’amministratore fedele (vv. 41-48). Così il tema della vigilanza è arricchito da quello della “fedeltà” nell'amministrazione dei beni del padrone, il senso di responsabilità.
Il servo è “fedele” perché il padrone è uno che ci chiama amici. E’ uno che si è fatto schiavo dei suoi servi, che al suo ritorno improvviso ha trovato ancora svegli, vigilanti. Alloro si è stretto la veste ai fianchi e si è messo a servirli (cfr. Lc 12, 37).
Dunque, non è nella logica della paura del padrone o del timore di una sua probabile punizione che noi dobbiamo vivere l’attesa del Regno, ma nell’amorosa e operosa vigilanza, nella semplice convinzione che la vera utilità e il vero progredire di noi stessi e degli altri si rende effettivo solo nel servizio fedele, costante: vigile. Dunque dobbiamo avere mani attive e cuori aperti. Dare è più conveniente che ricevere, poiché ci libera da ogni vincolo in vista dell’amore di Cristo.
Come viandanti e pellegrini dell’esodo siamo all’oscuro del momento e dell’ora della partenza, ma sicurissimi di dover partire con Dio.
Come le dieci vergini in attesa nel cuore della notte non conosciamo l’arrivo dello sposo, ma aspettiamo per camminare con Cristo-Sposo.
Come dei servi che aspettano il ritorno del padrone di casa, ignari di quando arriverà, vigiliamo.
Come semplici fedeli che si nutrono di speranza, innalziamo nel cielo (in Dio) lo sguardo, perché Il futuro è garantito dalla fedeltà al Signore. Ci aiuti Cristo che è venuto per renderci fedeli, ritorna per renderci beati.
Teniamo presente che il ritorno del Signore non è un episodio qualsiasi della nostra esistenza: è lì che confluisce la nostra speranza, è in quel momento che si gioca la nostra salvezza, la vita eterna. Dunque non dobbiamo essere vigilanti in vista di una partenza e di un incontro finale, ma anche essere pronti a cogliere il momento – da noi non programmabile - della grazia, della conversione o magari l’occasione quotidiana, che ci viene offerta di compiere il bene. La liberazione di Dio dalla schiavitù dell'Egitto avvenne nel cuore della notte, di una notte già preannunciata dai profeti, ma di cui si ignorava il momento preciso: ecco allora la necessità della vigilanza e dell'attesa. Noi ne diventiamo capaci quando la nostra fede in Dio si traduce in completo abbandono alla sua volontà e in certezza della sua fedeltà, che non viene mai meno. Nel cuore sempre fedele di Dio la nostra fedeltà ha il suo nido.

3) Un furto?
Noi servi divenuti amici attendiamo Cristo che viene all’improvviso come un ladro (è la terza immagine del vangelo di oggi) che non porta via qualcosa ma il nostro cuore.
Santa Teresa del bambino Gesù ha scritto: “E detto nel vangelo che il Signore verrà come un ladro (Mt. 24, 43). Verrà presto a rubarmi. Come vorrei aiutare il ladro!”
Se stiamo pronti a questo furto, Lui ci “deruba” di tutto ciò che ostacola il nostro incontro con Dio, per passare dalla schiavitù della legge al servizio dell’amore, dalla notte della liberazione alla luce della terra promessa, e porremo il nostro cuore lì dov’è il vero tesoro.
Le Vergini consacrate non solamente si sono lasciate derubare da Cristo, ma con gioia aiutano questo “ladro” offrendogli lietamente tutto: anima e corpo, beni materiali e spirituali. Si sforzano di vivere una vera povertà di spirito.
Inoltre con la vita e la preghiera mettono in pratica l’invito di Gesù-Sposo: “Conservate le vostre lampade accese” (cfr Lc 12,35): la lampada della fede, la lampada della preghiera, la lampada della speranza e dell’amore. E’ vero che si tratta di un invito rivolto a tutti i cristiani, tuttavia è importante ricordare che le vergini consacrate nel mondo rappresentano in modo speciale tutti i fedeli in atteggiamento di attesa e tensione verso il Regno; le lampade accese sono simbolo di vigilanza. Si tratta di una vigilanza nuziale, quindi operosa e gioiosa.
  Questo donne mostrano che il cristiano cammina nella notte del mondo, portando la luce e vigilando, perché chi ama, vigila.
Il fatto che il giorno della consacrazione hanno ricevuto anche una lampada indica la nostra condizione di cristiani in cammino nuziale: abbiamo bisogno di luce e, allo stesso tempo, siamo chiamati a divenire luce, irradiandola.





Lettura Patristica
Basilio di Cesarea
Hom. Quod mundanis, 2 s., 5



       Non vi sembra che la vita sia una via lunga e distesa e quasi un cammino segnato da tappe? Il cammino ha inizio col parto materno e finisce col sepolcro, dove, chi prima chi dopo, arrivano tutti; alcuni dopo aver fatto tutte le tappe, altri già alle prime. Dalle altre strade, che menano da una città all’altra, si può uscire, ci si può fermare, se uno lo vuole; questa invece, anche se volessimo rimandare il percorso, trascina i viandanti senza posa alla meta prestabilita. E neanche è possibile che uno che è uscito dalla porta e s’è messo sulla via, non raggiunga la meta. Ciascuno di noi, appena uscito dal seno materno, è preso dal fiume del tempo, lasciandosi sempre indietro il giorno vissuto, senza possibilità di ritorni. Noi ci congratuliamo degli anni che passano e alle diverse tappe siamo felici, come se guadagnassimo qualche cosa e ci sembra bello, quando uno da ragazzo diventa uomo e da uomo diventa vecchio. Ma dimentichiamo che tutto il tempo che abbiamo vissuto è un tempo che non abbiamo più; così a nostra insaputa la vita si consuma, sebbene noi la misuriamo dal tempo che è passato via. E non pensiamo quanto sia incerto quant’altro tempo ci voglia concedere colui che ci ha mandato a fare questo viaggio e quando ci aprirà le porte d’ingresso alla dimora stabile e che dobbiamo tenerci sempre pronti a partire di qua. Ci dice, però: "Tenete la corda ai fianchi e la lucerna accesa siate simili ai servi che aspettano il ritorno del padrone e si tengono pronti, in modo che gli possano aprire, appena bussa" (Lc 12,35-36)... Tralasciamo le cose inutili e curiamo le cose che sono veramente nostre. Ma quali sono le cose veramente nostre? L’anima, per la quale viviamo e che è intelligente e il corpo, che il Creatore ci ha dato come veicolo per passar la vita. Questo è l’uomo, una mente in una carne complementare. Questo vien fatto dal Creatore nel seno materno. Questo viene alla luce col parto. Questo è destinato a dominare sulle cose terrene. Le creature gli sono sottoposte, perché eserciti la virtù. Gli è data una legge, perché rassomigli al suo Creatore e porti sulla terra un segno della disciplina del cielo. Di qui viene. Questo è chiamato al tribunale di Dio, che lo ha mandato; è chiamato in giudizio, riceverà la mercede di ciò che fa nella vita. E le virtù saranno cosa nostra, se saranno diligentemente fuse con la natura; e non ci abbandonano, se non le cacciamo con i vizi, e ci vanno innanzi alla gloria futura e mettono tra gli angeli chi le coltiva e splendono eternamente sotto gli occhi del Creatore. Le ricchezze invece e i titoli e la gloria e i piaceri e tutta la turba di queste cose che crescono ogni giorno per la nostra insipienza, non vennero alla vita con noi e non ci accompagnano all’uscita; ma in ogni uomo rimane fisso e certo, ciò che fu detto dal giusto: "Sono uscito nudo dal seno di mia madre e nudo tornerò" (Jb 1,11).