venerdì 26 agosto 2016

Il primato dell’amore umile

XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 28 agosto 2016
Rito Romano
Sir 3,19-21.30-31; Sal 67; Eb 12,18-19.22-24; Lc 14,1.7-14

Rito Ambrosiano
2Mac 6,1-2.18-28; Sal 140; 2Cor 4,17-5,10; Mt 18,1-10
Domenica che precede il Martirio di San Giovanni il Precursore.


Premessa.
Le parole di Gesù proposte dal Vangelo di oggi sembrano un manuale di galateo o uno dei consigli sul come comportarsi, quando si è invitati a un banchetto per evitare una brutta figura e farne una bella. L’intenzione di Gesù non è quella di dare una regola di comportamento nella vita di società. Le parole del Redentore illustrano la logica cristiana, a cui si deve convertire chi ha fatto l’esperienza dell’incontro con Lui.
Durante il pranzo di quel sabato Gesù diede due insegnamenti importanti. Il primo, riguardante l’umiltà, era rivolto agli invitati che cercavano il posto più alto, più onorifico. Il secondo, concernente la gratuità, fu diretto all’invitante: il padrone di casa, che così veniva invitato ad un amore disinteressato. Questi due insegnamenti sull’umiltà e sulla gratuità ci spingono a capire che il posto migliore è quello vicino a Cristo.

1) Umiltà e logica cristiana.
Quando si vive secondo una logica pagana, si seguono le tre concupiscenze di cui parla San Giovanni nella sua prima lettera, dove parla di tre tipi di incontrollato desiderio o libidine: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita (cfr. 1 Gv 2,16). Le cose del mondo, cioè la struttura, l’organizzazione della vita del cosmo lontano da Dio, si basano su queste tre concupiscenze che si potrebbero indicare anche così: la brama di avere, la brama di potere, la brama di apparire.
Quando si vive secondo la logica cristiana, il mondo è organizzato secondo la legge dell’amore e praticato secondo la logica cristiana, che è logica di amore nella verità. In questa logica (cioè intelligente) vita cristiana uno è grande (sarebbe meglio dire: santo) non per quello che ha, ma quello ciò che dà. In secondo luogo, non brama il potere che domina, ma desidera fortemente il potere che umilmente serve. Quindi, la vera realizzazione umana non sta nel poter di dominare, ma nel potere di servire. In terzo luogo, per ribadire il primato dell’amore, nel vangelo di oggi Gesù dice che l’importante non è l’apparire, ma è l’umiltà. Per questo San Agostino d’Ippona scrisse: “Ascolta fratello, Dio è molto alto. Se tu sali, Lui va più in alto; ma se tu ti abbassi, Lui viene a te”. Gesù crocifisso è all’altezza di Dio, perché l’altezza della Croce è l’altezza dell’amore di Dio, l’altezza della rinuncia di se stessi e la dedizione agli altri. Questo è il posto divino e, quindi, preghiamo il Signore perché ci conceda di capire questo sempre di più e di accettare con umiltà questo mistero di esaltazione e umiliazione.
L’umiltà è la virtù che permette di comprendere il posto che l’Amore ha scelto per noi e di accogliere l’Amore che viene ad abitare da noi. Al pranzo della vita, dove siamo invitati, il Signore vuole che ognuno scopra il proprio posto. Quello che conta non è essere né avanti, né indietro, ma proprio quel posto che Dio ha preparato per noi e nel quale c'è la nostra felicità e la nostra realizzazione. Quel posto, proposto da Dio e accolto da noi, ha il nome della nostra vocazione.


2) L’umiltà e il banchetto o convivio.
Nella situazione raccontata dal vangelo di oggi, come in altre occasioni conviviali1, il banchetto è immagine della vita. Il convivio cristiano della vita, il banchetto del Regno è il tessuto delle relazioni tra noi con Dio.
Nella Bibbia il banchetto prefigura il Regno di Dio. Anche Gesù, che si pone sempre in continuità con la rivelazione dell’Antico Testamento, utilizza molto questo simbolismo, sia nei suoi discorsi che partecipando di fatto a momenti conviviali, un “segno” anticipatorio della mensa eucaristica, e della futura definitiva comunione con Dio. Il cap. 14° del Vangelo di San Luca è divisibile in due scene: prima l’invito a pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, in giorno di festa, sabato (Lc 14, 1-6); poi l'insegnamento con due piccole parabole sul modo di scegliere i posti a tavola e i criteri per fare gli inviti (Lc 14, 7-14); infine la parabola sulla grande cena (Lc 14,15-16), che riguarda ancora il problema degli invitati: chi parteciperà alla mensa del regno? Questa si prepara fin d'ora nel rapporto con un Gesù, che convoca attorno a sé le persone nella Chiesa – comunione di salvati.
Noi, membri di questa Comunità di Redenti, siamo chiamati a “con-vivere” con Cristo nutrendoci del Suo Corpo eucaristico. Il “galateo” da seguire è quello dell’umiltà. Praticare questa virtù non vuol dire affermare che siamo nulla e che non valiamo niente. La persona umile dà il meglio di sé, fa il più possibile, apre il suo cuore più che può. L’umiltà verso il prossimo è comprensione, accettazione e servizio. L’umiltà verso Dio è adorazione, ringraziamento, preghiera e amore.
Per essere e crescere nell’umiltà occorre amare.
E’ quello che ha fatto Gesù. L’amore misericordioso l’ha fatto scendere dal cielo. L’amore misericordioso e gratuito l’ha spinto sulle strade della Palestina. Questa carità disinteressata l’ha condotto a cercare i malati, i peccatori, i sofferenti. Questa carità, che è dono commosso di sé, l’ha portato, senza indugi, alla sua meta, il Calvario, dove “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).
 “L’umiltà è stata la forma esteriore della sua carità divina” (Divo Barsotti).
Contempliamo l’umiltà di Cristo come espressione più alta di amore. La sua umiltà è rivelazione dell’amore di Dio che si fa totalmente uomo, incarnandosi per la salvezza di tutta l’umanità. Lui sceglie l’ultimo posto, la Croce, per salvarci. Si fa “nulla” perché l’essere umano sia tutto. Si fa cibo eucaristico per il convivio del cielo. In questo banchetto, nella Messa, Lui si fa presenta sotto le specie del pane e del vino per donarsi, per essere mangiato. La Messa trova il suo compimento nella comunione eucaristica, nella quale Lui si dona totalmente a noi così da sparire. Lui è tutto per noi e in noi, per la nostra salvezza.
Se stupisce contemplare l’umiltà del Figlio di Dio, quando Gli dice “Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di colui, che mi ha mandato”, stupisce ancora di più sentire dire dall’umile Creatore ad un’umile creatura: “Tu sei mia madre”.
Questo è il Dio che si è rivelato a noi: un amore che si svuota di sé per donarsi, perché l’amore è dono.
San Francesco vedeva Dio come umiltà. Per il Santo di Assisi Dio stesso è umiltà. Dio si rivela a noi attraverso la creazione, ma la sua rivelazione più perfetta è Gesù Cristo. E Cristo, per San Francesco, è umiltà: umiltà di Cristo nella sua nascita, nella sua passione, nell’Eucaristia.
Ma questo grande Santo va ancora più in là e “osa” dire che l’umiltà è la stessa rivelazione dell’amore. “Dio è amore e l’amore non può essere che umiltà cioè l’amore che vive per l’altro, in relazione all’altro” (Divo Barsotti).
L’umile Figlio di Dio si incarna per essere lo Sposo che si dà tutto alla sposa. Questo aspetto di rapporto nuziale della Chiesa sposa di Cristo, umile e povero, è sottolineato in modo molto significativo dalle Vergini Consacrate nel mondo, dove portano la luce di Cristo con la lampada del cuore.

1 Infatti, nel Vangelo si parla abbastanza spesso di pranzi e cene. Gesù non disdegna di mettersi a tavola con amici e nemici, e ne profitta per trasmettere i suoi insegnamenti. Lo fa con parabole (una per tutte: quella del ricco epulone dai lauti banchetti, incurante del povero Lazzaro mendico alla sua porta) o prospettando il futuro (l'abbiamo sentito domenica scorsa: tutti i popoli siederanno a mensa con Abramo Isacco e Giacobbe); lo fa lasciando i frutti del suo operato sotto forma di cibo, di cui nutrirci in quel banchetto che è la Messa; lo fa', come nel brano odierno (Lc 14,1.7-14), rilevando i comportamenti di chi invita e di chi è invitato


 A questo riguardo, in una lettera che è catalogata come XXIII e che propongo come lettura “patristica”, Santa Caterina da Siena scriveva alla nipote Nanna Benincasa per sostenerla nella sua vocazione di vergine consacrata:
“A volere essere sposa di Cristo, ti conviene avere la lampada, e l’olio, e il lume. Sai come s'intende questo, figliuola mia? Per la lampada s’intende il cuore nostro: poiché il cuore debba esser fatto come la lampada. Tu vedi bene che la lampada è larga di sopra, e di sotto stretta; e cosi è fatto il cuore, a significare che noi il dobbiamo sempre tenere largo di sopra, cioè per santi pensieri, e per sante immaginazioni, e per continua orazione; avendo sempre in memoria i benefici di Dio, e massimamente il beneficio del sangue, per lo quale siamo ricomperati. Perocchè Cristo benedetto, figliuola mia, non ci ricomprò d'oro nè d'argento nè di perle o d'altra pietra preziosa; anco, ci ricomprò del sangue suo prezioso. Onde tanto beneficio non si vuole mai dimenticare, ma sempre portarlo dinanzi agli occhi suoi, con un santo e dolce ringraziamento, vedendo quanto Dio ci ama inestimabilmente: che non curò di dare l'unigenito suo Figliuolo alla obbrobriosa morte della croce per dare a noi la vita della Grazia. Dissi che la lampada è stretta di sotto: e così il cuore nostro; a significare che il cuore debba essere stretto verso queste cose terrene, cioè in non desiderarle nè amarle disordinatamente, nè appetire più che Dio ci voglia dare; ma sempre ringraziarlo, vedendo come dolcemente ci provvede, si che mai non ci manca cavelle. Ora a questo modo sarà il cuore nostro veramente una lampada. Ma pensa, figliuola mia, che questo non basterebbe, se non ci fosse l'olio dentro. Per l'olio s'intende quella dolce virtù piccola della profonda umiltà: perchè si conviene che la sposa di Cristo sia umile e mansueta e paziente; e tanto sarà umile quanto paziente, e tanto paziente quanto umile. Ma a questa virtù dell'umiltà non potremo venire se non per vero cognoscimento di noi medesimi, cioè cognoscendo la miseria e fragilità nostra, e che noi per noi medesimi non possiamo alcun atto virtuoso, nè levarci neuna battaglia o pena: perocchè se noi abbiamo la infermità corporale, o una pena o una battaglia mentale, non ce la possiamo levare o tollere; perocchè, se noi potessimo, subito la leveremmo via. Dunque bene è vero che noi per noi non siamo nulla, altro che obbrobri, miseria, puzza, fragilità e peccati: per la quale cosa sempre dobbiamo star bassi e umili. Ma a stare solamente in questo cognoscimento di sè, non sarebbe buono; perocchè l'anima verrebbe a tedio, e a confusione; e dalla confusione verrebbe alla disperazione: onde il demonio non vorrebbe altro se non farci venire a confusione, per farci poi venire a disperazione. Convienci dunque stare nel cognoscimento della bontà di Dio in sè, vedendo che egli ci ha creati alla imagine e similitudine sua, e ricreati a grazia nel sangue dell'unigenito suo Figliuolo, Verbo dolce incarnato; e come continuamente la bontà di Dio adopera in noi. Ma vedi, che stare solamente in questo cognoscimento di Dio non sarebbe buono; perocchè l'anima ne verrebbe a presunzione e superbia. Convienci dunque che sia mescolato l'uno coll'altro insieme, cioè stare nel cognoscimento santo della bontà di Dio, e nel cognoscimento di noi medesimi: e cosi saremo umili, pazienti e mansueti; e a questo modo averemo l'olio nella lampada”.



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