XXII
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 28 agosto 2016
Rito Romano
Sir
3,19-21.30-31; Sal 67; Eb 12,18-19.22-24; Lc 14,1.7-14
Rito
Ambrosiano
2Mac
6,1-2.18-28; Sal 140; 2Cor 4,17-5,10; Mt 18,1-10
Domenica
che precede il Martirio di San Giovanni il Precursore.
Premessa.
Le parole di Gesù
proposte dal Vangelo di oggi sembrano un manuale di galateo o uno dei
consigli sul come comportarsi, quando si è invitati a un banchetto
per evitare una brutta figura e farne una bella. L’intenzione di
Gesù non è quella di dare una regola di comportamento nella vita di
società. Le parole del Redentore illustrano la logica cristiana,
a cui si deve convertire chi ha fatto l’esperienza dell’incontro
con Lui.
Durante il pranzo di
quel sabato Gesù diede due insegnamenti importanti. Il primo,
riguardante l’umiltà, era rivolto agli invitati che cercavano il
posto più alto, più onorifico. Il secondo, concernente la gratuità,
fu diretto all’invitante: il padrone di casa, che così veniva
invitato ad un amore disinteressato. Questi due insegnamenti
sull’umiltà e sulla gratuità ci spingono a capire che il posto
migliore è quello vicino a Cristo.
1) Umiltà e
logica cristiana.
Quando si vive secondo
una logica pagana, si seguono le tre concupiscenze di cui
parla San Giovanni nella sua prima lettera, dove parla di tre tipi di
incontrollato desiderio o libidine: la concupiscenza della carne, la
concupiscenza degli occhi e la superbia della vita (cfr. 1 Gv
2,16). Le cose del mondo, cioè la struttura, l’organizzazione
della vita del cosmo lontano da Dio, si basano su queste tre
concupiscenze che si potrebbero indicare anche così: la brama di
avere, la brama di potere, la brama di apparire.
Quando si vive secondo
la logica cristiana, il mondo è organizzato secondo la legge
dell’amore e praticato secondo la logica cristiana, che è
logica di amore nella verità. In questa logica (cioè
intelligente) vita cristiana uno è grande (sarebbe meglio dire:
santo) non per quello che ha, ma quello ciò che dà. In secondo
luogo, non brama il potere che domina, ma desidera fortemente il
potere che umilmente serve. Quindi, la vera realizzazione umana non
sta nel poter di dominare, ma nel potere di servire. In terzo luogo,
per ribadire il primato dell’amore, nel vangelo di oggi Gesù dice
che l’importante non è l’apparire, ma è l’umiltà. Per
questo San Agostino d’Ippona scrisse: “Ascolta fratello, Dio è
molto alto. Se tu sali, Lui va più in alto; ma se tu ti
abbassi, Lui viene a te”. Gesù crocifisso è all’altezza di
Dio, perché l’altezza della Croce è l’altezza dell’amore di
Dio, l’altezza della rinuncia di se stessi e la dedizione agli
altri. Questo è il posto divino e, quindi, preghiamo il Signore
perché ci conceda di capire questo sempre di più e di accettare con
umiltà questo mistero di esaltazione e umiliazione.
L’umiltà è la
virtù che permette di comprendere il posto che l’Amore ha scelto
per noi e di accogliere l’Amore che viene ad abitare da noi. Al
pranzo della vita, dove siamo invitati, il Signore vuole che ognuno
scopra il proprio posto. Quello che conta non è essere né avanti,
né indietro, ma proprio quel posto che Dio ha preparato per noi e
nel quale c'è la nostra felicità e la nostra realizzazione. Quel
posto, proposto da Dio e accolto da noi, ha il nome della nostra
vocazione.
2) L’umiltà e
il banchetto o convivio.
Nella situazione
raccontata dal vangelo di oggi, come in altre occasioni conviviali1,
il banchetto è immagine della vita. Il convivio cristiano della
vita, il banchetto del Regno è il tessuto delle relazioni tra noi
con Dio.
Nella Bibbia il
banchetto prefigura il Regno di Dio. Anche Gesù, che si pone sempre
in continuità con la rivelazione dell’Antico Testamento, utilizza
molto questo simbolismo, sia nei suoi discorsi che partecipando di
fatto a momenti conviviali, un “segno” anticipatorio della mensa
eucaristica, e della futura definitiva comunione con Dio. Il cap. 14°
del Vangelo di San Luca è divisibile in due scene: prima l’invito
a pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, in giorno di festa,
sabato (Lc 14, 1-6); poi l'insegnamento con due piccole parabole sul
modo di scegliere i posti a tavola e i criteri per fare gli inviti
(Lc 14, 7-14); infine la parabola sulla grande cena (Lc 14,15-16),
che riguarda ancora il problema degli invitati: chi parteciperà alla
mensa del regno? Questa si prepara fin d'ora nel rapporto con un
Gesù, che convoca attorno a sé le persone nella Chiesa –
comunione di salvati.
Noi, membri di questa
Comunità di Redenti, siamo chiamati a “con-vivere” con Cristo
nutrendoci del Suo Corpo eucaristico. Il “galateo” da seguire è
quello dell’umiltà. Praticare questa virtù non vuol dire
affermare che siamo nulla e che non valiamo niente. La persona umile
dà il meglio di sé, fa il più possibile, apre il suo cuore più
che può. L’umiltà verso il prossimo è comprensione, accettazione
e servizio. L’umiltà verso Dio è adorazione, ringraziamento,
preghiera e amore.
Per essere e crescere
nell’umiltà occorre amare.
E’ quello che ha
fatto Gesù. L’amore misericordioso l’ha fatto scendere dal
cielo. L’amore misericordioso e gratuito l’ha spinto sulle strade
della Palestina. Questa carità disinteressata l’ha condotto a
cercare i malati, i peccatori, i sofferenti. Questa carità, che è
dono commosso di sé, l’ha portato, senza indugi, alla sua meta, il
Calvario, dove “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).
“L’umiltà è
stata la forma esteriore della sua carità divina” (Divo
Barsotti).
Contempliamo l’umiltà
di Cristo come espressione più alta di amore. La sua umiltà è
rivelazione dell’amore di Dio che si fa totalmente uomo,
incarnandosi per la salvezza di tutta l’umanità. Lui sceglie
l’ultimo posto, la Croce, per salvarci. Si fa “nulla” perché
l’essere umano sia tutto. Si fa cibo eucaristico per il convivio
del cielo. In questo banchetto, nella Messa, Lui si fa presenta sotto
le specie del pane e del vino per donarsi, per essere mangiato. La
Messa trova il suo compimento nella comunione eucaristica, nella
quale Lui si dona totalmente a noi così da sparire. Lui è tutto per
noi e in noi, per la nostra salvezza.
Se stupisce
contemplare l’umiltà del Figlio di Dio, quando Gli dice “Non
sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di colui, che mi
ha mandato”, stupisce ancora di più sentire dire dall’umile
Creatore ad un’umile creatura: “Tu sei mia madre”.
Questo è il Dio che
si è rivelato a noi: un amore che si svuota di sé per donarsi,
perché l’amore è dono.
San Francesco vedeva
Dio come umiltà. Per il Santo di Assisi Dio stesso è umiltà. Dio
si rivela a noi attraverso la creazione, ma la sua rivelazione più
perfetta è Gesù Cristo. E Cristo, per San Francesco, è umiltà:
umiltà di Cristo nella sua nascita, nella sua passione,
nell’Eucaristia.
Ma questo grande Santo
va ancora più in là e “osa” dire che l’umiltà è la stessa
rivelazione dell’amore. “Dio è amore e l’amore non può essere
che umiltà cioè l’amore che vive per l’altro, in relazione
all’altro” (Divo Barsotti).
L’umile Figlio di
Dio si incarna per essere lo Sposo che si dà tutto alla sposa.
Questo aspetto di rapporto nuziale della Chiesa sposa di Cristo,
umile e povero, è sottolineato in modo molto significativo dalle
Vergini Consacrate nel mondo, dove portano la luce di Cristo con la
lampada del cuore.
1 Infatti, nel Vangelo si parla abbastanza spesso di pranzi e cene. Gesù non disdegna di mettersi a tavola con amici e nemici, e ne profitta per trasmettere i suoi insegnamenti. Lo fa con parabole (una per tutte: quella del ricco epulone dai lauti banchetti, incurante del povero Lazzaro mendico alla sua porta) o prospettando il futuro (l'abbiamo sentito domenica scorsa: tutti i popoli siederanno a mensa con Abramo Isacco e Giacobbe); lo fa lasciando i frutti del suo operato sotto forma di cibo, di cui nutrirci in quel banchetto che è la Messa; lo fa', come nel brano odierno (Lc 14,1.7-14), rilevando i comportamenti di chi invita e di chi è invitato
A questo riguardo, in una lettera che è catalogata come XXIII e che propongo come lettura “patristica”, Santa Caterina da Siena scriveva alla nipote Nanna Benincasa per sostenerla nella sua vocazione di vergine consacrata:
1 Infatti, nel Vangelo si parla abbastanza spesso di pranzi e cene. Gesù non disdegna di mettersi a tavola con amici e nemici, e ne profitta per trasmettere i suoi insegnamenti. Lo fa con parabole (una per tutte: quella del ricco epulone dai lauti banchetti, incurante del povero Lazzaro mendico alla sua porta) o prospettando il futuro (l'abbiamo sentito domenica scorsa: tutti i popoli siederanno a mensa con Abramo Isacco e Giacobbe); lo fa lasciando i frutti del suo operato sotto forma di cibo, di cui nutrirci in quel banchetto che è la Messa; lo fa', come nel brano odierno (Lc 14,1.7-14), rilevando i comportamenti di chi invita e di chi è invitato
A questo riguardo, in una lettera che è catalogata come XXIII e che propongo come lettura “patristica”, Santa Caterina da Siena scriveva alla nipote Nanna Benincasa per sostenerla nella sua vocazione di vergine consacrata:
“A volere essere
sposa di Cristo, ti conviene avere la lampada, e l’olio, e il lume.
Sai come s'intende questo, figliuola mia? Per la lampada s’intende
il cuore nostro: poiché il cuore debba esser fatto come la lampada.
Tu vedi bene che la lampada è larga di sopra, e di sotto stretta; e
cosi è fatto il cuore, a significare che noi il dobbiamo sempre
tenere largo di sopra, cioè per santi pensieri, e per sante
immaginazioni, e per continua orazione; avendo sempre in memoria i
benefici di Dio, e massimamente il beneficio del sangue, per lo quale
siamo ricomperati. Perocchè Cristo benedetto, figliuola mia, non ci
ricomprò d'oro nè d'argento nè di perle o d'altra pietra preziosa;
anco, ci ricomprò del sangue suo prezioso. Onde tanto beneficio non
si vuole mai dimenticare, ma sempre portarlo dinanzi agli occhi suoi,
con un santo e dolce ringraziamento, vedendo quanto Dio ci ama
inestimabilmente: che non curò di dare l'unigenito suo Figliuolo
alla obbrobriosa morte della croce per dare a noi la vita della
Grazia. Dissi che la lampada è stretta di sotto: e così il cuore
nostro; a significare che il cuore debba essere stretto verso queste
cose terrene, cioè in non desiderarle nè amarle disordinatamente,
nè appetire più che Dio ci voglia dare; ma sempre ringraziarlo,
vedendo come dolcemente ci provvede, si che mai non ci manca cavelle.
Ora a questo modo sarà il cuore nostro veramente una lampada. Ma
pensa, figliuola mia, che questo non basterebbe, se non ci fosse
l'olio dentro. Per l'olio s'intende quella dolce virtù piccola della
profonda umiltà: perchè si conviene che la sposa di Cristo sia
umile e mansueta e paziente; e tanto sarà umile quanto paziente, e
tanto paziente quanto umile. Ma a questa virtù dell'umiltà non
potremo venire se non per vero cognoscimento di noi medesimi, cioè
cognoscendo la miseria e fragilità nostra, e che noi per noi
medesimi non possiamo alcun atto virtuoso, nè levarci neuna
battaglia o pena: perocchè se noi abbiamo la infermità corporale, o
una pena o una battaglia mentale, non ce la possiamo levare o
tollere; perocchè, se noi potessimo, subito la leveremmo via. Dunque
bene è vero che noi per noi non siamo nulla, altro che obbrobri,
miseria, puzza, fragilità e peccati: per la quale cosa sempre
dobbiamo star bassi e umili. Ma a stare solamente in questo
cognoscimento di sè, non sarebbe buono; perocchè l'anima verrebbe a
tedio, e a confusione; e dalla confusione verrebbe alla disperazione:
onde il demonio non vorrebbe altro se non farci venire a confusione,
per farci poi venire a disperazione. Convienci dunque stare nel
cognoscimento della bontà di Dio in sè, vedendo che egli ci ha
creati alla imagine e similitudine sua, e ricreati a grazia nel
sangue dell'unigenito suo Figliuolo, Verbo dolce incarnato; e come
continuamente la bontà di Dio adopera in noi. Ma vedi, che stare
solamente in questo cognoscimento di Dio non sarebbe buono; perocchè
l'anima ne verrebbe a presunzione e superbia. Convienci dunque che
sia mescolato l'uno coll'altro insieme, cioè stare nel cognoscimento
santo della bontà di Dio, e nel cognoscimento di noi medesimi: e
cosi saremo umili, pazienti e mansueti; e a questo modo averemo
l'olio nella lampada”.
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