XIX
Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 7 agosto 2016
Rito Romano
Sap
18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
Rito
Ambrosiano
2Re
25,1-17 [forma breve 25,1-6. 8-12]; Sal 77; Rm 2,1-10; Mt 23,37-24,2
XII
Domenica dopo Pentecoste
1)
Il fine e la fine.
In questa XIX Domenica
del tempo ordinario, il Vangelo mostra Gesù che sta ancora
predicando alle folle e dà loro degli insegnamenti
sull'atteggiamento da assumere nella vita quotidiana, confidando
nella provvidenza e mantenendo una giusta responsabilità nei
confronti dei beni di questa terra. Al tempo stesso il Messia ricorda
a loro e a noi che c’è un padrone, a cui dovremo rendere conto e
che sarà molto esigente. Questo padrone, al suo ritorno, ci chiederà
conto dei beni che ci ha affidati affinché amministriamo santamente
i beni della terra, fino a prendere sul serio il suo invito: “Vendete
ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non
invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e
tarlo non consuma” (Lc 12, 33). Per poter fare ciò, per
potere vivere la “libertà della povertà” (M. Teresa di
Calcutta) occorre recuperare una fede più sicura e decisa, ad
essere pronti e vigilanti e ad avere un’apertura di mente e di
cuore all’eternità.
Quindi, nel Vangelo di
oggi Gesù ci insegna non solo come “usare” le cose ma come
“usare” il tempo. Ci dice che dobbiamo vivere la nostra esistenza
quotidiana alla luce dell’orizzonte definitivo, che è l’eternità.
Questo orizzonte non è la fine ma il fine della vita da raggiungere
camminando e servendo.
Per camminare
senza inciampare occorreva, a quei tempi, avere la cintura stretta ai
fianchi in modo di avere la tunica un po’ sollevata per evitare di
inciamparvi. Questa era la tenuta di chi era pronto per mettersi in
viaggio, come gli ebrei durante la celebrazione della Pasqua in
Egitto (cfr. Es 12, 11). Per questo, il Cristo ci invita a
essere “pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade
accese” (Lc 12, 35). Ma la tunica rialzata non era solamente
la tenuta da viaggio ma quella da lavoro e, quindi, la tenuta per
servire. Certo a quei tempi i servitori erano per lo più schiavi.
Ma gli ebrei, allora,
e noi oggi siamo chiamati a compiere il cammino dell’esodo per
servire Dio adorandolo e servendolo nel prossimo. L’esodo a cui
siamo chiamati è un cammino di libertà, che non implica di fare
quello che ci pare e piace. Questa non è libertà, è egoismo. La
vera libertà è quella di amare e di servire. Siamo chiamati a
servire, non ad asservire, a sottomettere gli altri servendoci di
loro
Il fatto, poi, che
Cristo chieda di avere le lampade accese vuol dire che siamo chiamati
a camminare nella notte e a vivere vegliando nell’attesa di
qualcuno, nell’attesa del ritorno di Lui, che non ci avvisa sul
quando arriverà.
Solamente Lui conosce
il giorno e l’ora in cui ci inviterà a fare l’ultimo e non meno
doloroso tratto della nostra vita terrena per iniziare quella eterna:
“Arda nei nostri cuori, o Padre, la stessa fede che spinse Abramo a
vivere sulla terra come pellegrino, e non si spenga la nostra
lampada, perché vigilanti nell'attesa della tua ora siamo introdotti
da te nella patria eterna” (Colletta di oggi). Cristo ci
chiede di avere cuori e occhi aperti, ai quali le lampade accese
permettono di vedere Colui, che viene, che bussa alla porta. Se Gli
apriamo, Lui entra e cena con noi e noi con Lui (Ap 3,20)
2)
Vigile e fedele attesa.
Con la parabola del
padrone che ritorna di notte, Gesù presenta la vita come una veglia
d’attesa. L'immagine della vita terrena come una veglia notturna in
attesa del giorno indica che l’uomo è attesa e che la “notte”
della vita terrena non è un tempo vuoto, durante il quale si può
solo cercare di resistere alla paura di minacce e pericoli
incombenti. E’ un tempo attivo, in cui darsi da fare al meglio
delle proprie capacità.
Dopo questa breve
parabola del padrone che ritorna dalle nozze e del Signore che viene
all'improvviso come un ladro, Gesù racconta la parabola
dell’amministratore fedele (vv. 41-48). Così il tema della
vigilanza è arricchito da quello della “fedeltà”
nell'amministrazione dei beni del padrone, il senso di
responsabilità.
Il servo è “fedele”
perché il padrone è uno che ci chiama amici. E’ uno che si è
fatto schiavo dei suoi servi, che al suo ritorno improvviso ha
trovato ancora svegli, vigilanti. Alloro si è stretto la veste ai
fianchi e si è messo a servirli (cfr. Lc 12, 37).
Dunque, non è nella
logica della paura del padrone o del timore di una sua probabile
punizione che noi dobbiamo vivere l’attesa del Regno, ma
nell’amorosa e operosa vigilanza, nella semplice convinzione che la
vera utilità e il vero progredire di noi stessi e degli altri si
rende effettivo solo nel servizio fedele, costante: vigile. Dunque
dobbiamo avere mani attive e cuori aperti. Dare è più conveniente
che ricevere, poiché ci libera da ogni vincolo in vista dell’amore
di Cristo.
Come viandanti e
pellegrini dell’esodo siamo all’oscuro del momento e dell’ora
della partenza, ma sicurissimi di dover partire con Dio.
Come le dieci vergini
in attesa nel cuore della notte non conosciamo l’arrivo dello
sposo, ma aspettiamo per camminare con Cristo-Sposo.
Come dei servi che
aspettano il ritorno del padrone di casa, ignari di quando arriverà,
vigiliamo.
Come semplici fedeli
che si nutrono di speranza, innalziamo nel cielo (in Dio) lo sguardo,
perché Il futuro è garantito dalla fedeltà al Signore. Ci aiuti
Cristo che è venuto per renderci fedeli, ritorna per renderci beati.
Teniamo presente che
il ritorno del Signore non è un episodio qualsiasi della nostra
esistenza: è lì che confluisce la nostra speranza, è in quel
momento che si gioca la nostra salvezza, la vita eterna. Dunque non
dobbiamo essere vigilanti in vista di una partenza e di un incontro
finale, ma anche essere pronti a cogliere il momento – da noi non
programmabile - della grazia, della conversione o magari l’occasione
quotidiana, che ci viene offerta di compiere il bene. La liberazione
di Dio dalla schiavitù dell'Egitto avvenne nel cuore della notte, di
una notte già preannunciata dai profeti, ma di cui si ignorava il
momento preciso: ecco allora la necessità della vigilanza e
dell'attesa. Noi ne diventiamo capaci quando la nostra fede in Dio si
traduce in completo abbandono alla sua volontà e in certezza della
sua fedeltà, che non viene mai meno. Nel cuore sempre fedele di Dio
la nostra fedeltà ha il suo nido.
3) Un furto?
Noi servi divenuti
amici attendiamo Cristo che viene all’improvviso come un ladro (è
la terza immagine del vangelo di oggi) che non porta via qualcosa ma
il nostro cuore.
Santa Teresa del
bambino Gesù ha scritto: “E detto nel vangelo che il Signore verrà
come un ladro (Mt. 24, 43). Verrà presto a rubarmi. Come vorrei
aiutare il ladro!”
Se stiamo pronti a
questo furto, Lui ci “deruba” di tutto ciò che ostacola il
nostro incontro con Dio, per passare dalla schiavitù della legge al
servizio dell’amore, dalla notte della liberazione alla luce della
terra promessa, e porremo il nostro cuore lì dov’è il vero
tesoro.
Le Vergini consacrate
non solamente si sono lasciate derubare da Cristo, ma con gioia
aiutano questo “ladro” offrendogli lietamente tutto: anima e
corpo, beni materiali e spirituali. Si sforzano di vivere una vera
povertà di spirito.
Inoltre con la vita e
la preghiera mettono in pratica l’invito di Gesù-Sposo:
“Conservate le vostre lampade accese” (cfr Lc 12,35): la
lampada della fede, la lampada della preghiera, la lampada della
speranza e dell’amore. E’ vero che si tratta di un invito rivolto
a tutti i cristiani, tuttavia è importante ricordare che le vergini
consacrate nel mondo rappresentano in modo speciale tutti i fedeli in
atteggiamento di attesa e tensione verso il Regno; le lampade accese
sono simbolo di vigilanza. Si tratta di una vigilanza nuziale, quindi
operosa e gioiosa.
Questo donne
mostrano che il cristiano cammina nella notte del mondo, portando la
luce e vigilando, perché chi ama, vigila.
Il fatto che il giorno
della consacrazione hanno ricevuto anche una lampada indica la nostra
condizione di cristiani in cammino nuziale: abbiamo bisogno di luce
e, allo stesso tempo, siamo chiamati a divenire luce, irradiandola.
Lettura Patristica
Basilio di Cesarea
Hom. Quod mundanis, 2
s., 5
Non
vi sembra che la vita sia una via lunga e distesa e quasi un cammino
segnato da tappe? Il cammino ha inizio col parto materno e finisce
col sepolcro, dove, chi prima chi dopo, arrivano tutti; alcuni dopo
aver fatto tutte le tappe, altri già alle prime. Dalle altre strade,
che menano da una città all’altra, si può uscire, ci si può
fermare, se uno lo vuole; questa invece, anche se volessimo rimandare
il percorso, trascina i viandanti senza posa alla meta prestabilita.
E neanche è possibile che uno che è uscito dalla porta e s’è
messo sulla via, non raggiunga la meta. Ciascuno di noi, appena
uscito dal seno materno, è preso dal fiume del tempo, lasciandosi
sempre indietro il giorno vissuto, senza possibilità di ritorni. Noi
ci congratuliamo degli anni che passano e alle diverse tappe siamo
felici, come se guadagnassimo qualche cosa e ci sembra bello, quando
uno da ragazzo diventa uomo e da uomo diventa vecchio. Ma
dimentichiamo che tutto il tempo che abbiamo vissuto è un tempo che
non abbiamo più; così a nostra insaputa la vita si consuma, sebbene
noi la misuriamo dal tempo che è passato via. E non pensiamo quanto
sia incerto quant’altro tempo ci voglia concedere colui che ci ha
mandato a fare questo viaggio e quando ci aprirà le porte d’ingresso
alla dimora stabile e che dobbiamo tenerci sempre pronti a partire di
qua. Ci dice, però: "Tenete
la corda ai fianchi e la lucerna accesa siate simili ai servi che
aspettano il ritorno del padrone e si tengono pronti, in modo che gli
possano aprire, appena bussa"
(Lc
12,35-36)...
Tralasciamo le cose inutili e curiamo le cose che sono veramente
nostre. Ma quali sono le cose veramente nostre? L’anima, per la
quale viviamo e che è intelligente e il corpo, che il Creatore ci ha
dato come veicolo per passar la vita. Questo è l’uomo, una mente
in una carne complementare. Questo vien fatto dal Creatore nel seno
materno. Questo viene alla luce col parto. Questo è destinato a
dominare sulle cose terrene. Le creature gli sono sottoposte, perché
eserciti la virtù. Gli è data una legge, perché rassomigli al suo
Creatore e porti sulla terra un segno della disciplina del cielo. Di
qui viene. Questo è chiamato al tribunale di Dio, che lo ha mandato;
è chiamato in giudizio, riceverà la mercede di ciò che fa nella
vita. E le virtù saranno cosa nostra, se saranno diligentemente fuse
con la natura; e non ci abbandonano, se non le cacciamo con i vizi, e
ci vanno innanzi alla gloria futura e mettono tra gli angeli chi le
coltiva e splendono eternamente sotto gli occhi del Creatore. Le
ricchezze invece e i titoli e la gloria e i piaceri e tutta la turba
di queste cose che crescono ogni giorno per la nostra insipienza, non
vennero alla vita con noi e non ci accompagnano all’uscita; ma in
ogni uomo rimane fisso e certo, ciò che fu detto dal giusto: "Sono
uscito nudo dal seno di mia madre e nudo tornerò"
(Jb
1,11).
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