venerdì 28 luglio 2017

C’è chi dà la vita per avere un tesoro, oggi Cristo ci offre il tesoro della vita.

Rito Romano
XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 30 luglio 2017



Rito Ambrosiano
Domenica VIII dopo Pentecoste


1) Il Tesoro della vita
Il Vangelo di questa domenica ci propone la parte finale del capitolo 13 del Vangelo di San Matteo, in cui sono narrate le parabole che paragonano il Regno di Dio a un tesoro, a una pietra preziosa e a una rete gettata nel mare che raccoglie ogni tipo di pesce.
Mentre, la parabola della rete ci ripete che il momento del giudizio è alla fine dei tempi e c’è un tempo dedicato alla penitenza, le parabole del tesoro e della perla ci ricordano la necessità di fare uso anche delle ricchezze terrene pur di poter entrare nel regno dei cieli e gioire di questa appartenenza. Questi due brevi racconti ci insegnano soprattutto che Gesù, il Salvatore dell’uomo, viene per offrire ad ogni uomo che geme e soffre per il suo domani, il vero tesoro, la vera perla che assicura la felicità: il regno di Dio. Il Regno di Dio vale più delle cose, più della vita. Ha un valore primario per cui si deve essere pronti a sacrificare ogni altra realtà. Il Signore, la sua amicizia, il suo amore, la salvezza eterna sono il tesoro che nessuno può rubarci dicendo che c’è chi dà la vita per un tesoro e, oggi, Cristo si offre a noi come tesoro della vita: sappiamolo scegliere.
In effetti, con le due brevi parabole del tesoro nascosto nel campo e della perla di inestimabile valore il Messia insegna due cose.
La prima è che il Regno richiede una scelta decisa e rapida: come quella dell’uomo che subito vende tutti i suoi averi per comprare il campo con il tesoro, o come un mercante che, senza perdere tempo vende tutto quello che ha per acquistare una perla di valore eccezionale.
La seconda è che la scelta, che implica un distacco totale, scaturisce dall’aver trovato qualcosa di valore inestimabile. E’ questo l'insegnamento vero della parabola. Il motivo che spinge il discepolo a lasciare è la gioia di aver trovato il tesoro della vita Il motivo della gioia è esplicito nella parabola dell'uomo che compra il campo: “Poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi”. Il Regno di Dio è esigente, ma trovato è il centuplo e la vita eterna.
Mi spiego meglio. Le due parabole descrivono due figure diverse: la prima ci racconta di un contadino che lavora in un campo che non è suo, la seconda ci parla di un mercante che è davvero molto ricco. Ma, secondo me, questi due personaggi sono i protagonisti soltanto in superficie. I veri protagonisti sono il tesoro e la perla, che seducono di due uomini, affascinandoli. Il contadino e il mercante agiscono, perché totalmente “afferrati” dal tesoro e dalla perla, in cui si sono imbattuti. Se riconosciamo che la perla preziosissima, il tesoro inestimabile è Cristo ed il suo Regno, capiamo anche che il Redentore non dice una cosa ovvia: è ovviamente un vero affare comperare qualcosa che ha una valore superiore a quelle che paghiamo. E’ straordinario che con l’offerta di quello abbiamo non solo abbiamo di più, ma siamo di più: figli di Dio, perché abbiamo “guadagnato” il tesoro della vita: Cristo. In questo caso non è solo un colpo di fortuna, è una grazia stupenda alla quale corrispondere con pronta decisione ed abbandono totale.


2) Il vero guadagno
Un esempio di questa decisione e di questo abbandono di ciò che si ha ci viene da San Paolo. Questi scrive: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”(Fil 3,8). Questa espressione: “Guadagnare Cristo” presenta qualche stranezza. In genere si dice di guadagnare qualcosa, o anche guadagnare un traguardo, ma non una persona. Se prestiamo attenzione al verbo greco "katalambàno" possiamo forse riconoscere in esso una nota di aggressività, quasi di prepotenza. Tant’è che alcuni traducono:  “Continuo la mia corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch’io sono stato afferrato da Cristo Gesù” (Fil 3, 12).
Sinceramente parlando, mi piace questa interpretazione del verbo scelto da Paolo, perché indica che per essere cristiani ci vuol della forza di carattere: la violenza che egli ha sfogato contro i cristiani e contro Cristo prima della sua conversione ora Paolo la mette a servizio della verità. Non è forse vero che anche Gesù ebbe a dire:  “Dai giorni di Giovanni il Battista il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11, 12)?
Nel brano di lettera ai Filippesi che ho citato poco sopra, l’Apostolo delle Genti riconosce di essere caduto in un tremendo errore; si rende conto di aver sposato una causa sbagliata. Ora lui, illuminato da quella stessa luce che in un primo momento lo aveva accecato, confessa che quello era un falso guadagno, anzi un guadagno dannoso, alludendo ovviamente ad ogni privilegio di nascita e di educazione, ad ogni sforzo religioso e morale.
In questa rilettura della conversione di Paolo vediamo il frutto della grazia che guarisce, sprigionandosi dall’evento della passione e morte di Gesù, ma vi possiamo riconoscere anche l’azione della grazia illuminante che può venire solo dall’evento della risurrezione di Cristo, dalla persona di Cristo risorto. L’essere stato violentemente scaraventato da cavallo a terra è solo un pallido segno della vittoria pasquale che Gesù ha riportato su San Paolo. Il suo incontro con Cristo sulla via di Damasco   lo ha portato a formulare una nuova scala di valori, sovvertendo quella che precedentemente aveva caratterizzato la sua vita:  ciò che sembrava guadagno ora è diventato perdita, quello che sembrava ricchezza ora è diventato spazzatura, quello che sembrava giusto ora è diventato ingiusto.
All’esperienza di San Paolo possiamo certamente accostare anche la nostra. In un momento della nostra vita, tutti siamo sollecitati dalla parola di Dio, tutti abbiamo incontrato Cristo che ci ha chiamati ad entrare in questo dinamismo della fede che salva e che è –prima di tutto- dono che scaturisce dal cuore di Dio e dal costato di Cristo. In un bel momento della nostra vita Cristo si è fatto incontro a ciascuno di noi.
La conseguenza che ne deriva è che un cristiano, per poter dire di essere tale fino in fondo, per poter dire di essersi formato alla scuola di Gesù, deve riprodurre in se stesso le fattezze di Cristo crocifisso, addirittura deve assomigliare a Gesù morto.
E per fare questo non dobbiamo essere persone eccezionali. Dobbiamo avere una sola pretesa: quella dell’umiltà crocifissa, come quella di San Paolo, che – presentandosi ai cristiani di Corinto - avanzò un’unica pretesa:  “Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo e Cristo crocifisso”. E per non predicare a vuoto aggiunge:  “Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione” (1 Cor 2, 2-3).
L’importante è proporre agli altri quello che abbiamo sperimentato su noi stessi, senza sottrarci al “comando dell’amore” che ci vincola fino al dono totale di noi stessi.
Una sintesi stupenda di tutto questo itinerario di ascesi al Regno, di questo esodo verso la Casa del Padre ci è data sempre da San Paolo, quando scrive:  “Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so:  dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù” (Fil 3, 13-14).

3) Il “guadagno” delle vergini consacrate.
Tuttavia, qualcuno potrebbe obiettare: se l’Apostolo delle Genti era completamente affascinato dal suo Signore. perché avrebbe dovuto sentire la necessità di “guadagnare” Cristo?
Cristo gli si era già rivelato chiaramente e gli aveva sconvolto la vita, riempiendola di gioia. Eppure, nonostante ciò, Paolo si sentiva “costretto” a guadagnare il cuore e l’amore di Cristo.  L’intero essere di Paolo – il suo ministero, la sua vita e lo scopo intrinseco di essa – tutto era incentrato solo sul desiderio di piacere al suo Maestro e Signore.  Tutto il resto era spazzatura per lui, persino le cose “buone”.
Perché “occorre” guadagnare il cuore di Gesù? Non siamo già l’oggetto dell’amore di Dio?
In effetti, il Suo amore benevolo si estende a tutta l’umanità. Ma c’è un altro tipo d’amore che deve sempre crescere e “guadagnare” l’amato. E’ l’amore affettuoso per Cristo, simile a quello che c’è tra marito e moglie. Questo amore è espresso in modo sublime nel Cantico dei cantici. In questo libro, lo Sposo è ritratto come un tipo di Cristo, ed in un passo il Signore parla della Sua sposa così: Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto è soave il tuo amore, sorella mia, mia sposa, quanto più inebriante del vino è il tuo amore” (Ct 4, 9-10).
La Sposa di Cristo è la Chiesa, che brama piacere al suo Signore. Nella Chiesa questa sponsalità è vissuta e testimoniata in modo speciale dalle vergini consacrate, che sono chiamate a vivere l’amore a Cristo in obbedienza amorosa e confidente, separandosi da tutte le cose terrene, perché il loro cuore è rapito da Cristo. Dicendo sì a Cristo si sono lasciate “rubare il cuore” da Lui e sono chiamate a concentrarsi solamente su di Lui e, in Lui, amano il prossimo, servendolo con gioia.


Lettura Patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354 – 407)
In Matth. 47, 2


Stimare il Vangelo al di sopra di tutto

       "
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo: l’uomo che l’ha trovato, lo nasconde di nuovo e, fuor di sé dalla gioia, va, vende tutto quanto possiede, e compra quel campo. Inoltre il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra" (Mt 13,44-46). Come le due parabole del granello di senape e del lievito non differiscono molto tra di loro, così anche le parabole del tesoro e della perla si assomigliano: sia l’una che l’altra fanno intendere che dobbiamo preferire e stimare il Vangelo al di sopra di tutto. Le parabole del lievito e del chicco di senape si riferiscono alla forza del Vangelo e mostrano che esso vincerà totalmente il mondo. Le due ultime parabole, invece, pongono in risalto il suo valore e il suo prezzo. Il Vangelo cresce infatti e si dilata come l’albero di senape ed ha il sopravvento sul mondo come il lievito sulla farina; d’altra parte, il Vangelo è prezioso come una perla, e procura vantaggi e gloria senza fine come un tesoro.

       Con queste due ultime parabole noi apprendiamo non solo che è necessario spogliarci di tutti gli altri beni per abbracciare il Vangelo, ma che dobbiamo fare questo atto con gioia. Chi rinunzia a quanto possiede, deve essere persuaso che questo è un affare, non una perdita. Vedi come il Vangelo è nascosto nel mondo, al pari di un tesoro, e come esso racchiude in sé tutti i beni? Se non vendi tutto, non puoi acquistarlo e, se non hai un’anima che lo cerca con la stessa sollecitudine e con lo stesso ardore con cui si cerca un tesoro, non puoi trovarlo. Due condizioni sono assolutamente necessarie: tenersi lontani da tutto ciò che è terreno ed essere vigilanti. "
Il regno dei cieli" - dice Gesù -"è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; e trovata una perla di gran valore, va, vende tutto ciò che possiede e la compra" (Mt 13,45-46). Una sola, infatti, è la verità e non è possibile dividerla in molte parti. E come chi possiede la perla sa di essere ricco, ma spesso la sua ricchezza sfugge agli occhi degli altri, perché egli la tiene nella mano, - non si tratta qui di peso e di grandezza materiale, - la stessa cosa accade del Vangelo: coloro che lo posseggono sanno di essere ricchi, mentre chi non crede, non conoscendo questo tesoro, ignora anche la nostra ricchezza.
       A questo punto, tuttavia, per evitare che gli uomini confidino soltanto nella predicazione evangelica e credano che la sola fede basti a salvarli, il Signore aggiunge un’altra parabola piena di terrore. Quale? La parabola della rete. "Parimenti il regno dei cieli è simile a una rete che, gettata nel mare, raccoglie ogni sorta di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e, sedutisi, ripongono in ceste i buoni, buttando via i cattivi" (Mt 13,47-48). In che cosa differisce questa parabola da quella della zizzania? In realtà anche là alcuni uomini si salvano, mentre altri si dannano. Nella parabola della zizzania, tuttavia, gli uomini si perdono perché seguono dottrine eretiche e, ancor prima di questo, perché non ascoltano la parola di Dio; mentre coloro che sono raffigurati nei pesci cattivi si dannano per la malvagità della loro vita. Costoro sono senza dubbio i più miserabili di tutti, perché, dopo aver conosciuto la verità ed essere stati presi da questa rete spirituale, non hanno saputo neppure in tal modo salvarsi.



venerdì 21 luglio 2017

Il Regno di Dio paziente e misericordioso

Rito Romano
XVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 23 luglio 2017
Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43


Rito Ambrosiano

Gs 4,1-9; Rm 3 29-31; Lc 13,22-30

Domenica VII dopo Pentecoste


1) La crescita del Regno.
Tre sono le parabole che in questa domenica il Vangelo ci fa meditare: quella del grano e della zizzania, quella del granellino di senape, e infine quella del lievito.
Queste tre parabole raccontano l’amore con cui Dio cura tutte le cose; della sorprendente iniziativa Divina che con “giustizia” e “mitezza” tiene nel palmo della sua mano la vita dell’uomo.
Il Regno dei Cieli sempre viene, vince e si afferma se, con umiltà, l’uomo si lascia guidare da Dio che dona ai suoi figli «la buona speranza», che rende il cuore umano, seppur piccolo, capace di contenere tutta la Grazia e di tendere al Regno celeste
Per descrivere il Regno dei Cieli, Gesù ci presenta tre immagini, che hanno in comune il verbo “crescere”: il grano buono e la zizzania “crescono” insieme per poi essere separati, il granello di senape “cresce” per diventare un grande albero, il pugno di lievito nella farina fa crescere la massa della pasta. 
Quindi, una delle caratteristiche del Regno dei Cieli è quella di non essere qualcosa di statico, ma di dinamico, destinato a “crescere” ogni giorno e in ogni circostanza.
  La parabola del granellino di senape che diventa un albero indica la “crescita” del Regno di Dio sulla terra. Sulla bocca di Gesù questa era anche una temeraria profezia. Chi poteva immaginare, poco meno di duemila anni fa, che il Vangelo predicato in villaggi sconosciuti al resto del mondo a povera gente, non istruita e con lavori umili quali quello del contadino e del pescatore avrebbe in poco tempo conquistato il mondo? Anche la parabola del lievito nella farina significa la “crescita” del Regno, non tanto però in estensione, quanto in intensità; indica la forza trasformatrice del vangelo che come lievito fa “crescere” la farina e la prepara a diventare pane.
Queste due parabole furono comprese facilmente dai discepoli, non così la terza, del grano e della zizzania, che Gesù fu costretto a spiegare loro a parte. Il seminatore –disse il Messia- era lui stesso, i figli del regno sono il seme buono, i figli del maligno sono la zizzania, il campo è il mondo e la Chiesa, che è il pezzo di mondo salvato, e la mietitura è la fine del mondo, quando “i giusti splenderanno come il sole nel Regno del Padre loro”. Gregorio Palamas commenta: “I servi del Padre si accorsero che c’era la zizzania nel campo, che cioè gli empi e i cattivi erano mescolati ai buoni e vivevano insieme con loro, persino nella Chiesa di Cristo. Dissero al Signore : ‘Vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania ?’, in altri termini : ‘vuoi che togliamo questa gente dalla terra facendola morire ?’ ... Col tempo, molti empi e peccatori, nel vivere insieme con uomini pii e giusti giungono al punto di pentirsi e di convertirsi ; si mettono alla scuola della pietà e della virtù, e smettono di essere zizzania per diventare grano. Così gli angeli, afferrando di forza tali uomini prima che potessero pentirsi, rischiavano di sradicare il grano, raccogliendo la zizzania. Per di più, ci sono spesso stati uomini di buona volontà fra i figli e i discendenti dei cattivi. Per questo, colui che sa ogni cosa prima che succeda non ha permesso che la zizzania fosse sradicata prima il momento opportuno” (Omelia 27, PG 151, 345-353). Dunque se vogliamo essere salvati dal castigo alla fine del mondo ed ereditare il Regno eterno di Dio dobbiamo essere grano e non zizzania, astenendoci da ogni parola vana o cattiva, esercitandoci nelle varie virtù e producendo veri frutti di penitenza. In questo modo diventeremo degni del granaio celeste, e saremo chiamati figli del Padre, l'Altissimo, e, lieti e risplendenti della gloria divina, entreremo come eredi nel Regno celeste.

2) La Pazienza di Dio.
Credo che il tema più importante della parabola sia la pazienza di Dio. La liturgia di questa domenica lo sottolinea con la scelta della prima lettura che è un inno alla forza di Dio che si manifesta sotto forma di pazienza: “Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento” (Sap 12, 16-19).
La pazienza di Dio non è un semplice aspettare, è longanimità, misericordia, volontà di salvare. “Non sai che la pazienza di Dio ti spinge alla conversione?” (Rm 2, 4). Lui è davvero, “un Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore” (Sal 85, salmo responsoriale della Messa di oggi).
Dunque, nel Regno di Dio non c’è posto perciò per servi impazienti che non sanno far altro che invocare i castighi di Dio e indicargli di volta in volta chi deve colpire. Gesù un giorno rimproverò due discepoli che gli chiedevano di far piovere fuoco dal cielo su coloro che li avevano rifiutati.
Imitare la pazienza di Dio non implica che dobbiamo aspettare la mietitura come quei servi trattenuti a fatica perché pronti ad agire con la falce in pugno, quasi fossimo ansiosi di vedere la faccia dei malvagi nel giorno del giudizio.
Questa pazienza non implica neppure che dobbiamo rimanere a braccia conserte e senza far niente, ma anzi dobbiamo lavorare con impegno a cambiare noi stessi e, per quanto ci è possibile, gli altri da zizzania in buon grano. In questo modo sarà esaudita la preghiera d’inizio della Messa di oggi: “Ci sostenga sempre, o Padre, la forza e la pazienza del tuo amore; fruttifichi in noi la tua parola, seme e lievito della Chiesa, perché si ravvivi la speranza di veder crescere l’umanità nuova, che il Signore al suo ritorno farà splendere come il sole nel tuo regno” (Colletta della XVI Domenica del Tempo Ordinario, Anno A).

3) Verginità e pazienza.
 Siamo tutti frutto della pazienza misericordiosa di Dio. In essa siamo nati, custoditi, accompagnati. Nella sua pazienza abbiamo conosciuto le insondabili possibilità di male del nostro cuore ingannato, e le infinite possibilità di amore dello stesso cuore ricolmo di Spirito Santo.
Cristo è il “segno” più alto della pazienza di Dio, che per primo è paziente, costante, fedele al suo amore verso di noi. Lui è il vero “agricoltore” della storia, che sa attendere.
Dalla torre di Babele in poi, troppe volte gli uomini hanno tentato di costruire il mondo da soli, senza o contro Dio. Il risultato è stato sempre contro l’uomo.
La perseveranza paziente nella costruzione della storia, sia a livello personale che comunitario, non si identifica con la tradizionale virtù della prudenza, di cui certamente si ha bisogno, ma è qualcosa di più grande e più complesso e, al tempo stesso, è qualcosa di umile e semplice.
Con la perseverante fedeltà ai loro “proposta” le vergini consacrate ci testimoniano che essere costanti e pazienti nel vivere la vocazione alla verginità contribuiscono a costruire la storia del mondo, perché solo edificando su di Lui e con Lui la costruzione è ben fondata, non è strumentalizzata per fini ideologici, ma è veramente degna dell’uomo.
La semplice vita di queste donne consacrate è una risposta alla chiamata all’umiltà e alla misericordia che si sprigiona dalla parabola evangelica del grano e della zizzania, ed una testimonianza che noi tutti possiamo mettere in pratica ogni giorno. La verginità consacrata fa di queste donne delle spose di Cristo, il cui amore paziente e misericordioso è riflesso nella loro persona e nella loro vita. Esse sono il terreno particolarmente fertile, che accoglie Gesù Cristo il quale è stato solamente grano senza zizzania. Lui è quel chicco di grano che un giorno cadde in terra, morì e fu sepolto. Nell’Eucaristia quel chicco, divenuto pane, viene a noi per farci “frumento di Dio” verginalmente consacrato.



Lettura Patristica
San Giovanni Crisostomo (344/354  407)
In Matth. 46, 1

       “Considerate, invece, l’affettuoso interessamento dei servitori verso il loro padrone. Essi si sarebbero già levati per andare a sradicare la zizzania, anche se in tal modo non avrebbero agito in modo discreto e opportuno. Questo tuttavia mostra la loro cura per il buon seme e testimonia che il loro unico scopo non sta nel punire il nemico - non è questa la necessità più urgente - ma nel salvare il grano seminato. Essi perciò cercano il mezzo per rimediare rapidamente al male fatto dal diavolo. E neppure questo vogliono fare a caso, non s’arrogano infatti questo diritto, ma attendono il parere e l’ordine del padrone. "
Vuoi, dunque, che andiamo a raccoglierla?" (Mt 13,28) - gli chiedono. Cosa risponde il padrone? Egli vieta loro di farlo, dicendo che c’è pericolo, nel raccogliere la zizzania, di sradicare anche il grano. Parla così per impedire le guerre, le uccisioni, lo spargimento di sangue.”

Origene (185 - 254)
In Matth. 10, 2

Ma, mentre dormono coloro che non praticano il comando di Gesù che dice: "Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione" (Mt 26,41 Mc 14,38 Lc 22,40), il diavolo, che fa la posta (1P 5,8), semina quella che viene detta la zizzania, le dottrine perverse, al di sopra di ciò che alcuni chiamano i pensieri naturali, e al di sopra dei buoni semi venuti dal Logos. Secondo tale interpretazione, il campo designerebbe il mondo intero e non solamente la Chiesa di Dio; infatti è nel mondo intero che il Figlio di Dio ha seminato il buon seme e il cattivo la zizzania (Mt 13,37-38), cioè le dottrine perverse che, per la loro nocività, sono «figlie del maligno». Ma ci sarà necessariamente, alla fine del mondo, che vien detta «la consumazione del secolo», una mietitura, perché gli angeli di Dio preposti a tale compito raccolgano le cattive dottrine che si saranno sviluppate nell’anima e le consegnino alla distruzione, gettandole, perché brucino, in quello che viene definito fuoco (Mt 13,40). E così, «gli angeli», servitori del Logos, raduneranno «in tutto il regno» di Cristo, «tutti gli scandali» presenti nelle anime e i ragionamenti «che producono l’empietà», e li distruggeranno gettandoli nella «fornace di fuoco», quella che consuma (Mt 13,41-42) così del pari coloro che prenderanno coscienza che, poiché hanno dormito, hanno accolto in sé stessi i semi del cattivo, piangeranno e saranno, per così dire, in collera con sé stessi. Sta in ciò, in effetti, "lo stridor di denti" (Mt 13,42), ed è anche per questo che è detto nei Salmi: "Hanno digrignato i denti contro di me" (Ps 35,16). È soprattutto allora che "i giusti brilleranno", non tanto in modo diverso, come agli inizi, bensì tutti alla maniera di un unico "sole, nel regno del Padre loro" (Mt 13,43).


venerdì 14 luglio 2017

Ascoltare la Parola per concepirla

Rito Romano
XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 16 luglio 2017
Is 55,10-11; Sal 64; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23


Rito Ambrosiano

Es 33,18-34,10; Sal 76 (77); 1Cor 3,5-11; Lc 6,20-31

Domenica VI dopo Pentecoste


1) Ascoltatori della Parola.
Nel Vangelo di questa domenica Gesù racconta la parabola del seminatore, che continua a seminare nel cuore degli uomini perché ha fiducia in noi. Lui sa che prima o poi l’uomo aprirà le orecchie, gli occhi e il suo cuore all’ascolto e inizierà una vita nella condivisione perenne con Lui, la Parola che ci dice parole efficaci di vita eterna.
Va però tenuto presente che l’efficacia di questa parola è tale quando l’uomo la ascolta, la comprende e agisce di conseguenza. Quindi per avere tutto il nostro essere aperto all’ascolto della parola di Gesù e diventare ascoltatori docili e disponibili della Parola che salva, facciamo nostra questa preghiera: “Fa’, o Signore, che ascolti con attenzione e ricordi costantemente il tuo insegnamento, che lo metta in pratica con forza e coraggio, disprezzando le ricchezze e allontanando tutte le inquietudini della vita mondana...Fa' che mi fortifichi da ogni parte e mediti le tue parole mettendo profonde radici e purificandomi da tutti gli attacchi mondani» (San Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo secondo San Matteo 44,3-4).
Se, quali ascoltatori della Parola, oggi andremo da Cristo lo ascolteremo parlarci da una barca. Nel Vangelo di oggi il Signore ci parla da una barca. La sua cattedra è un Legno che solca le acque, immagine della Croce, dalla quale dal giorno della sua passione è maestro di tutte le nazioni et attira ogni persona a sé.
Se, navigheremo nel mare della vita attaccati al legno della Croce, il Vangelo di oggi risuonerà in noi con grande efficacia e la Croce ci farà cogliere il senso più profondo di quanto Cristo dice a noi peccatori, salvati dalle acque del male.
Se siamo veri ascoltatori della Parola, dobbiamo ascoltare in modo non ingenuo come chi aspetta da Cristo qualcosa che risolva i problemi contingenti, che riordini la vita secondo i piccoli desideri umani e non secondo il cuore che desidera l’infinito. Chi non è maturo accoglie con gioia la Parola ma, per la fretta di sistemare la propria vita, non si accorge che essa è crocifissa e che crocifigge in Cristo chi la accoglie. Le parole del Redentore sono parole di vita perché, attraverso la Croce, purificano da ogni opera morta e uniscono al Signore Gesù, a Cristo e Cristo Crocifisso, Parola di amore e di verità. Questa Parola ha bisogno di un luogo (il nostro cuore), ha bisogno di scendere in fondo, e, lì, morire, come un seme, per mettere radice, per crescere e germogliare, e resistere dinnanzi alle bufere e alle intemperie, come una casa costruita sulla Roccia.
Nella casa costruita sulla roccia, la Parola non è soffocata dalle preoccupazioni, e può crescere perché ha spazio e aria. In essa il cuore non è dissipato nelle cose del mondo si fa grande,, magnanimo e ospitale. L’ascolto maturo e sincero impedisce l’adulterio del cuore che è proprio quello che ha reso così difficile la storia del popolo di Israele, che ha impedito alla Parola dell’Alleanza di compiersi. La carne, la corruttibilità di questo mondo ha reso impossibile il compiersi della Legge.
La Parola della Croce è stoltezza e scandalo per gli intelligenti e i sapienti di questo mondo. Non la comprendono, ascoltano ma è come se non ascoltassero. I criteri sono altri, la propria giustizia, le proprie opere, gli scribi e i farisei che “non possono” ascoltare la Parola di Gesù presi come sono da se stessi, dai propri pregiudizi, dalla presunzione d’aver capito bene come si vive, di aver individuato quali sono gli atteggiamenti giusti per vivere bene. Pensano che sia un problema di buon senso e di buon cuore. Invece è una questione di cuore e di senso della vita intesa come direzione e significato della vita secondo la mente e il cuore di Cristo
Questa è la realtà. La verità. Se non siamo convertiti. siamo tutti questi terreni di cui parla il Vangelo di oggi. Questi terreni rendono difficile se non impossibile il rapporto fra la Parola e la nostra vita. Ma il Vangelo di oggi è davvero una Buona lieta Notizia. Il Signore ci dice che siamo beati, perché vediamo e ascoltiamo quello che i profeti non hanno visto e né udito. Siamo beati perché ci è stato svelato il mistero del Regno di Dio, Amore misericordioso e provvidente.


2) La veginità e la concezione della Parola.
La parola che Cristo semina in noi si scontra spesso con l’aridità del nostro cuore e, anche quando viene accolta, rischia di rimanere sterile. Di conseguenza, dobbiamo domandare a Dio la grazia, che libera il terreno del nostro cuore, lo libera dalla pigrizia, dalle incertezze e da tutti i timori che possono frenarlo. In questo modo la Parola del Signore sarà messa in pratica, in modo autentico e gioioso.
Il cuore di ognuno di noi il campo della fede. Ed è nella nostra vita quotidiana che il Redentore chiede di entrare con la sua Parola, con la sua presenza.
La cosa da fare e vero pericolo nella vita è non rendersi conto della realtà, entrandovi con umiltà che ci fa riconoscere che siamo strada, sassi e spine. La nostra carne è incapace –da sola- di avere la vita che dura. Per questo, Dio ha mandato il Suo unico Figlio, con una carne simile alla nostra perché facesse di noi la terra fertile capace di accogliere la Parola di salvezza e di farla germogliare nel mondo.
La Croce ha arato la carne del Signore, i chiodi e le spine, la lancia e l’aceto hanno dissodato perfettamente la “terra” di Cristo. Per questo, nella nostra Croce di ogni giorno vi è la nostra vita redenta. Le ferite fisiche o spirituali che subiamo ogni giorno, se messe sulla Croce, diventano le porte attraverso le quali la Parola di Dio può entrare in noi. Quando condividiamo l’amore crocifisso di Gesù la sua Parola scende in noi, penetra fino in fondo, vi mette radici e dà frutti abbondanti in ogni situazione. La Parola crocifissa da i frutti della Croce: l’amore e la misericordia, le piaghe gloriose del Signore, sangue e acqua, vita e vita eterna.
Un esempio di questo amore crocifisso ci è dato dalle vergini consacrate, la cui dedizione diventa feconda a partire dall’ascolto. Queste donne ci testimoniano quanto sia saggio vivere una vita dedicata alla ricerca di Dio a partire dall’ascolto che inizia ad essere feconda nell’annuncio della sua Parola. “Faciem tuam, Domine, requiram: il tuo volto, Signore, io cerco (Sal 26,8) … La vita consacrata è nel mondo e nella Chiesa segno visibile di questa ricerca del volto del Signore e delle vie che conducono a Lui (cfr Gv 14,8) … La persona consacrata testimonia dunque l’impegno, gioioso e insieme laborioso, della ricerca assidua e sapiente della volontà divina” (cfr Cong. per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Istruz. Il servizio dell’autorità e l’obbedienza. Faciem tuam Domine requiram, 11 maggio 2008, n. 1).
Essendo ascoltatrici assidue della Parola, acquisiscono la sapienza, perché ogni sapienza di vita nasce dalla Parola del Signore. Il magistero pontificio le invita ad essere scrutatrici della Parola, attraverso la lettura frequente della Bibbia, la lectio divina, poiché la vita consacrata “nasce dall’ascolto della Parola di Dio ed accoglie il Vangelo come sua norma di vita. Vivere nella sequela di Cristo casto, povero ed obbediente è in tal modo una «esegesi» vivente della Parola di Dio. Lo Spirito Santo, in forza del quale è stata scritta la Bibbia, è il medesimo che illumina di luce nuova la Parola di Dio ai fondatori e alle fondatrici. Da essa è sgorgato ogni carisma e di essa ogni regola vuole essere espressione, dando origine ad itinerari di vita cristiana segnati dalla radicalità evangelica” (Esort. ap. postsinodale Verbum Domini, 83),



Lettura Patristica
Sant’Efrem, il Siro
Diatessaron, 11, 12-15.17 s.



       Il seminatore è unico ed ha sparso la sua semente in modo equo, senza fare eccezione di persone; ma ogni terreno, da se stesso, ha mostrato il suo amore con i propri frutti. Il Signore manifesta così con la sua parola che il Vangelo non giustifica per forza, senza il consenso della libertà; le orecchie sterili che egli non ha privato della semente delle sue sante parole ne sono la prova.
       "La semente cadde sul bordo della strada" (Mt 13,19), ecco una cosa che è l’immagine stessa dell’anima ingrata, di colui che non ha fatto fruttificare il proprio talento ed ha disprezzato il proprio benefattore (Mt 25,24-30). La terra che aveva tardato ad accogliere il suo seme, è divenuta luogo di passaggio per tutti i malintenzionati; così non vi fu più posto in essa per il padrone, perché vi potesse entrare da lavoratore, ne potesse rompere la durezza e spargervi il suo seme. Nostro Signore ha descritto il maligno sotto i tratti degli uccelli, poiché il maligno ha portato via il seme (Mt 13,19). Egli ha voluto indicare così che il maligno non prende per forza la dottrina che è stata distribuita nel cuore. Nell’immagine che egli ha proposto, ecco che in effetti la voce del Vangelo si pone alla porta dell’orecchio, come il grano alla superficie di una terra che non ha nascosto nel suo seno ciò che è caduto su di essa; infatti non è stato permesso agli uccelli di penetrare nella terra alla ricerca di quel seme che la terra aveva nascosto sotto le sue ali.
       "E quella parte che era caduta sui sassi" (Mt 13,20); Dio che è buono manifesta così la sua misericordia; quantunque la durezza della terra non fosse stata rotta dal lavoro, nondimeno egli non l’ha privata del suo seme. Questa terra rappresenta coloro che si estraniano dalla dottrina di Nostro Signore, come quei tali che hanno detto: "Quella parola è dura; chi può intenderla?" (Jn 6,60). E come Giuda; infatti egli ha ascoltato la parola del Maestro ed ha messo i fiori per l’azione dei suoi miracoli, ma al momento della tentazione, è divenuto sterile.
       Il terreno spinoso (Mt 13,22), nonostante il grano ricevuto, ha ceduto la propria forza ai rovi e agli spini. Buttando audacemente il suo seme su una terra ribelle al lavoro altrui, il padrone ha manifestato la sua carità. Nonostante il predominio dei rovi, egli ha sparso a profusione il suo seme sulla terra, perché essa non potesse avere scusanti...
       La terra buona e ubertosa (Lc 8,8) è immagine delle anime che agiscono secondo verità, alla maniera di coloro che sono stati chiamati ed hanno abbandonato tutto per seguire Cristo.
       Nonostante una volontà unanimemente buona che ha ricevuto con gioia il seme dei beni, la terra buona e ubertosa produce in modi diversi, dove «il trenta», dove «il sessanta», dove «il cento»; tutte le parti della terra fanno crescere secondo il proprio potere e nella gioia, alla stregua di coloro che avevano ricevuto "cinque talenti" e ne hanno guadagnati "dieci, ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-30). Colui che rende «il cento» sembra possedere la perfezione dell’elezione; egli ha ricevuto il sigillo di una morte offerta in testimonianza per Dio. Quelli che rendono «il sessanta», sono coloro che sono stati chiamati e che hanno abbandonato il proprio corpo a dolorosi tormenti per il loro Dio, ma non sono arrivati al punto di morire per il loro Signore; tuttavia restano buoni fino alla fine. «Il trenta», è la misura quotidiana della buona terra; sono coloro che sono stati eletti alla vocazione di discepoli e sui quali non si sono levati i tempi della persecuzione; sono tuttavia coronati dalle loro opere buone, proprio come una terra è coronata dal suo frutto, ma non sono stati chiamati al martirio e alla testimonianza della loro fede.


venerdì 7 luglio 2017

Amore e umiltà

Rito Romano
XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 9 luglio 2017

Zc 9, 9-10; Sal 144; Rm 8, 9. 11-13; Mt 11, 25-30



Rito Ambrosiano

Gen 11,31.32b-12,5b; Sal 104; Eb 11,1-2.8-16b; Lc 9,57-62

Domenica V dopo Pentecoste


1) L’importanza di essere piccoli.
Il Vangelo di oggi inizia con queste parole di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Cristo non è contento perché è ascoltato da ignoranti. Lui è nella gioia perché è ascoltato da persone umili. Il Verbo, la Parola fatta carne non condanna la scienza e la sapienza, ma la superbia e la presunzione dell’uomo. In effetti la parola “piccoli” traduce quella greca “nepioi” che vuol dire “infanti”, cioè quelli che non hanno l’uso della parola, come è il caso –soprattutto- dei bambini con pochi mesi di vita.
Ma perché i piccoli, i senza parola sono destinatari privilegiati delle ‘cose del Padre” e sono capaci di capirle? Perché, per imparare a parlare, i senza parola, i piccoli, sono tutto tesi all’ascolto e non sostituiscono la Parola con le parole, che i grandi usano per affermare se stessi e non per lodare Dio.
Quelli che hanno una sapienza fatta di chiacchiere, sono come i ricchi e i potenti di ogni tempo che respingono la novità del regno perché presumono di sapere già chi è Dio, e il loro benessere sociale ed economico li fa illudere di bastare a se stessi, di non aver bisogno di cambiare vita, di non aver bisogno della grazia e del perdono..
In piena sintonia con quanto Gesù ci dice oggi è la Madonna che nel Magnificat dice: “Il mio spirito esulta in Dio, perché ha guardato agli umili (=piccoli), ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote...”.
Come diventare piccoli ed essere come dei bambini? Essendo umili. Il che non vuol dire disprezzarsi, annullarsi o scomparire, ma riconoscere quello che si è cioè: “humus” (=terra). Il riconoscere che si è “terra”, da una parte, vuol dire essere consapevoli che “si è polvere e polvere si ritornerà" - come dice la Bibbia (Gn 3,19). D’altra parte, è riconoscere che questo “humus” è il materiale per ricevere l’alito di Dio, il suo Spirito che infonde la vita a noi come la infuse ad Adamo. E’ quel terreno adatto a ricevere e a far fruttificare il seme della Parola di Dio. Anche i nostri sbagli e perfino i nostri peccati - se riconosciuti: ecco l’umiltà – permettono che diventiamo quel terreno fertile e accogliente per ricevere il dono di Dio, per fare l’incontro decisivo di tutta la vita, quello cioè con la misericordia di Dio. Questo incontro con la sua “misericordia”, cioè con il suo “cuore dato ai miseri”, con il suo amore preferenziale per i piccoli, i poveri, i peccatori permette alle “mani” creative di Dio di plasmare la “creta” del nostro cuore secondo il Suo cuore.


2) L’umiltà di Cristo
Il Vangelo di oggi ci insegna anche che è da Gesù che si impara l’umiltà: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.
Un Santo che ha capito bene l’umiltà di Cristo, è San Francesco. Per il Santo di Assisi Cristo è umiltà. Questo Santo è completamente preso dallo stupore provocato in lui dalla contemplazione del mistero cristiano come mistero di suprema umiltà: l’umiltà del Cristo nella sua nascita, nella sua passione, nell’Eucaristia.
San Francesco d’Assisi ci insegna che Gesù è umile perché vive -in quanto è creatura- nella dipendenza totale della sua volontà umana dalla Volontà divina: “Non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato”. Si può dunque pensare all'umiltà di Gesù in quanto come creatura Egli vive questa eclisse di sé nei confronti del Padre. Ma san Francesco va ancora più in là. L’umiltà in Fran cesco — ed ecco la grande novità, la meravigliosa scoperta di san Francesco — è la stessa rivelazione dell’amore. 
Dio è amore e l’amore non può essere che umiltà. Cristo rivela questa umiltà di Dio incarnandosi e dimorando tra gli uomini come colui che serve. L’umiltà di Cristo rivela l’amore di un Dio che si dona totalmente per l’uomo, per la sua redenzione. Il Figlio di Dio sceglie per se il silenzio, l’ultimo posto: la croce. Si fa “niente” perché l’uomo sia tutto. E ciò accade ancora ogni volta che Cristo si fa presente nella Messa sotto le specie del pane e del vino per farsi cibo e bevanda per noi.
Cristo è umile perché è l’amore che si svuota di sé per donarsi, perché l’amore è dono. Il Figlio di Dio si rivela all'uomo e si fa presente donandosi al punto tale di “perdersi” in ciascuno di noi che Lui ama umilmente e infinitamente. Se possiamo conoscere e capire l’umiltà del Cristo nella sua nascita a Betlemme, nella sua passione e morte, lo possiamo capire, conoscere e farne esperienza soprattutto nell'Eucaristia. Nell’Eucaristia è l’umiltà di un Dio che, amandoci, si annienta e si dona tutto a noi per essere la nostra vita, ora e per l’eternità.


3) Le Vergini consacrate e l’umiltà.
Il Figlio di Dio – umiltà si incarna per essere lo sposo che si dà tutto alla sposa. Il disegno divino si realizza nell’alleanza. Dio si fa uomo per donarsi a tutta l’umanità, a ciascun uomo e donna.
Un esempio eminente di risposta a Cristo umile sposo è quello dello vergini consacrate che a Lui si donano totalmente e sponsalmente, facendo proprio l’insegnamento di Santa Chiara di Assisi che in una sua lettera a Sant’Agnese di Praga scriveva: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro sposalizio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quartaFF, 2901-2903).
La vergini consacrate sono chiamate a vivere l’umiltà di e con Cristo, accettando l’abbassamento, per lasciarsi portare dall’Amore. Attraverso la vita umile sono testimoni credibili di Cristo fino al dono totale di se, diventando ostie” che imitano lunica ostia pura, senza macchia e a Dio gradita, che è Cristo. 
Su questo legame tra verginità e umiltà Sant’Agostino scrisse: “Vi abbiamo esortato con tutta l’energia a tendere verso l’ideale della verginità. Il quale, quanto più è eccellente e divinamente grande, tanto più costituisce un richiamo alla nostra sollecitudine affinché diciamo, sì, qualcosa sulla pregevolissima virtù della castità, ma ancor più ci soffermiamo su quella munitissima dell'umiltà. Difatti, se a coloro che professano la castità viene fatto di paragonarsi con gli sposati, subito si accorgeranno che, secondo la Scrittura, questi sono inferiori a loro per l’opera, per la ricompensa, per la promessa e per il premio. In tal caso si dovranno ricordare di ciò che è scritto: Quanto più sei grande, tanto più umiliati in tutto, e troverai grazia presso Dio. L’umiltà di ciascuna, infatti, deve essere rapportata alla sua grandezza e al conseguente pericolo d'insuperbirsi: poiché la superbia insidia maggiormente colui che si trova più in alto. L’invidia poi segue la superbia come figlia pedissequa: la superbia la genera molto precocemente, anzi, mai si trova senza tale prole e compagna. E così, attraverso questi due mali, la superbia e l'invidia, si rende presente il diavolo. Non per niente infatti proprio contro la superbia, madre dell'invidia, principalmente lotta tutta l'ascesi cristiana. Questa insegna l'umiltà, con la quale si consegue e si custodisce la carità, di cui sta scritto: La carità non è invidiosa. E, come se gli andassimo a chiedere il motivo per cui non è invidiosa, subito aggiunge: La carità non si gonfia. È come se dicesse: Non è invidiosa perché non è superba. Il Maestro dell'umiltà, Cristo, cominciò con l'annientare se stesso prendendo la forma di schiavo, diventando simile agli uomini e, quanto all'aspetto esterno, riscontrato effettivamente come un uomo. Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e morte di croce” (La Santa Virginità, 31)


Lettura Patristica
San Giovanni  Crisostomo
In Matth. 38, 2 s.

 "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e aggravati, e io vi darò sollievo" (Mt 11,28). Non chiama questo o quello in particolare, ma si rivolge a tutti quanti sono tormentati dalle preoccupazioni, dalla tristezza, o si trovano in peccato. «Venite», non perché io voglia chiedervi conto delle vostre colpe, ma per perdonarle. «Venite», non perché io abbia bisogno delle vostre lodi, ma perché ho una ardente sete della vostra salvezza. «Io» - infatti, egli dice - «vi darò sollievo». Non dice semplicemente: io vi salverò, ma ciò che è molto di più: vi porrò in assoluta sicurezza, perché questo è il senso delle parole «vi darò sollievo».
      
"Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e così troverete conforto alle anime vostre; poiché il mio giogo è soave, e il mio peso è leggero" (Mt 11,29-30). Non vi spaventate dunque, quando sentite parlare di «giogo», perché esso è «soave»; non abbiate timore quando udite parlare di «peso», perché esso è leggero. Ma perché, allora, -voi direte, - ha parlato precedentemente della porta stretta e della via angusta? Pare così quando noi siamo pigri e spiritualmente abbattuti. Ma se tu metti in pratica e adempi le parole di Cristo, il peso sarà leggero. È in questo senso che così lo definisce. Ma come si può adempire ciò che Gesù dice? Puoi far questo se tu diventi umile, mite e modesto. Questa virtù è infatti la madre di tutta la filosofia cristiana. Per questo motivo quando egli incomincia a insegnare quelle sue divine leggi, inizia dall’umiltà (Mt 7,14). Egli conferma qui quanto disse allora, e promette che questa virtù sarà grandemente ricompensata. Essa non sarà - dice in sostanza - utile solo agli altri, in quanto voi prima di tutti ne riceverete i frutti, poiché «troverete conforto alle anime vostre». Ancor prima della vita eterna il Signore ti dà già la ricompensa e ti offre la corona del combattimento: in questo modo e col fatto che propone se stesso come esempio, rende accettabili le sue parole.

       Che cosa temi? - sembra dire il Signore. Temi di apparire degno di disprezzo, se sei umile? Guarda a me: considera tutti gli esempi che ti ho dati e allora riconoscerai chiaramente quale grande bene è l’umiltà. Osserva come esorta e conduce con tutti i mezzi i discepoli all’umiltà; dapprima con il suo esempio: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore»; poi con le ricompense che essi otterranno: «troverete conforto alle anime vostre»; con la grazia che egli stesso concederà loro: «io vi darò sollievo»; rendendo dolce e leggero il suo giogo: «poiché il mio giogo è soave, e il mio peso leggero»...
       Se voi, dopo aver sentito parlare di giogo e di peso, ancora tremate e avete paura, ciò non deriva dalla natura stessa delle cose, ma esclusivamente dalla vostra pigrizia; perché se aveste lo spirito pronto e fervoroso tutto vi apparirebbe facile e leggero.


       Ecco perché Cristo, volendo mostrare che anche noi dobbiamo compiere da parte nostra ogni sforzo, evita da un lato di dire soltanto cose gradevoli e facili, e dall’altro di parlare solamente di rinunzie difficili e severe, ma tempera le une cose con le altre. Parla di un «giogo», ma lo definisce «soave»; nomina un «peso», ma aggiunge che è «leggero», affinché non lo si sfugga in quanto eccessivamente pesante, né lo si disprezzi perché troppo leggero.