venerdì 25 maggio 2018

Trinità: Dio è amore


SS. Trinità - Anno B – 27 maggio 2018
 
Rito Romano
Dt 4,32-34.39-40; Sal 32; Rm 8,14-17; Mt 28,16-20

Rito Ambrosiano
Es 33,18-23;34,5-7a; Sal 62; Rm 8,1-9b; Gv 15,24-27

1) Dio è amore.
Oggi celebriamo la Santissima Trinità, di cui i nostri cuori sono dimora.
Il dogma della Trinità non è il frutto di fantasie mitologiche, non è il risultato di astratte meditazioni filosofiche. Non è neppure una fredda formulazione teologica, che offre il pretesto di dire che la Trinità è un mistero così distaccato dalla nostra vita che più di un cristiano si sente tranquillamente autorizzato a ignorarlo. La Trinità è un Mistero grande, che supera la nostra mente, ma che parla profondamente al nostro cuore, perché nella sua essenza altro non è che l’esplicitazione dell’espressione di San Giovanni: “Dio è amore” (1 Gv 4, 8.16).
E’ il cuore che sostiene la mente per credere che Dio
- è Creatore e Padre misericordioso,
- è Figlio Unigenito, eterna Sapienza incarnata, morto e risorto per noi,
- è Spirito Santo che tutto muove, cosmo e storia, verso la piena ricapitolazione finale. Tre Persone che sono un solo Dio perché il Padre è amore, il Figlio è amore, lo Spirito è amore. Dio è tutto e solo amore, amore purissimo, infinito ed eterno.
Rivelando questo il mistero di Dio-Amore, Gesù, il Figlio di Dio, ci ha fatto conoscere il Padre che è nei Cieli, e ci ha donato lo Spirito Santo, l’Amore del Padre e del Figlio. Dunque, “la Trinità è comunione di Persone divine le quali sono una con l’altra, una per l’altra, una nell’altra: questa comunione è la vita di Dio, il mistero d’amore del Dio Vivente” (Papa Francesco).
Oltre che dall’insegnamento del Papa mi faccio aiutare anche da un’immagine presa da Santa Caterina di Siena. Questa grande, santa donna usa un’immagine semplice e illuminante. Quella del pesce che vive e si muove nell’acqua del mare sconfinato. Il pesce vive nell’acqua e dell’acqua, e questa entra in lui; ma questa piccola creatura non sa quanto grande, potente e benefico sia l’elemento in cui lui vive; tuttavia, nel mare il pesce vive, gioca, cresce e si moltiplica.
La stessa cosa, analogamente, accade all’uomo di fronte al Mistero di Dio Trinità. La persona umana è troppo piccola per comprenderlo, tuttavia, per grazia, la vita di Dio scorre in lei, per grazia Dio si piega fino a lei e le parla, con la tenerezza del Padre, con la confidenza del Fratello, con la forza dell’Amore. Pur restando misteriosa, la realtà d’amore del Dio Uni-Trino avvolge l’uomo, che in essa vive e di essa vive. Dunque, la liturgia di questa solennità, mentre ci fa contemplare il mistero stupendo da cui proveniamo e verso il quale andiamo, ci rinnova la missione di vivere la comunione con Dio e di vivere la comunione tra noi sul modello della comunione divina.
Questo implica accogliere e testimoniare concordi la bellezza del Vangelo e vivere uno con l’altro, uno per l’altro, uno del cuore dell’altro. In questo modo rifletteremo lo splendore e l’amore della Trinità e saremo missionari della carità con la forza dell’amore di Dio che abita in noi.
2) La Chiesa pellegrina missionario d’amore.
In effetto il cristiano è per natura sua missionario. Ce lo ricorda anche il Vangelo di questa Solennità della Santissima Trinità. Nella terza lettura (il Vangelo) la Chiesa ci fa ascoltare il brano del Vangelo in cui si racconta di Gesù risorto che appare su un monte ai suoi discepoli e dice: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19 – 20).
Prendiamo sul serio l’invito che Cristo anche oggi ci rinnova, accogliendo e portando nel mondo il Vangelo dell’amore.
In effetti, i cristiani non sono tanto annunciatori di un discorso, quanto di Colui che ha parole di vita eterna nell’Amore.
Il Dio – Amore rivelato da Gesù non è un principio filosofico-teologico da credere, non è il Dio perfettissimo che dal suo freddo isolamento comanda precetti da osservare, non è neppure il “dio” di una religiosità messa a nostro servizio per uscire dai nostri fallimenti, dalle nostre incapacità o dalle nostre paure. Dio è un mistero di relazione, di comunione: un’infinita relazione d’amore, di amore vero, di amore che si dona totalmente. Noi siamo stati creati da questo amore e per amore, “siamo stati creati a immagine della comunione divina” (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 178). Di questa comunione d’amore siamo chiamati ad essere missionari. Questo mistero d’amore è concreto e a noi vicino più di quanto pensiamo, e lo viviamo nella pratica quando, soprattutto nei momenti più importanti o critici in cui abbiamo più bisogno di Dio, facciamo il segno della croce. Segnandoci con questo santo segno, quasi senza esserne pienamente consapevoli, invochiamo Dio Uno e Trino dicendo: “Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo”. Non solo invochiamo Dio Trinità perché ci aiuti, ma Lo lodiamo con la preghiera “Gloria al Padre, e al Figlio e allo Spirito Santo … Amen”, che Santa Teresa di Calcutta, Missionaria della Carità di nome e di fatto, spesso recitava così: “Gloria al Padre–Preghiera, e al Figlio-Povertà, e allo Spirito Santo-Zelo per le anime. Amen-Maria”.


3) La Trinità e la Vergini consacrate.
Santa Teresa d’Avila descrive la comprensione e il valore esistenziale di questo Mistero parlando del suo cammino spirituale che si è sviluppato nella direzione della “tenerezza amorosa”: Cristo l’ha condotta al Padre e l’ha affidata allo Spirito Santo, e Teresa ha “sperimentato” dal vivo il mistero delle tre Persone divine: una persona paterna che l’attrae, l’abbraccia, la conforta, la sollecita; una persona spirituale che la riscalda e l’avvince interiormente; mentre la persona filiale di Cristo continua ad invitare e a preparare Teresa alle nozze mistiche che furono celebrate nel Carmelo di Avila, durante la Messa del 18 novembre 1572.
La vita delle Vergini consacrate nel mondo prosegue nel modo suo proprio l’esperienza di questa grande Santa spagnola. Con dono completo di se stesse nelle mani del Vescovo, queste donne testimoniano in modo speciale la dimensione trinitaria della vita cristiana.
In effetti, la verginità è in qualche modo la deificazione dell’uomo: “Non si può fare miglior elogio della verginità se non mostrando che essa deifica, per così dire, coloro che partecipano ai suoi puri misteri, al punto di farli comunicare alla gloria di Dio, il solo veramente santo e immacolato, ammettendoli nella propria familiarità grazie alla purezza e alla incorruttibilità” (San Gregorio di Nissa, De Virginitate1, 1-2; 256 s.).
La verginità ha dunque origine dalla Trinità e si vive nella Trinità, legata com’è alla generazione del Figlio da parte del Padre, portata come dono agli uomini dal Verbo che viene nel mondo allo stesso modo con cui è generato dal Padre, ossia verginalmente, da una Vergine. È così che nel cristiano la verginità produce effetti analoghi a quelli verificatisi “in Maria, l’Immacolata, quando tutta la pienezza della divinità che era nel Cristo risplendette in lei (...). Gesù non viene più con la sua presenza fisica, ma vive spiritualmente in noi e, con sé, ci porta il Padre” (Ibid., 2).
Che questo ideale di vita caratterizzato dalla verginità almeno spirituale venga proposto a tutti i cristiani, anche sposati, come esigenza di perfezione, è chiaro. Ma il Nisseno e gli altri Padri della Chiesa vedono chiaramente che, sempre per dono di Dio, chi sceglie la verginità anche corporale astenendosi dal matrimonio e imitando Gesù e Maria, ritrova l’integrità originaria nella quale l’uomo è stato creato o, come dice il santo vescovo di Nissa, la condizione “del primo uomo nella sua prima vita” (Ibid., 12, 4. 4; 416 s).




Lettura patristica
San Giovanni Damasceno,
De fide orthodoxa, 1, 8

1. La fede trinitaria

       Crediamo in un solo Dio, unico principio, privo di principio; increato, ingenito, indistruttibile e immortale, eterno, immenso, non circoscritto, illimitato, d’infinita potenza, semplice, non composito, incorporeo, immutabile, impassibile, immobile ed inalterabile; invisibile, fonte d’ogni bontà e giustizia, luce intellettuale e inaccessibile, potenza incommensurabile, misurata dalla sua volontà (può, infatti, "tutto ciò che vuole" [ Ps 134,6 ]), fondatrice di tutte le cose sia di quelle visibili che delle invisibili conservatrice di tutto, provvidente per tutto, contenente e reggente tutto, avente su tutto un regno perpetuo ed immortale.

       (Crediamo in un solo Dio) al quale nulla si oppone, che riempie tutte le cose senza essere da nessuna circoscritto; anzi, egli stesso tutto circoscrive, tutto contiene e a tutto provvede, che penetra tutte le sostanze lasciandole intatte al di là di tutte le cose, trascendente ogni sostanza, soprasostanziale e superiore a ogni cosa; superiore per divinità, bontà, pienezza; un Dio che stabilisce tutti i poteri e tutti gli ordinamenti, mentr’egli si pone al di sopra d’ogni ordinamento e d’ogni potere; più alto per essenza, vita, parola, intelligenza; un Dio che è la luce stessa, la bontà stessa, la vita stessa, l’essere stesso: egli non riceve, infatti, da nessun altro né l’essere proprio né quello di alcuna delle cose che esistono, ma, anzi, è lui stesso la fonte dell’essere, per tutto ciò che è; della vita, per tutto ciò che vive; della ragione, per tutte le creature che ne fanno uso.

       (Crediamo in un solo Dio) che è causa d’ogni bene per tutte quante le cose, che prevede tutto prima che avvenga; unica sostanza, unica divinità, unica potenza, unica volontà, unica attività, unico principio, unica potestà unica signoria, unico regno.

       (Crediamo in quest’unico Dio conosciuto nelle tre perfette persone e venerato con un unico atto di culto, oggetto di fede e di adorazione da parte di ogni creatura razionale; e queste persone sono unite senza mescolanza o confusione e separate (ciò che trascende ogni intelletto) senza alcuna distanza: nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, nel nome dei quali siamo anche stati battezzati. Infatti, così il Signore comandò agli apostoli di battezzare, quando disse: "Battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).

       Crediamo nell’unico Padre, principio e causa di tutto, non generato da nessuno, unico salvatore non causato e ingenito; creatore di tutte le cose, Padre, per natura, del suo unico Figlio unigenito, e Dio, il nostro Gesù Cristo, e produttore del Santissimo Spirito.

       Crediamo, altresì, nel Figlio di Dio unigenito, Signor nostro, generato dal Padre prima di tutti i secoli; luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; consustanziale con il Padre; per il quale tutte le cose sono state fatte...

       ...Allo stesso modo, crediamo anche nello Spirito Santo, Signore, vivificante, che procede dal Padre e risiede nel Figlio; che, insieme con il Padre ed il Figlio, è adorato e conglorificato, essendo consustanziale ed eterno come loro; Spirito di Dio, giusto, sovrano; fonte di sapienza, di vita e di santità; che è ed è chiamato Dio con il Padre ed il Figlio; increato, perfetto, creatore, che governa tutte le cose, creatore di tutto, onnipotente, potenza infinita che comanda a tutto il creato, senza essere sottoposto all’autorità di nessuno; che divinizza, senza essere divinizzato; che riempie, senza essere riempito; che è partecipato, ma non partecipa; che santifica, ma non è santificato; Paraclito, poiché accoglie le invocazioni di tutti; simile in tutto al Padre ed al Figlio; procedente dal Padre, viene concesso attraverso il Figlio ed è ricevuto da ogni creatura.





venerdì 18 maggio 2018

L’unità della Pentecoste sconfigge la divisione di Babele


Pentecoste – anno B – 20 maggio 2018

Rito Romano
At 2,1-11; Sal 103; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27; 16,12-1

Rito Ambrosiano
At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20


  1) Dalla torre di Babele al Cenacolo di Pentecoste.
La prima lettura (At 2,1-11) di questa Domenica di Pentecoste è presa dagli Atti degli Apostoli, in cui si racconta il fatto della Pentecoste, tenendo sullo sfondo la storia della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9).
Cosa implica la narrazione della costruzione della Torre di Babele? Si tratta della descrizione di un regno, in cui gli uomini avevano acquisito così tanto potere da pensare di essere capaci di costruire da soli una via che portasse al cielo per aprirne le porte, mettendosi al posto di Dio. Ma proprio in questa situazione si verificò qualcosa di inatteso. Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano lavorando l’uno contro l’altro. Mentre cercavano di essere come Dio senza l’aiuto di Dio, divennero meno uomini, rovinando il fatto di essere creati a immagine e somiglianza di Dio Comunione perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme.
Questo racconto del Vecchio Testamento contiene una perenne verità, che il Card. Henri de Lubac ha sintetizzato così: “Si può costruire una città senza Dio, ma sarà sempre contro l’uomo”.
Possiamo constatare la verità di questa affermazione di questo grande Gesuita, ripensando alla storia lontana e recente dell’umanità.  Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano. In questa situazione, pregare Dio sembra qualcosa di superato, di inutile, perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo. Ma il caos e il male, che ne derivano, ci fanno accorgere che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele.
L’unità che gli uomini volevano costruire a Babele è un progetto di unità, deciso dall’uomo e che ha per scopo la gloria dell’uomo: “Venite – dicono i costruttori senza Dio –, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gn 11, 4). E’ un progetto di unità, che nasce da volontà di potenza e di fama, cioè da superbia.
Invece, nella Pentecoste lo Spirito, con il dono delle lingue, mostra che la sua presenza unisce e trasforma la confusione in comunione. L’orgoglio e l’egoismo dell’uomo creano sempre divisioni, innalzano muri d’indifferenza, di odio e di violenza. Lo Spirito Santo, al contrario, rende i cuori capaci di comprendere le lingue di tutti, perché ristabilisce il ponte dell’autentica comunicazione fra la Terra e il Cielo. Lo Spirito Santo è l’Amore. Quindi la Chiesa, più che la nuova Babele, è l’anti-Babele, vivificata dal fuoco dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste.
  Se vogliamo che la Pentecoste non si riduca ad un semplice rito o ad una pur suggestiva commemorazione, ma sia evento attuale di salvezza, dobbiamo mendicare il dono dello Spirito Santo, mettendoci in umile e silenzioso ascolto della Parola di Dio e, magari, ripetendo spesso la giaculatoria “Vieni, Santo Spirito, Vieni per Maria”.
In questo giorno di Pentecoste, come la Vergine dobbiamo, aprirci totalmente a questo Dono di Dio, accoglierlo in noi, perché tutta la nostra umanità sia attratta, assunta dal Verbo, divenga un solo corpo col Cristo e, vivendo, in una sola vita con Cristo Signore, tutta la nostra vita sia trasfigurata, divenga puro amore: amore per Iddio e amore per i fratelli.
Perché la Pentecoste si rinnovi in noi oggi, dobbiamo essere meno “affannati” per le attività da fare e più dediti alla preghiera, perché più saremo uniti a Dio, più saremo uniti fra di noi nel cenacolo della Chiesa, la quale proclama che Cristo è il centro del mondo.
Se, con l’aiuto dello Spirito Santo, passiamo da Babele dell’egoismo a Pentecoste dell’Amore, ci “decentreremo da noi stessi per ricentrarci su Dio” (cfr. Pierre Teilhard de Chardin) e vivremo “aggregati1” in comunione lieta e forte.
Lo Spirito Santo con il suo dono compone in unità l’essere umano, come già insegnava sant’Ireneo: “L’uomo è sfuggito alle mani di Dio col peccato, ma ecco le mani di Dio riprendono l'uomo e lo plasmano nuovamente e le mani di Dio sono il Verbo e lo Spirito Santo”. Queste mani devono prendere anche ciascuno di noi per modellarci di nuovo secondo l’immagine di Dio, per ridonarci unità. “Dispersi, divisi interiormente è per l’amore di Dio e nell’amore di Dio che saremo ricomposti in perfetta unità, sì che il nostro corpo risponda allo spirito, sì che la legge del nostro corpo non contrasti la legge del nostro spirito e tutto l'essere nostro consumi nella lode divina, nell'amore” (Divo Barsotti).

2) La Pentecoste di e con Maria.
San Luca descrive con cura il nucleo della prima comunità in attesa della Pentecoste: “Tutti questi (gli undici apostoli) erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, madre di Gesù, e con i fratelli di lui” (At 1,14). Dunque, quattro sono le categorie di persone presenti nel Cenacolo il giorno di Pentecoste.:

  1. Gli apostoli, che sono le colonne portanti della Chiesa nascente. Loro, che hanno incontrato Gesù risorto in Galilea (cfr. Mc 14,27-28), sono ritornati a Gerusalemme per attendere lo Spirito secondo la promessa di Gesù durante l’ultima cena (cfr. Lc 24,42-49; At 1,4-5).
  2. Le donne. E’ probabile che si tratti delle donne nominate da San Luca nel Vangelo come presenti alla crocifissione, sepoltura e risurrezione di Gesù (Lc 8,1-3; 23,49.55; 24,10). Il gruppo delle pie donne non è stato meno sensibile del resto della prima Assemblea di Pentecoste, alla discesa di quel Dio che si è mostrato come fuoco. L’amore che le trattenne ai piedi della croce di Gesù e che le condusse, per prime, al Sepolcro nel mattino di Pasqua, si è acceso di nuovo ardore. La lingua di fuoco si è fermata sopra ciascuna ed esse pure saranno eloquenti nel parlare del Maestro agli Ebrei ed ai Pagani.
  3. Maria è la sola donna presentata con il suo nome e con la sua funzione: “Madre di Gesù”. Con la sua presenza, che testimonia la realtà storica dell'incarnazione, è l’elemento di continuità tra la nascita di Cristo e la nascita della Chiesa, ambedue opera dello Spirito.
  4. fratelli di Gesù, cioè i suoi parenti, che sono passati da un’iniziale incredulità alla fede nel Risorto, soprattutto quando questi appare a Giacomo, come ricorda San Paolo (cfr. 1Cor 15,7). Allora il lutto familiare per la morte di Gesù si trasforma in gioia pasquale.

Ma è sulla presenza della Vergine Maria, Madre di Cristo, nel cenacolo il giorno della Pentecoste che vorrei condividere ulteriori, brevi riflessioni.
Immaginiamo di essere presenti nel Cenacolo e  Maria, più che mai “Piena di Grazia”. Come il giorno dell’Annunciazione è ricolma di Spirito Santo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo” (Lc 1,35), così il giorno di Pentecoste lo Spirito Santo “stende la sua ombra” sulla Chiesa nascente, perché sotto il suo soffio essa riceva la forza di “annunziare le grandi opere di Dio” (cfr. At 2,11). Ciò che nell'incarnazione era avvenuto nel grembo di Maria, trova ora una sua nuova attuazione2.
Una nuova missione inizia per la Madre di Cristo. Possiamo dire che in questo giorno: la Chiesa è generata da Lei. Da Maria nasce al mondo la Sposa del suo Figlio e nuovi doveri l’aspettano. Gesù è ormai asceso al Cielo ed ha lasciato sua Madre sulla terra, affinché prodigasse le sue cure materne alla Chiesa nascente, suo Corpo mistico. E’ commovente e consolante sapere che la Chiesa nascente è accolta nelle braccia di Maria, nutrita da lei, sostenuta dal suo appoggio già dai primi passi nel mondo. La lingua di fuoco, che si è posata sul capo della Madonna, non la farà parlare in pubblico, ma la farà parlare agli Apostoli, guidandoli e consolandoli nella loro missione di evangelizzatori.
La Vergine Maria, Madre di Cristo e della Chiesa (il 3 marzo 2018 Papa Francesco ha stabilito che si celebri la memoria obbligatoria della Beata Vergine Maria Madre della Chiesa ogni lunedì di Pentecoste), si dedica tutta a questa nuova, materna missione. La nuova festa liturgica voluta da Papa Francesco accresca la crescita del senso materno della Chiesa.
In questo contesto, ci siano di esempio le Vergini consacrate che con il completo dono di se stesse a Cristo e con una vita esemplare vivono una maternità spirituale nella gioia: “Gioite, vergini di Cristo: la madre di Cristo è vostra sorella. Non avete potuto essere madri di Cristo nella carne, ma non avete voluto essere madri per amore di Cristo. Colui che non è nato da voi è nato per voi. Tuttavia se ricordate le sue parole - e dovete ricordarle - anche voi siete madri sue, perché fate la volontà del Padre suo” (Sant’Agostino, Discorso 192).
E’ una maternità spirituale vissuta nel servizio di carità e nella preghiera, che è dialogo. In effetti, nel dialogo con Dio si aprono al dialogo con tutte le persone che loro incontrano e delle quali sono madri, madri dei figli di Dio (cfr. Rito della Consacrazione delle Vergini, 29).


1  In effetti, San Tommaso d’Aquino chiama l’amore di Dio aggregativo e quello di sé disgregativo. “L’amore di Dio è aggregante in quanto riporta il desiderio dell’uomo dalla molteplicità a un’unica cosa; l’amore di sé invece disperde, disgrega il desiderio umano nella molteplicità delle cose. Infatti l’uomo ama se stesso desiderando per sé i beni temporali che sono molti e diversi” (Summa Theologica, II-IIae, q. 73, a. 1, ad 3).


2  Nell’Enciclica Redemptoris Mater al numero 24 San Giovanni Paolo II sottolinea il ruolo della Vergine Maria nella nascita della Chiesa e lascia intravedere una continuità della maternità di Maria: «Nell'economia della grazia, attuata sotto l'azione dello Spirito Santo, c'è una singolare corrispondenza tra il momento dell'incarnazione del Verbo e quello della nascita della Chiesa. La persona che unisce questi due momenti è Maria: Maria a Nazareth e Maria nel cenacolo di Gerusalemme. In entrambi i casi la sua presenza discreta, ma essenziale, indica la via della nascita dallo Spirito. Così colei che è presente nel mistero di Cristo come madre, diventa - per volontà del Figlio e per opera dello Spirito Santo - presente nel mistero della Chiesa



Lettura patristica
Sant’Agostino d’Ippona (354 - 4309
Sermo 267

La molteplicità delle lingue non è più necessaria
       Che forse non c’è lo Spirito Santo? Chi pensa così non è degno di riceverlo. C’è e adesso. Perché, allora, nessuno parla tutte le lingue, come quella volta coloro che ne furono ripieni? Perché? Perché ciò che quel fatto voleva significare, ora si è compiuto. E che cosa è questo? La Chiesa allora era tutta in una sola casa, ricevette lo Spirito Santo: era solo in pochi uomini, ma era nelle lingue di tutto il mondo. Ecco che cosa voleva dire quel fatto. Che quella piccola Chiesa parlasse le lingue di tutte le genti; infatti, che cosa è se non questa realtà di questa nostra Chiesa, che da oriente a occidente parla con le lingue di tutti i popoli? Oggi si avvera ciò che allora si accennava. Sentimmo, vediamo. "Senti, figlia, e vedi" (Ps 44,11); fu detto: Ascolta la promessa, vedine l’adempimento. Il tuo Dio non ti ha ingannato, non ti ha ingannato il tuo Sposo, non ti ha ingannato colui che ti ha fatto la dote col suo sangue; non ti ha ingannato colui che da brutta ti ha fatto bella e da immonda ti ha fatto vergine immacolata. A te stessa tu sei stata promessa; promessa in pochi, adempita in molti.


San Girolamo (347 – 419/420)
Epist, 82, 2


La pace frutto della carità

       Non è davvero una nobile impresa reclamare la pace a parole e distruggerla a fatti. Si dice di tendere a una cosa e se ne ottiene l’effetto contrario! A parole si dice: andiamo d’accordo!, e di fatto, poi, si esige la sottomissione dell’altro.


       La pace la voglio anch’io; e non solo la desidero, ma la imploro! Ma intendo la pace di Cristo, la pace autentica, una pace senza residui di ostilità, una pace che non covi in sé la guerra; non la pace che soggioga gli avversari, ma quella che ci unisce in amicizia!


       Perché diamo il nome di pace alla tirannia? Perché non rendiamo ad ogni cosa il suo nome appropriato? C’è odio? Allora diciamo che c’è ostilità! Solo dove c’è carità diciamo che c’è pace! Io la Chiesa non la lacero, no! E neppure mi taglio fuori dalla comunione dei Padri! Fin da quand’ero in fasce, se posso esprimermi così, sono stato nutrito col latte del cattolicesimo. E penso che nessuno appartiene di più alla Chiesa di chi non è mai stato eretico. Non conosco, però, una pace che possa fare a meno della carità, o una comunione che possa prescindere dalla pace. Nel Vangelo leggiamo: "
Se stai offrendo la tua offerta all’altare e lì  ti viene in mente che un tuo fratello ha qualcosa contro di te lascia lì l’offerta, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi ritorna pure a fare la tua offerta" (Mt 5,23-24).


       Se quando non siamo in pace non possiamo fare la nostra offerta, pensa tu, a maggior ragione, se possiamo ricevere il Corpo di Cristo! Che razza di coscienza è la mia se rispondo "Amen" dopo aver ricevuto l’Eucaristia di Cristo, mentre invece dubito della carità di chi me la porge?


venerdì 11 maggio 2018

Ascensione e Missione


Ascensione - VII Domenica di Pasqua - Anno B – 13 maggio 2018
 
Rito - Romano
At 1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20

Rito Ambrosiano
At 1, 15-26; Sal 138; 1Tm 3, 14-16; Gv 17, 11-19
Domenica dopo l’Ascensione - VII di Pasqua



1) Certezza e gioia.
Nel Credo recitiamo: “Lui è salito al cielo e siede alla destra del Padre”. Che vuol dire che noi crediamo al fatto che l’umanità di Cristo è entrata nel cuore della divinità e dove c’è Dio là c’è il cielo, e l’amore è il cielo sulla terra. Dunque “l’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi.” (Papa Francesco, Udienza generale, 17 aprile 2013).
E’ dunque corretto dire che uno degli insegnamenti che ci vengono dal fatto dell'Ascensione è che anche noi possiamo salire in alto, ma solo se rimaniamo legati a Gesù. Se affidiamo a Lui la nostra vita, se ci lasciamo guidare da Lui, siamo certi di essere in mani sicure, in mano del nostro salvatore, del nostro avvocato difensore. “Nella nostra vita non siamo mai soli: abbiamo questo avvocato che ci attende, che ci difende” (Ibid.).
Un altro insegnamento è che dobbiamo avere chiaro che l’entrare nella gloria di Dio esige la fedeltà quotidiana alla sua volontà, anche quando questa richiede sacrificio e accettare la nostra croce quotidiana, perché: “l’elevazione sulla croce significa e annuncia l’elevazione dell’ascensione al cielo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 661). In questa ascesa “il Signore crocifisso e risorto ci guida; con noi ci sono tanti fratelli e sorelle che nel silenzio e nel nascondimento, nella loro vita di famiglia e di lavoro, nei loro problemi e difficoltà, nelle loro gioie e speranze, vivono quotidianamente la fede e portano, insieme a noi, al mondo la signoria dell’amore di Dio, in Cristo Gesù risorto, asceso al Cielo” (Papa Francesco, Udienza Generale, 17 aprile 2013)
Un terzo insegnamento ci viene dalla prima lettura della Messa di oggi, che propone il fatto dell’Ascensione come è raccontato da San Luca negli Atti degli Apostoli. Esso riguarda come avere in noi la gioia degli Apostoli, causata dalla certezza della presenza costante di Gesù risorto nella vita personale e della comunità.
Questa certezza e questa gioia possono essere nostre se con mente e cuore sincero domandiamo la benedizione che Gesù diede agli Apostoli mentre ascendeva al Cielo.
In questo modo anche noi come gli Apostoli vivremo il fatto dell’ascensione del Risorto non come un distacco, un’assenza permanente del Signore.
In questo modo anche noi avremo confermata e accresciuta la certezza che il Crocifisso Risorto è vivo e che in Lui sono state per sempre aperte all’umanità le porte di Dio, le porte della vita eterna.
In questo modo, nel giorno dell’Ascensione, anche noi possiamo avere nel nostro cuore il dolore per la partenza, ma anche certezza e gioia della costante vicinanza di Cristo, anche se in modo diverso rispetto al sua vita terrena. “Lui, che duemila anni fa fu nella storia un singolo uomo, continua ancora oggi a vivere nella storia come anima della Chiesa” (H.U. von Balthasar).

2) Ascensione e Missione.
Nel breve racconto (terza lettura di questa domenica) che San Marco fa dell’Ascensione, vediamo che, più che sul fatto dell’Ascensione, Gesù risorto ci invita a tirare le conseguenze del suo salire al Padre: gli Apostoli e con loro tutti i cristiani di tutti i tempi siamo i suoi mandati, i suoi missionari inviati a portare il Vangelo in tutto il mondo: “Allora essi partirono e predicarono1 dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la Parola con i prodigi che li accompagnavano” (Mc 16, 20). Gesù sale in cielo e i discepoli vanno nel mondo. Ma la partenza di Gesù non è una vera assenza, bensì un’altra modalità di presenza: «Il Signore operava insieme con loro e dava fondamento alla Parola» (cfr ibid.). “Ascensione non è un percorso cosmico geografico ma è la navigazione del cuore che ti conduce dalla chiusura in te all'amore che abbraccia l’universo” (Benedetto XVI, 10 marzo 2010).
Questo invito di Cristo ad abbracciare l’universo, annunciando a tutti gli uomini il Vangelo: “Andate in tutto il mondo” (Mc 16, 15), non fu percepito come una follia, ma come un mandato di carità per portare la salvezza a tutti.
Con l’ascensione c’è una svolta nel percorso della redenzione. Da Gerusalemme dove si è compiuta la missione di Cristo, che in Croce ha detto: “Tutto è compiuto”, la missione redentiva affidata agli apostoli si dilata in dimensione universale. Il gruppo fino allora compatto si scioglie fisicamente parlando, ma non affettivamente. Mentre il Redentore “parte” verso il cielo, gli apostoli partono ciascuno in una direzione diversa dal punto di vista geografico, ma profondamente in comunione tra loro e con Cristo. La tradizione precisa quale sarebbe stata la meta di ciascuno: per Pietro Antiochia e Roma, per Matteo l’Etiopia, per Tommaso l’India e così via. Ma il pensiero va in particolare all’apostolo su cui siamo informati con ricchezza di particolari, Paolo di Tarso, l’infaticabile viaggiatore che portò il vangelo nell’attuale Turchia, in Grecia e a Roma. E dopo di lui ringraziamo l’innumerevole schiera di missionari che da venti secoli, con quanto eroismo molte volte espresso dal martirio, continuarono e continuano l’opera degli apostoli, per rendere partecipe il maggior numero possibile di persone della vita buona, santa, vera e lieta che il Vangelo di Gesù annuncia e realizza da due millenni. Come loro diventiamo missionari della gioia, annunciando al mondo che Dio è comunione di amore eterno, è gioia infinita che non rimane chiusa in se stessa, ma si espande in quelli che Egli ama e che lo amano.
E’ davvero miracoloso il fatto che da undici uomini si sia potuto sviluppare un “organismo”, il Corpo Mistico, in cui si sono ritrovati e si ritrovano milioni e milioni di credenti. Umanamente impossibile; la spiegazione sta nelle parole riportate: “Il Signore agiva insieme con loro”. E con uno scopo ben preciso. Il gruppo compatto, costituito da Gesù con i primi apostoli, non si è sciolto, si è diffuso nel mondo intero. Non si sono dispersi: sono uniti nella fede, nell’amore e nella speranza. La speranza, in particolare, di ricomporsi in unità, al cospetto di Colui che tutti ci ha preceduto presso il Padre suo e Padre nostro.
I verbi utilizzati da Cristo per l’invio in missione mantengono la loro attualità:
- ‘andare’ indica il dinamismo e il coraggio per immergersi nelle sempre nuove situazioni del mondo;
- ‘proclamare il Vangelo’, perché i popoli diventino seguaci non tanto di una dottrina, ma di una Persona;
- ‘credere’ all’annuncio di una fede, che comprende certo una conoscenza delle sue verità e degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasce da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo, dall’amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne è coinvolta.
- ‘battezzare’ segnala il sacramento che trasforma e inserisce le persone nella vita trinitaria ed ecclesiale. Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di Dio in Cristo, e segna l’ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. “Con il Battesimo, veniamo immersi in quella sorgente inesauribile di vita che è la morte di Gesù, il più grande atto d’amore di tutta la storia; e grazie a questo amore possiamo vivere una vita nuova, non più in balìa del male, del peccato e della morte, ma nella comunione con Dio e con i fratelli” (Papa Francesco, Udienza Generale, 8 gennaio 2014).

3) La missionarietà della Verginità.
È bello riflettere sulle ultime parole di Gesù, mentre manda i Suoi a predicare in mezzo a questo mondo che, anche se non appare, ha bisogno di infinito, di verità, di amore, di speranza, di gioia che il Cielo è ed ha.
E’ un compito che fa tremare anche noi, oggi, tanto è grande.
E’ un compito che sembra non da poveri essere umani quali noi siamo, ma da Angeli, ecco perché Gesù assicura la Sua Presenza “operando con noi e confermando la Sua Parola con i miracoli che l’accompagnano” (cfr Mc 16,20).
E’ un compito per tutti i battezzati, perché grazie al Battesimo tutti i cristiani diventano discepoli missionari e sono chiamati a portare il Vangelo nel mondo.
Ma qual è la modalità missionaria delle Vergini consacrate nel mondo?
E’ quella di essere icone, immagini viventi di Cristo vergine, povero e obbediente (cfr Conc. Vat. II, Decreto sul rinnovamento della vita religiosa, Perfectae Caritatis, 1) davanti alla comunità ecclesiale e umana.
E come possono “dipingere al vivo” Cristo?
Mediante una comunione con Dio e con i fratelli e sorelle in umanità, che non è diminuita ma accresciuta dalla solitudine in cui sono chiamate a vivere. Le vergini sono tali e sono missionarie, se “usano” la loro affettività e il loro corpo come lo ha usato Cristo: non per possedere o per essere posseduti, ma per donare comunione a tutti coloro che incontrano.
Insomma, la singolare vocazione di vergini consacrate nel mondo indica una chiara missione: esaltare la dignità della donna testimoniando, nella vita del mondo in cui restano immerse, il senso pieno dell’amore che hanno ricevuto da Cristo Gesù per donarlo ai loro fratelli e sorelle in umanità.

1  Il compito è quello di «predicare», un termine questo che merita una spiegazione. Non significa semplicemente tenere una istruzione o una esortazione o un sermone edificante. Il verbo «predicare» indica l'annuncio di un evento, di una notizia, non di una dottrina. Si tratta di una notizia decisiva: non è solo un'informazione, ma un appello. Il Vangelo predicato diventa credibile e visibile dai segni che il discepolo compie. Ma deve trattarsi di segni che lasciano trasparire la potenza di Dio, non quella dell'uomo.


Lettura Patristica
Sant’Agostino, vescovo di Ippona
Discorso sull’Ascensione del Signore,
ed. A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495

Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo.
Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.
Ascoltiamo l'apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»(Mt 25, 35).
Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l'amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa affermazione fu pronunciata per sottolineare l'unità tra lui nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell'uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così si esprime l'Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12). L'Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l'unità del corpo non sia separata dal capo.


venerdì 4 maggio 2018

L’amore più grande


Rito Romano – VI Domenica di Pasqua– Anno B – 6 maggio 2018

At 10,25-27.34-35.44-48; Sal 97; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

Rito Ambrosiano
At 26, 1-23; Sal 21; 1Cor 15, 3-11; Gv 15, 26-16, 4
VI Domenica di Pasqua

"Rimanete nel mio Amore": Gesù parla ad una comunità di persone chiamate a condividere il suo Amore

1) Il nome dei discepoli di Cristo: “Amici”.
In questa sesta domenica di Pasqua, Gesù, che continua ad invitarci a “rimanere” in Lui, ci svela chi Lui è: l’Amato, e che la sua vita è relazione di Amore. Per questo ci chiama ad essere una comunità di persone la cui vocazione è quella di condividere il Suo Amore.
Dopo aver esortato i suoi a rimanere in Lui come i tralci nella vite (cfr. il Vangelo di domenica scorsa), oggi Gesù ci chiede di rimanere nel suo Amore, di non allontanarci dalla fonte della vita, ad aprirci a Lui che, nel dono totale di sé, ci ha inclusi nel suo rapporto con il Padre.
L’amore di Cristo è l’amore più grande perché lui dà la vita per noi, suoi amici: : “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. E Voi siete miei amici” (Gv 15,13).
Non dimentichiamo che tra gli amici a cui Gesù si rivolge nel cenacolo c’è Giuda (che è appena uscito e l’ha chiamato “amico”); c'è Pietro (che lo rinnegherà tre volte) e ci sono gli altri, che durante la passione lo lasceranno solo). E lui li chiama “amici”. Oggi ci siamo noi nel cenacolo della chiesa e anche noi siamo da lui chiamati: “amici”, anche se siamo fragili e peccatori.
In effetti, nell’ultima cena, ma non solo, Gesù chiama suoi amici, suoi pari (l’amore di amicizia è tra persone uguali ed è reciproco), quelli che lo tradiranno rinnegandolo e andando lontano da lui. Perché? Perché li ama d’un amore gratuito e sa che risponderanno al suo amore, che anche se non lo amano con pienezza, almeno desiderano amarlo, grati per l’amore che lui ha per loro.
Quando lo vedranno innalzato, quando scopriranno il suo amore smisurato, crederanno a questo amore “eccessivo”.
Anche noi siamo chiamati a diventare suoi amici conoscendo il suo amore per noi. Ed è bella questa affermazione: “Non vi chiamo servi, ma amici” (Gv 15, 15), perché “servi” (nel testo greco c’è scritto “schiavi”) per sé è un titolo onorifico ed indica i ministri del re. Ministro è parola di origine greca che vuol dire servo. Quindi Ministri sono le persone più importanti dopo il Re. Il massimo, dopo Dio, sono i servi di Dio, i profeti, i santi. Ma oggi Cristo insegna: “Voi non siete “servi”, neanche i più grandi. Siete qualcosa di più. Siete amici pari tra di noi e con Lui. Siamo chiamati a diventare uguali a Dio. Perché? Perché l’amore che il Padre ha per il Figlio, il Figlio l’ha dato a noi e noi possiamo amare con lo stesso amore di Dio e diventiamo come Dio che è amore. Quindi siamo amici, pari a pari. E’ proprio questo amore dei fratelli nel Fratello Gesù, che ci rende uguali a Dio. Nella parte finale del v. 15 del cap. 15, prosegue: “il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.” Gesù spiega cosa intende per “amici”. Cristo riconosce come amici i discepoli, perché fanno ciò che Lui domanda loro, cioè credono e amano. Di fronte al Re dei Re, la condizione del discepolo è di per sé quella del “servo”, termine che nella Bibbia (ma non solo) rappresenta un titolo di importanza, perché caratterizza la relazione con Dio: indica una persona fedele e a disposizione del Signore. Non ha il senso di schiavo, se non quando indica un uomo assoggettato a un padrone di questo mondo o (cfr. Gv 8,34) alla potenza del peccato. Il titolo di “servo” è già importante, ma il titolo “amico” indica che al centro della vita di Dio e dell'uomo, c'è l'amicizia, la forma più perfetta dell'Amore, la relazione gratuita e non possessiva che realizza la comunione delle persone.

2) Amici di Cristo.
Oggi Cristo, ci rivela che non siamo solo servi e discepoli, ma amici.
Se non fossimo che ministri (=servi), saremo in ogni caso sottomessi al Re. Anche se saremo lieti di servire una buona causa, saremo sempre sudditi costretti ad osservare la legge. Se non fossimo che discepoli, dovremo andare a scuola dal Maestro, contenti di imparare la verità e di ricevere parole di vita eterna.
Ma siamo anche “amici”, siamo “soggetti” alla legge della libertà generata dall'Amore al quale Lui si è affidato e di cui ci rende partecipi se rimaniamo nella sua parola: “Questo vi comando, che vi amiate reciprocamente”.
Questo più che un comando è un’implorazione che Gesù ci rivolge, perché Lui per primo ci ha amati e Lui ci dona la forza perché noi pure lo facciamo. E’ la novità della comunità ecclesiale: essere una scuola di amicizia, dove impariamo la logica del dono e della fede.
Rimanere nell’amicizia di Cristo significa entrare nella relazione nuova con Dio. Con il Dio della nuova Alleanza, il quale non è tanto un legislatore supremo che ci chiede l’osservanza della Legge, quanto un Padre che ci implora di credere in un Amore che è arrivato a donare il proprio Figlio.
In questa amicizia con Cristo, Lui - che è il pastore, la via, la verità e la vita – diventa la porta attraverso la quale l’Amore del Padre diventa la nostra casa. Perché oggi Cristo ci ripete che siamo di casa nell’amore che il Padre ha per Lui, il Figlio. E come facciamo a dimorare in questa casa? Stiamo nella casa dell’amore se, a nostra volta, amiamo. Quindi “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Amando i fratelli, siamo nella Casa del Padre. Questo amore fraterno ci fa amici di Cristo. Amando il fratello diventiamo come Dio, come il Figlio, che è tale perché ama i fratelli con l’amore del Padre.
In questa amicizia
  • la via non è una strada da percorrere, è una persona da seguire: Cristo;
  • la verità non è un concetto astratto, è un uomo da frequentare: Cristo;
  • e la vita non è semplicemente un fatto biologico, la vita è amare come si è amati, colui che Ci ama, è amare Cristo.
“Amici” è il nome più vero dei discepoli di Gesù. Non siamo più servi, costretti ad osservare una legge, ma amici liberi di quella libertà generata dall'Amore al quale Lui si è affidato e di cui ci rende partecipi se rimaniamo nella sua parola: “Questo vi comando, che vi amiate reciprocamente”.

3) Le vergini consacrate, testimoni dell’amicizia con Cristo.
La vocazione all’amicizia con Cristo per le vergine consacrate va capita alla luce del Cantico dei Cantici dove si legge: “Ora l’amato mio prende a dirmi: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto” (Ct 2, 10 – 13).
Queste donne consacrate con il dono di se stesse a Cristo dimostrano che hanno creduto all'amore di Dio e si offrono senza riserve a Gesù, Sposo e Amico, testimoniando che “all’inizio dell'essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI).
Quali spose di Cristo, le vergini consacrate testimoniano l’amore di amicizia, di cui Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri.
Con semplicità ma con perseveranza queste donne mostrano che l’amicizia con Cristo coincide con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro: ‘Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Nell’ora del Getsemani Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà conforme ed unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma della nostra autonomia – e proprio portando la nostra volontà nelle mani di Dio, ci dona la vera libertà: ‘Non come voglio io, ma come vuoi tu’.
In questa comunione delle volontà si realizza la nostra redenzione: essere amici di Gesù, diventare amici di Dio. Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di essere redenti. Ringraziamo Gesù per la Sua amicizia e siamo sempre più fraterni amici fra di noi. “Se non celebriamo con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia con il Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le nostre capacità naturali sono un dono. Abbiamo bisogno di riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà” (Papa Francesco, Es. Ap. Gaudete et exultate, sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, n. 55).


Lettura quasi patristica

Nel suo magistero varie volte Papa Francesco ci ha parlato dell’amicizia, di questo importante sentimento umano, ma evidentemente anche divino, come il Vangelo insegna.

E così parlando al
 Serra Club, Papa Francesco ricorda che nel Vangelo “Gesù stesso spoglia questo concetto di ogni ‘sentimentalismo’ ed indica ‘una verità scomoda’, e cioè che ‘c’è vera amicizia solo quando l’incontro mi coinvolge nella vita dell’altro fino al dono di me stesso’. L’amicizia è pertanto ‘un impegno di responsabilità, che coinvolge la vita’ nel senso di “condivisione del destino dell’altro, compassione, coinvolgimento che conduce fino a donarsi per l’altro”. Un vero amico, secondo il Papa, è chi “si affianca con discrezione e tenerezza al mio cammino; mi ascolta in profondità, e sa andare oltre le parole; è misericordioso nei confronti dei difetti, è libero da pregiudizi; sa condividere il mio percorso, facendomi sentire la gioia di non essere solo; non mi asseconda sempre, ma, proprio perché vuole il mio bene, mi dice sinceramente quello che non condivide; è pronto ad aiutarmi a rialzarmi ogni volta che cado”. 
Nello stesso discorso il Papa si sofferma sulla difficile amicizia che lega sacerdoti e laici che vogliono aiutarli, come è nello statuto dei serrani. "Com'è' triste vedere che, a volte, proprio noi uomini di Chiesa non sappiamo cedere il nostro posto, non riusciamo a congedarci dai nostri compiti con serenità, e facciamo fatica a lasciare nelle mani di altri le opere che il Signore ci ha affidato". Sono parole di Papa Francesco al Serra Club International, un'associazione di imprenditori e professionisti che vogliono aiutare i sacerdoti offrendo amicizia e sostegno economico. "Anche voi, allora, siempre adelante! Con coraggio, con creatività e con audacia", ha esortato il Papa. "Senza paura di rinnovare le vostre strutture e senza permettere che il prezioso cammino fatto perda lo slancio della novità. Come nei giochi olimpici, possiate essere sempre pronti - ha concluso Papa Francesco - a passare la fiaccola soprattutto alle generazioni future, consapevoli che il fuoco è acceso dall'Alto, precede la nostra risposta e supera il nostro lavoro. Così è la missione cristiana: uno semina e l'altro miete".

Cinque chiavi di Papa Francesco sull’amicizia (27 luglio 2017)

1. Un buon amico conosce i tuoi segreti: Avere buoni amici vuol dire avere persone nelle quali avere fiducia e aprire il nostro cuore per condividere pene e gioie, senza paura di essere giudicati. “Un amico fedele – dice la Bibbia – è un rifugio sicuro; chi lo trova, trova un tesoro. Niente vale tanto come un amico fedele; il suo valore è incalcolabile”. Tuttavia, questo non nasce da un giorno all’altro e, come dice Papa Francesco: “Un amico non è un conoscente, uno con il quale si fa una piacevole conversazione. L’amicizia è qualcosa di più profondo”. “È necessaria la pazienza per creare una buona amicizia tra due persone. Molto tempo per parlare, per stare insieme, per conoscersi, e lì si crea l’amicizia. Quella pazienza nella quale un’amicizia è reale, solida”.

2. Un buon amico non ti abbandona mai: Gesù diceva che “non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici”. Papa Francesco avverte: “Quando uno ama l’altro, gli sta accanto, lo guida, lo aiuta, gli dice quello che pensa, sì, però non lo abbandona. Così è Gesù con noi, non ci abbandona mai”. La vera amicizia è disinteressata, si sforza di dare più che di ricevere.

3. Un buon amico ti difende sempre: Felici quelli che sanno mettersi al posto dell’altro, quelli che hanno la capacità di abbracciare, di perdonare. Errori ne facciamo tutti, sbagli a migliaia. Perciò felici quelli che sono capaci di aiutare gli altri nel loro errore, nei loro sbagli. Questi sono i veri amici e non abbandonano nessuno.

4. Un buon amico non ti “vende fumo”: “la vera amicizia comporta anche uno sforzo cordiale per comprendere le convinzioni dei nostri amici, anche se non giungiamo a condividerle, né ad accettarle”. Stare con Gesù ci porta a un atteggiamento aperto, comprensivo, che aumenta la capacità di avere amici. “Gesù non ti vende fumo – annunciava Papa Francesco – perché sa che la felicità, quella vera, quella che riempie il cuore, non sta negli «stracci» che indossiamo, nelle scarpe che portiamo, nell’etichetta di una determinata marca. Egli sa che la vera felicità sta nell’essere sensibili, nell’imparare a piangere con quelli che piangono, nello stare accanto a quelli che sono tristi, nel porgere la spalla, nell’abbracciare. Chi non sa piangere non sa ridere, e dunque non sa vivere. Gesù sa che in questo mondo di tanta competenza, di tante invidie e tanta aggressività, la vera felicità passa dall’imparare a essere pazienti, a rispettare gli altri, a non condannare né giudicare nessuno. La proposta di Gesù è di pienezza. Però, al di là di ogni altra cosa, è una proposta di amicizia, di amicizia vera, di quell’amicizia di cui tutti abbiamo bisogno”.

5. Un buon amico ti sostiene (ti dà coraggio/ti appoggia): Una caratteristica dell’amicizia è dare ai nostri amici il meglio che abbiamo. E il nostro valore più alto, senza paragoni, è essere amici di Gesù. Papa Francesco ci incoraggia e essere veri amici dei nostri amici, amici nello stile di Gesù: “E non per rimanere tra noi, ma per “uscire all’aperto”, per andare a farsi altri amici. Per contagiare l’amicizia di Gesù per il mondo, dovunque siano, nel lavoro, nello studio, attraverso WhatsApp, o Facebook o Twitter. Quando vanno a ballare, o a prendere un buon aperitivo. In piazza o giocando una partitella sul piazzale del quartiere. È lì che stanno gli amici di Gesù. Non vendono fumo, ma hanno pazienza. La pazienza dovuta al fatto di sapere che siamo felici, perché abbiamo un Padre che è nei cieli”.



Lettura patristica
Gregorio Magno
Hom. in Ev., 27, 1 s.


       Dal momento che la Sacra Scrittura è tutta piena di divini precetti, come mai il Signore parla della carità quasi di un comandamento unico, e dice: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate scambievolmente" (Gv 15,12), se non perché i comandamenti sono tutti compendiati nell’unica carità e tutti formano un unico comandamento? Infatti, tutto ciò che ci viene comandato ha il suo fondamento solo nella carità. Come i molteplici rami di un albero provengono da una sola radice, così le molteplici virtù traggono origine dalla sola carità. E non ha vigore di verde il ramo del ben operare, se non resta unito alla radice della carità. Perciò, i precetti del Signore sono molti e al tempo stesso uno solo: molti per la diversità delle opere, uno per la radice della carità.
       Come poi dobbiamo conservare la carità, ce lo insegna quegli stesso che in varie parti della Scrittura ci ordina di amare gli amici in lui e i nemici per lui. Possiede, invero, carità vera solo chi ama l’amico in Dio, e il nemico per Dio.
       Vi sono alcuni, infatti, che amano il prossimo per affetto di sangue o di parentela, e ciò non trova sanzione di condanna nella Scrittura. Ricordiamoci però che una cosa è ciò che nasce spontaneamente dalla natura, un’altra è quel che siamo tenuti a praticare in obbedienza al precetto del Signore. Coloro che amano di amore naturale i loro parenti, amano certamente il prossimo; tuttavia, essi non acquistano i nobilissimi premi della carità perché il loro amore non è spirituale, bensì carnale. Ecco perché il Signore Gesù, dopo aver detto: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate scambievolmente", subito aggiunge: "come io ho amato voi". Quasi a volerci dire: «Amatevi per quei motivi per i quali io stesso ho amato voi».
       Per la qual cosa, fratelli carissimi, va notato con scrupolosa diligenza che il nostro antico avversario, mentre attrae il nostro spirito verso il diletto delle cose temporali, ci mette contro qualche prossimo debole, per strapparci via ciò che amiamo. E non si dà pensiero questo antico avversario, così facendo, di toglierci le cose terrene, bensì di ferire la carità in noi.
Invero, quando ciò si verifica, noi subito diamo in escandescenze, e mentre bramiamo uscire vittoriosi all’esterno, dentro veniamo gravemente feriti; mentre all’esterno difendiamo cose da nulla, dentro alieniamo le maggiori, poiché mentre amiamo le cose temporali, perdiamo il vero amore. Chiunque infatti ci toglie del nostro, è un nemico. Però se avremo incominciato ad odiare il nemico, è dentro di noi che si verifica la perdita. Quindi, quando subiamo qualche sgarbo esterno da parte di un prossimo, rimaniamo ben vigili rispetto al devastatore dell’anima nostra: nei suoi confronti non si dà modo più clamoroso di vittoria, se non quello stesso che usiamo quando ricambiamo con l’amore chi ci porta via i beni esteriori. Una sola è la prova suprema della carità: amare anche chi ci si rivela nemico. Ecco perché il Signore Gesù, pur subendo i tormenti della crocifissione, mostra verso i suoi persecutori sentimenti di carità, e dice al Padre: "Perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,24).
       C’è da meravigliarsi dunque se i discepoli amano in vita quei nemici che il Maestro ha amato proprio mentre veniva ucciso? Egli esprime il culmine della carità, quando soggiunge: "Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici" (Gv 15,13). Il Signore era venuto a morire per i nemici, e tuttavia diceva di voler dare la sua vita per gli amici, per mostrarci che, senza ombra di dubbio, mentre possiamo trarre merito dall’amore dei nemici, diventano alla fine nostri amici persino coloro che ci perseguitano.