venerdì 26 aprile 2013

“Amate”: un comando donato nel Cenacolo e sulla Croce.

V Domenica di Pasqua – Anno C – 28 aprile 2013
Rito romano
At 14-21b-27; Sal 144(145); Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35.

Rito ambrosiano
At 4,32-37; Sal 132; 1Cor 12,31-13,8a; Gv 13,31b-35


1) Il dono di un comando nuovo: la legge della carità.
“Amate”: questo comando, che Cristo ci ha dato, è la “Magna Carta” del Popolo che, nato dal Suo costato trafitto, è trasformato santamente per mezzo dell'Amore. La carità di Cristo spinge non solo a gesti d’amore ma anche ad una vita di carità in Lui.
Purtroppo, nel parlare o scrivere ordinario il significato della parola “amore”, che dà la vita, ha ridotto a sentimento di bontà dolce oppure a passione spesso sensuale. Nel Vangelo la parola “amore” è sempre contrassegnata dalla croce, che indica una bontà appassionata, il cui fine non è il “possesso” dell’altro ma il dono di sé all’altro. Quando Cristo dice: “Vi amo”, la croce è inclusa, egli intende la croce, cioè l’appassionato dono di sé. E in questo modo ci mostra che l’amore puro, sincero è l’amore che si dona liberamente.
Cristo rivela il suo amore in modo appassionato: con la sua Passione e Morte in Croce. L'amore, che Cristo rivela e propone con un “comando”, è detto con parole delicate e con il gesto dell’andare in Croce, dopo avercene dato prova con la lavanda dei piedi, con l’istituzione dell’Eucaristia, che fortifica e rende stabili l’amore, e con molti fraterni insegnamenti.
Molte volte abbiamo letto o ascoltato la frase di Gesù che il Vangelo romano di oggi ci propone: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13, 33). Per aiutare la nostra meditazione propongo –come premessa- la spiegazione sintetica di termini:
Prima di tutto bisogna ricordare che per l’Evangelista e Apostolo Giovanni il termine “comandamento” significa la parola che rivela l'amore di Dio Padre. In effetti, nel testo greco egli usa il termine “entolè, che ha il significato di precetto, consiglio, istruzione, prescrizione. E' un po’ come la ricetta di un dottore che prescrive una determinata cura per il nostro bene. Sta poi al paziente seguire o no ciò che è stato prescritto. Comandamento in questo caso quindi non è un ordine perentorio, qualcosa di obbligatorio così come lo intendiamo noi nel significato corrente. La controprova che questo è il significato che Giovanni voleva dare al termine comandamento lo ritroviamo nel suo Vangelo dove il medesimo Apostolo per definire il comandamento di Mosè non usa più entolè ma “nomos”. 
Nel servire e seguire Cristo dunque, non abbiamo bisogno tanto di nomos. Il nostro rapporto con Dio è molto più che un seguire delle regole per eccellenti che siano. Dio ci dà dei comandi (entolè) che ci guidano, ci formano, ci conducono sul Suo sentiero: in breve, indicazioni che ci manifestano la sua volontà di salvezza.
In effetti, il termine greco usato da Giovanni è in relazione non solo all’ambito della legalità ma anche a quello della responsabilità. Gesù quindi non comunica tanto una regola, ma rivela una missione di salvezza e chiama ad una responsabilità. La traduzione latina è corretta e mette “mandatum novum” che viene da mittere=inviare. Quindi Gesù invita i suoi discepoli di allora e di oggi a mettere in essere questo mandato, a “creare” questa carità reciproca ed Egli aggiunge: «Il mondo vedrà che siete miei discepoli». Il mondo capirà che il Vangelo è vivo e in “vigore” (si dice anche della legge che è in vigore), se noi saremo amici, fratelli e sorelle tra noi. Si rinnoverà così il miracolo dei primi secoli dell’era cristiana, come lo attesta Tertulliano (n.155 – m. 230) che parla di come la gente pagana fosse stupita e dicesse: “Ma guarda, come si vogliono bene; ma guarda come c'è amore tra di loro” (Apol. 19).
Questo amore “comandato” da Cristo ha poi due caratteristiche indicate da “nuovo” e “come”.
Il comando dell'amore reciproco, fraterno è da Gesù definito «nuovo». Non si tratta di una novità puramente cronologica, ma di una novità qualitativa. Il comando dell'amore è nuovo come è nuovo Gesù, il nuovo Mosè che scrive la legge dell’amore non su tavole di pietra ma sul nostro cuore. L'amore reciproco, fraterno e gratuito è la novità della vita di Dio che irrompe nel nostro vecchio mondo, rigenerandolo. Ed è l'anticipo della vita eterna, definitiva e stabile cui aspiriamo.

2) Il dono di un comando che invita ad amare senza misura.
L'avverbio greco cathos usato nel vangelo romano odierno viene tradotto con il termine come: "Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri". Come intendere questo “come”? Forse i discepoli dovranno imitare il comportamento del proprio Maestro? Questo risulta riduttivo, si finirebbe per fare di Gesù un personaggio del passato, dal quale si ereditano delle consegne da applicare, di modo che l'azione dei discepoli perpetui nel tempo quella di Gesù. 
Al contrario è possibile un'interpretazione più profonda. Kathos qui, come in altri testi, non ha il senso di una similitudine, ma quello di un'origine. Si può tradurre: Con l'amore con cui vi ho amato, amatevi gli uni gli altri, versione più vicina al significato del testo. L'amore del Figlio per i suoi discepoli genera il loro movimento di carità: è il suo amore, l'amore di Gesù, che passa in loro quando amano i fratelli e ne sono riamati.
E' l'amore con il quale Gesù ama ogni uomo che rende possibile la fraternità e impegna in questo senso ogni comunità cristiana. Un amore sempre nuovo, sempre gratuito e profondo, come l'alleanza che Dio rivela amando l'umanità e il mondo (cfr. Gv 3,6; Ez 34-37; Ger 31,31).
Amarci gli uni gli altri con il cuore di Cristo ecco il comando nuovo. Ma se la misura della carità del nostro Redentore è “amare senza misura” (cfr. S. Bernardo di Chiaravalle (De diligendo Deo, 16), come possiamo essere all’altezza dell’amore di Cristo. E’ un compito impari. Gesù ha amato perdutamente, fino a perdere la sua stessa vita. Come possiamo fare altrettanto? Lui ha dato la propria vita per il suo prossimo, tutti noi, ed ha avuto come primo compagno in paradiso un condannato a morte: il buon ladrone. L’amore di Cristo è un amore dove prima dell’io c’è l’altro.
Come è possibile avere e vivere questo amore? Arrendendosi a questo amore. Se accetteremo di essere sua proprietà, come già aveva intuito il profeta Geremia: “Signore tu mi ha sedotto ed io mi sono lasciato sedurre”, saremo suoi figli per sempre. L’Amore che ci ha scelto fin dal momento in cui le sue mani plasmarono il nostro corpo, ci chiama ad essere come tralci che aderiscono alla vite e che producono frutti di vita vera per gli altri.
In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate che, con la loro piena risposta all’offerta di se stesse a Dio nella castità, mostrano che la legge del cielo è scesa sulla terra, perché l’amore di Dio rende possibile il santo amore per il prossimo, nella condivisione della fede e della reciproca e servizievole carità.



Lettura Patristica
SANT’AGOSTINO D’IPPONA
DISCORSO 332
Perché i martiri sono amici di Cristo. L'amore reciproco in vista del regno dei cieli.
1. Quando veneriamo i martiri, rendiamo onore ad amici di Dio. Volete sapere che cosa ha fatto di loro degli amici di Dio? Lo indica Cristo stesso; afferma infatti: Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda. Si amano a vicenda quelli che intervengono insieme agli spettacoli degli istrioni; si amano a vicenda quelli che si trovano insieme a ubriacarsi nelle bettole; si amano a vicenda quelli che accomuna una cattiva coscienza. Cristo dovette fare perciò una distinzione nell'amore quando ebbe a dire: Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda. In realtà, la fece; ascoltate. Dopo aver detto: Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda, subito aggiunse: come io vi ho amato. Amatevi a vicenda così, per il regno di Dio, per la vita eterna. Siate insieme ad amare, amate me, però. Vi amerete reciprocamente se vi unisce l'amore per un istrione; sarà maggiore il vostro amore reciproco se vi unisce l'amore per colui che non può farvi scontenti, il Salvatore.
Fino a che punto ci dobbiamo amore reciproco.
2. Il Signore proseguì ancora e continuò a istruire, quasi gli avessimo chiesto: E in che modo ci hai amati, per sapere come dobbiamo amarci tra noi? Ascoltate: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Amatevi a vicenda in modo da offrire ciascuno la vita per gli altri. I martiri infatti misero in pratica questo di cui parla anche l'evangelista Giovanni nella sua lettera: Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. Accostatevi alla mensa del Potente: voi fedeli ben sapete a quale mensa vi accostate; richiamate alla memoria le parole della Scrittura: Quando siedi davanti alla mensa di un potente, considera che tu devi preparare altrettanto. A quale mensa di potente ti accosti? A quella in cui egli ti porge se stesso, non a mensa imbandita dalla perizia di cuochi. Cristo ti porge il suo cibo, vale a dire, se stesso. Accostati a tale mensa e saziati. Sii povero e ti sazierai. I poveri mangeranno e si sazieranno. Considera che tu devi preparare altrettanto. Per capire, segui il commento di Giovanni. Forse infatti ignoravi che significa: Quando siedi alla mensa di un potente, considera che tu devi preparare altrettanto. Ascolta il commento dell'Evangelista: Come Cristo ha dato la vita per noi, così anche noi dobbiamo preparare altrettanto. Che vuol dire 'preparare altrettanto'? Dare la vita per i fratelli.
La carità è dono di Dio.
3. Per saziarti, ti sei accostato povero; come ti procurerai l'altrettanto da preparare? Fanne richiesta proprio a chi ti ha invitato, per avere di che dargli in cibo. Niente avrai se non te l'avrà dato egli stesso. Ma possiedi già un po' di carità? Non attribuirla a te stesso: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? Possiedi già un po' di carità? Chiedi che si accresca, chiedi che giunga a perfezione, fin quando tu non pervenga a quella mensa di cui non si trova una più lauta in questa vita. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Ti sei accostato povero, torni indietro ricco: anzi, tu non ti allontani e, restandovi, sarai ricco. Da lui i martiri ricevettero di che soffrire per lui: siatene certi, lo ebbero da lui. Fu il padre di famiglia a porgere loro di che offrirgli in cibo. Possediamo lui, chiediamo a lui. E, se siamo manchevoli quanto all'esserne degni, presentiamo la nostra domanda per mezzo dei suoi amici, gli amici di lui, i quali gli avevano offerto a mensa quanto egli aveva loro donato. Preghino, quelli, per noi, così che il Padre di famiglia lo accordi anche a noi. E per avere il di più, riceviamo dal cielo. Ascolta Giovanni che egli ebbe precursore: Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. Ne segue che riceviamo dal cielo anche quanto abbiamo; quindi riceviamo dal cielo di avere il di più.
I fornicatori non entreranno nella Città di Dio.
4. È proprio la città quella che discende dal cielo: vediamo di essere tali da meritare di entrarvi. Avete infatti ascoltato quali vi entrano e quali ne sono esclusi. Non siate di quelli che, come avete ascoltato, sono gli esclusi, specialmente i fornicatori. Alla lettura del passo in cui la Scrittura ha indicato quelli che non entreranno, dove sono citati anche gli omicidi, voi non vi siete sgomentati. Ha citato i fornicatori, e l'effetto è giunto al mio orecchio, perché vi siete battuti il petto. Io l'ho udito, personalmente l'ho udito, l'ho visto io; e di quel che non ho veduto nei vostri letti mi sono accorto al rimbombo, l'ho visto sui vostri petti, mentre siete stati a batterli. Cacciate via di là il peccato: battersi il petto, infatti, e continuare a fare queste medesime cose, nient'altro è che indurire i peccati quasi pavimento. Fratelli miei, figli miei, siate casti, amate la castità, tenetevi stretti alla castità, amate la pudicizia: Dio è l'autore della pudicizia nel suo tempio, che siete voi, la cerca; caccia via dal tempio gli impudichi. Contentatevi delle vostre mogli, dal momento che volete che le vostre mogli si contentino di voi. Come tu non vuoi che tua moglie abbia occasioni in cui vieni soppiantato, non averne da parte tua nei suoi confronti. Tu sei il signore, quella la serva: Dio ha creato entrambi. Sara - dice la Scrittura - aveva rispetto per Abramo, che chiamava signore. È vero; questi contratti sono a firma del vescovo: le vostre mogli sono vostre serve, voi, i padroni delle vostre mogli. Ma in riferimento al rapporto dove i sessi, che sono distinti, si uniscono, la moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito. Ecco, te ne stavi rallegrando, te ne sentivi orgoglioso, ti vantavi: "Ha detto bene l'Apostolo, il Vaso di elezione ha avuto un'affermazione della massima chiarezza: La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito. Dunque, il padrone sono io". L'elogio l'hai fatto: ascolta quel che vien dopo, sta' a sentire quel che non vuoi: io prego perché diventi tuo volere. Di che si tratta? Ascolta: Allo stesso modo anche il marito - quello che è il padrone - allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma la moglie. Ascolta questo con buone disposizioni. Ti si toglie di mezzo il vizio, non l'autorità, ti vengono proibiti gli adulteri, non si riconosce superiorità alla donna. Tu sei uomo, rivelati tale: "virilità", infatti, deriva da "virtù", o invertendo, "virtù" da "virilità". Perciò, possiedi la virtù? Vinci la libidine. Capo della moglie - dice l'Apostolo - è l'uomo. In quanto capo, sii la guida in modo che ti segua: ma fa' attenzione dove tu conduci. Tu sei il capo, conduci dove ti deve seguire: evita, però, di andare dove non vuoi che ti segua. Per non correre il rischio di finire in un precipizio, bada di fare un percorso rettilineo. Disponetevi in tal modo a recarvi dalla sposa novella, la cui bellezza, i cui ornamenti - non di gioielli ma di virtù - sono per suo marito. Se, quindi, lo avrete fatto da uomini casti e morigerati e giusti, anche voi farete parte delle membra di quella novella Sposa, che è la beata e gloriosa celeste Gerusalemme.

venerdì 19 aprile 2013

Il Pastore di amici. Un amico che ci ama per primo e continua ad amarci

IV Domenica di Pasqua – Anno C – 21 aprile 2013

Rito romano
At 13, 14. 43-52; Sal 99; Ap 7, 9. 14-17; Gv 10, 27-30
Il buon Pastore

Rito ambrosiano
At 21,8b-14; Sal 15; Fil 1,8-14; Gv 15,9-17
Vi ho chiamato amici: il Pastore di amici



Una breve premessa:
Nella nostra cultura attuale la figura del pastore è quasi sconosciuta e definire qualcuno pecora è un’offesa. 
Nella Bibbia, invece, la pastorizia è ben nota ed ha un significato positivo e profondo. Infatti nella Sacra Scrittura Dio stesso viene rappresentato come pastore del suo popolo. "Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla " (Sal 23,1). "Egli è il nostro Dio e noi il popolo che egli pasce" (Sal 95,7). Il futuro Messia è anch'esso descritto con l'immagine del pastore: "Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri" (Is 40,11). Questa immagine ideale di pastore trova la sua piena realizzazione in Cristo. Egli è il buon pastore che va in cerca della pecorella smarrita; si impietosisce del popolo perché lo vede "come pecore senza pastore" (Mt 9,36); chiama i suoi discepoli "il piccolo gregge" (Lc 12, 32). Pietro chiama Gesù "il pastore delle nostre anime" (1 Pt 2, 25) e nella lettera agli Ebrei "il grande pastore delle pecore" (Eb 13,20).
Dunque Gesù è il Pastore vero, perché è colui che guida con amore il suo gregge, provvede perché rimanga unito, difende le sue pecore dai pericoli. Il buon pastore conosce le pecore ad una ad una (non sono anonime) e si preoccupa per ciascuna di esse, le conta quando ritornano all'ovile perché nessuna vada perduta e se ne manca una, lascia le altre per cercare quella perduta.
Definendo pecore i propri seguaci e amici, Cristo sottolinea la relazione vitale che li unisce a Lui. Questa relazione di salvezza viene poi ulteriormente definita dai seguenti verbi: “ascoltano e seguono” riferiti a noi credenti, “conosco” riferito a Gesù.

1) Il Pastore buono, appassionato e provvidente.
Gesù conosce e ama ciascuno dei suoi seguaci. E non deve sembrare così strano che ci chiami pecore se lui stesso si è lasciato definire “agnello”, anche perché il suo compito di “togliere i peccati del mondo” diventi la nostra missione di portare il suo perdono a tutti i popoli.
Nel vangelo di oggi, Lui parla di noi come sue pecore e di se stesso come di pastore buono, che dà la vita per le sue pecore... Pecore a cui egli non rinuncia mai e che ama fino a donare la vita per loro: mosso dalla passione per noi non ha esitato e affrontare la passione della Croce. Lui è il pastore buono e innamorato e dà la vita perché noi abbiamo la vita eterna. Viene spontaneo chiedersi come facciamo, noi pecore così fortunate, a lasciare questa Via per smarrirci su strade che portano a dei burroni… fortunatamente lui, il Pastore immensamente buono ci cerca, ci chiama per nome e, quando ci trova, ci mette sulle sue spalle e, in quanto divino Pastore buono, misericordioso e fedelmente innamorato, ci conduce ai pascoli eterni del cielo (cfr 1 Pt 2,25).
Siamo nelle mani del Buon Pastore, che ci conduce amorevolmente ad uno ad uno e ci introduce nella vita vera, nella vita di amici, come il Vangelo ambrosiano ricorda. Da parte nostra però non basterà che di dichiariamo “amici” di Cristo. La vera amicizia con Gesù si esprime nel modo di seguirlo: con la bontà del cuore, con l’umiltà, con la mitezza e la misericordia.
Seguire Gesù è impegnare la nostra volontà e muovere i nostri i passi dietro Colui la cui Parola di Vita abbiamo ascoltato e amato. Dietro a lui i nostri passi non vacillano, Egli ci porterà ai verdi pascoli, anche se dovessimo attraversare una valle oscura... non temeremmo perché lui è con noi (cfr. Sal 23). 
Ma per seguire occorre 
ascoltare, impegnando la mente ed il cuore. Il vero ascolto è obbedienza (etimologicamente obbedire viene da ob-audire= prestare ascolto), come hanno fatto gli apostoli che cosi divennero pescatori di uomini e pastori di anime. L’obbedienza vera è, dunque, dare ascolto e mettere in pratica la parola d’amore che Cristo ci dice. L’obbedienza va vissuta non solo eseguendo dei gesti ma con il desiderio di imparare da Lui il criterio della propria vita, mettendoci alla sequela della verità dell’amore, lasciandoci guidare dall’amore di un Pastore buono, di un Amico vero.

2) La vocazione: “spazio” di libertà.
Se i due verbi “seguire” e “ascoltare”, usati nel vangelo romano di oggi, sono verbi che indicano un dialogo profondo, una comunione nell'esistenza, non soltanto nelle idee, il terzo verbo “conoscere” fonda la vocazione degli Apostoli e di ciascuno di noi. Essa è chiamata ad un rapporto di comunione fra Gesù e i suoi discepoli e coinvolge la persona intera: idee, amore, comportamento. Una chiamata per ricevere la vita: «Io do loro la vita eterna» e per condividerla con l’umanità intera.
Se due sono le note che caratterizzano, come dice Gesù, le sue pecore: ascoltare e seguire, con una precisazione: ascoltare la sua voce e percorrere la strada che Egli stesso percorre, il sapersi conosciuti e amati da Cristo vuol dire non tenere questo dono per se stessi. Con questa conoscenza di Cristo siamo chiamati ad essere sale e luce per il mondo. E’ vero poi che questo è un mondo che cambia, come oggi si è soliti dire, ma questa non è una ragione per affannarsi in ricerche e progetti diversi: la voce di Gesù è già risuonata e la direzione del suo cammino è già tracciata. Alla comunità cristiana è richiesta anzitutto la fedeltà della memoria, non anzitutto la genialità dell'invenzione di programmi pastorali nuovi.
Gesù è un amico che ci conosce e ci fa capire che è impegnato il cuore. Non si conosce veramente se non ciò che si ama. E' l'amore che è capace di andare oltre ad ogni evidenza. E' un conoscere dal di dentro, dall'intimo. E' un conoscere l'Essere, la Vita, la Verità seguendone la Via. E’ una conoscenza nell'Amore, che libera.
Gesù ha più volte detto che la sua libertà non sta nel prendere le distanze dal Padre, ma nel fare in tutto al sua volontà. Libertà e obbedienza al Padre (che è sempre l'obbedienza al dono di sé) coincidono. Lo spazio vero della libertà è l'amore, a cui Cristo ci chiama. La vocazione è un dono da accogliere con stupore: “Lo stupore per il dono che Dio ci ha fatto in Cristo, imprime alla nostra esistenza un dinamismo nuovo, impegnandoci a essere testimoni del Suo amore. E diveniamo testimoni, quando, attraverso le nostre azioni, parole, modo di essere, un ALTRO appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell'amore di Dio raggiunge l'uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell'uomo”. (Benedetto XVI, Sacramentum veritatis, n. 85).
Oggi, è la domenica del Buon Pastore, dedicata alle vocazioni sacerdotali, ma non dobbiamo dimenticare quelle religiose, perché chi si impegna a seguire Cristo nella povertà obbedienza e castità ricorda a tutto il Popolo di Dio che :“La povertà, la castità, l'obbedienza, non valgono nulla fintanto che non sono espressioni dell'amore, fintanto che non è l'amore, insomma, che ci spoglia nella povertà, non è l'amore che ci purifica nella castità, non è l'amore che ci immola nell'obbedienza.” (Divo Barsotti). Le Vergini Consacrate in particolare vivono ciò conformandosi ogni giorno di più alla preghiera che il Vescovo ha fatto su di loro il giorno della consacrazione: “Conducile nella via della salvezza, perché esse desiderino ciò che ti piace e siano sempre vigilanti per compierlo. Per Gesù Cristo, nostro Signore” (RCV, n21)





Due suggerimenti:
una preghiera ed una lettura.

In questo cammino verso il cielo Gesù, Pastore vero e appassionato, ci guida con amorosa provvidenza, possiamo pregare così: “Guidami, luce amabile,
tra l'oscurità che mi avvolge.
Guidami innanzi,
oscura è la notte,
lontano sono da casa.
Dove mi condurrai?
Non te lo chiedo,
o Signore!
So che la tua potenza 
m'ha conservato al sicuro 
da tanto tempo, 
e so che ora mi condurrai ancora, 
sia pure attraverso rocce e precipizi, 
sia pure attraverso montagne e deserti sino a quando sarà finita la notte. 
Non è sempre stato così: 
non ho sempre pregato 
perché tu mi guidassi!
Ho amato scegliere da me il sentiero, 
ma ora guidami tu!” (Beato J. H. NEWMAN).

Lettura Patristica
Cristo, buon pastore
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno papa

(Om. 14, 3-6; PL 76, 1129-1130)
“Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore», cioè le amo, «e le mie pecore conoscono me» (Gv 10, 14). Come a dire apertamente: corrispondono all'amore di chi le ama. La conoscenza precede sempre l'amore della verità.
Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell'amore; non del solo credere, ma anche dell'operare. L'evangelista Giovanni, infatti, spiega: «Chi dice: Conosco Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (1 Gv 2, 4).
Perciò in questo stesso passo il Signore subito soggiunge: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore «(Gv 10, 15). Come se dicesse esplicitamente: da questo risulta che io conosco il Padre e sono conosciuto dal Padre, perché offro la mia vita per le mie pecore; cioè io dimostro in quale misura amo il Padre dall'amore con cui muoio per le pecore. 
Di queste pecore di nuovo dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna (cfr. Gv 10, 14-16). Di esse aveva detto poco prima: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Entrerà cioè nella fede, uscirà dalla fede alla visione, dall'atto di credere alla contemplazione, e troverà i pascoli nel banchetto eterno.
Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch'è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l'anima si sazia senza fine del cibo della vita. 
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S'infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s'infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la metà stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare”.

venerdì 12 aprile 2013

L’autorità come servizio di carità: trasferire l’amore di Cristo ai fratelli e alle sorelle.

III domenica di Pasqua – Anno C – 14 aprile 2013

Rito romano
At 5, 27b-32. 40b-41; Sal 29; Ap 5, 11-14; Gv 21, 1-19
Cristo è l’amore che chiede di essere seguito.

Rito ambrosiano
At 28,16-28; Sal 96; Rm 1,1-1-16b; Gv 8,12-19
Cristo luce di carità per mondo.

1) Le apparizioni: una Presenza che sta.
A Pasqua, la prima di tutte le domeniche, abbiamo festeggiato la vittoria del Verbo di Vita, che è Luce. Questa Luce ha sconfitto le tenebre ed è il principio di una vita che non è sottomessa all’usura del tempo perché è messa nell’eterna giovinezza di Dio. Abbiamo celebrato la vittoria dell’Amore, che è più forte della morte e del peccato, che ha fatto entrare nel mondo la morte e le sue tenebre.
Domenica scorsa, la seconda dopo Pasqua, ci è stata ricordata la tenerezza di Gesù per Tommaso, il suo discepolo appassionato ma assente alla prima apparizione del Risorto nel Cenacolo. Questo Apostolo, davanti alla concretezza della presenza del Redentore, l’ha riconosciuto ed ha detto le parole più belle e splendide della fede cristiana: «Mio Signore e mio Dio». Allora Gesù guardò Tommaso con i suoi occhi pieni di misericordia.
Poi con uno sguardo che dona serenità e fiducia, che infonde coraggio e audacia, che sprigiona passione e forza irresistibili invitò tutti gli Apostoli ad andare fino agli estremi confini della terra per annunciare il Vangelo: la più buona e bella notizia di cui ha assoluto bisogno l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo.
In questa terza domenica di Pasqua Gesù dona la propria presenza ad alcuni apostoli per confermare loro la vocazione di essere imbarcati nel e dall’amore infinito, misericordioso e fedele, come i pesci della pesca straordinaria, di cui il vangelo di oggi ci parla. Non è solo un’apparizione per confermarli nella certezza della Sua Risurrezione, è anche una ri-presa della missione di essere pescatori di uomini.
Con le apparizioni Gesù manifesta una Presenza santa e fedele. Oggi come allora egli invita a stare con Lui, che sta (Gv 21,4) sulla riva del lago.
Con la sua Presenza dimostra che l’Amore donato vince la morte per sé e per gli amici, Giuda compreso. Non dimentichiamo che quando andò per tradirLo, Giuda fu chiamato da Cristo: “Amico”. Come non pensare che questa parola non abbia trafitto in bene il cuore del traditore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là.
Nell’ultima Cena Gesù disse a tutti gli Apostoli: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15, 15). Gesù fa anche a noi questo dono di chiamarci “amici”
E proprio perché siamo suoi amici, Cristo ci parla da amico ad amici e chiede di amarci gli uni gli altri, presentando il suo stesso amore come la fonte, il modello e la misura del nostro amore vicendevole e fraterno (cfr Gv 15, 12).
In breve, possiamo dire che il Risorto invita i suoi Apostoli, e oggi noi, a stare con lui. Occorre “stare” con Lui, innestati in Lui come tralci alla vite per avere la sua Vita, “occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri” (Benedetto XVI, alla Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo il 13 febbraio 2011). Stando con Lui condividiamo l’amore che dura per sempre ed è per tutti.




2) Il potere che nasce dall’amore: Mi ami? …Ti voglio bene… Pasci i miei agnelli.
Dopo il pasto consumato mangiando il pane offerto dal Risorto stesso e del pesce arrostito frutto della pesca eccezionale, inizia il dialogo tra Gesù e Pietro, che ricorda a Pietro il suo tradimento, la sua defezione. E' bastata la battuta di una serva pettegola per farlo crollare e ridicolizzare. Questo ricordo è doloroso per Pietro, ma Gesù non gli chiede né spiegazioni né scuse; gli chiede solo se gli vuole bene, perché a Gesù non interessa che il suo nuovo pontefice sia forte o coerente, gli interessa solo sapere se gli vuole bene, se ha ancora il desiderio di seguirlo. Colui che sarà il Vescovo di Roma, che presiede alla carità, riceve il suo incarico con un “esame” sulla carità. A Pietro che gli offriva il suo dolore, Cristo diede la conferma del suo amore.
Il cammino della santità non consiste nel non avere mai tradito, ma nel rinnovare ogni giorno la nostra amicizia per Cristo. 

Le tre domande di Gesù sono sempre diverse, perché Gesù si adatta alle riposte di Pietro. Alla prima domanda: Mi ami (in greco agapàs me da agapào) più di tutti?, Pietro risponde senza restare nei termini esatti: infatti mentre Gesù usa un verbo raro, quello dell'agàpe, il verbo sublime dell'amore assoluto, dell’amore di oblazione, Pietro risponde con il verbo umile, quotidiano, quello dell'amicizia e dell'affetto (in greco filèo): ti voglio bene (filo se), inoltre, non si paragona con gli altri. 

Ed ecco la seconda domanda: 
Simone figlio di Giovanni, mi ami (agapàs me)? Gesù ha capito la fatica di Pietro, e chiede di meno: non più il confronto con gli altri, ma rimane la richiesta dell'amore assoluto (agàpe). Pietro risponde ancora di sì, ma lo fa come se non avesse capito bene, usando ancora il suo verbo (filèo), quello più rassicurante, così umano, così nostro: io ti sono amico, lo sai, ti voglio bene. Non osa parlare di amore, si aggrappa all'amicizia, all'affetto. 

Nella terza domanda, è Gesù a cambiare il verbo, abbassa quella esigenza alla quale Pietro non riesce a rispondere, si avvicina al suo cuore incerto, ne accetta il limite e adotta il suo verbo: 
Pietro, mi vuoi bene (fileìs me da fileo)? 
Gli domanda l'affetto se l'amore è troppo; l'amicizia almeno, se l'amore mette paura; semplicemente un po' di bene. 
Gesù dimostra il suo amore abbassando per tre volte le esigenze dell'amore, rallentando il suo passo (come sulla strada verso Emmaus) su quello più lento del discepolo.
Insomma, Gesù accetta che Pietro lo “ami” come lui pensa gli è possibile e siccome sa che Pietro Lo ama veramente e totalmente gli affida il primato dell’amore per pascere la Chiesa, gli mette sulle spalle il potere che deriva dalla carità (agàpe). Uno che come Pietro ha saputo riconoscere la propria povertà e ricevere l’amore da Cristo, saprà servire, pascendoli i suoi fratelli poveri, bisognosi di amore e di verità. Pietro è pronto: saprà aiutare i fratelli poveri ora che ha accettato la sua povertà, ha mendicato l’amore del Signore, che lo invita a seguirlo, sempre.

3) E noi?
A Pietro, ma a ciascuno di noi, Gesù rivolge la parola finale del vangelo romano di oggi: «Seguimi». Dietro a Pietro, seguiamo Cristo, non dimenticando un fatto significativo: Gesù Cristo appare prima alle donne, sue fedeli seguaci, che non ai discepoli e agli stessi apostoli, che pure aveva scelto come portatori del suo Vangelo nel mondo.
Alle donne per prime affida il mistero della sua risurrezione, rendendole prime testimoni di questa verità. Forse vuol premiare la loro delicatezza, la loro sensibilità al suo messaggio, la loro fortezza che le aveva spinte fino al Calvario.
Forse vuol manifestare un tratto squisito della sua umanità, consistente nel garbo e nella gentilezza con cui accosta e benefica le persone che contano meno nel gran mondo dei suoi tempi. E ciò che sembra risultare da un testo di Matteo 28,9-10): «Ed ecco Gesù venne incontro (alle donne che correvano a dare l'annunzio ai discepoli) dicendo: Salute a voi! Ed esse, avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: "Non temete: andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno (e ciò accadde come ci testimonia il vangelo di oggi”. Anche l'episodio dell'apparizione a Maria di Magdala (Gv 20,11-18) è di straordinaria finezza sia da parte della donna, che rivela tutta la sua appassionata e composta dedizione alla sequela di Gesù, sia da parte del maestro che la tratta con squisita delicatezza e benevolenza.
A questa precedenza delle donne negli eventi pasquali dovrà ispirarsi la Chiesa, che nei secoli ha potuto contare tanto su di esse per la sua vita di fede, di preghiera e di apostolato.
Inoltre, secondo me, le Vergini consacrate ci danno un esempio di come la vita offerta a Dio nella consacrazione fa in modo che l’amore sia complemento che fa viva e operante la fede (Gal. 5, 6): l’amore, la carità; ciò che farà dire a S. Agostino una delle sue memorabili parole sintetizzanti: «Hoc est enim credere in Christum, diligere Christum»; questo vuol dire finalmente credere in Cristo, amare Cristo (Enarr. in Ps. 130, 1; PL 37, 1704). Ancora di più, le Vergini Consacrate mostrano con la loro vita che l’amore a Dio spinge al trasferimento di questo amore ai fratelli e sorelle in umanità.


Consiglio pratico:
Propongo di ripetere spesso questa bella preghiera di Sant’Agostino: “Custodisci, Signore, i nostri cuori uniti per sempre, affinché seguendo solo te lungo il cammino il nostro affetto diventi carità” (Custodi, Domine, animas nostras in perpetuo iunctas, ut te solum sequentes in via dilectio nostra caritas fieri posset).


LETTURA PATRISTICA
SANT’AGOSTINO D’IPPONA
SUL SALMO 130
ESPOSIZIONE
DISCORSO AL POPOLO
sull’umiltà e sulla fede che implica l’amore

Il credente è tempio di Dio e membro del corpo di Cristo.
1. Nel presente salmo ci si inculca l'umiltà di quel fedele servo di Dio dalla cui voce esso è cantato e che è l'intero corpo di Cristo. Spesse volte infatti abbiamo richiamato alla vostra attenzione che la voce di chi canta [nel salmo] non deve intendersi come voce di un singolo individuo ma come voce di tutti i componenti il corpo di Cristo. E siccome questi " tutti " sono compaginati nel suo corpo, possono parlare come un solo uomo: in effetti i molti e l'uno sono una stessa entità. In se stessi sono molti, nell'unità dell'unico [Cristo] sono uno solo. E questo corpo di Cristo è anche tempio di Dio, secondo le parole dell'Apostolo: Santo è il tempio di Dio e questo siete voi, voi cioè che credete in Cristo con quella fede che comporta l'amore. Credere in Cristo è infatti la stessa cosa che amare Cristo. Non come credevano i demoni, senza amore cioè, sicché pur credendo dicevano: Che c'è in comune fra noi e te, o figlio di Dio? Noi dobbiamo credere in modo tale che la nostra fede in Cristo sia un tratto di amore. La nostra parola non deve essere: Cosa c'è in comune fra noi e te? ma: Noi siamo tuoi, avendoci tu riscattati. Quanti credono in questa maniera sono, per così dire, le pietre vive con le quali è costruito il tempio di Dio ; sono il legno incorruttibile con cui fu formata l'arca che le acque del diluvio non riuscirono a sommergere. Essi sono ancora il tempio di Dio - si tratta ovviamente sempre di uomini! - nel quale Dio viene pregato e dal quale egli esaudisce. Chi prega Dio al di fuori di questo tempio non viene esaudito col conseguimento della pace propria della Gerusalemme celeste, sebbene venga esaudito quanto a certe richieste di beni temporali che Dio elargisce anche ai pagani. In tal senso una volta furono esauditi anche i demoni, quando fu loro concesso di entrare nei porci. Ben altra cosa è l'essere esaudito in ordine alla vita eterna, e questo non è concesso se non a chi prega nel tempio di Dio. Ora nel tempio di Dio prega soltanto colui che prega nella pace della Chiesa, nell'unità del corpo di Cristo. Questo corpo di Cristo consta di molti credenti sparsi su tutta la terra, ed è per questo che chi prega nel tempio viene esaudito. Chi prega nella pace della Chiesa prega in spirito e verità, né la sua preghiera è fatta in quel tempio che era solamente una figura.

DISCORSO 34
http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_045_testo.htm
DISCORSO TENUTO A CARTAGINE NELLA BASILICA DEI MAGGIORI
 SUL RESPONSORIO DEL SALMO 149:
"CANTATE AL SIGNORE UN CANTICO NUOVO"
1. Siamo stati esortati a cantare al Signore un cantico nuovo. L'uomo nuovo conosce il cantico nuovo. Il cantico è un fatto d'allegrezza e, se consideriamo la cosa con maggior diligenza, è un fatto d'amore, sicché chi sa amare la vita nuova sa cantare il cantico nuovo. Occorre quindi che ci si precisi quale sia la nuova vita a motivo del cantico nuovo. Rientrano infatti nell'unico regno tutte queste cose: l'uomo nuovo, il cantico nuovo, il testamento nuovo, per cui l'uomo nuovo e canta il cantico nuovo e appartiene al Testamento nuovo.
Amiamo perché siamo stati amati.
2. Non c'è nessuno che non ami; quel che si domanda è che cosa ami. Non ci si esorta a non amare ma a scegliere quel che amiamo. Ma cosa potremo noi scegliere se prima non siamo stati scelti noi stessi? In effetti, se non siamo stati prima amati, non possiamo nemmeno amare. Ascoltate l'apostolo Giovanni. È quell'apostolo che poggiò il capo sul petto del Signore e in quel banchetto bevve i misteri celesti . Da quanto bevve, da quella sua felice ubriachezza eruttò: In principio era il Verbo . Umiltà sublime ed ubriachezza sobria! Orbene, quel grande eruttatore, cioè predicatore, fra le altre cose che aveva bevute dal petto del Signore disse anche questo: Noi amiamo perché lui ci ha amati precedentemente . Molto aveva concesso all'uomo - parlava infatti di Dio! - quando aveva detto: Noi amiamo. Chi ama? Chi è amato? Gli uomini amano Dio, i mortali l'immortale, i peccatori il giusto, i fragili l'immutabile, le creature l'artefice. Noi abbiamo amato. Ma chi ci ha dato questa facoltà? Poiché egli ci ha amati antecedentemente. Cerca come possa l'uomo amare Dio: assolutamente non lo troverai se non nel fatto che egli ci ha amati per primo. Ci ha dato se stesso come oggetto da amare, ci ha dato le risorse per amarlo. Cosa ci abbia dato al fine di poterlo amare ascoltatelo in una maniera più esplicita dall'apostolo Paolo, che dice: La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori. Ma come? Forse per opera nostra? No. Ma allora come? Attraverso l'azione dello Spirito Santo che ci è stato dato .
Dio è amore ineffabile.
3. Poiché dunque tanto grande è la fiducia che abbiamo, amiamo Dio attraverso Dio. Senz'altro! Siccome lo Spirito Santo è Dio, noi amiamo Dio attraverso Dio. Cosa potrei dire di più che amiamo Dio attraverso Dio? Effettivamente, se ho potuto affermare che l'amore di Dio è diffuso nei nostri cuori attraverso l'azione dello Spirito Santo che ci è stato donato , ne segue che, essendo lo Spirito Santo Dio, noi non possiamo amare Dio se non per mezzo dello Spirito Santo, cioè non possiamo amare Dio se non attraverso Dio. Ne è la [ovvia] conseguenza. Ascoltate la cosa in maniera più palese dallo stesso Giovanni. Dio è amore, e chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui . Sarebbe stato poco dire: L'amore procede da Dio. Chi di noi oserebbe dire quello che propriamente è stato detto: Dio è amore? Lo ha detto uno che sapeva quel che possedeva. Come fa allora l'immaginazione e il pensiero dell'uomo, così instabili, a fabbricarsi un dio? Come può l'uomo fabbricarsi in cuore un idolo, modellandolo sulle forme che può pensare e non qual è quello che ha meritato di scoprire? "No è così?". "No, ma è così". Cosa stai lì a ordinarne i lineamenti, a strutturarne le membra, a plasmare secondo il tuo arbitrio la statura, a immaginare la bellezza del corpo? Dio è amore. Qual è il colore della carità? quali i lineamenti? quale la forma? Nulla di questo vediamo; eppure lo amiamo.
Esempio dell'amore umano.
4. Oso dire una cosa alla vostra Carità. Osserviamo nelle cose inferiori ciò che dobbiamo riscontrare nelle superiori. Lo stesso amore basso e terreno, lo stesso amore sudicio e delittuoso che si attacca alle bellezze del corpo ci offre un qualche richiamo per elevarci alle cose più alte e più pure. Ecco un uomo lascivo e disonesto che si innamora d'una bellissima donna. Il movente è, è vero, la bellezza del corpo, ma quello che si cerca è lo scambio interno di amore. Se infatti quel tale ode che la donna lo odia, non ne seguirà forse che tutto il suo trasporto impetuoso per quelle membra attraenti si raffredderà? Da ciò che mirava d'avere, in certo qual modo si ritrae, si allontana, e, offeso, comincia anche a odiare ciò che amava. Forse che è mutata la bellezza esteriore? Non le restano forse ancora tutte le doti che l'avevano attratto? Certo che restano. La verità è che egli ardeva [d'amore] per ciò che vedeva, ma dal cuore esigeva ciò che non vedeva. Se al contrario s'accorge che lo scambio d'amore esiste, quanto più fortemente se ne infiamma! Lei vede lui, lui vede lei, l'amore non lo vede nessuno. Eppure ciò che si ama è proprio questo [elemento] che non si vede.
5. Elevatevi da questa bramosia fangosa, per abitare [col cuore] nella carità fulgente di luce. Tu non vedi Dio. Ama e lo possiedi. In fatto di desideri riprovevoli, quante cose si amano e non si riesce ad averle! Vengono cercate con affetto sordido, ma non per questo immediatamente le si posseggono. Coincidono forse amare l'oro e possedere l'oro? Molti lo amano, ma non lo posseggono. Forse che amare amplissimi e feracissimi campi è lo stesso che possederli? Molti li amano ma non li posseggono. Forse che amare gli onori è lo stesso che possedere gli onori? Molti, che pur bramano ardentemente gli onori, son privi di onori. Cercano di averli, ma spesse volte muoiono prima di conseguire quel che cercavano. Dio ci si offre in forma di capitale. Ci grida: Amatemi e mi possederete, poiché se non mi avreste, non potreste nemmeno amarmi.
Siate voi stessi la lode di Dio.
6. O fratelli, o figli, o germogli della Chiesa cattolica, o semi santi e celesti, o rigenerati in Cristo e [in lui] nati dall'alto, ascoltatemi! Anzi, stimolati da me, cantate al Signore un cantico nuovo . Eccomi - dici - io sto cantando. Stai cantando, è vero, stai cantando: lo ascolto. Ma che la tua vita non proferisca testimonianza contrastante con la tua lingua. Cantate con le voci, cantate con i cuori; cantate con le labbra, cantate con i costumi. Cantate al Signore un cantico nuovo. Volete sapere cosa occorra cantare di colui che amate? Senza dubbio vuoi cantare di colui che ami. Vuoi conoscere le sue lodi per cantarle. Avete ascoltato: Cantate al Signore un cantico nuovo. Vuoi conoscerne le lodi? La sua lode nella Chiesa dei santi . La lode da cantare è lo stesso cantore. Volete innalzare lodi a Dio? Siate voi la lode che volete proferire; e sarete sua lode se vivrete bene. La sua lode infatti non è nelle sinagoghe dei giudei, non è nella scempiaggine dei pagani, non negli errori degli eretici, non nelle acclamazioni dei teatri. Volete sapere dove sia? Guardate a voi stessi, siatelo voi stessi! La sua lode nella Chiesa dei santi. Cerchi il motivo che ti faccia godere quando canti? Si allieti Israele in colui che l'ha creato ; e non troverà dove allietarsi se non in Dio.
Per acquistare la carità dona te stesso.
7. Bene, miei fratelli! Interrogate voi stessi, esaminate le [vostre] celle interiori. Guardate e riflettete su quanto siate ricchi in fatto di carità; e poi accrescete quel che avete riscontrato. Badate a tale tesoro, perché possiate essere interiormente ricchi. Anche delle altre cose che hanno un gran pregio si dice, è vero, che son cose care, e ciò non invano. Osservate il vostro modo di parlare. Questo - dite - è più caro di quello. Che significa "più caro" se non più prezioso? Se si dice "più caro" ciò che è più prezioso, che cosa, miei fratelli, sarà più caro della carità in se stessa? Quale pensiamo possa essere il suo prezzo ? Dove si trova il suo prezzo? Prezzo del grano è qualche tua moneta, prezzo d'un campo è l'argento, prezzo di una pietra preziosa è l'oro; prezzo della carità sei tu stesso. Cerchi dunque come possedere un campo, una pietra preziosa, un giumento. Cerchi come comprare un campo e lo cerchi in tasca tua. Se però vuoi possedere la carità, cerca te stesso, trova te stesso. Forse che stenti a darti per paura di consumarti? Tutt'altro! Se non ti darai sei perduto. La stessa carità [ti] parla per bocca della Sapienza e ti dice qualcosa che t'impedisce d'avere paura delle parole: Da' te stesso . Se infatti qualcuno volesse venderti un campo ti direbbe: Dammi del tuo oro, e se qualche altro [volesse venderti] cose simili, dammi tue monete - ti direbbe -, dammi del tuo argento. Ascolta cosa ti dice la carità per bocca della Sapienza: Dammi il tuo cuore, o figlio . Dice: Dammi. Che cosa? Il tuo cuore, o figlio. Era male quando esso era dalla parte tua, quando era tuo. Ti lasciavi infatti attrarre da vanità e da amori lascivi e perniciosi. Toglilo da li! Dove lo trasporterai? dove lo porrai? Dice: Dammi il tuo cuore. Appartenga a me e non perirà per te. Osserva infatti se ha voluto lasciare in te qualche possibilità d'amare te stesso colui che ti dice: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua anima . Cosa resta del tuo cuore per amare te stesso? Cosa della tua anima o della tua mente? Dice: Con tutto. Esige tutto te colui che ti ha creato. Ma non rattristarti quasi che non ti rimanga nulla di cui godere. Si allieti Israele, non in sé, ma in colui che l'ha creato .
Se non ami Dio non ami te stesso.
8. Mi replicherai dicendo: Se non mi rimane alcuna risorsa per amare me stesso - dal momento che mi si ingiunge di amare colui che mi ha creato con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente  - come nel secondo precetto mi si comanda di amare il prossimo come me stesso? . Questo significa piuttosto che devi [darti] al prossimo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Come? Amerai il prossimo tuo come te stesso . Dio con tutto me stesso, il prossimo come me stesso. Così me, così te. Vuoi ascoltare come debba amare te? Ami te stesso, se ami Dio con tutto te stesso. Credi che giovi a Dio il fatto che tu lo ami? Forse che, per il fatto che lo ami, Dio ci acquista qualcosa? Se non lo ami, chi ci perde sei tu. Quando [lo] ami, tu te ne avvantaggi; tu sarai là dove non si perisce. Mi risponderai dicendo: Ma quando non mi sono amato? Non ti amavi certamente quando non amavi Dio, tuo Creatore. Ma tu, pur odiandoti, credevi di amarti. Difatti chi ama l'iniquità odia la sua anima .
Preghiera dopo il discorso.
9. Rivolti al Signore, Dio Padre onnipotente, a lui, con cuore puro, per quanto può la nostra pochezza, rendiamo amplissime grazie. Preghiamo con tutta l'anima la sua incomparabile mansuetudine perché si degni di esaudire, secondo il suo beneplacito, le nostre preghiere; con la sua potenza espella il nemico dalle nostre azioni e dai nostri pensieri, moltiplichi in noi la fede, governi la mente, conceda pensieri spirituali e ci conduca alla sua beatitudine. Per Gesù Cristo, suo Figlio e nostro Signore, che è Dio, e vive e regna con lui nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

venerdì 5 aprile 2013

«La Misericordia è il fiore dell’amore» (Santa Faustina Kowalska)

II Domenica di Pasqua – Anno C – 7 aprile 2013
Domenica della divina Misericordia

Rito romano
At. 5,12-16; Sal 117; Ap.1, 9-11. 12-13. 17.19; Gv. 20,19-31
Rito ambrosiano
At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31

1) La misericordia è l’elemosina di Dio.
Quello che vorrei sottolineare del Vangelo di questa domenica è il fatto che, per aiutare la fede di San Tommaso Apostolo, Gesù riappare di nuovo nel Cenacolo e chiede a questo apostolo, che era assente alla Sua prima apparizione, di mettere le dita nel Suo costato trafitto, da cui sulla croce erano sgorgati sangue e acqua ((cfr Gv 19, 34).
Oggi a noi è chiesto di fare memoria dell’incontro di una uomo incredulo, che poté mettere la sua mano nel costato di Cristo, dal cui cuore trafitto dal peccato scaturisce ancora l’onda grande della misericordia. Anche se i nostri peccati fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore... il resto lo farà Dio.
Ogni cosa ha inizio nella sua misericordia e nella sua misericordia finisce, scriveva Santa Faustina Kowalska. Per questo il Beato Giovanni Paolo II ha dedicato alla divina misericordia la Domenica seconda dopo Pasqua.
In effetti la liturgia di oggi, a partire della preghiera di inizio, è una liturgia di misericordia. Certo la decisione di Giovanni Paolo II fu ispirata pure dalle rivelazioni private avute da Santa Faustina Kowalska, la quale vide partire dal costato di Cristo due raggi di luce, uno rosso, che rappresenta il sangue, e l’altro bianco che rappresenta l’acqua. Se il sangue evoca il sacrificio della croce e il dono dell’eucaristia, l'acqua ricorda il battesimo ed il dono dello Spirito Santo (cfr Gv 3,5; 4,14; 7,37-39).
Attraverso il cuore trafitto di Cristo crocifisso la misericordia divina raggiunge gli uomini. Gesù è “l'Amore e la Misericordia in persona” (Santa Faustina Kowalska, Diario, 374). La Misericordia è un “secondo nome” dell'Amore (cfr Dives in misericordia, 7), colto nel suo aspetto più profondo e tenero, nella sua capacità e disponibilità di farsi carico di ogni bisogno, soprattutto il bisogno del perdono. “Alla grande ferita dell’anima corrisponde la grande misericordia di Dio” (Sant’Eusebio).
Gesù “usa” l’unguento della piaga del Suo costato per curare il cuore di Tommaso, piagato dall’incredulità. La medicina della sua misericordia è più grande delle colpe umane. Si fa incontro a Tommaso, agli altri apostoli e, oggi, a ciascuno di noi e non chiede: “Cosa hai fatto?” ma “Mi ami?”, come domandò a Pietro in riva al lago dopo la risurrezione. Pietro, e noi pure, non abbiamo che il nostro dolore come risposta a Cristo, ma a Lui basta. E, come fece con Pietro, ci conferma nel suo amore misericordioso, un amore che libera, guarisce e salva
Noi siamo poca e fragile cosa, ma possiamo essere nella gioia se diciamo: “Signore Gesù confido in te” (come fu suggerito a santa Faustina da Gesù: cfr Diario, 327 ), perché è fonte di letizia l’annuncio di questa misericordia: Gesù è misericordia. Egli è mandato dal Padre per farci conoscere che l'essenza di Dio ha come caratteristica suprema per l'uomo la misericordia.
Dobbiamo domandarci se siamo sempre coscienti che noi viviamo per la misericordia di Dio, per la sua elemosina, che ci dà vita, libertà, amore, speranza, perdono e ogni grazia. Dobbiamo pure domandarci se pratichiamo l’elemosina. L'elemosina è un fatto che tocca le radici della vita dell'uomo perché è accettazione del modo di vivere di Cristo, il quale da “ricco che era si è fatto povero per voi, per arricchirvi mediante la sua povertà” (2 Cor 8,9). E' accettazione che Cristo sia la ricchezza della nostra vita, e va seguito senza rimpiangere i propri beni (cfr Mt 19,21s).
L’elemosina-misericordia non è pura e semplice filantropia, ma amore per Cristo, che raggiungiamo attraverso i nostri fratelli poveri: “ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli, l'avete fatto a me” (cfr Mt 25). Tanto è vero che Cristo accetta che si "sciupi" per lui il profumo prezioso invece di venderlo per i poveri: è Cristo il fondamento valido di ogni amore per il prossimo.


2) La misericordia come vocazione.
San Tommaso, toccando l’uomo e riconoscendo Dio “Signor mio e Dio mio”, credette e fu confermato con gli altri Apostoli nella vocazione di annunciare il Vangelo di misericordia : “Come il Padre ha mandato me, io mando voi”. Da questo momento il “vento” di Dio portò i discepoli sino agli estremi confini della terra e... fino al martirio. Come in una nuova creazione, lo Spirito del Risorto fa capaci i discepoli di qualcosa d'inaudito: perdonare i peccati. Vanno a tutti perché gli uomini e le donne, sotto tutti i cieli, hanno bisogno proprio di questo: misericordia e perdono.
Anche il dolore è rovesciato: dal momento che Cristo è risorto “ tutto il dolore che c’è nel mondo non è dolore di agonia, ma dolore di parto” ( P. Claudel ). Allora la vita può essere vissuta come una festa, il Risorto offre immaginazione e coraggio per creare il “nuovo”. Mentre le ideologie e utopie umane s’infrangono tutte contro lo scoglio della morte, Gesù apre le porte della speranza cristiana, che non delude e non si risolve in un “desiderio smentito”. Nessuna croce, nessuna prova, nessun dramma può togliere la pace o spegnere la gioia che viene dalla Risurrezione
La Pasqua di Risurrezione mostra che la morte vince solo “per un poco”, e non ha l’ultima parola.
La nostra vocazione, come quella di Tommaso e degli altri Apostoli, è di annunciare il Vangelo di Misericordia, di raccontare la misericordia di Dio Padre, attraverso la propria capacità di perdono e di remissione dei peccati (per chi è prete): tutti laici e sacerdoti siamo chiamati ad essere lievito di misericordia.
Alla luce del Vangelo è più chiara l’espressione: “Pietà e tenerezza è il Signore” (Sal 110/111, 4), che ci ha donato con indicibile bontà il suo unico Figlio, nostro Redentore.
Facendo tramite la Chiesa esperienza del grande amore con il quale Dio ci ha amati (Ef 2,4), accogliamo la sua misericordia e proclamiamolo dentro la comunità cristiana e nel mondo. Siamo chiamati ad essere lievito di misericordia nella pasta del mondo. Noi non apparteniamo al mondo, apparteniamo a Cristo e condividiamo la sua missione di essere lievito di misericordia per far risorgere il mondo
In questo ci è di esempio il volto della Madre di Gesù, riflesso nel volto delle vergini consacrate, che si sforzano di seguire il Maestro divino e, quindi, ad essere per l'umanità il segno della misericordia e della tenerezza divina.
Come ci invita Papa Francesco “impariamo ad essere misericordiosi con tutti. Invochiamo l’intercessione della Madonna che ha avuto tra le sue braccia la Misericordia di Dio fatta uomo (Papa Francesco, Angelus, 14 marzo 2013)
La misericordia è l’amore in eccesso che le Vergini consacrate vivono donandosi completamente a Cristo, la misura colma e traboccante che va oltre la giustizia, non commisurato al merito dell’altro, né ai propri interessi. Esse evangelizzano mediante la misericordia, perché nella Verginità accolgono sulle loro ginocchia Cristo deposto dalla Croce e ne proclamano il perdono.
Esse sono certe dell’Emmanuele, del “Dio con noi” a cui offrono la vita per essere con Lui Ostia di misericordia, che perdona e rinnova la vita.
Sperimentando il perdono di Dio e perdonando sempre diventiamo certi che la Sua potenza è più grande della nostra debolezza. Certi del "Dio con noi". Solo da questa certezza può venire la gioia, solo dalla certezza del "Dio con noi" può venire la gioia. Dobbiamo domandarci se siamo sempre coscienti che noi viviamo per la misericordia di Dio, per la sua elemosina, che ci dà vita, libertà, amore, speranza, perdono e ogni grazia. La misericordia di Cristo tramite loro continua ad essere dono della vita, della vita vissuta in Cristo, con Cristo per Cristo-Misericordia


NB: Come aiuto alla riflessione ed alla pratica propongo l’etimologia della parola Elemosina, l’elenco delle opere di misericordia corporale e spirituale e un’omelia di San Gregorio di Nissa sulla misericordia.

Elemosina, che in francese si dice aumône, inglese alms, viene dal greco elemosyne: misericordia, compassione (specialmente verso i poveri, quindi beneficenza, dallo stesso tema elèemon, pietoso, èleos: pietà, eleèo: aver compassione. Ora si intende ciò che si dà ai poveri per carità. Si vedano le riflessioni che ho proposte per I Domenica di Quaresima, 17 febbraio 2013.
La Chiesa - servendosi della Bibbia, ma anche della propria esperienza bimillenaria - riassume l'atteggiamento positivo verso chi è in difficoltà, con due serie di opere di misericordia: quelle corporali e quelle spirituali.
Le ricordiamo:
Le sette opere di misericordia corporale
1) Dar da mangiare agli affamati
2) Dar da bere agli assetati
3) Vestire gli ignudi
4) Alloggiare i pellegrini
5) Visitare gli infermi
6) Visitare i carcerati
7) Seppellire i morti.

Le sette opere di misericordia spirituale
8) Consigliare i dubbiosi
9) Insegnare agli ignoranti
10) Ammonire i peccatori
11) Consolare gli afflitti
12) Perdonare le offese
13) Sopportare pazientemente le persone moleste
14) Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Ricorrendo al numero sette per due volte, la Chiesa intende dare a quel numero il valore simbolico raccolto nella Bibbia. Come a dire che in quel numero, che significa completezza, si vuol esprimere tutto ciò che riguarda l'aiuto verso il prossimo.
Veniamo quindi sollecitati a esercitare un amore concreto verso il nostro prossimo in situazione di disagio.
Come già raccomandava S. Giovanni ai primi cristiani: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 3,18). E S. Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola, non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Gc 1,22).

LETTURA PATRISTICA
SAN GREGORIO DI NISSA:
OMELIE SULLE BEATITUDINI
ORAZIONE QUINTA
"Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia"
La virtù come progresso incessante verso il meglio. Il simbolo della scala.
Forse, ciò in cui fu istruito, enigmaticamente, Giacobbe con una visione, quando vide una scala che dalla terra giungeva all'altezza del cielo e Dio che stava sopra di essa [Gen 28,10ss], è qualche cosa di simile a ciò che ora anche a noi propone l'insegnamento delle beatitudini, che solleva a pensieri sempre più alti coloro che ascendono grazie ad esso. Io credo, infatti, che in quella occasione sia stata rappresentata al patriarca, sotto la forma della scala, la vita secondo virtù, perché lui stesso imparasse ed insegnasse alla sua discendenza, che essere innalzati a Dio non consiste in altro che in questo: con lo sguardo sempre fisso verso l'alto e con l'incessante desiderio delle realtà superiori, non amare la sosta nelle azioni rette già compiute, ma anzi ritenere una perdita il non toccare la realtà posta più in alto. Anche qui, dunque, l'elevatezza delle beatitudini che si sorreggono una sull'altra, ci predispone ad accostarci a Dio, il vero beato, che è stabilito al di sopra di ogni beatitudine. Certamente, come ci accostiamo al sapiente attraverso la sapienza e al puro attraverso la purezza, così anche dobbiamo assimilarci al beato attraverso le beatitudini. La beatitudine, nel senso più vero, è propria di Dio; perciò anche Giacobbe narrò che Dio poggiava sopra tale scala. La partecipazione alle beatitudini non è dunque null'altro se non comunione con la divinità, alla quale il Signore ci innalza attraverso ciò che è stato detto. A me sembra, dunque, che Egli, con il fatto di far precedere alla conseguenza l'indicazione della beatitudine, renda in un certo qual modo "dio" colui che ascolta e comprende il discorso. "Beati -Egli dice infatti- i misericordiosi, perché troveranno misericordia". Io so che in molti passi della Sacra Scrittura i santi chiamano con il nome di "misericordioso" la potenza divina. Così fa Davide negli inni, così Giona nella sua profezia, così il grande Mosè, più volte, nella Legge. Se dunque la denominazione di "misericordioso" spetta a Dio, a cos'altro ti invita il Logos se non a divenire "dio", come se tu fossi modellato secondo un attributo proprio della divinità? Se infatti Dio è chiamato "misericordioso" nella Scrittura divinamente ispirata e da stimarsi veramente beata è la divinità, dovrebbe essere evidente il pensiero conseguente: se uno, pur essendo uomo è misericordioso, egli è reso degno della beatitudine divina, essendo in lui quell'attributo con cui è designato Dio. "Misericordioso è il Signore e giusto; il nostro Dio ha misericordia" [Sal 114,5]. Come dunque può non essere cosa beata che un uomo sia chiamato con il nome con cui è appellato Dio per il suo agire, e lo diventi realmente? Ora, anche il divino apostolo invita con parole proprie ad essere zelanti per i doni più grandi; lo scopo di quest'invito, per noi, non è di persuaderci a desiderare il bene (è infatti spontaneo per la natura umana avere inclinazione per il bene), ma ci è rivolto perché non sbagliamo nel giudizio del bene. Infatti soprattutto in ciò fallisce la nostra vita: nel non poter comprendere con chiarezza che cosa sia il bene per natura e che cosa sia ciò che è supposto tale per errore. Se infatti il male si fosse presentato nella vita spoglio, senza valersi di nessuna apparenza di bene, il genere umano non avrebbe disertato a suo favore. Noi abbiamo dunque bisogno di giudizio per comprendere le parole che ci sono proposte, perché, edotti riguardo alla vera bellezza del pensiero che è contenuto in esse, ci conformiamo ad essa. Come la concezione di Dio è insita naturalmente in ogni uomo ma, rimanendo sconosciuto chi sia veramente Dio, si genera l'errore riguardo l'oggetto dei nostri pensieri (alcuni, infatti, venerano la vera divinità, contemplata nel Padre nel Figlio e nello Spirito Santo, altri, invece, andarono errando in assurde concezioni, supponendo che tale divinità fosse nel creato; perciò, la deviazione, seppur di poco, dalla verità ha aperto la strada alle empietà), così, se non comprendessimo il vero senso del concetto proposto, noi, erranti, subiremmo una perdita della verità non da poco.
La misericordia come amore reciproco e "simpatia" nata dalla carità.
Che cosa è dunque la misericordia e relativamente a cosa si esercita? E come può essere detto beato colui che riceve in cambio ciò che dà? Dice infatti il Signore: "beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Il senso più accessibile del contenuto del detto esorta l'uomo all'amore reciproco e alla simpatia poiché, per l'ineguaglianza e la varietà dei fatti della vita, non tutti vivono nelle stesse condizioni, né per la reputazione, né per la costituzione fisica, né per i rimanenti beni. La vita, il più delle volte, si divide in opposti: in schiavitù e in signoria, in ricchezza e povertà, in fama e disonore, in deformità fisica e in buona salute, scindendosi in tutti gli opposti di questo genere. Perché dunque fosse pareggiato ciò che è scarseggiante con ciò che abbonda e riempito ciò che è mancante con ciò che è in eccesso, fu prescritta agli uomini la misericordia per i più bisognosi. Non è possibile, infatti, sentire l'impulso a curare la disgrazia del vicino, se la misericordia non ha suscitato nell'anima simile istinto. Si pensa alla misericordia, infatti, come al contrario della durezza di cuore. Come l'uomo duro di cuore e furioso è inaccessibile per coloro che gli si avvicinano, così l'uomo compassionevole e misericordioso è come addolcito per la sua disposizione verso il bisognoso, diventando, per colui che è afflitto, ciò che il suo spirito angosciato ricerca. La misericordia è, come qualcuno potrebbe interpretare comprendendola con una definizione, una afflizione volontaria prodottasi per i mali altrui. Se poi non avessimo dimostrato pienamente il senso di quel concetto, si potrebbe forse spiegarlo più pienamente con un altro discorso. Misericordia e una disposizione di canti verso coloro che si trovano in situazioni penose. Come infatti la durezza di cuore e la ferocia traggono origine dall'odio, la misericordia è come generata dalla carità, non potendo esistere senza di lei. Se si volesse poi sviscerare in modo più penetrante la caratteristica propria della misericordia, si troverebbe che è un ardore nella disposizione di carità unita all'affezione del dolore. Infatti si ricerca con ardore la comunione dei beni con tutti in ugual modo, amici e nemici. La volontà di condividere le pene è poi caratteristica propria solo di coloro che sono dominati dalla carità. D'altra parte si è senza dubbio d'accordo nel riconoscere che la carità è la cosa più eccellente tra quante si perseguono in questa vita. La misericordia è poi ardore di carità. è dunque da ritener beato in senso proprio colui che si trova in tale disposizione d'animo, poiché è come se avesse toccato il vertice della virtù. Nessuno, poi, consideri la virtù solo nella dimensione materiale; se così fosse simile rettitudine di comportamento sarebbe possibile solo a chi ha una certa potenza a far bene, invece a me sembra più giusto vedere simile rettitudine nella scelta. Se infatti uno avesse soltanto voluto il bene, ma gli fosse stato impedito di compierlo, il non poterlo attuare non lo renderebbe per nulla inferiore, nella disposizione d'animo, a colui che ha manifestato la sua intenzione nei fatti. Se ora si è colto il senso della beatitudine, dovrebbe risultare superfluo spiegare quanto sia grande il guadagno che ne deriva alla vita, perché sono evidenti perfino ai semplici i risultati felici per la vita di questo consiglio. Se infatti, per ipotesi, ci fosse in tutti una simile disposizione d'animo verso l'inferiore, non ci sarebbe più né superiore né inferiore; la vita non si differenzierebbe più nell'opposizione dei nomi. La fame non affliggerebbe più l'uomo, né lo umilierebbe la schiavitù, né lo addolorerebbe il disonore, ma tutto sarebbe comune a tutti e un'uguaglianza di diritti e un'egual libertà di parola avrebbe cittadinanza nell'esistenza umana, poiché chi governa si porrebbe volontariamente allo stesso livello del resto dei cittadini. Se ciò accadesse non sarebbero più comprensibili dei motivi di inimicizia: resterebbe inattiva l'invidia, sarebbe morto l'odio e sarebbero esiliati il ricordo delle ingiurie, la menzogna, l'inganno, la guerra (tutti frutti del desiderio di avere di più). Una volta bandita quella disposizione di inimicizia, vengono rigettati completamente i germi della malvagità, come venissero da una malvagia radice. Alla abolizione della malvagità dovrebbe subentrare l'elenco dei beni: pace, giustizia e tutta la sequela di ciò che è pensato in relazione al meglio. Quale situazione, dunque, si potrebbe ritenere più beata del vivere così, senza più riporre la nostra sicurezza in catenacci o pietre, sicuri dell'aiuto reciproco? Come l'uomo duro di cuore e feroce si rende ostili coloro che hanno fatto esperienza della sua selvatichezza, così, al contrario, tutti noi diventiamo ben disposti verso il misericordioso, poiché naturalmente la misericordia genera carità in coloro che partecipano di essa. La misericordia, dunque, come dimostra il discorso, è madre della benevolenza, pegno di carità e legame di ogni disposizione amichevole. Che cosa potrebbe essere pensato di più saldo, in questa vita, di questa sicurezza? Perciò a buon diritto il Logos chiama beato il misericordioso, poiché beni tanto grandi si manifestano in questo nome. Ma non è sconosciuta a nessuno l'utilità per la vita di tale consiglio.
La sentenza finale di Dio è speculare rispetto alla libera scelta dell'uomo.
A me pare, poi, che il senso di tale passo, con la scelta del tempo futuro, sveli ineffabilmente qualche cosa di più grande di ciò che viene inteso immediatamente. "Beati i misericordiosi -dice infatti il Signore- perché troveranno misericordia", come se per i misericordiosi la ricompensa secondo misericordia fosse posta dopo. Dunque, per quanto ne siamo capaci, tralasciato questo significato facile da comprendere e scoperto con facilità dalla gran parte della gente, accingiamoci, secondo il possibile, a penetrare con il pensiero oltre il velo. "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia". In queste parole è possibile imparare qualche cosa di più sublime anche per la dottrina: Colui che fece l'uomo a sua immagine, ripose nella natura della sua opera i principi di tutti i beni, affinché nessun bene si introducesse in noi dall'esterno, ma fosse in noi il potere di ciò che vogliamo, traendo il bene dalla nostra natura come da un forziere. Infatti impariamo, da una parte per il tutto, che non è possibile altrimenti che uno incontri ciò che desidera senza che lui stesso si faccia dono del bene; perciò una volta il Signore disse a coloro che l'ascoltavano: "Il regno di Dio è dentro di voi" [Lc 17,21] e "chiunque chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto" [Mt 6,7-8]. Così l'ottenere ciò che desideriamo, il trovare ciò che cerchiamo, l'introdurci dove desideriamo, sono in nostro potere, qualora lo vogliamo, e sono legati alla facoltà del nostro animo. Insieme con questo, conseguentemente, si stabilisce anche il pensiero contrario: anche l'inclinazione verso il peggio ha luogo senza che si eserciti nessuna necessità esterna; essa si realizza nel momento stesso in cui compiamo la scelta, venendo all'essere solo allora. Il male, in se stesso, secondo la propria sostanza, non può essere trovato da nessun'altra parte al di fuori della scelta. Da ciò si mostra chiaramente la facoltà di autogoverno e di autodeterminazione di cui il Signore della natura ha dotato gli uomini, facendo dipendere ogni cosa, sia buona, sia malvagia, dalla nostra libera scelta e si mostra anche chiaramente che il giudizio divino, facendo seguito con un'incorruttibile e giusta sentenza alle scelte fatte secondo il nostro proponimento, a ciascuno distribuisce quanto ognuno si sia trovato a procurarsi; a coloro che, come dice l'Apostolo [Eb 12,7], cercano gloria e onore con la perseveranza nelle buone opere, Dio dà la vita eterna, ma a coloro che disubbidiscono alla verità e danno credito all'ingiustizia, Dio distribuisce collera e afflizione e tutti quanti i nomi che indicano la triste retribuzione. Come gli specchi corretti mostrano l'immagine dei volti tali quali sono i volti, sereni per coloro che sono sereni, cupi per coloro che sono corrucciati (e nessuno farebbe colpa alla natura dello specchio se apparisse cupa l'immagine dell'originale caduto nell'abbattimento), così anche il giusto giudizio di Dio si conforma alle nostre disposizioni, rendendoci dal suo ricompense tali quali sono le azioni che abbiamo compiuto. "Venite -dice il Signore- benedetti" e "Andatevene maledetti" [Mt 25,34-41]. C'è qualche necessità esterna per cui quelli di destra siano chiamati con dolcezza e quelli di sinistra con tono cupo? I primi non ottennero misericordia per il loro comportamento e i secondi non resero duro contro di loro il volere divino per il comportamento duro contro i loro simili? Il ricco, che si rallegrava nel lusso, non ebbe pietà del povero che stava afflitto davanti al suo portone e perciò recise per sé la possibilità della misericordia e quando ebbe bisogno di misericordia non fu ascoltato. Questo non perché una sola goccia comporti una perdita per la grande fonte del paradiso, ma perché la goccia di misericordia non può mischiarsi con la durezza di cuore. Che c'è in comune, infatti, tra luce e tenebre? Quello che l'uomo semina raccoglierà, dice l'Apostolo [Gal 6,8], poiché chi semina nello spirito raccoglierà dallo spirito vita eterna. Io credo che la semina sia la scelta dell'uomo e la raccolta la ricompensa che segue la scelta. Fecondo è il frutto dei beni per coloro che hanno scelto simile raccolta; penosa la raccolta di spine per coloro che hanno gettato nella vita semi spinosi. è del tutto necessario, infatti, che uno raccolga la stessa cosa che ha seminato e non è possibile altrimenti. "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia". Quale parola umana potrebbe penetrare la profondità dei pensieri contenuti in questo discorso?
La misericordia più profonda è verso se stessi, privati, per il peccato, della dignità originaria.
L'assolutezza e l'infinità di tali parole ci induce a ricercare qualche cosa di più di ciò che è stato detto. Il Signore, infatti, non ha aggiunto chi sono coloro verso cui è necessario che si operi la misericordia, ma disse semplicemente: "Beati i misericordiosi". Forse il Logos, attraverso le parole dette, ci orienta enigmaticamente in tal senso: il concetto di misericordia è conseguente alla sofferenza che è chiamata beata. Nella beatitudine precedente, infatti, era beato colui che aveva trascorso la vita di quaggiù nella sofferenza, in questa beatitudine a me sembra che il Logos indichi la stessa dottrina. Come noi, infatti, rimaniamo colpiti dalle disgrazie altrui, quando ad alcuni dei nostri amici accadono sventure non volute: o sono stati cacciati dalla casa paterna, o si sono salvati, privi di tutto, da un naufragio, o sono caduti nelle mani dei pirati o dei briganti, oppure sono diventati schiavi da liberi che erano, o prigionieri di guerra da benestanti; oppure coloro che fino a quel momento erano in vista in una forma di benessere per la loro vita, hanno ricevuto in cambio qualche altra disgrazia del genere. Come dunque, di fronte a simili sventure, nasce nella nostra anima una compartecipazione dolorosa, sarebbe forse molto più opportuno che avessimo la stessa disposizione riguardo a noi stessi, considerando il colpo subito dalla nostra vita contro la nostra dignità. Quando infatti consideriamo quale era la nostra splendida casa da cui siamo stati gettati fuori; come siamo caduti nelle mani dei briganti; come, sprofondando nell'abisso di questa vita, siamo stati denudati; a quali e quanti padroni ci siamo legati invece di vivere in maniera libera ed autonoma; come abbiamo spezzato la beatitudine della vita con morte e corruzione; è dunque possibile, se cogliamo questi pensieri, che la nostra anima si occupi delle sventure altrui e non si disponga a misericordia nei propri confronti, considerando ciò che aveva e da quale condizione è stata cacciata? Che cosa c'è di più miserevole di questa prigionia? Invece della delizia del paradiso abbiamo ricevuto in sorte, nella vita, questo luogo soggetto a malattie e a fatiche. In cambio di quella libertà dalle passioni, abbiamo preso in sorte innumerevoli passioni. In cambio di quel modo di vivere superiore, la vita insieme con gli angeli, siamo stati condannati ad abitare al terra insieme con le bestie. Poiché abbiamo mutato la vita angelica e libera da passioni in quella bestiale, chi potrebbe facilmente enumerare gli amari tiranni della nostra vita, padroni furenti e selvaggi? L'ira è un amaro padrone e così l'invidia; l'odio, che è la passione della superbia, è un tiranno furente e selvaggio; il ragionamento licenzioso, che assoggetta la natura a servizi legati alle passioni e alle impurità è come se deridesse degli schiavi. La tirannide dell'avidità, quale eccesso di asprezza non supera? Questa, assoggettatasi la misera anima, la costringe a soddisfare i suoi smisurati desideri, poiché è sempre bisognosa e non è mai sazia. è come una bestia policefala che invia attraverso le innumerevoli bocche il cibo allo stomaco insaziabile e questo non è per nulla soddisfatto di ciò che ha guadagnato, anzi, ciò che continuamente assume è materia che incendia il desiderio del di più. Chi dunque, considerando questa vita infelice, potrebbe rimanere duro e insensibile a tali disgrazie? Il fatto di non provare misericordia di noi stessi è dovuto all'insensibilità di fronte a questi mali; come accade ai folli a cui l'eccesso del male ha tolto anche la consapevolezza di ciò che patiscono. Se dunque uno ha conosciuto se stesso, come era una volta e come è nel presente (anche Salomone dice in qualche passo "saggi sono coloro che conoscono se stessi"), costui non cesserà mai di avere misericordia di sé e a tale disposizione dell'anima seguirà, come è verosimile, anche la misericordia di Dio.
Il misericordioso è giudice di se stesso nel giudizio finale.
Perciò il Signore dice: "Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia". Essi, non altri: in ciò, infatti, fornisce un chiarimento il nome, come se uno dicesse: "Cosa beata è il prendersi cura della salute fisica; colui infatti che se ne prende cura, vivrà in salute". Così chi ha misericordia è detto beato perché il frutto della misericordia è possesso proprio di chi è misericordioso, sia seguendo il discorso che abbiamo scoperto ora, sia seguendo quello precedente, ossia il mostrare compassione per le sventure altrui. In entrambi i casi, infatti, è ugualmente bene sia l'aver misericordia di sé, nel modo detto, sia il compatire le sventure dei vicini. Perciò l'equità del giudizio di Dio mostra che la libera scelta dell'uomo verso gli inferiori è in relazione alla superiore volontà, per cui, in un certo qual modo, l'uomo è giudice di se stesso esprimendo il giudizio su di sé nelle cause dei suoi sottoposti. Poiché si crede, e giustamente si crede, che tutta la natura umana sia sottoposta al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la ricompensa secondo quanto ha compiuto quando era nel corpo, sia esso bene o male (è forse audace anche dirlo) se è possibile cogliere con un ragionamento ciò che è ineffabile e invisibile, è anche già possibile comprendere la beatitudine della ricompensa per chi ottiene misericordia. Infatti la benevolenza che nasce nelle anime nei confronti di coloro che mostrano compassione, verosimilmente, rimane perenne, per tutta l'esistenza, nella vita di coloro che partecipano della benevolenza. Che cosa, dunque, è verosimile che accada al momento della resa dei conti, se il benefattore verrà riconosciuto da coloro che sono stati oggetto del beneficio? Come disporrà egli la sua anima ascoltando le voci riconoscenti che lo acclamano di fronte al Dio di tutta la creazione? Di quale altra beatitudine necessiterà, dunque, colui che è celebrato come da un araldo in così grande teatro per le ottime azioni? Infatti, insegna la parola del Vangelo [Mt 25,34ss], coloro che hanno ricevuto un beneficio, sono presenti nel giudizio del Re verso i giusti e verso i peccatori. Con entrambi egli fa uso del dimostrativo, come se indicasse con un dito l'oggetto: "Per quanto faceste ad uno di questi miei fratelli più piccoli" [Mt 25,40-45]. Il dire "questi" indica la presenza di coloro che ricevettero il beneficio. Mi dica, dunque, chi preferisce la materia inanimata delle ricchezze alla futura beatitudine: quale splendore d'oro, quale fulgore delle pietre preziose, quale ornamento di abiti è paragonabile a quel bene che la speranza suggerisce? Quando il Re della creazione abbia rivelato se stesso alla natura umana, assiso con magnificenza sul suo trono sublime; quando siano apparse intorno a Lui le innumerevoli miriadi di angeli; e ancor più quando sia di fronte agli occhi di tutti l'ineffabile regno dei cieli e, dal lato opposto, si mostrino le terribili punizioni. Ma quando, in mezzo a queste cose, tutta la natura umana, dalla prima creazione fino alla pienezza del tutto, sia sospesa tra il timore e la speranza del futuro, tremando spesso per l'esito finale di ciò che si attende da ciascuna delle due sorti; mentre coloro che hanno vissuto con una buona coscienza sono in dubbio sul futuro, qualora vedano altri trascinati dalla cattiva coscienza, come da un boia, in quelle cupe tenebre; se costui si presentasse al Giudice, confidando nelle sue opere, fra le voci di lode e di gratitudine di coloro che hanno ricevuto il beneficio, splendido nella sua fiducia, forse calcolerà che quella buona sorte sia da misurare secondo la ricchezza materiale? Forse accetterà, in cambio di quei beni, tutte le montagne, le pianure, le valli boscose e il mare tramutati in oro per lui? Prendiamo invece il caso di colui che ha scrupolosamente occultato mammona grazie a sigilli chiavistelli, porte di ferro e nascondigli sicuri, giudicando preferibile ad ogni comandamento l'ammucchiarsi per lui della materia, sotterrata in luogo segreto; se sarà trascinato giù a capofitto nel fuoco tenebroso, tutti coloro che hanno sperimentato in questa vita la sua durezza di cuore e la sua ferocia, gliela presenteranno davanti e gli diranno: "Ricordati che hai già ricevuto i tuoi beni durante la vita [Lc 16,25]; nelle fortezze della tua ricchezza chiudesti insieme anche la misericordia e lasciasti sottoterra la magnanimità; non ti desti pensiero, in questa vita, dell'amore degli uomini: ora non hai ciò che non avesti, non trovi ciò che non hai messo in serbo, non raccogli ciò che non hai diffuso, non mieti ciò che non hai seminato; la raccolta sia per te degna della tua seminagione: hai seminato amarezza, raccogline le messi; stimasti la spietatezza, hai ciò che amasti; non guardasti con simpatia, neppure ora sarai guardato con misericordia; trascurasti l'afflitto, ora, mentre perisci, sarai trascurato; fuggisti la misericordia, la misericordia fuggirà da te; provasti nausea per il povero, colui che fu povero per causa tua, proverà ora nausea di te". Se dunque fossero pronunciati questi o simili discorsi, dove andrebbero a finire l'oro, gli splendidi suppellettili, la sicurezza riposta nei tesori sigillati, i cani validi per la guardia notturna? Dove le armi predisposte contro chi insidia i tesori? Dove l'annotazione registrata sui libri? Perché tutto ciò è per il pianto e lo stridore dei denti? Chi farà risplendere le tenebre? Chi estinguerà la fiamma? Chi respingerà il verme che non ha fine? Dunque fratelli meditiamo le parole del Signore che ci insegna, in breve, cose tanto grandi relative al futuro e diventiamo misericordiosi, per divenire grazie a ciò beati in Cristo Gesù nostro Signore, a cui è la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.