venerdì 26 settembre 2014

L’obbedienza come conversione dell’amore.

Rito Romano – XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 28 settembre 2014
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32.

Rito Ambrosiano – V Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Dt 6,4-12; Sal 17; Gal 5,1-14; Mt 22,34-40


1) Obbedire all’amore è libertà.
Dalla parabola del Padre, che manda i suoi due figli a lavorare nella vigna potrebbe nascere come prima e spontanea riflessione quella di identificarsi o in colui che dice di sì, ma poi disobbedisce, o in colui che si ribella alla richiesta paterna, ma poi obbedisce. In realtà questi due fratelli fanno entrambi lo stesso errore di fondo: entrambi considerano il Padre come un padrone.
Il primo accetta subito, vuol far credere a suo padre di essere quello che non è, ma poi, appena può, non tiene fede all’impegno preso. Il secondo risponde chiaro “Non ho voglia”, avverte il lavoro nella vigna come pesante, preferirebbe fare altro, avrebbe altri progetti, altre intenzioni, però “si pente”1 l’amore al Padre vince su di lui e si incammina verso la vigna.
Quando il Padre è visto e trattato come un padrone si è portati a vivere come schiavi di una volontà superiore con la quale non si è d’accordo ed alla quale ci si sottomette per timore. Con questa parabola, Cristo ci indica che con il pentimento si può seguire la volontà del Padre per attrazione d’amore e non per costrizione. Dio è un padre, non un padrone.
Dio è il Padre che ama e invita ad accogliere il suo amore.
L’amore non è facile soprattutto quando ci dà degli ordini, che non capiamo e che viviamo come limitanti la nostra libertà. A questo riguardo, Gesù ci insegna che la nostra libertà esige prima il rinnegamento del proprio egoismo, la morte al peccato, perché, aderendo a Dio la nostra vita in Dio si dispieghi nel mondo. Il cammino dell’anima nella vita vera è un rapporto di obbedienza. All’inizio è certamente una rinuncia a sé (cfr Mc 8,34), un rinnegamento di sé per un ritorno dall’alienazione, in cui ci ha posto il peccato, al pieno possesso del nostro essere in Dio. Nell’adesione a Dio l’anima nostra può sempre più vivere la libertà divina e sempre più può espandersi e dilatarsi nell’immensità della vita di Dio. Per questo l’obbedienza è la via della vita! Volerci dispensare dall'obbedienza a Dio è dispensarci dalla vita, è rimanere rattrappiti nel nostro piccolo io, chiusi, soffocati nel peccato, alienati a noi stessi, al nostro vero io, amato da Dio dal cui Amore nasce il nostro amore.
A questo Amore si convertì il figlio che aveva detto di “no” al Padre. Che cosa ha disarmato il rifiuto di questo figlio? Il pentimento, provocato dal cuore e la mente cambiati. Il suo pentirsi (cfr nota 1) significò “cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere”, di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o, peggio ancora, da ingannare, ma il capo famiglia che invia il figlio nella vigna, che è anche sua, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza e di amore.
Il figlio obbediente che “si pentì” (cfr Mt 21, 30) aveva capito che l’alternativa di fondo era (ed è) tra un’esistenza sterile e un’esistenza feconda, che trasformava (e trasforma) un angolo di deserto in vigna, e la propria famiglia in un frammento del paradiso di Dio. Lungi dal diminuire la sua dignità di figlio, l’obbedienza fa crescere la sua libertà e la ordina, come una specie di ordinazione, per la missione di coltivare la vigna del mondo. E’ come l’imposizione delle mani il giorno dell’ordinazione sacerdotale, nella quale la missione del prete comincia e, in nome di Dio, il Vescovo invia ad andare nelle vigna del Signore. L’obbedienza è imitazione di Cristo e partecipazione alla sua missione. Chi obbedisce si preoccupa di fare ciò che Gesù ha fatto e, al tempo stesso, ciò che Lui farebbe nella situazione in cui ognuno di noi si trova oggi.


2) L’obbedienza2 e la libertà non sono contraddittorie.
Dio “osa” affidarci la Sua vigna, ci dona la Sua “proprietà”, ci “ordina” di lavorare, affidando il suo disegno di bontà alla nostra libertà e di realizzarlo. L’ubbidienza della Vergine Madre “realizzò” Dio, diede la sua carne a Dio, e fece un’esperienza grandissima di libertà. Dio ci chiede la stessa cosa, amorosamente. E l’obbedienza è la nostra risposta al suo amore. L’obbedienza è il frutto dell’amore e servizio all’Amore. Non c’è amore senza obbedienza e senza amore l’obbedienza diventa servile.
Per ogni figlio di Dio ribelle, ma pentito e capace di amore, il Figlio di Dio ha assunto la condizione umana, ha vissuto tra noi, come servo, ha affrontato il giudizio dei superbi, è salito sulla croce, ed è morto; ma, nella sua morte è stata lavata ogni colpa, e, nella sua resurrezione, ogni peccatore risorge, e diventa capace di riamare Dio, di ascoltarlo ed obbedire alla sua Parola, che ci dice parole che interpellano ognuno di noi, ogni giorno.
Ma Gesù non solamente ci mette in guardia da una religiosità vuota, fredda e formale, che si esaurisca in pratiche esteriori, ci invita a coltivare in profondità la fede e un autentico rapporto filiale con Dio, un rapporto saldamente radicato nell’amore, che accoglie, ascolta e, umilmente, obbedisce.
Gesù è tra i due fratelli il terzo che dice di “sì” subito e subito fa anche ciò che gli viene ordinato. Questo terzo fratello3 è il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, che entrando nel mondo, ha detto: “Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Questo “sì”, Lui non l’ha solo pronunciato, ma l’ha compiuto, obbedito e sofferto fin dentro la morte, ed alla morte di croce (cf Fil 2, 6-8).
In umiltà ed obbedienza, Gesù ha compiuto la volontà del Padre, è morto sulla croce per i suoi fratelli e le sue sorelle - per noi - e ci ha redenti dalla nostra superbia e testardaggine.
Queste due virtù insieme con la castità e la povertà formano la croce che ogni giorno ci è “ordinato” di prendere, per salvare noi e il mondo: “L’obbedienza consacra il nostro cuore, la castità il nostro corpo, e la povertà i nostri beni all’amore e al servizio di Dio: sono i tre bracci della croce spirituale, che poggiano sul quarto che è l’umiltà” (San Francesco di Sales, Filotea, cap. 10). 
L’umiltà non gode - al giorno d’oggi e, forse non ha mai goduto – di una grande stima, ma le Vergini consacrate nel mondo sanno che questa virtù rende fecondo il lavoro nella vigna di Dio. Umiltà viene dalla parola latina humilitas, che ha a che fare con humus (terra), cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Queste donne, che si sono donate completamente a Dio, vivono da persone umili perché vivendo in Lui e per Lui ascoltano umilmente Cristo, la Parola di Dio, e tendono avere gli stessi sentimenti del loro Sposo (“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” - Fil 2,5), da loro amato. E come diceva Sant’Agostino: “Non c’è carità senza umiltà” (Prologo del Commento alla Lettera di San Giovani) e in altro libro scrive: “Custode della verginità è la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà” (Sulla Santa virginità, 51, 52).
La vocazione a vivere la verginità consacrata come dono completo di sé a Cristo e segno della Chiesa Sposa si esplicita nel loro affidarsi senza riserve all’amore del loro Sposo, all’intensità della comunione con Lui, all’umile carità che si fa servizio disinteressato alla Chiesa e testimonianza luminosa di fede, speranza e carità, nel contesto della vita ordinaria.
Come chiede il Rito di consacrazione (cfr nn. 14-18) ogni vergine appartenente all’Ordo si impegna costantemente ed ha presente che la preghiera non è solo personale, generosa risposta alla voce dello Sposo e umile richiesta di aiuto per mantenersi fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima partecipazione alla vita del corpo mistico di Cristo, intercessione instancabile per la Chiesa e per il mondo.

1 Il testo greco del Vangelo usa il participio aoristo di μεταμέλομαι (metamélomai=mi pento), che letteralmente andrebbe traddotto “avendo l’animo cambiato ebbe il cuore per fare qualcosa”, quindi per andare a lavorare nella vigna: in breve: “cambiare modo di vedere, di pensare”. Questo verbo oltre ad essere usato al versetto 30 del capitolo 21 di Matteo per il figlio obbediente è usato anche al versetto 32.


2 Obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l'altro. “Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica. L'obbedienza a Dio è ascoltare Dio. E questo ci fa liberi”. (Papa Francesco).

Il 19 agosto 2012 per la XX domenica TO anno B scrivevo: “Obbedire a Dio è “realizzare” Dio. La Madonna con il suo “sì” ha fatto Gesù. Il suo fiat ha dato carne alla Parola di Dio. Con il mio “sì” al comando di Cristo: “Fate questo in memoria di me”, faccio Lui. Quando nella Messa dico: “Questo è il mio Corpo”, faccio Lui, dò carne al Verbo di Dio. L’obbedienza affettuosa a Dio è liberante, è libertà, perché il suo comando non è un’imposizione di un Dio arbitrario e capriccioso, ma una parola (logos) con la quale amorosamente rivela il suo cuore ed il nostro futuro.


3 Si tratta di un’intuizione del Papa emerito Benedetto XVI.


Lettura Patristica

San Girolamo, In Matth. 21, 29-31
1. La parabola dei due figli

       Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò. E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado, Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse..." (Mt 21,28-31). Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta Zaccaria con le parole: "Presi con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai frusta, e pascolai il gregge" (Za 11,7). Al primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna», cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). Ma egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: "Faremo quanto ci ordinerà il Signore" (Ex 24,3), ma non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa, credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge dopo, la spiega.

       "In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio" (Mt 21,31). Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio, disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di Dio. Per questo egli dice:

       "Perché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi, nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a lui" (Mt 21,32). La versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità, ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero; così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.

      

       Efrem, Diatessaron, XVI, 18

2. I due figli

       "Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli" (Mt 21,28). Egli chiamò i suoi «figli», per incitarli al lavoro. "D’accordo, Signore", disse l’uno. Il padre l’ha chiamato: Figlio mio, ma lui ha risposto chiamandolo: "Signore"; non lo ha chiamato: Padre, e non ha adempiuto la sua parola. "Quale dei due ha fatto la volontà del padre suo"? Essi giudicarono con rettitudine e "dissero: Il secondo" (Mt 21,31). Egli non disse: Quale vi sembra? - infatti il primo aveva detto: "Ci vado" - bensì: "Quale ha fatto la volontà del padre suo? Ecco perché i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli ()", poiché voi avete promesso a parole, ma essi corrono più veloci di voi. "Giovanni è venuto a voi nella via della Giustizia" (Mt 21,32), non ha trattenuto per sé l’onore del suo Signore, ma, allorché si riteneva che egli fosse il Cristo, egli ha detto: "Io non sono degno di sciogliere i lacci dei suoi sandali" (Lc 3,16).

venerdì 19 settembre 2014

Operai dell’ultima ora.

Rito Romano – XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 21 settembre 2014
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16.

Rito Ambrosiano – IV Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 63,19b-64,10; Sal 76; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35

1) Un’apparente ingiustizia.
Con la parabola del padrone della vigna che a diverse ore del giorno chiama operai a lavorare nella sua vigna e che la sera dà a tutti la stessa paga, un denaro1, suscitando la protesta di quelli della prima ora, Gesù ci aiuta ad entrare nella logica di Dio il cui modo di pensare è davvero differente dal nostro: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore” (Is 55, 8)2.
Questa parabola è fin dall’inizio consolante perché ci assicura: l’umanità è la vigna, la passione, il campo preferito di Dio, che se ne occupa con cura uscendo per ben cinque volte3 a cercare operai.
Il punto critico del racconto risiede nel momento della paga: Dio, il Signore della vigna comincia dagli ultimi, gli operai dell’undicesima ora, e a chi ha lavorato un’ora sola dà un salario uguale a quello concordato con coloro che avevano sudato per dodici ore.
Gli operai assunti per primi, invece di essere contenti di aver lavorato per un Padrone buono, si dispiacciono di questa apparente ingiustizia, che invece è una più generosa giustizia. In effetti Lui dà a tutti quanto ha promesso, ma riconosce a chi è arrivato ultimo, ma che ha lavorato con eguale speranza, il diritto di godere, come gli altri, di quel Regno per il quale ha lavorato fino al tramonto.
Se il primo insegnamento della parabola è quello di ricordare che Dio si occupa con sollecitudine dell’umanità simboleggiata dalla vigna, il secondo è che l’essere chiamati a questa collaborazione è già la prima ricompensa: poter lavorare nella vigna del Signore, mettersi al suo servizio, collaborare alla sua opera, costituisce di per sé un premio inestimabile, che ripaga di ogni fatica. Certo, questo insegnamento è capito unicamente da chi ama il Signore e il suo Regno. Chi invece vi lavora solamente per il suo interesse non si accorgerà mai del valore di questo grandissimo tesoro.
Il denaro di cui parla la parabola non è tanto la moneta che permette di vivere per un giorno, è Dio stesso che si dona per farci vivere nel giorno senza fine. Dio non può donare meno che tutto, agendo con giustizia e carità, che solo per noi uomini sono due realtà differenti. Noi uomini distinguiamo attentamente un atto giusto da un atto d’amore. Giusto per noi è “ciò che è all’altro dovuto”, mentre misericordioso è ciò che è donato per bontà. E una cosa sembra escludere l’altra. Ma per Dio non è così: in Lui giustizia e carità coincidono; non c’è un’azione giusta che non sia anche atto di misericordia e di perdono e, nello stesso tempo, non c’è un’azione misericordiosa che non sia perfettamente giusta.
E’ davvero lontana la nostra logica da quella di Dio dalla nostra. E’ davvero diverso dal nostro il modo di agire di Dio, che ci invita a cogliere e osservare il vero spirito della legge, per darle pieno compimento nell’amore verso chi è nel bisogno. “Pieno compimento della legge è l’amore”, scrive san Paolo (Rm 13,10): la nostra giustizia sarà tanto più perfetta quanto più sarà animata dall’amore per Dio e per i fratelli.

2) La vocazione a lavorare nella vigna di Dio.
Con il pretesto di affermare il nostro umano e limitato concetto di giustizia rischiamo di contestare la bontà e la misericordia di Dio. Rischiamo di essere invidiosi perché egli è buono. Se ripensiamo alla parabola del Figlio prodigo vediamo che accade qualcosa di simile quando il Padre misericordioso accoglie a braccia aperte il figlio scapestrato, che ha dissipato nel peggiore dei modi tutta l’eredità che aveva preteso, ed organizza per lui una grande festa, che però suscita l'indignazione e l’invidia del fratello maggiore. Anche questo figlio si ritiene ingiustamente vittima di un’evidente, ma in realtà apparente, ingiustizia.
Dio nella sua infinita bontà dona se stesso e tutti i suoi beni non in modo arbitrario, ma secondo la logica del suo amore infinito. Lui invita, dà la vocazione a tutti e se i primi hanno risposto con piena disponibilità e sincero amore al suo invito, questi hanno da più tempo la gioia di lavorare per Dio.
Penso, dunque, che il tema profondo della parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna sia la “salvezza”, che è un dono che Dio riserva a tutti a larghe mani e che ciascuno può accogliere anche all’ultima ora. A questo riguardo, viene in mente il commovente episodio, narrato dall’evangelista Luca, sul “buon ladrone” crocifisso accanto a Gesù sul Golgota. L’invito si è manifestato come iniziativa misericordiosa di Dio a lui che spirando diceva: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dalla bocca del Redentore, condannato alla morte in croce uscì la vocazione per lui: “In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,42-43).
Per annunciare il Vangelo, Gesù Cristo non ha usato il criterio del merito o della reciprocità: ha donato e perdonato. Non ha donato qualcosa, ma ha offerto se stesso. Lui, che aveva lodato la vedova che aveva donato tutto quanto aveva per vivere (cfr Lc 21, 4), ha donato tutto quanto era, la Sua vita, perché di essa l’intera umanità vivesse.
Per annunciare il Vangelo, noi dobbiamo rispondere umilmente ma prontamente alla vocazione del Signore, che ci invita ad essere operai operosi nella Sua vigna.
Subito sorge la domanda: “Come?”. Se coltiviamo il seme della fede, mediante la partecipazione ai sacramenti, saremo in grado di dedicare la nostra esistenza alla missione, a cui Cristo chiama tutti noi, testimoniando con la vita che la salvezza non è questione di interessi economici, né scaturisce da un rapporto fra datore di lavoro e dipendente. Questa collaborazione si attua a partire dalla sola, gratuita benevolenza di Dio, il quale non usa il criterio del “do ut des” (=ti do perché tu mi dia), ma del “do ut es”, cioè “ti do perché tu sia”.
Tutti noi cristiani dobbiamo usare questo metodo di Cristo e di una vita donata a Dio senza calcolo e senza misura ne sono una particolare testimonianza le Vergini consacrate nel mondo. Con l’offerta di se stesse a Cristo mostrano che la vigna non è solo il popolo di Dio ma è Cristo stesso, a cui aderire come tralci alla vite. Ripetiamoci spesso queste parole di Gesù: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo (...). Rimanete in me e io in voi” (Gv 15, 1-4). Queste semplici parole ci rivelano la comunione misteriosa che lega in unità il Signore e i discepoli, Cristo e i battezzati.
Queste donne vivendo unite a Cristo ed ai fratelli mostrano una comunione viva e vivificante, per la quale i cristiani non appartengono a se stessi ma sono di Cristo, come i tralci sono della vite.
Ma queste consacrate sono testimoni “di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! E’ possibile vivere diversamente in questo mondo. Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No, non voglio dire ‘radicale’. La radicalità non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo” (Papa Francesco). Le consacrate sono donne che con la profezia della loro vita annunciano lo spirito del vangelo. Ed è perché la loro vita sia sempre una profezia che, stendendo le mani su di loro, il Vescovo prega: “Accorda, Signore, il tuo sostegno e la tua protezione a quelle che stanno davanti a Te e che attendono dalla loro consacrazione un aumento di speranza e di forza, su di loro (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 64).


1 Un denaro era ciò che era sufficiente per vivere una giornata ad una famiglia. Allora il padrone non pensa solamente ai lavoratori, ma anche a quelli che hanno a casa. Sa che se un uomo non lavora una giornata, tutta la famiglia non mangia.
Se questi che hanno lavorato un’ora ricevono tanto quanto era stato pattuito con i primi lavoratori, quelli delle sei del mattino, che hanno lavorato undici ore in più, per una giornata intera, che hanno sopportato il peso della giornata e la calura, si aspettano almeno tre volte tanto. Ma quando questi vedono che sono retribuiti con un denaro (d'altronde era stato concordato così), sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto.
Infatti, dice il Vangelo, mormorano (Mt 20,11): “Ma come? Questi che hanno lavorato un'ora sola li tratti come noi?”. Osservate che mormorano: non gli dicono la loro insoddisfazione apertamente, parlano al di sotto, alle spalle. E' tipico di chi mormora, di chi “dietro le spalle” ha sempre da dire.
Gesù prende di mira il capoccia che urla e protesta di più e gli risponde: “Amico, (lett. “caro mio, collega” con tono bonario e di rimprovero) non avevamo convenuto questo?”. "Non è quello che avevamo stabilito?". “Sì!”. “Ti tolgo qualcosa di ciò che si era detto?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso delle mie cose fare quello che voglio?”. Ma è stato ingiusto il padrone o è stato generoso? Il padrone in realtà non è ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Il padrone non toglie nulla a nessuno, anzi.

2 Prima lettura della Messa di questa Domenica, mentre la parabola degli operai chiamati alla vigna ne è il Vangelo.

3 Le ore del giorno chiamate nell'antico modo (ora terza, sesta, nona...) fanno pensare anche alla preghiera della Chiesa distribuita nel corso della giornata. Anche questa è una chiamata quotidiana; anche questa è un'opera necessaria e capace di dissodare la vigna perché i frutti maturino.



Lettura Patristica
Gregorio Magno,
Homelia XIX, 1-3.5-6

1. Le ore della divina chiamata

       L’operaio, dunque, (che fu chiamato) al mattino, all’ora terza, sesta e nona, indica quell’antico popolo ebraico che fin dagli inizi del mondo, nei suoi eletti, si studiò di onorare Dio con retta fede, come se non cessasse di faticare nel coltivare la vigna. All’undicesima ora sono chiamati i pagani, ai quali anche è chiesto: "Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?" (Mt 20,6). Essi, infatti, per così lungo tempo non si erano curati di lavorare per la loro vita, come se stessero in ozio tutto il giorno. Ma pensate, fratelli carissimi, cosa risposero alla domanda: Gli risposero: "Perché nessuno ci ha presi" (Mt 20,7). Nessun patriarca, nessun profeta era stato mandato loro. E cosa significa: «Nessuno ci ha presi a lavorare», se non questo: «Nessuno ci ha predicato le vie della vita»? Cosa dunque diremo a nostra scusa, quando abbiamo omesso di fare il bene noi che fin dal grembo della madre siamo venuti alla fede, che fin dalla culla abbiamo udito le parole di vita, che insieme al latte carnale abbiamo attinto il liquore della predicazione celeste al seno della santa Chiesa?

       Possiamo anche distinguere le diverse ore in relazione ad ogni uomo, secondo i diversi momenti delle sue età. Così il mattino è la puerizia del nostro intelletto. L’ora terza può indicare l’adolescenza, perché quando cresce il calore dell’età è come se il sole salisse in alto. L’ora sesta è la gioventù, perché come il sole sembra fermarsi nel mezzo (del cielo), in essa viene raggiunto il pieno vigore. L’ora nona raffigura la maturità, nella quale il sole comincia a declinare, perché in questa età comincia a venir meno il calore della gioventù. L’undicesima ora è quella età che viene detta decrepita, cioè la vecchiaia... Siccome poi uno chiamato alla vita santa durante la puerizia, un altro nell’adolescenza, un altro nella gioventù, un altro nella vecchiaia, un altro ancora nell’età decrepita, ecco che gli operai sono chiamati alla vigna in ore diverse. Osservate pertanto i vostri costumi, fratelli carissimi, e vedete se siete già operai di Dio. Ciascuno esamini le sue opere e consideri se sta faticando nella vigna del Signore. Chi infatti in questa vita cerca le cose sue, non è ancora giunto alla vigna del Signore. Lavorano invece per lui coloro che pensano non ai propri guadagni, ma a quelli del Signore, e che per lo zelo della carità si dedicano ad opere pie, si adoperano a conquistar anime, si affrettano a condurre con sé anche gli altri alla vita. Chi invece vive per sé e si pasce dei piaceri della sua carne, è giustamente accusato di essere ozioso, perché non aspira al frutto dell’opera divina.

       Chi poi ha trascurato fino a tarda età di vivere per Dio, è come se fosse stato in ozio fino all’undicesima ora. Per cui, giustamente, vien detto a coloro che sono rimasti indolenti fino all’undicesima ora: "Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi"? È lo stesso che dire: «Anche se non avete voluto vivere per Dio nella puerizia e nella giovinezza, ravvedetevi almeno nell’ultima età, e, sia pure in ritardo, quando ormai non c’è più molto da faticare, venite alla via della vita». Anche questi chiama il padrone di casa, e il più delle volte essi sono ricompensati prima, perché uscendo prima dal corpo, vanno al regno prima di quelli che sembravano essere stati chiamati fin dalla puerizia. Non giunse forse all’undicesima ora il buon ladrone? Se non giunse a quell’ora per l’età, vi giunse certo quanto alla sofferenza, egli che riconobbe Dio mentre era in croce e spirò quasi mentre faceva tale professione. Il padrone di casa cominciò così la distribuzione della paga dall’ultimo, perché condusse al riposo del paradiso il ladrone prima di Pietro. Quanti patriarchi vissero prima della Legge, quanti sotto la Legge, e tuttavia coloro che furono chiamati alla venuta del Signore giunsero senza alcun indugio al regno dei cieli!...

       Ma è terribile ciò che segue a queste (parole): "Molti sono chiamati, ma pochi eletti" (Mt 26,16), perché molti vengono alla fede, pochi giungono al regno dei cieli. Ecco infatti in quanti siamo convenuti alla festa di oggi e riempiamo le mura di questa chiesa; e tuttavia chissà quanto pochi sono quelli che sono annoverati nel gregge degli eletti di Dio! Ecco infatti la voce di tutti grida: «Cristo!», ma la vita di tutti non grida altrettanto. I più seguono Dio a parole, lo fuggono con la condotta pratica di vita...

       Di questi tali, fratelli carissimi, ne vedete molti nella Chiesa, ma non dovete né imitarli e neppure disperare (della loro salvezza). Noi vediamo infatti quello che è oggi ciascuno, ma non sappiamo che cosa potrà diventare domani. Molte volte anche chi sembra venire dopo di noi ci precede con l’agilità delle buone opere, e a stento seguiamo quello che oggi crediamo di precedere. Certamente, mentre Stefano moriva per la fede, Saulo custodiva le vesti di coloro che lo lapidavano. Egli dunque lapidò con le mani di tutti, perché rese tutti più spediti nel lapidare; e tuttavia con le sue fatiche precedette nella santa Chiesa quello stesso che con le sue persecuzioni aveva reso martire. Ci sono dunque due cose alle quali dobbiamo seriamente pensare. Siccome infatti "molti sono chiamati, ma pochi eletti", per prima cosa nessuno deve minimamente presumere di se stesso, perché anche se è già stato chiamato alla fede non sa se è degno del regno eterno. La seconda cosa è che nessuno osi disperare del prossimo, che forse ha visto giacere nei vizi, perché ignora le ricchezze della misericordia divina.

venerdì 12 settembre 2014

Esaltare la Croce è esaltare l’amore.

Festa dell’Esaltazione della Santa Croce - 14 settembre 20141
Nm 21,4b-9; Sal 77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

1) L’Amore illumina la Croce.
La festa di oggi celebra la Santa Croce non per esaltare il patibolo sul quale Gesù è salito ed è morto, ma per celebrare ciò che la croce di Cristo ci ha manifestato: l’amore e ciò che ci ha guadagnato: la salvezza.
Nella prima lettura, presa dal libro dei Numeri, troviamo l’episodio a cui fa riferimento Gesù nel suo dialogo con Nicodemo (Vangelo di oggi): gli israeliti dopo essersi ribellati a Dio e a Mosè, vengono puniti. La punizione li rende consapevoli del loro peccato e chiedono a Mosè di intercedere presso Dio. Questi ordina a Mosè di mettere un serpente di bronzo su un bastone, perché chi lo guarderà non morirà a causa del morso di questo rettili. Il serpente, segno e causa di morte, di terrore, di fallimento e di sofferenza, diventa allora un segno e fonte di vita, allo stesso modo in cui la croce, segno di punizione e di morte, diventa segno di vita.
Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Filippesi, la croce è vista come il motivo di “esaltazione” di Cristo. Gesù, Figlio di Dio, “svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte 
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò” (Fil 2, 6-7).
Il Padre esalta il Figlio che ha accettato di obbedire fino al dono supremo della vita; la croce così diventa segno dell’obbedienza come adesione che accompagna tutta la sua avventura terrena.
Nel Vangelo, Gesù dice al suo visitatore Nicodemo che “bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.”(Gv 3,14b-15). È sulla croce che troviamo la manifestazione più alta dell'amore di Dio. Sulla croce Gesù realizza in modo ancora più grande quello che faceva il serpente di bronzo issato su un'asta al centro dell'accampamento. Chi guarda con fede supplice Cristo Gesù è salvo.
Da quando Cristo ha riempito d’amore e illuminato di vita la sua croce, il dolore e le altre assurdità delle nostre vicende umane hanno un senso: le condividiamo con Lui per rinascere con Lui a vita nuova. Così la croce, definitivamente piantata nel cuore e nella vita di ognuno di noi, diventa albero di vita, da cui sgorga energia divina e grazia che santifica.
Con Adamo ed Eva, ai piedi di un albero verde era iniziata la nostra tragica storia di peccato. Con Gesù e Maria e con un albero secco e rinverdito dall’amore di Cristo, obbediente ed immolato per noi, riprende vita la nostra rinascita.
E' davvero ragionevole fare festa oggi e fare ogni giorno il segno della croce, per ricordare la tragedia del peccato e il trionfo dell’amore.
Dovremmo ripetere il gesto devoto di gratitudine che compiamo il Venerdì Santo, quando adoriamo la croce di Cristo e imprimiamo su di essa l’impronta del nostro amore, baciando la Croce e il Cristo che vi è disteso sopra.
La Croce ci insegna che la nostra azione è tanto più efficace quanto più siamo “passivi”2, quanto più soffriamo del male del mondo. È un insegnamento che sconcerta, difficile da accettare, perché la nostra natura reagisce nei confronti della sofferenza con una certa ripugnanza istintiva e un certo rifiuto istintivo. Ma il fatto di questa reazione istintiva non toglie nulla alla grandezza della sofferenza. Di fatto questa reazione l'ha provata anche Gesù; prima di iniziare la sua Passione Egli ha pregato il Padre: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice”. Che cosa dunque c’è di strano se anche l’anima nostra prova una reazione immediata di ripugnanza e di rifiuto nei confronti della sofferenza, sia che questa colpisca il fisico, sia che opprima il cuore e ferisca l’anima?

2) La Croce è la chiave dell’amore, il legno per solcare il mare della vita.
E’ evidente che la croce non piace a nessuno. Non piace neppure a Gesù Cristo (“Padre, se possibile allontana da me questo calice”), ma, come scrive San Bernardo di Chiaravalle: “Gesù nutriva pensieri di pace e io non lo sapevo. Chi, infatti, conosce i sentimenti del Signore, o chi fu suo consigliere? (cfr Ger 29,11). Ma il chiodo penetrando fu per me come una chiave che mi ha aperto perché io vedessi la volontà del Signore … E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo … appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visitò dall’alto un sole che sorge (Lc 1,78)” (Sermoni sul Cantico dei cantici; Ser. LXI, 4). “E’ aperto l’ingresso al segreto del cuore”: la Croce è la suprema rivelazione di ciò che dimora dentro al cuore di Dio. E per questo San Paolo può dire di “non sapere altri in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso” (1 Cor 2,2). Alla domanda più alta che ogni essere umano possa fare: “Chi è Dio?”, il cristianesimo risponde: “Cerca la risposta nel Crocefisso”. Il cuore umano è impastato dal desiderio di vedere Dio (cfr Summa Theologica, 1,2,q.3, a.8), il cristiano risponde dicendo: “Guarda il Crocefisso e vedrai Dio”.
La Croce svela, in primo luogo, la logica interna all’articolo specifico della nostra fede: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). E’ la logica della condivisione della nostra condizione umana, che consiste nella partecipazione alla stessa natura umana: nell’avvenimento della Incarnazione si mostra che Dio è veramente interessato alla nostra vicenda ed ai nostri casi umani, fino al punto da venire a viverli Egli stesso.
In secondo luogo, la Sua Croce manifesta, rivela che siamo salvati. Lo strumento di supplizio che, il Venerdì Santo, aveva manifestato il giudizio di Dio sul mondo, è divenuto sorgente di vita, di perdono, di misericordia,  segno di riconciliazione e di pace. “Per essere guariti dal peccato, guardiamo il Cristo crocifisso!” diceva Sant’Agostino nel suo Commento a Giovanni, 12,11.
Sollevando gli occhi verso il Crocifisso, adoriamo Colui che è venuto per prendere su di sé il peccato del mondo e donarci la vita eterna. Oggi, la Chiesa ci invita ad elevare con fierezza questa Croce gloriosa affinché il mondo possa vedere fin dove è arrivato l’amore del Crocifisso per gli uomini,  per noi uomini. Essa ci invita a rendere grazie a Dio, perché da un albero che aveva portato la morte è scaturita nuovamente la vita.
È su questo legno che Gesù ci rivela la sua sovrana maestà, ci rivela che Egli è esaltato nella gloria.
Oltre a mostrarci Chi è veramente Dio nel Suo amore crocifisso, glorioso e maestoso, la Croce ci dona ciò che il cuore desidera: la vera felicità, rendendone possibile il raggiungimento. A questo proposito Sant’Agostino scrive: “E’ come se qualcuno riuscisse a vedere da lontano la patria, ma ci sia il mare che lo separa da essa. Egli vede dove andare, ma gli manca il mezzo con cui andare … C’è di mezzo il mare di questo secolo attraverso il quale dobbiamo andare, mentre molti non vedono neppure dove devono andare. Perciò, affinché ci fosse anche il mezzo con cui andare, venne di là Colui al quale volevamo andare. E che cosa ha fatto? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa Croce potrà stringersi, talvolta, anche chi ha gli occhi malati. E chi non riesce a vedere dove deve andare, non si stacchi dalla Croce, e la Croce lo porterà”. (S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, II, 2).
Quindi stiamo abbracciati alla Croce perché ci accompagni sui sentieri della verità, umilmente, senza difese. Infatti se la croce la subiamo o la trasciniamo, essa finirà per schiacciarci, ma se la abbracciamo sarà essa a portarci. Inoltre, non stacchiamoci dalla Croce se non per guardarla e imparare l’amore, lasciando che l’amore infinito che ha innalzato il Signore percuota il nostro cuore. Infine facciamo spesso e bene il segno della Croce, come ho accennato poco sopra. E’ significativo che nella Grotta di Masabielle al momento della prima apparizione a Bernadette Soubirous, la Vergine Immacolata introduca il suo incontro con il segno della Croce. Più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede che Bernadette riceve da Maria. Il segno della Croce è in qualche modo la sintesi della nostra fede, perché ci dice quanto Dio ci ha amati. Ci dice che, nel mondo, c’è un amore più forte della morte, più forte delle nostre  debolezze e dei nostri peccati. La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia. E’ questo mistero dell’universalità dell’amore di Dio per gli uomini che Maria è venuta a rivelare a Lourdes. Essa invita tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che soffrono nel cuore o nel corpo, ad alzare gli occhi verso la Croce di Gesù per trovarvi la sorgente della vita, della salvezza, della libertà e dell’amore.

3) L’amore verginale è crocifisso, quindi sponsale.
E’ “sulla croce che l’amore verginale di Cristo per il Padre e per tutti gli uomini raggiungerà la sua massima espressione; la sua povertà arriverà allo spogliamento di tutto; la sua obbedienza fino al dono della vita” (Vita Consecrata, 23a). L’amore ha portato Cristo al dono di sé fino al sacrificio supremo della Croce. Questa è il “talamo delle nozze” delle Vergini consacrate con il Cristo, loro mistico sposo. La loro unione col Cristo avviene sulla Croce. Egli le unisce a Sé perché partecipino alla sua passione, dalla quale dipende la salvezza del mondo. Le Vergini consacrate si sono consacrate al Signore Gesù. Il figlio del Dio altissimo, e lo riconoscono come loro sposo (cfr. Rito della Consacrazione della Vergini, n. 17). A loro rivolgo l’invito di Sant’Agostino “sia fisso nel vostro cuore Colui che per voi è stato infisso sulla croce”. (De sancta virginitate, cc. 54-S5: PL 40, 428).

1 Nel 2014 la domenica cade il 14 settembre, giorno in cui si celebra la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, che nel calendario liturgico “prevale” sulla domenica ordinaria sia per il Rito Romano (XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno A) sia per quello Ambrosiano (III Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore). Storicamente, questa festa è nata con il ritrovamento della Croce di Gesù da parte di Santa Elena e con la costruzione, sul luogo della Passione, della Basilica, fatta dall’imperatore Costantino, figlio di questa Santa. Quindi questa festa dell’Esaltazione riassume e richiama alcuni eventi storici legati al santo Legno, principalmente la scoperta della Vera Croce. Una tradizione formatasi abbastanza presto riferisce che sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, aveva ritrovato a Gerusalemme, presso il Golgota, le tre croci usate per Gesù Cristo e i due ladroni; una guarigione miracolosa, avvenuta al contatto con una d’esse, permise il riconoscimento della croce del Salvatore e di mostrarla alla venerazione del popolo.
Si commemora anche la seconda grande Esaltazione della Croce, a Costantinopoli nel 629. Il 4 maggio 614, durante il saccheggio di Gerusalemme, la Vera Croce era caduta nelle mani dei Persiani. Nel 628 l’imperatore Eraclio, sconfiggendo il re Persiano Cosroe, recuperò la preziosa reliquia. Lieto della vittoria, Eraclio a cavallo, vestito della porpora e con la corona, volle riportare il santo Legno della Salvezza attraverso la porta principale di Gerusalemme. Ma il cavallo si fermò ed il patriarca Zaccaria, che era stato liberato dalla prigionia persiana, fece presente, all’imperatore che il Figlio di Dio non aveva portato in forma solenne la Croce per le vie di Gerusalemme. Dopo aver deposto la porpora e la corona, a piedi e scalzo, Eraclio, portò sulle sue spalle il legno benedetto sino al Golgota.


2 Nel senso che siamo capaci di patire, che abbiamo una passione per Dio e per l’uomo.


Lettura patristica

Dai «Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo
(Disc. 10 sull'Esaltazione della santa croce; PG 97, 1018-1019. 1022-1023).


La croce è gloria ed esaltazione di Cristo
Noi celebriamo la festa della santa croce, per mezzo della quale sono state cacciate le tenebre ed è ritornata la luce. Celebriamo la festa della santa croce, e così, insieme al Crocifisso, veniamo innalzati e sublimati anche noi. Infatti ci distacchiamo dalla terra del peccato e saliamo verso le altezze. È tale e tanta la ricchezza della croce che chi la possiede ha un vero tesoro. E la chiamo giustamente così, perché di nome e di fatto è il più prezioso di tutti i beni. È in essa che risiede tutta la nostra salvezza. Essa è il mezzo e la via per il ritorno allo stato originale.
Se infatti non ci fosse la croce, non ci sarebbe nemmeno Cristo crocifisso. Se non ci fosse la croce, la Vita non sarebbe stata affissa al legno. Se poi la Vita non fosse stata inchiodata al legno, dal suo fianco non sarebbero sgorgate quelle sorgenti di immortalità, sangue e acqua, che purificano il mondo. La sentenza di condanna scritta per il nostro peccato non sarebbe stata lacerata, noi non avremmo avuto la libertà, non potremmo godere dell'albero della vita, il paradiso non sarebbe stato aperto per noi. Se non ci fosse la croce, la morte non sarebbe stata vinta, l'inferno non sarebbe stato spogliato.
È dunque la croce una risorsa veramente stupenda e impareggiabile, perché, per suo mezzo, abbiamo conseguito molti beni, tanto più numerosi quanto più grande ne è il merito, dovuto però in massima parte ai miracoli e alla passione del Cristo. È preziosa poi la croce perché è insieme patibolo e trofeo di Dio. Patibolo per la sua volontaria morte su di essa. Trofeo perché con essa fu vinto il diavolo e col diavolo fu sconfitta la morte. Inoltre la potenza dell'inferno venne fiaccata, e così la croce è diventata la salvezza comune di tutto l'universo.
La croce è gloria di Cristo, esaltazione di Cristo. La croce è il calice prezioso e inestimabile che raccoglie tutte le sofferenze di Cristo, è la sintesi completa della sua passione. Per convincerti che la croce è la gloria di Cristo, senti quello che egli dice: «Ora il figlio dell'uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui, e subito lo glorificherà » (Gv 13,31-32).
E di nuovo: «Glorificami, Padre, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). E ancora: «Padre glorifica il tuo nome. Venne dunque una voce dal cielo: L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò» (Gv 12,28), per indicare quella glorificazione che fu conseguita allora sulla croce. Che poi la croce sia anche esaltazione di Cristo, ascolta ciò che egli stesso dice: «Quando sarò esaltato, allora attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Vedi dunque che la croce è gloria ed esaltazione di Cristo.

venerdì 5 settembre 2014

La Chiesa, luogo del Perdono

Rito Romano – XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 7 settembre 2014
Ez 33,1.7-9; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

Rito AmbrosianoII Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 60,16b-22; Sal 88; 1Cor 15,17-28; Gv 5,19-24

1)Il perdono come correzione per guadagnare un fratello.
Il brano evangelico di questa domenica segue immediatamente il racconto della parabola della pecorella smarrita della quale è, quindi, unapplicazione concreta. Se un fratello ha commesso una colpa si deve applicare, in primo luogo, la correzione personale. Se non ascolta, bisogna chiamare in aiuto qualche testimone. Se continua a non ascoltare il richiamo alla conversione, bisogna rivolgersi alla comunità. Se non ascolta neppure questa, si deve, solo allora, considerarlo come un pagano o pubblicano, cioè come uno che sè messo fuori comunità.
A questo insegnamento sulla correzione fraterna Gesù unisce quello sul perdono dare 70 volte 7, vale a dire sempre, e sulla onnipotenza della preghiera, purché fatta in comunità, anche se è costituita da solo due o tre persone. Naturalmente queste persone per pregare Dio devono essere riconciliate tra di loro.
Quantunque in questo passo evangelico si parli molto di perdono senza limite, è detto chiaramente che il male va denunciato e che bisogna correggere chi lo compie. Le parole del Vangelo di oggi illuminano come i fratelli possono distruggere le barriere che il diavolo costruisce tra di loro. La Chiesa, infatti, ha la consapevolezza che ilpeccatoha il potere di distruggere la comunione e far perdere così al sale il sapore. Una comunità divisa perché qualchefratello ha commesso una colpae non è statoguadagnatoal perdono, non può compiere la sua missione nel mondo, vale solo per essere calpestata dagli uomini come si fa col sale che non serve più a niente.
Gesù ci dice di non restare indifferentise qualcuno ha peccato, perché cè di mezzo la vita di comunione con Dio e tra di noi, perché cè di mezzo il Cielo da schiudere agli uomini attraverso la Chiesa.
Non si tratta di una semplice questione giudiziaria per salvaguardare lordine della società o della famiglia. Gesù non offre la propria versione dei differenti gradi di giudizio in un processo per il buon ordine dello Stato. Egli mostra come il giudizio di misericordia del Padre che è nei cieli si realizza nella Chiesa che è sulla terra. Occorre avere a cuore il destino del nostro fratello e della nostra sorella come aveva ben intuito San Francesco dAssisi:E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo,  se ti comporterai in questa maniera, e cioè:  che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare,  che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede;e se non chiedesse perdono,  chiedi tu a lui se vuole essere perdonato.  E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi,  amalo più di me per questo:  che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli. (San Francesco dAssisi, Lettera a un ministro)
Anche la prima lettura della Messa di oggi con il brano del profeta Ezechiele mette in evidenza questo medesimo insegnamento: il profeta è come una sentinella, e ha limprescindibile dovere di annunciare le esigenze di Dio, di denunciare la menzogna dovunque si trovi. Ma lo scopo è sempre quello di aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di peccato, perché possa pentirsi. Lo scopo è di creare nei peccatori un disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno.
Alla luce di queste brevi riflessioni, si capisce la seconda frase di Gesù riportata in questo brano del Vangelo di San Matteo:perdonare non sette volte, ma settanta volte sette. Occorre dunque perdonare sempre, un perdono senza misura, perché Dio ci ha fatto oggetto di un perdono senza misura. Il perdono al prossimo è la diretta conseguenza del perdono di Dio verso di noi. Se è un dovere di carità denunciare il male e correggere chi lo compie, è perché tu hai g perdonato e ami il peccatore. per questo hai il diritto di correggerlo. Nella comunità cristiana continua il peccato, ma parallelamente continua, ancora piùostinato, il perdono dei peccati.

2) La preghiera come correzione e intercessione
Anche se è necessaria una severità, a volte anche grande, essa deve nascere da un cuore misericordioso come quello del Pastore buono, che dopo averla tolta dalle spine dei rovi, prende la pecorella sulle spalle. La corregge sorreggendola. Come suggerisce letimologia, il verbocorreggere” che significa "reggere insieme" e non punizione.
Per correggere nella verità
- occorre amare laltro al punto di desiderare di portare con lui il peso dei suoi peccati, come ha fatto Cristo prendendo su di il peccato del mondo;
- occorre amare in Cristo, che ci chiama a prendere il suo giogo dolce e leggero: la Croce che purifica e perdona;
- occorre pregare insieme con Cristo. Gesù non è un altro tra noi, ma è Colui che tutti ci unisce in solo corpo, tutti ci unisce in un medesimo Spirito. Lui ci unisce tutti in un medesimo amore che corregge perdonando, perché in noi peccatori vede delle persone non condannabili, ma perdonabili.
Gesù ha implorato il perdono e noi ci uniamo a Lui nella preghiera, soprattutto eucaristica, chiedendo adAbbà, Papàche la sua volontà sia fatta, cioè che nessuno si perda. Pregando in comunione di carità esercitiamoin un certo senso - il ministero discioglieredai lacci del peccato e dilegaredi nuovo alla comunione1 con il Padre e con ifratelli.
Questa preghiere di “correzione” e di intercessione è esercitata in modo particolare dalla Vergini Consacrate nel mondo.
Queste donne, figlie della Chiesa, sanno che il Signore non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11). In effetti, il desiderio di Dio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio della persona umana e si esprime attraverso le parole dell’intercessione. Con la preghiera di intercessione si presta la propria voce ed anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio trova in queste donne (e anche in ciascuno dei cristiani) e nella loro preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia.
L’insegnamento della Chiesa, luogo del perdono, e l’esempio delle Vergini consacrate ci educhi ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia smisurata di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell’amore, un amore sorprendente e sconfinato.
Consegnando il libro della Liturgia delle Ore, il Vescovo si rivolge alla consacrata con queste parole:La preghiera della Chiesa risuoni senza interruzione nel tuo cuore e sulle tue labbra come lode perenne al Padre e viva intercessione per la salvezza del mondo(Rituale della Consacrazione delle Vergini, riti esplicativi, n. 48), perché il primo e irrinunciabile impegno delle vergini consacrate è quello della preghiera, come viene espressamente richiesto durante il rito di consacrazione (cfr. Ibid., Premesse, n. 2). Per questo, ogni vergine appartenente all’Ordo tiene costantemente presente che la preghiera non è solamente una personale, generosa risposta alla voce dello Sposo e un’umile richiesta di aiuto per mantenersi fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima partecipazione alla vita del Corpo mistico di Cristo, intercessione instancabile per la Chiesa e per il mondo.
1 Il termine comunione traduce la parola greca koinonia , che a sua volta traduce la parola ebraica khaburah. Tutte e due indicavano, in origine, una cooperativa, una società, come quella dedita alla pesca composta da Pietro, Giacomo e Giovanni. Nell'ambiente giudaico contemporaneo a Gesù khaburah indicava, tra l'altro, la comunità di almeno dieci persone riunita per celebrare la Pasqua. Quindi anche gli apostoli riuniti con Gesù durante la sua ultima cena formavano una khaburah: la partecipazione al Mistero Pasquale del Signore gettava le fondamenta della comunione.  In effetti, nella Pasqua celebrata da Cristo nel Cenacolo avviene qualcosa di assolutamente nuovo: Dio che s'era fatto carne, provocando scandalo e rifiuto, diviene tanto prossimo all'uomo da farsi carne da mangiare e sangue da bere. La comunione tra gli uomini si fonda nella comunione con Gesù; in virtù del suo Mistero Pasquale, il Figlio di Dio comunica se stesso ai suoi apostoli che, uniti a Lui, divengono così figli del suo stesso Padre. 
Per questo, la comunione non è il frutto degli sforzi dell'uomo, delle sue capacità di mediazione, non nasce dal voto di fiducia della maggioranza, non si stabilisce nei palazzi del potere politico, non si fonda sulle affinità umane o su comuni ideali. La comunione è un dono dello Spirito Santo, il soffio della vita eterna che la mattina di Pentecoste irruppe nel Cenacolo e prese dimora nella Vergine Maria e negli Apostoli, dando alla luce la Chiesa. Da quel giorno, nel corso della storia, lo Spirito di Cristo risorto rompe le barriere di razza, lingua e cultura, unisce i cristiani nel suo amore che ha vinto il peccato e la morte. 


Lettura Patristica
Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo

(Om. sul diavolo tentatore 2, 6; PG 49, 263-264)


Le cinque vie della riconciliazione con Dio


Volete che parli delle vie della riconciliazione con Dio? Sono molte e svariate, però tutte conducono al cielo.
La prima è quella della condanna dei propri peccati. Confessa per primo il tuo peccato e sarai giustificato (cfr. Is 43, 25-26). Perciò anche il profeta diceva: «Dissi: Confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato» (Sal 31, 5).
Condanna dunque anche tu le tue colpe. Questo è sufficiente al Signore per la tua liberazione. E poi se condanni le tue colpe sarai più cauto nel ricadervi. Eccita la tua coscienza a divenire la tua interna accusatrice, perché non lo sia poi dinanzi al tribunale del Signore.
Questa è dunque una via di remissione, e ottima; ma ve n'è un'altra per nulla inferiore: non ricordare le colpe dei nemici, dominare l`'ira, perdonare i fratelli che ci hanno offeso. Anche così avremo il perdono delle offese da noi fatte al Signore. E questo è un secondo modo di espiare i peccati. «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi» (Mt 6, 14).
Vuoi imparare ancora una terza via di purificazione? E' quella della preghiera fervorosa e ben fatta che proviene dall'intimo del cuore.
Se poi ne vuoi conoscere anche una quarta, dirò che è l'elemosina. Questa ha un valore molto grande. Aggiungiamo poi questo: Se uno si comporta con temperanza e umiltà, distruggerà alla radice i suoi peccati con non minore efficacia dei mezzi ricordati sopra. Ne è testimone il pubblicano che non era in grado di ricordare opere buone, ma al loro posto offrì l'umile riconoscimento delle sue colpe e così si liberò dal grave fardello che aveva sulla coscienza.
Abbiamo indicato cinque vie di riconciliazione con Dio. La prima è la condanna dei propri peccati. La seconda è il perdono delle offese. La terza consiste nella preghiera, la quarta nell'elemosina e la quinta nell'umiltà.
Non stare dunque senza far nulla, anzi ogni giorno cerca di avanzare per tutte queste vie, perché sono facili, né puoi addurre la tua povertà per esimertene. Ma quand'anche ti trovassi a vivere in miseria piuttosto grave, potrai sempre deporre l'ira, praticare l'umiltà, pregare continuamente e riprovare i peccati, e la povertà non ti sarà mai di intralcio. Ma che dico? Neppure in quella via di perdono in cui è richiesta la distribuzione del denaro cioè l'elemosina, la povertà è di impedimento. No. Lo dimostra la vedova che offrì i due spiccioli.
Avendo dunque imparato il modo di guarire le nostre ferite, adoperiamo questi rimedi. Riacquistata poi la vera sanità, godremo con fiducia della sacra mensa e con grande gloria andremo incontro a Cristo, re della gloria, e conquisteremo per sempre i beni eterni per la grazia, la misericordia e la bontà del Signore nostro Gesù Cristo.”