Rito
Romano – XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 28
settembre 2014
Ez
18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32.
Rito
Ambrosiano – V Domenica dopo il martirio di San Giovanni il
Precursore
Dt
6,4-12; Sal 17; Gal 5,1-14; Mt 22,34-40
1)
Obbedire all’amore è libertà.
Dalla
parabola del Padre, che manda i suoi due figli a lavorare nella vigna
potrebbe nascere come prima e spontanea riflessione quella di
identificarsi o in colui che dice di sì, ma poi disobbedisce, o in
colui che si ribella alla richiesta paterna, ma poi obbedisce. In
realtà questi due fratelli fanno entrambi lo stesso errore di fondo:
entrambi considerano il Padre come un padrone.
Il
primo accetta subito, vuol far credere a suo padre di essere quello
che non è, ma poi, appena può, non tiene fede all’impegno preso.
Il secondo risponde chiaro “Non ho voglia”, avverte il lavoro
nella vigna come pesante, preferirebbe fare altro, avrebbe altri
progetti, altre intenzioni, però “si pente”1
l’amore al Padre vince su di lui e si incammina verso la vigna.
Quando
il Padre è visto e trattato come un padrone si è portati a vivere
come schiavi di una volontà superiore con la quale non si è
d’accordo ed alla quale ci si sottomette per timore. Con questa
parabola, Cristo ci indica che con il pentimento si può seguire la
volontà del Padre per attrazione d’amore e non per costrizione.
Dio è un padre, non un padrone.
Dio è il Padre che ama e invita
ad accogliere il suo amore.
L’amore
non è facile soprattutto quando ci dà degli ordini, che non capiamo
e che viviamo come limitanti la nostra libertà. A questo riguardo,
Gesù ci insegna che la nostra libertà esige prima il rinnegamento
del proprio egoismo, la morte al peccato, perché, aderendo a Dio la
nostra vita in Dio si dispieghi nel mondo. Il cammino dell’anima
nella vita vera è un rapporto di obbedienza. All’inizio è
certamente una rinuncia a sé (cfr Mc 8,34), un rinnegamento
di sé per un ritorno dall’alienazione, in cui ci ha posto il
peccato, al pieno possesso del nostro essere in Dio. Nell’adesione
a Dio l’anima nostra può sempre più vivere la libertà divina e
sempre più può espandersi e dilatarsi nell’immensità della vita
di Dio. Per questo l’obbedienza è la via della vita! Volerci
dispensare dall'obbedienza a Dio è dispensarci dalla vita, è
rimanere rattrappiti nel nostro piccolo io, chiusi, soffocati nel
peccato, alienati a noi stessi, al nostro vero io, amato da Dio dal
cui Amore nasce il nostro amore.
A
questo Amore si convertì il figlio che aveva detto di “no” al
Padre. Che cosa ha disarmato il rifiuto di questo figlio? Il
pentimento, provocato dal cuore e la mente cambiati. Il suo pentirsi
(cfr nota 1) significò “cambiare mentalità, cambiare il modo di
vedere”, di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un
padrone da obbedire o, peggio ancora, da ingannare, ma il capo
famiglia che invia il figlio nella vigna, che è anche sua, per una
vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la
fatica diventa piena di speranza e di amore.
Il
figlio obbediente che “si pentì” (cfr Mt 21, 30) aveva
capito che l’alternativa di fondo era (ed è) tra un’esistenza
sterile e un’esistenza feconda, che trasformava (e trasforma) un
angolo di deserto in vigna, e la propria famiglia in un frammento del
paradiso di Dio. Lungi dal diminuire la sua dignità di figlio,
l’obbedienza fa crescere la sua libertà e la ordina, come una
specie di ordinazione, per la missione di coltivare la vigna del
mondo. E’ come l’imposizione delle mani il giorno
dell’ordinazione sacerdotale, nella quale la missione del prete
comincia e, in nome di Dio, il Vescovo invia ad andare nelle vigna
del Signore. L’obbedienza è imitazione di Cristo e partecipazione
alla sua missione. Chi obbedisce si preoccupa di fare ciò che Gesù
ha fatto e, al tempo stesso, ciò che Lui farebbe nella situazione in
cui ognuno di noi si trova oggi.
2)
L’obbedienza2
e la libertà non sono contraddittorie.
Dio
“osa” affidarci la Sua vigna, ci dona la Sua “proprietà”, ci
“ordina” di lavorare, affidando il suo disegno di bontà alla
nostra libertà e di realizzarlo. L’ubbidienza della Vergine Madre
“realizzò” Dio, diede la sua carne a Dio, e fece un’esperienza
grandissima di libertà. Dio ci chiede la stessa cosa, amorosamente.
E l’obbedienza è la nostra risposta al suo amore. L’obbedienza è
il frutto dell’amore e servizio all’Amore. Non c’è amore senza
obbedienza e senza amore l’obbedienza diventa servile.
Per
ogni figlio di Dio ribelle, ma pentito e capace di amore, il Figlio
di Dio ha assunto la condizione umana, ha vissuto tra noi, come
servo, ha affrontato il giudizio dei superbi, è salito sulla croce,
ed è morto; ma, nella sua morte è stata lavata ogni colpa, e, nella
sua resurrezione, ogni peccatore risorge, e diventa capace di riamare
Dio, di ascoltarlo ed obbedire alla sua Parola, che ci dice parole
che interpellano ognuno di noi, ogni giorno.
Ma
Gesù non solamente ci mette in guardia da una religiosità vuota,
fredda e formale, che si esaurisca in pratiche esteriori, ci invita a
coltivare in profondità la fede e un autentico rapporto filiale con
Dio, un rapporto saldamente radicato nell’amore, che accoglie,
ascolta e, umilmente, obbedisce.
Gesù
è tra i due fratelli il terzo che dice di “sì” subito e subito
fa anche ciò che gli viene ordinato. Questo terzo fratello3
è il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, che entrando nel mondo,
ha detto: “Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà”
(Eb 10,7). Questo “sì”, Lui non l’ha solo pronunciato,
ma l’ha compiuto, obbedito e sofferto fin dentro la morte, ed alla
morte di croce (cf Fil 2, 6-8).
In
umiltà ed obbedienza, Gesù ha compiuto la volontà del Padre, è
morto sulla croce per i suoi fratelli e le sue sorelle - per noi - e
ci ha redenti dalla nostra superbia e testardaggine.
Queste
due virtù insieme con la castità e la povertà formano la croce che
ogni giorno ci è “ordinato” di prendere, per salvare noi e il
mondo: “L’obbedienza consacra il nostro cuore, la castità il
nostro corpo, e la povertà i nostri beni all’amore e al servizio
di Dio: sono i tre bracci della croce spirituale, che poggiano sul
quarto che è l’umiltà” (San Francesco di Sales, Filotea,
cap. 10).
L’umiltà
non gode - al giorno d’oggi e, forse non ha mai goduto – di una
grande stima, ma le Vergini consacrate nel mondo sanno che questa
virtù rende fecondo il lavoro nella vigna di Dio. Umiltà viene
dalla parola latina humilitas, che ha a che fare con humus
(terra), cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Queste
donne, che si sono donate completamente a Dio, vivono da persone
umili perché vivendo in Lui e per Lui ascoltano umilmente Cristo, la
Parola di Dio, e tendono avere gli stessi sentimenti del loro Sposo
(“Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” - Fil
2,5), da loro amato. E come diceva Sant’Agostino: “Non c’è
carità senza umiltà” (Prologo del Commento alla Lettera di San
Giovani) e in altro libro scrive: “Custode della verginità è
la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà” (Sulla
Santa virginità, 51, 52).
La
vocazione a vivere la verginità consacrata come dono completo di sé
a Cristo e segno della Chiesa Sposa si esplicita nel loro affidarsi
senza riserve all’amore del loro Sposo, all’intensità della
comunione con Lui, all’umile carità che si fa servizio
disinteressato alla Chiesa e testimonianza luminosa di fede, speranza
e carità, nel contesto della vita ordinaria.
Come
chiede il Rito di consacrazione (cfr nn. 14-18) ogni vergine
appartenente all’Ordo si impegna costantemente ed ha
presente che la preghiera non è solo personale, generosa risposta
alla voce dello Sposo e umile richiesta di aiuto per mantenersi
fedele al santo proposito e al dono ricevuto, ma è intima
partecipazione alla vita del corpo mistico di Cristo, intercessione
instancabile per la Chiesa e per il mondo.
1
Il testo greco del Vangelo usa il participio aoristo di μεταμέλομαι
(metamélomai=mi pento), che letteralmente andrebbe traddotto
“avendo l’animo cambiato ebbe il cuore per fare qualcosa”,
quindi per andare a lavorare nella vigna: in breve: “cambiare modo
di vedere, di pensare”. Questo verbo oltre ad essere usato al
versetto 30 del capitolo 21 di Matteo per il figlio obbediente è
usato anche al versetto 32.
2
Obbedire viene dal latino, e significa ascoltare, sentire l'altro.
“Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare
sulla strada che Dio ci indica. L'obbedienza a Dio è ascoltare Dio.
E questo ci fa liberi”. (Papa
Francesco).
Il
19 agosto 2012 per la XX domenica TO anno B scrivevo: “Obbedire
a Dio è “realizzare” Dio. La Madonna con il suo “sì” ha
fatto Gesù. Il suo fiat ha dato carne alla Parola di Dio. Con il
mio “sì” al comando di Cristo: “Fate questo in memoria di
me”, faccio Lui. Quando nella Messa dico: “Questo è il mio
Corpo”, faccio Lui, dò carne al Verbo di Dio. L’obbedienza
affettuosa a Dio è liberante, è libertà, perché il suo comando
non è un’imposizione di un Dio arbitrario e capriccioso, ma una
parola (logos) con la quale amorosamente rivela il suo cuore ed il
nostro futuro.
Lettura
Patristica
San
Girolamo, In Matth. 21, 29-31
1.
La parabola dei due figli
Che ve ne pare? Un uomo aveva due
figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi
nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò.
E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado,
Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del
Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse..."
(Mt
21,28-31).
Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono
uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta
Zaccaria con le parole: "Presi
con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai
frusta, e pascolai il gregge"
(Za
11,7). Al
primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli
conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna»,
cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb
4,16). Ma
egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento
del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore
e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo
figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: "Faremo
quanto ci ordinerà il Signore"
(Ex
24,3), ma
non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa,
credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la
parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai
peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge
dopo, la spiega.
"In
verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel
regno di Dio" (Mt
21,31).
Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano
rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il
battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di
preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio,
disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di
Dio. Per questo egli dice:
"Perché
Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete
creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi,
nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a
lui" (Mt
21,32). La
versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece
la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si
trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il
primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro
stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il
significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità,
ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero;
così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva
dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.
Efrem, Diatessaron,
XVI, 18
2.
I due figli
"Che
ve ne pare? Un uomo aveva due figli"
(Mt
21,28).
Egli chiamò i suoi «figli», per incitarli al lavoro. "D’accordo,
Signore", disse
l’uno. Il padre l’ha chiamato: Figlio
mio, ma lui ha risposto
chiamandolo: "Signore";
non lo ha chiamato: Padre, e non ha adempiuto la sua parola. "Quale
dei due ha fatto la volontà del padre suo"?
Essi giudicarono con rettitudine e "dissero:
Il secondo" (Mt
21,31).
Egli non disse: Quale vi sembra? - infatti il primo aveva detto: "Ci
vado" - bensì:
"Quale ha fatto la
volontà del padre suo? Ecco perché i pubblicani e le prostitute vi
precederanno nel regno dei cieli ()",
poiché voi avete promesso a parole, ma essi corrono più veloci di
voi. "Giovanni è
venuto a voi nella via della Giustizia"
(Mt
21,32),
non ha trattenuto per sé l’onore del suo Signore, ma, allorché si
riteneva che egli fosse il Cristo, egli ha detto: "Io
non sono degno di sciogliere i lacci dei suoi sandali"
(Lc
3,16).
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