Rito
Romano – XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 5
ottobre 2014
Is
5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43
Rito
Ambrosiano – VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il
Precursore
Gb
1,13-21; Sal 16; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10
1)
Frutti d’amore.
Il
brano evangelico di oggi si apre con l’immagine della vigna, molto
frequente nell'Antico Testamento per indicare, di volta in volta, il
regno di Dio o il suo popolo o anche la donna amata. E’ evidente il
nesso con la prima lettura, il “cantico della vigna” di Isaia (5,
1-7), che descrive poeticamente tutta la cura e l’attenzione che
Dio ha per il suo popolo. Dal questo popolo tanto amato Dio si
aspetta frutti che però il popolo non dà.
Comunque
è bella questa immagine di Isaia di un Dio appassionato, che fa per
ciascuno di noi ciò che nessuno farà mai; un Dio contadino che,
come fa ogni contadino, dedica alla vigna più cuore e più cure che
ad ogni altro campo. Dio ha per ciascuno di noi una passione che
nessuna delusione spegne, che non è mai a corto di meraviglie, che
ricomincia dopo ogni nostro rifiuto ad assediare il nostro cuore.
Dunque,
prima di ogni altra cosa, prima di qualsiasi azione, sostiamo dentro
questa esperienza: sentire di essere vigna amata, lasciarci amare da
Dio. Ciascuno di noi non è altro che una vite piccolina, ma a
ciascuno di noi, proprio a ciascuno di noi Dio non vuole rinunciare.
Il
frutto che Dio attende è come quello della vite: se ogni albero si
preoccupasse solo di se stesso, solo di riprodursi, basterebbero
pochi semi ogni molti anni, un frutto solo. E invece, ad ogni
autunno, è un'abbondanza di frutti, una generosità magnifica
offerta a tutti, all'uomo, al piccolo insetto, alla terra nutrice: la
generosità della natura è un modello per il cuore dell'uomo.
Isaia,
in questo suo cantico, dice che è una storia che non può continuare
all’infinito. E’ necessario un giudizio (Is 5,3). Dunque
non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più
coltivata e vi cresceranno rovi e pruni. Ma il castigo di Dio non è
mai per sempre. Le minacce di Dio sono per convertire, non per
distruggere.
Gesù,
in questa sua parabola, riprende alcune frasi del “cantico della
vigna” di Isaia, con il quale questo grande Profeta descrive in
profondità la storia del popolo di Israele di cui Dio ha cura con
amore fedele, e precisa che la questione principale non è la
produzione di frutti più o meno buoni, ma la volontà dei vignaioli
di voler togliere la vigna al Padrone. I contadini non vogliono
riconoscere il padrone come tale. Questo è il loro peccato. Si
comportano come se la vigna appartenesse a loro. E quando uccidono il
Figlio1
del Padrone, lo dicono chiaramente: vogliono farsi eredi e padroni.
Ma rifiutando la signoria di Dio, rifiutano la pietra angolare,
l’unica che tiene il mondo in piedi. Senza il riconoscimento di
Dio, il mondo non sta in piedi, la convivenza si frantuma.
Se
ci mettessimo nella logica amara e violenta dei vignaioli, ne
ripeteremmo le parole insensate e brutali: “Costui è l’erede,
venite, uccidiamolo e avremo noi l'eredità”. Se dessimo ascolto a
questa risposta rozza e brutale, faremmo continuare le vendemmie di
sangue, che arrossano il mondo.
Se
alla domanda di Cristo: “Che cosa farà il padrone della vigna dopo
l’uccisione del figlio?”, la nostra risposta fosse analoga alla
soluzione proposta dai giudei, avremmo una punizione esemplare, nuovi
vignaioli, nuovi tributi, ma un mondo vecchio. Questa idea di
giustizia riporterebbe le cose un passo indietro, a prima del
delitto, mantenendo intatto il ciclo immutabile del dare e del
prendere o, più precisamente, del pretendere.
Gesù
dà una risposta che allarga il cuore alla speranza: l’esito della
storia sarà buono, la vigna sarà generosa di frutti, il Padrone non
sprecherà i giorni dell’eternità in vendette.
Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i
frutti, che sono l’amore, e si pone come pietra angolare, garante
di amore saldo.
Se
come pietre vive siamo chiamati ad essere la Chiesa viva di Cristo.
Come tralci dobbiamo aderire a Lui, che è la vite, così vivremo
nell’amore e dell’amore, nell’essere amati e nell’amare il
Signore.
Dio
non si arrende e offre un nuovo modo per arrivare ad un amore libero,
irrevocabile, al frutto di tale amore, alla vera uva: manda suo
Figlio, che si fa uomo. Così Dio stesso diventa radice della vite,
diventa la vite, e così la vite diviene indistruttibile. Questo
popolo di Dio non può essere distrutto, perché Dio stesso vi è
entrato, si è impiantato in questa terra. Il nuovo popolo di Dio è
realmente fondato in Dio stesso, che si fa uomo e così ci chiama ad
essere in Lui la nuova vite e ci chiama a stare, a rimanere in Lui.
2)
La gioia dell’amore.
Qual
è lo scopo della vite? Quello di dare frutto, di dare il dono
prezioso dell’uva, del vino buono.
Il
vino è simbolo, è espressione della gioia dell’amore. Il Signore
si è scelto il suo popolo per avere la risposta del suo amore e così
questa immagine della vite, della vigna, ha un significato sponsale.
La vite è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua
creatura, vuole entrare in una relazione d’amore, in una relazione
sponsale con il mondo tramite il popolo da lui eletto.
Purtroppo
la storia di di questo popolo di Dio è una storia di infedeltà:
invece di uva preziosa, vengono prodotte solo piccole “cose
immangiabili”. Invece di “rimanere” nella comunione dell’amore,
l’uomo si ritira nel suo egoismo, vuole avere se stesso solo per
sé, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così,
la vigna viene devastata, il cinghiale del bosco, tutti i nemici
vengono, e la vigna diventa un deserto.
La
Volontà di Dio non è quella di un padrone che vuole gli sia pagato
l’affitto, che esige la condanna a morte di chi ha ucciso suo
Figlio. Non vuole una vigna che maturi grappoli rossi di sangue e
amari di lacrime, ma grappoli di amore maturati al sole della sua
verità e gonfi della luce del suo amore, che sgorga dal cuore del
Figlio. Questo Figlio, morto sulla croce, da “pietra scartata dai
costruttori” diventa “pietra angolare”, il fondamento di tutto.
Che
poteva fare di più il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo:
Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio, consegnandolo alla
morte di croce. Come dice S. Paolo, sulla croce Gesù "mi ha
amato e ha dato tutto se stesso per me". Questa è l'opera
mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento
e l'inizio di ogni vita nuova. E' la rivincita, la vittoria
dell'amore.
Per
capire questa logica divina, dobbiamo piangere non tanto
sull’infruttuosità di noi tralci staccati dalla vite, ma sul
ricordo dell’amore divino che noi tradiamo. Le tenerezze di Dio, le
sue dolci cure di divino Innamorato sono la sorgente della nostra
vera gioia.
A
lui che disse: “Io sono la vite e voi i tralci che rendo fecondi”
diciamo grazie dal più profondo del cuore, e umilmente domandiamo
che ci conceda la grazia di rimanere sempre uniti a lui
nell’eterno mistero
del morire e del risorgere, dell’offerta
di sé al Padre.
Le
Vergini consacrate nel mondo hanno offerto e rinnovano l’offerta di
se stesse “come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”
(Rm 12,1). Mediante questa offerta esse si ineriscono a Cristo
come tralci alla vite e il loro essere con Cristo è il segreto della
loro fecondità spirituale.
Questo
donne consacrate nel mondo sono, insieme con Cristo, accanto
ai fratelli e sorelle in umanità. L’umanità è il campo a cui
Gesù ci invia, destinate come lui ad “essere nelle cose del
Padre”2.
Queste
donne sono chiamate a testimoniare in modo particolare la ricchezza
di frutti che produce l’essere con Gesù e come lui nelle cose del
Padre, nella sua volontà, nel suo disegno salvifico di amore.
Vivendo e lavorando nel mondo, sono chiamate a vivere e testimoniare
l’armonia tra interiorità e vita. La consuetudine di vita con il
Signore le porta ad andare oltre quello che sono per aprirsi alla
dimensione dell’amore. Le commoventi parole di Gesù: “Rimanete
in me… rimanete nel mio amore!” (Gv 15, 7.9.), sono la chiave per
costruire una autentica spiritualità della donna consacrata:
dall’Amore che ricevono all’amore che donano.
Con
la chiamata alla verginità, il Signore non le toglie a nessuno: più
cresce la loro unione con Lui, più crescono le risorse per il dono
di sè ai fratelli. Risorse di un amore che raggiunge le persone pure
attraverso le vie misteriose dello spirito.
L'appartenenza
a Dio si fa sempre dono al prossimo.
La
verginità, inoltre, non priva la donna delle sue prerogative di
sposa e di madre.
E’
con cuore di sposa che la donna donatasi a Cristo si rivolge ai
fratelli. Se non fosse così sarebbe come tralcio staccato dalla
vite. Dice Paolo, “la nostra capacità viene da Dio” (2 Cor
3,5).
E’
con cuore di madre che la donna consacrata vive la maternità
spirituale in molteplici forme. Nella sua vita consacrata la donna,
secondo le capacità sue proprie, esprime una materna “sollecitudine
per gli essere umani, specialmente per i più bisognosi: gli
ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli
anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli
emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo,
diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse
parole:‘Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi
(…), l’avete fatto a me’ (Mt 25,40)”. (San Giovanni
Paolo II, Mulieris dignitatem, 21).
Una
maternità che, come è stato per Maria, viene a noi come dono e dà
inizio a qualcosa di nuovo. E’ la risposta di Dio a una gratuità
d’amore che egli stesso ha suscitato “per non lasciar mancare a
questo mondo un raggio della divina bellezza che illumini il cammino
dell’esistenza umana” (Vita Consacrata, 109).
1
Non deve
stupire questo modo di procedere che
riproduce una situazione realistica e frequente ai tempi di Gesù e
anche dopo, fino agli anni 70 circa. La zona collinosa della Galilea
era costituita in gran parte di latifondi, acquistati da proprietari
stranieri, che li davano in affitto a singoli o anche a gruppi
organizzati di affittuari. Questi ultimi, come da contratto,
dovevano consegnare una determinata parte del raccolto al padrone,
che, vivendo lontano, normalmente inviava suoi fiduciari per
l’incasso. Succedeva anche che, approfittando dell’assenza del
proprietario, i contadini si
ribellassero,
rifiutando di onorare il contratto; non solo, ma si poteva giungere
addirittura ad atti di violenza nei confronti degli amministratori
inviati da signori molto potenti, ma anche molto lontani. Nel
racconto di Gesù, visti i fallimenti degli inviati precedenti, il
padrone arriva a mandare il proprio figlio, suo erede, confidando
nella sua autorità; ma i vignaioli agiscono ancora più
malvagiamente, uccidendolo. Anche qui c'è uno sfondo veritiero:
secondo il diritto del tempo, un podere, alla morte del proprietario
senza eredi, passava nelle mani del primo occupante.
2
Un’espressione
che traduce alla lettera il testo greco del noto versetto di Luca:
«Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc
2,49).
Lettura
Patristica
Sant’Ambrogio
di Milano
Commento
al Vangelo di Luca (In Luc. 9, 23-30.33)
1.
Parabola dei vignaioli omicidi
"Un
uomo piantò una vigna"
(Lc
20,9).
Parecchi deducono diversi significati dal nome della vigna, ma è
evidente che Isaia ha ricordato come la vigna del Signore di Sabaoth
sia la casa d’Israele (Is
5,7).
Chi altro mai, se non Dio, ha creato questa vigna? È dunque Lui che
la diede in affitto e partì per andare lontano, non nel senso che il
Signore si sia trasferito da un luogo all’altro, dato che Egli è
sempre dappertutto, ma perché è più vicino a chi lo ama, ma sta
lontano da chi lo trascura. Egli fu assente per lunghe stagioni, per
evitare che la riscossione sembrasse prematura. Quanto più longanime
la benevolenza, tanto più inescusabile la ostinatezza.
Per cui, secondo
Matteo, giustamente trovi che "la
circondò anche di una siepe"
(Mt
21,33
Is
5,2),
cioè la recinse munendola della protezione divina, affinché non
fosse facilmente esposta agli assalti delle belve spirituali.
E al tempo dei frutti
mandò i suoi poveri servi. È giusto che abbia indicato il tempo dei
frutti, non il raccolto, infatti dai Giudei non si ebbe alcun frutto,
questa vigna non ha dato alcun raccolto, poiché di essa il Signore
dice: "Attendevo
che producesse uve, ma essa diede spine"
(Is
5,2).
Perciò i torchi traboccarono non di vino che rallegra, non di mosto
spirituale, ma del sangue rosseggiante dei profeti. Del resto Geremia
fu gettato in una cisterna (Jr
38,6),
di questa specie erano ormai i torchi dei Giudei, pieni non di vino
ma di melma. E sebbene, come sembra, questa sia un’allusione
generale ai profeti, tuttavia il passo ci permette di pensare che si
tratti di quel ben noto Nabot (cf. 1R
21,1-14),
il quale fu lapidato: sebbene di lui non ci sia stata tramandata
nessuna parola profetica, ci è stata però tramandata la sua storia
profetica, poiché preannunziò col proprio sangue che molti
sarebbero stati i martiri a favore di questa vigna. E chi è colui
che viene colpito al capo? È certamente Isaia, a cui una sega poté
più facilmente tagliare in due le membra del corpo che non far
vacillare la fede, o sminuir la costanza, o troncare il vigore
dell’anima.
E ciò avvenne perché,
quando ormai aveva designato tanti altri estranei, che i Giudei
cacciarono senza onore e senza risultati, non essendo riusciti a
cavarne nulla, per ultimo mandò anche il Figlio unigenito, e quei
perfidi, mossi dalla bramosia di eliminarlo perché era l’erede,
l’uccisero (cf. Lc
20,13ss)
crocifiggendolo, lo respinsero rinnegandolo.
Quante cose, e quanto
importanti, in così brevi tratti! Anzitutto questo: che la bontà è
una dote di natura, e il più delle volte si fida di chi non lo
merita; inoltre, che Cristo è venuto come estremo rimedio delle
perversità; infine, che chi rinnega l’Erede, dispera del Creatore.
E Cristo (He
1,2)
è al tempo stesso erede e testatore; erede, perché sopravvive alla
propria morte e raccoglie nei progressi che facciamo direi come i
frutti ereditari dei testamenti, ch’Egli stesso ha stabilito.
È però opportuno che
faccia domande agli interlocutori, affinché emettano da sé stessi
la sentenza della propria condanna. E afferma che alla fine giungerà
il padrone della vigna (Lc
20,16),
perché nel Figlio è anche presente la maestà del Padre, o anche
perché negli ultimi tempi, più da vicino influirà dolcemente sugli
affetti umani. Quindi coloro pronunciano contro sé stessi la
sentenza, affermando che i cattivi devono andare in rovina e la vigna
passare ad altri coloni ("ibid.").
Consideriamo allora chi siano i coloni, e che cosa sia la vigna.
La vigna prefigura noi:
il popolo di Dio, stabilito sulla radice della vite eterna (Jn
15,1-6),
sovrasta la terra e formando l’ornamento del suolo meschino, ora
comincia a far sbocciare fiori splendenti come gemme, ora si riveste
dei verdi germogli che l’avvolgono, ora accoglie su di sé un mite
giogo (Mt
11,29),
quando è ormai cresciuto estendendo i suoi bracci ben cresciuti come
tralci di una vite feconda. Il vignaiolo è senza alcun dubbio il
Padre (Jn
15,1)
onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci (Jn
15,5):
ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi (Jn
15,2)
dalla falce del coltivatore eterno. Perciò è esatto che il popolo
sia chiamato la vigna di Cristo, sia perché sulla sua fronte vien
posto come ornamento il segno della croce, sia perché si raccoglie
il suo frutto durante l’ultima stagione dell’anno, sia perché
allo stesso modo che avviene per tutti i filari della vigna, così
nella Chiesa di Dio uguale è la misura, e non vi è alcuna
differenza tra poveri e ricchi, tra umili e potenti, tra schiavi e
padroni (Col
3,25
Ep
6,8).
Come la vite si sposa agli alberi, così il corpo si congiunge
all’anima, e anche l’anima al corpo. Come il vigneto sta ritto
quand’è legato insieme, e, se viene potato, non s’impoverisce ma
diventa più rigoglioso, così la santa plebe quand’è legata è
resa libera, quand’è umiliata si innalza, quand’è recisa riceve
la corona. E, persino, come il tenero virgulto staccato dall’antico
albero viene innestato nella fecondità di una nuova radice, così
questo popolo santo, quando ha rimarginato i tagli dell’antico
virgulto, si sviluppa perché è tenuto al sicuro dentro quel legno
della croce come nel grembo di una madre affettuosa; e lo Spirito
Santo, come se discendesse giù nelle buche profonde del terreno,
riversandosi nel carcere di questo corpo, lava via il fetidume con la
corrente dell’acqua che salva, e solleva le abitudini delle nostre
membra all’altezza della disciplina celeste.
Questa è la vigna che
il premuroso vignaiolo è solito zappare aggiogare insieme, potare;
egli, sgombrando i pesanti mucchi di terra, ora espone al sole
cocente, ora fa intridere alla pioggia le miserie nascoste del nostro
corpo, e suole sbarazzare dagli sterpi il terreno coltivabile per
evitare che le gemme siano guaste dai rovi, o l’ombra del fogliame
lussureggiante sia troppo densa o lo sfoggio infecondo delle parole,
aduggiando le virtù, impedisca che la caratteristica della sua
natura giunga a maturazione. Ma guardiamoci bene dal temere qualsiasi
danno a questa vigna, che il custode sempre desto del Salvatore ha
circondato col muro della vita eterna contro tutte le lusinghe della
malizia mondana.
Salve, vigna meritevole
di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo
Nabot (cf. 1R
21,13)
ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più
prezioso, versato dal Signore. È bensì vero che colui, senza farsi
atterrire dalle minacce di un re, non soffocò la costanza con la
paura né, allettato da ricchissime ricompense, barattò il suo
sentimento religioso ma, opponendosi al desiderio del tiranno, perché
l’erba della malva non si seminasse nei suoi orticelli al posto
delle viti recise, contenne col proprio sangue, non potendo fare
altro, le fiamme preparate per le proprie viti; ma egli difendeva pur
sempre una vigna (cf. 1R
21,2)
materiale; invece tu per noi sei stata piantata per l’eternità con
lo sterminio di tanti martiri, e la croce degli apostoli, emulando la
passione del Signore, ti ha diffusa fino ai confini del mondo.
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