venerdì 10 ottobre 2014

L’invito alle nozze è un invito a vivere non solo a mangiare.

Rito Romano – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 12 ottobre 2014
Is 25,6-10; Sal 22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

Rito Ambrosiano – VII Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 65,8-12; Sal 80; 1Cor 9,7-12; Mt 13,3b-23

1) Invito costante a fare festa, cioè a vivere la vita come celebrazione di gioia.
Fra le parabole narrate da Gesù c'è quella che parla di un re che offre un pranzo di nozze al quale gli invitati aventi diritto non vogliono partecipare. Questo rifiuto spinge il re ad ampliare l’invito a tutti. Gesù ci presenta il Padre come colui che “invita il mondo intero alle nozze di suo Figlio”.
Credo sia corretto affermare che l’occupazione principale di questo Re è quella di condividere la gioia per le nozze di suo Figlio con quanti sono chiamati, cioè tutti. Infatti se leggiamo la parabola accanto al passo di Isaia (25, 6-10 – Prima lettura) lo spunto da sottolineare è l’invito universale alla familiarità gioiosa con Dio. Questo grande profeta parla di un grande raduno di tutti i popoli. Se l’immagine è quella del banchetto: “Un convito di carni grasse e di vini pregiati”, la nota più sottolineata è l’universalità: “per tutti i popoli”. Si tratta di un convito di pace e libertà, in cui “il canto dei tiranni si affievolisce” e si celebra la vittoria dell’Amore. Questa grandiosa speranza di Isaia non poggia sull’uomo, ma unicamente su Dio. È la solidità della sua Parola (“una roccia perpetua”: 26,4), che autorizza a sperare anche in tempi di disperazione. E queste pagine di Isaia furono infatti scritte in tempo di disperazione.
La Parola fatta carne, nel vangelo di oggi, mostra che la salvezza viene dall’accoglimento dell’invito a partecipare alla festa dell’Amore nuziale, ad accogliere la verità della vita. Cristo attira l’attenzione che su quello che è un paradosso: il popolo di Dio rifiuta il Messia e il Suo Vangelo, mentre gli altri, i lontani, lo cercano e lo accolgono. Questo paradosso racchiude (ed è così che noi oggi lo dobbiamo leggere) un severo e pressante avvertimento per noi cristiani: l’appartenenza alla Chiesa non ci pone al sicuro. Può accadere anche oggi che i vicini rifiutino Cristo, mentre i lontani lo cerchino. Può succedere anche oggi che quelli che sono stati chiamati per primi, con il loro rifiuto, non vogliono assurdamente partecipare alla gioia. Allora Lui offre il posto a tutti gli altri.
Oggi, dunque, il messaggio principale è che il Dio della gioia si qualifica per il suo continuo “chiamare”: Dio è Colui che ama e chiama. L'uso ripetuto del verbo non lascia spazio a dubbi: Dio “chiama” continuamente alla sua festa. Il bello è che non si arrende quando i “chiamati” declinano il suo invito. Dio riparte alla carica e “chiama” altri, cattivi e buoni, pur di raggiungere l’obiettivo di avere invitati alla festa.
Il Re dei re non cede, non desiste: continua ad invitare, a mandare messaggeri ai crocicchi delle strade. Stupenda questa espressione: siamo mandati, noi credenti in Cristo, agli incroci delle strade. Là dove si incontrano i punti cardinali, là dove s’intersecano le culture e i popoli sconfinano: l’invito a nozze è per tutti, in ogni crocevia del tempo e dello spazio, in ogni periferia geografica ed esistenziale. Usciamo dalle nostre chiese con il desiderio di abitare i crocicchi delle strade, di intersecarci con le questioni di questo mondo, di lottare perché ai crocevia della vita nessuno si perda.
2) Due domande con una sola risposta.
Alla luce di quanto stiamo meditando nascono due domande.
La prima: perché rifiutare l’invito a partecipare alla festa che celebra l’Amore come, purtroppo, hanno fatto i primi invitati?
La seconda: perché partecipare alla festa, senza condividere pienamente la gioia del re, cioè senza indossare l’abito nuziale, il vestito della festa?
La risposta a tutte e due le domande è una sola: perché il cuore nostro è duro e fa resistenza alla conversione. In effetti, il Re di questa parabola se la prende con chi, anche se ha risposto positivamente al suo invito, ma non ha messo l’abito nuziale, perché non è cambiato. Non si è vestito con “la veste di lino che sono le opere giuste dei santi” (Ap 5,7), vale a dire non ha cambiato il cuore con l’impegno concreto per una vita fraterna, per sentieri di giustizia e di pace. Cambiarsi d’abito, mettere l'abito nuziale, significa cambiare vita, rivoltare i propri stili di vivere ed indossare il nostro abito, Cristo stesso.
La parte della parabola che parla dell’"abito nuziale” è un avvertimento per i cristiani che possono anche loro essere puniti per indegno comportamento (mancano dell'abito nuziale), come i primi che hanno rifiutato l’invito alla gioia. La vocazione cristiana non comporta automaticamente, per se stessa la salvezza finale e non è per i credenti una garanzia magica di partecipazione al Regno.
Non possiamo vivere il nostro banchetto nuziale senza un riscontro nel nostro modo di essere, nel nostro vivere virtuoso. Come nel giorno del nostro battesimo abbiamo ricevuto una veste bianca, così ogni giorno dobbiamo rivestirci di Cristo, accogliendo l’invito dell’Apostolo Paolo: “Spogliatevi dell'uomo vecchio e rivestitevi dell’uomo nuovo”, cioè di Cristo. Se ci rivestiamo di Lui, impariamo ad amare come Lui, a guardare come lui.
Il giorno del nostro battesimo fu messa su ciascuno di noi una piccola veste bianca. Questo gesto era (ed è ancor oggi) accompagnato con le parole:“Ora sei rivestito di Cristo, questa veste bianca sia segno della tua nuova dignità”. Da allora il nostro abito della festa che non finisce mai è Cristo. Dunque dobbiamo passare la vita a rivestirci di Lui, a fare nostri i Suoi gesti, le Sue parole, il Suo sguardo, le Sue mani, i Suoi sentimenti; a preferire coloro che egli preferiva.
L'abito nuziale è come quello indossato dalla Donna dell'Apocalisse: vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di stelle, che indossa l’abito dato da Dio, l’abito da festa del creato, che è la luce, il primo di tutti i simboli di Dio. Sotto il manto della Madonna c’è posto per ciascuno di noi, cercatore di quella luce che vince le paure e le ombre che invecchiano il cuore.
La parabola ci invita a convertirci a Lui, che amandoci ci chiama. Noi lo pensiamo come un Re che ci chiama a servirlo e invece è Lui che ci serve e mette a disposizione la Sua casa per la festa. Noi Lo temiamo come il Dio dei sacrifici e Lui è il Dio cui sta a cuore la nostra gioia. Lui ci offre il pane di vita e il calice della carità, noi accostiamoci alla sua mensa con umiltà, purezza e semplicità.
Noi Lo pensiamo come un Dio lontano, separato, invece Lui è dentro la sala della vita, la sala del mondo vero, come una promessa di felicità, una scala di luce posata sul cuore e che sale verso il cielo.
Accettando l’invito di Dio, il regalo della sua gioia, evitiamo di cadere nell’errore di quelli che non hanno risposto alla Sua chiamata, perché oltre ad aver perso la gioia del cuore, la cercano dietro le cose da possedere e gli affari da fare. Convertiamoci a questo Dio che, quando è rifiutato, invece di abbassare le attese le alza: “Chiamate tutti”; e dai molti invitati passa a tutti invitati: tutti quelli che troverete, cattivi o buoni, fateli entrare. Notate: prima i cattivi e poi i buoni... Noi non siamo chiamati perché siamo buoni e ce lo meritiamo, ma perché diventiamo buoni, lasciandoci incontrare e incantare da una proposta di vita bella, buona e felice da parte di Dio.
In ciò guardiamo l’esempio delle Vergini consacrate. Le persone consacrate nel mondo si sforzano ci “conciliare armoniosamente la vita interiore e il lavoro nell’impegno evangelico della conversione morale e nella pratica assidua della meditazione della Parola, della vita liturgia e della preghiera” (cfr Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Post-sinodale, Vita consecrata, 25 marzo 1996, n.6).
La loro consacrazione è una forma stabile di conversione verso il Padre, con il desiderio di cercare filialmente la sua volontà in una conversione continua, dove l’obbedienza è la fonte della libertà, dove la castità esprime la tensione di un cuore che nessun amore finito può soddisfare, dove lo spirito di povertà nutre la fame e sete di giustizia che Dio ha promesso di colmare (cf. Mt 5, 6).
La loro consacrazione è pure volgersi stabilmente verso il Figlio, con il quale tendono a vivere una comunione di vita intima, profonda e gioiosa. Infine è un volgersi verso lo Spirito Santo, che “consacra il loro cuore e le anima della sua forza per il servizio di Dio e della Chiesa” (Rituale di consacrazione delle Vergini, n. 37).
Lettura Patristica
Sant’Agostino (+ 430)

DISCORSO 90, 1 5-6, PL 38, 559 561-562.

SULLE NOZZE DEL FIGLIO DEL RE (Mt 22, 1-14)

Il banchetto del Signore sulla terra e in cielo.
Tutti i fedeli conoscono le nozze del figlio del re e il banchetto apprestato da lui; la tavola del Signore è preparata per tutti coloro che vogliano prendervi parte. È però importante sapere chi vi si accosta, dato che non gli viene proibito d'accostarvisi. Le Sacre Scritture infatti c'insegnano ch'esistono due banchetti del Signore: l'uno è quello al quale partecipano i buoni e i cattivi, l'altro è quello dal quale sono esclusi i cattivi. Ecco perché il banchetto del Signore, di cui abbiamo sentito parlare durante la lettura del Vangelo, comprende precisamente buoni e cattivi. Tutti coloro che si scusarono dal partecipare a quel banchetto sono i cattivi; ma non tutti quelli che vi presero parte sono i buoni. Mi rivolgo dunque a voi che siete buoni e state a tavola in questo banchetto, a tutti voi che riflettete a ciò ch'è detto: Chi mangia il corpo del Signore e beve il suo sangue in modo indegno, mangia e beve la propria condanna 1. Ammonisco tutti voi che siete buoni a non cercare i buoni fuori di questo banchetto e a tollerare i cattivi che sono dentro.
Qual è l'abito di nozze.
Di che si tratta dunque? Desidero che voi tutti i quali vi accostate alla mensa del Signore, che si trova qui, non siate con quelli che saranno cacciati fuori, ma con i pochi che saranno salvati. Come potrete ottenere ciò? Prendete l' abito di nozze. "Spiegaci - mi si dirà - che cos'è l'abito di nozze". Esso è senza dubbio l'abito che hanno solo i buoni, che saranno lasciati nel banchetto e saranno riservati per il banchetto, al quale non accederà nessun cattivo, e vi saranno condotti per grazia di Dio; sono essi che hanno l'abito di nozze. Esaminiamo dunque, fratelli miei, tra i fedeli quelli che hanno qualche virtù propria di cui sono privi i cattivi, e quella sarà l'abito di nozze. Se parliamo di sacramenti, voi vedete come sono comuni ai cattivi e ai buoni. È forse il battesimo? Senza il battesimo nessuno per verità arriva a Dio; ma non tutti quelli che hanno il battesimo arrivano a Dio. Non posso quindi prendere il battesimo come l'abito di nozze, cioè il sacramento da solo, poiché tale abito lo vedo nei buoni ma anche nei cattivi. Forse è l'altare o ciò che si riceve dall'altare. Noi vediamo che molti mangiano, ma essi mangiano e bevono la propria condanna. Che cos'è dunque? È forse far digiuno? Fanno digiuno anche i cattivi. È forse frequentare la chiesa? Ma la frequentano anche i cattivi. Infine è forse fare miracoli? Ma questi li fanno non solo i buoni e i cattivi, ma talora i buoni non li fanno. Ecco, a proposito dell'antico popolo israelitico facevano miracoli i maghi del faraone e non li facevano gl'israeliti; tra gl'israeliti li facevano solo Mosè e Aronne, mentre tutti gli altri non li facevano, ma li vedevano, temevano e credevano. Erano forse migliori i maghi del faraone i quali facevano miracoli che il popolo d'Israele non era capace di fare, e tuttavia era il popolo che apparteneva a Dio? A proposito della stessa Chiesa, ascolta l'Apostolo che dice: Sono forse tutti profeti? Hanno forse tutti il dono di compiere guarigioni? Sanno forse parlare in tutte le lingue conosciute?
L'abito di nozze è la carità.
Qual è dunque l'abito di nozze? Il fine del precetto - dice l'Apostolo - è la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Questo è l'abito di nozze. Non si tratta però d'una carità qualsiasi, poiché spesso sembra che si amino tra loro anche individui che hanno in comune una cattiva coscienza. Coloro che compiono insieme rapine e delitti, che sono tifosi degl'istrioni, che insieme incitano con urla i guidatori dei cocchi in lizza e i cacciatori del circo, per lo più si amano tra loro, ma non hanno la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. È siffatta carità l'abito di nozze. Se io sapessi parlare le lingue degli uomini e degli angeli, ma non possedessi la carità, sarei - dice l'Apostolo - come una campana che suona o un tamburo che rimbomba. Sono arrivati al banchetto individui parlanti solo le lingue ma loro vien detto: "Perché siete entrati senza aver l'abito di nozze?". Se avessi - dice ancora - il dono della profezia e quello di svelare tutti i segreti, se avessi il dono di tutta la scienza, e avessi tanta fede da smuovere i monti, ma non avessi la carità, non varrei nulla. Ecco qui i miracoli delle persone che per lo più non hanno l'abito di nozze. "Se avessi tutti questi doni - dice l'Apostolo - e non avessi Cristo, non varrei nulla". Non varrei nulla, dice. La profezia, dunque, non vale nulla? La conoscenza dei segreti dunque non vale nulla? "No, non sono questi doni che non valgono nulla, ma sono io che non varrei nulla, se li possedessi ma non avessi la carità". Quanti beni non giovano a nulla se ne manca uno solo! "Se non avrò la carità, anche se distribuirò elemosine ai poveri e se, per rendere testimonianza al nome di Cristo, arriverò fino al sangue, arriverò fino a farmi bruciare, queste azioni possono farsi anche per amore della gloria e allora sono inutili". Poiché dunque queste azioni possono diventare anche inutili, se fatte per amore della gloria, e non in virtù della carità fecondissima d'amore verso Dio, l'Apostolo ricorda anche queste stesse azioni; ascoltale: Se distribuirò tutti i miei beni ai poveri e lascerò bruciare il mio corpo, ma non avrò la carità, non mi gioverà a nulla. Ecco l'abito delle nozze! Esaminate voi stessi: se lo avete, voi starete sicuri al banchetto del Signore. In un unico individuo esistono due impulsi dell'anima: la carità e la cupidigia. Nasca in te la carità, se non è ancora nata, e se già è nata, venga allevata, venga nutrita e cresca. Per quanto riguarda la cupidigia, al contrario, in questa vita non può essere eliminata del tutto - poiché se diremo di non avere peccati, inganniamo noi stessi e in noi non c'è la verità-; ma noi commettiamo dei peccati nella misura in cui abbiamo la cupidigia; facciamo sì che cresca la carità e diminuisca la cupidigia affinché quella, cioè la carità, venga portata un giorno alla perfezione, e la cupidigia venga ridotta all'estinzione. Indossate l'abito delle nozze; rivolgo quest'esortazione a voi che non l'avete ancora. Voi siete già dentro la Chiesa, vi siete già accostati al convito, ma non avete ancora l'abito da indossare in onore dello sposo, poiché andate ancora in cerca dei vostri interessi, non di quelli di Cristo. L'abito di nozze infatti s'indossa in onore dei coniugi, cioè dello sposo e della sposa. Voi conoscete lo sposo: è Cristo; conoscete la sposa: è la Chiesa. Recate onore allo sposo e alla sposa. Se onorerete come si deve gli sposi, voi ne sarete figli. Fate quindi progressi a questo riguardo. Amate il Signore e con questo sentimento imparate ad amarvi tra voi; in tal modo quando vi amerete tra voi amando il Signore, amerete sicuramente il prossimo come voi stessi. Quando infatti non trovo uno che ami se stesso, in qual modo gli potrò affidare il prossimo perché lo ami come se stesso? "E chi è - domanderà qualcuno - che non ami se stesso?". Ecco chi è: Chi ama l'iniquità, odia l'anima propria. Ama forse se stesso chi ama la propria carne e odia la propria anima con suo danno e con danno della propria anima e della propria carne? Chi è colui che ama la propria anima? Colui che ama Dio con tutto il cuore e con tutta la sua anima. A una persona di tal genere posso dunque affidare il prossimo. Amate il prossimo come voi stessi.

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