Rito
Romano e Rito Ambrosiano – Commemorazione dei Defunti - Anno A
– 2 novembre 2014
1)Affidati
all’Amore.
Oggi
la Liturgia della Chiesa ci fa ricordare tutti i fedeli defunti in
una grande preghiera che li racchiude tutti nei nostri pensieri e nei
nostri ricordi. Oggi la nostra preghiera deve rivolgersi al Signore
perché accolga nel suo Regno di eterna gioia e pace quelli che hanno
lasciato questo mondo e sono passati all'eternità. I nostri morti:
parenti, amici, conoscenti, e i defunti di tutti i tempi che per noi
non hanno nome ma che Dio conosce bene.
La
preghiera per le anime sante del purgatorio, specialmente quelle più
abbandonate e di cui non sappiamo neppure il nome e l'esistenza. I
morti di tutte le guerre e di tutte le violenze, i morti del passato,
come dell’oggi: i morti sulle strade, in mare, negli ospedali,
nelle case, nelle piccole e grandi città, i morti naufraghi e a
cause di epidemie, e, naturalmente quelli che negli ultimi giorni
hanno lasciato profondamente addolorato il nostro cuore. Commemoriamo
tutti i morti, senza esclusione di nessuno ed eleviamo per tutti loro
la preghiera, perché il Signore doni loro il riposo eterno, la pace
perfetta.
E
se è naturale che il nostro ricordo vada oggi in particolare ai
nostri cari defunti, che nel momento del distacco, noi abbiamo
affidato all’amore e all'eternità del Signore, è pure “naturale”
che riceviamo da loro l’insegnamento, che l’amore eterno di Dio
conserva nel suo cuore chi ama, dopo averli accolti con il suo
perdono. I nostri cari defunti ci ricordano che non è proprio il
caso di sprecare tempo e fatica per ambizioni e cose effimere, perché
tutto passa e solamente l’amore rimane.
Non
dobbiamo dimenticare che il 2 novembre non è solo un giorno, in cui
si impone alla nostra attenzione il carattere di fugacità e di
brevità della vita che segna in maniera dolorosa la nostra vicenda
umana. Si tratta di un giorno destinato alla celebrazione della
nostra più grande speranza se davvero crediamo nella fede pasquale
del Risorto. La giornata dedicata a tutti i defunti dunque non è una
celebrazione luttuosa. Consideriamo l'onnipotenza del Dio Amore, che
non lascia nelle tombe i morti, perché Lui stesso ha fatto morire la
morte uscendo risorto e glorioso dal suo sepolcro. Il morire
cristiano non è un semplice trapassare dell'anima da uno stato
all'altro, ma realizza un incontro individuale con Dio amore che
salva, apportando la fiducia e la speranza nella vita senza fine.
Come dice il prefazio I della Messa dei Defunti: “La vita non ci è
tolta, ma trasformata”, dal perdono, come è accaduto a Marmeladov,
ubriacone descritto da Dostoevskij in “Delitto e Castigo”.
Marmeladov è un poco di buono, un ubriacone che non ama lavorare. Il
suo comportamento ha rovinato la sua famiglia e sua figlia, Sonia, è
stata obbligata a prostituirsi. Quest’uomo vive dentro di sé un
senso acuto di sconfitta e di colpa. E’ un perdente. Un giorno,
nell’osteria, ubriaco fradicio, azzarda discorsi sconnessi e in una
sorta di visione parla del Giudizio finale che sintetizzo così: “Dio
chiama per primi, accanto a sé, coloro che hanno avuto vite
irreprensibili, sante. Sono persone che meritano, almeno secondo un
criterio umano, di vivere accanto a Dio. Poi convoca coloro che di
bene ne hanno fatto poco, gli ubriaconi come lui e i drogati, coloro
che noi, i benpensanti, osiamo definire “i cattivi”. “Allora
convocherà noi. ‘Pure voi, fatevi avanti’, dirà, ‘fatevi
avanti, ubriaconi, fatevi avanti voi deboli, fatevi avanti figli
della vergogna!’. E noi tutti ci faremo avanti vergognosamente e ci
terremo in piedi davanti a Lui. Ed Egli ci dirà: ‘Siete dei porci,
fatti a immagine della Bestia e con il suo marchio; ma venite voi
pure!’ E i saggi e le persone di buon senso diranno: ‘Signore,
perché Tu accogli questi uomini?’ E Lui dirà: ‘ La ragione per
la quale li accolgo, uomini benpensanti, è che nessuno di loro ha
creduto di essere degno di questo’.”
È
possibile tutto ciò, oppure è soltanto un parlare a vanvera tipico
degli ubriachi? Non solo è possibile, e accade veramente come è
accaduto all’adultera e alla Maddalena, a Zaccheo come a Pietro:
tutti hanno consegnato a Cristo il loro dolore, ritenendosi indegni,
e tutti sono stati perdonati. Come recita il salmo 36, il Signore “è
la mia luce e la mia salvezza... è difesa della mia vita... A lui
grido: abbi pietà di me. Il tuo volto, Signore io cerco.... Sono
certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.
Perché Gesù ha vissuto un’agonia estrema, come molti malati che
abbiamo visto, apparentemente senza alcuna speranza, sul letto di
morte. Perché Egli è morto come l’uomo, a causa dell’uomo, per
l’uomo, con l’uomo e davanti all’uomo. Questa fede si unisce
alla speranza, che -come scrive Paolo ai cristiani di Roma - “non
delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm
5,5).
2)
I Defunti e i Santi, persone che vivono nella verità dell’Amore.
La
vicinanza di date fra la festa dei Santi (1° novembre) e la
Commemorazione dei defunti (2 novembre) ci ricorda la verità
misteriosa della vita eterna e il legame di fraternità tra noi e con
i nostri cari, che sono passati all’altra riva.
Non
è per nostalgia verso il passato che ci si reca al cimitero, ma
perché speriamo in un futuro di gloria e di gioia. Quindi, mentre
preghiamo in suffragio dei nostri defunti, loro ci tendono dal cielo
le loro mani e ci assicurano una vicinanza intensa e quotidiana,
perché anche noi camminiamo con costanza verso la vita che non ha
fine.
E’ con speranza che
il cristiano percepisce e accoglie la fine terrena, la morte. La sua
fede in Gesù risorto gli dà la sicurezza che morire non è una
sconfitta irreparabile, ma il drammatico passaggio alla condizione
gloriosa con il suo Signore. “Chi viene a me, non lo respingerò”.
Non siamo degli estranei per Dio, ma figli, eredi, destinati a
condividere la risurrezione di Gesù.
Un
inno delle Lodi fa cantare: “E noi che di notte vegliammo, attenti
alla fede del mondo, protesi al ritorno di Cristo or verso la luce
guardiamo”. Nella notte della morte in cui tutti affondano, ci è
data una luce che illumina l’intangibile profondità del nostro
cuore e nella fede possiamo fare un’esperienza religiosa nella
quale si riverberi la risurrezione finale. Cristo abbraccia ogni
istante della nostra vita e ci fa capire e vivere che in ogni momento
c’è una ridondanza di eternità, ogni istante legato a Lui implica
l’eterno.
A
questo abbraccio si consegnano le Vergine consacrate nel mondo, a cui
“è affidato il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo
come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore
di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita
bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo”
(S. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Post sinodale Vita
Consecrata, n. 16).
La
scelta della vita verginale è un richiamo alla transitorietà delle
realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri. Essa ricorda a
tutti i fedeli l’esigenza di camminare tra le vicende del mondo
sempre orientati verso la città futura e contribuisce in modo
esemplare a mettere in luce la genuina natura della vera Chiesa, che
ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina,
visibile ma dotata di realtà invisibili, ardente nell'azione e
dedita nella contemplazione, presente nel mondo e tuttavia
pellegrina.
Al
significato spirituale ed escatologico della condizione verginale si
riferisce in maniera suggestiva e profonda l’antichissima preghiera
romana di consacrazione del Pontificale Romano attribuita a san Leone
Magno: “Tu…hai riservato ad alcune tue fedeli un dono
particolare scaturito dalla fonte della tua misericordia.
Alla luce dell’eterna sapienza hai fatto loro comprendere, che
mentre rimaneva intatto il valore e l’onore delle nozze,
santificate all’inizio dalla tua benedizione, secondo il tuo
provvidenziale disegno, devono sorgere donne vergini che, pur
rinunziando al matrimonio, aspirassero a possederne nell’intimo
la realtà del mistero. Così le chiami a realizzare, al di là
dell’unione coniugale, il vincolo sponsale con Cristo di cui
le nozze sono immagine e segno. (n.38).
Dalla
consacrazione verginale scaturisce la grazia ecclesiale specifica che
rende operante il simbolismo originario di questo rito. Così il dono
della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un
ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone
consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo (Conc. Vat. II, Cost.
dogm. sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 42) Questo atto pubblico
e riconosciuto dell'alleanza fra il Cristo e la vergine consacrata,
proclama di fronte al mondo il primato e la fecondità della totale e
perpetua donazione di sé con la piena disponibilità alle esigenze
della carità verso Dio e verso il prossimo.
Sull’esempio
e sulla testimonianza di queste Vergini Consacrate, che vivono la
loro fede con gioia e fatica, che ogni giorno vivono nell’amore,
per amore, per amare, perseveriamo nel cammino di santità a cui
tutti siamo chiamati. In ciò ci siano di intercessione e di
aiuto tutti i santi, che sono coloro che sono così affascinati dalla
bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da lasciarsene
trasformare. Per questa bellezza e verità e amore loro furono
disposti a rinunciare a tutto, anche a se stessi, e vissero nella
lode a Dio e nel servizio umile e disinteressato del prossimo.
Lettura
Patristica
Sant’Ambrogio
di Milano
La
fede nella Risurrezione dei morti
Dal
libro «Sulla morte del fratello Satiro»
(Lib.
2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)
Moriamo
insieme a Cristo, per vivere con lui
Dobbiamo
riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un
castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e
il morire un guadagno» (Fil 1,21). E come ci si può trasformare
completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la
morte corporale?
Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e
alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per
l'anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie
sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse
voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito.
Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo
della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la
legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna
l'anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo
domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi
libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,24). La grazia
di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7,25
ss.).
Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina
è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque
andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se
siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
Non
dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma
dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
Il
mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse
voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire
la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che
con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo
il sigillo della sua morte, quando preghiamo la annunziamo; offrendo
il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte
è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
E
che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con
l'esempio divino che la morte sola ha conseguito l'immortalità e che
la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di
salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di
Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
A dire il vero,
la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo
dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede
come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la
condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra
dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la
morte restituisse quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza
la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di
vantaggio.
L'anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa
vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le
assemblee eterne.
Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a
Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i
celesti sonatori d'arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o
Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle
genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome?
Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno
dinanzi a te» (Ap 15,3-4).
L'anima dovrà uscire anche per
contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di
tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più
soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale»
(Sal 64,3).
Davide santo sospirò, più di ogni altro, di
contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho
chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del
Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del
Signore» (Sal 26,4).
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