sabato 23 aprile 2022

Inviati a condividere la misericordia.

Rito Romano

II Domenica di Pasqua o della divina Misericordia – Anno C - 24 aprile 2022

At 5,12-16; Sal 117; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31

 


Rito Ambrosiano

At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31


1) Il perché del dubbio degli Apostoli.

Contemplando il mistero della Risurrezione di Cristo, Sant’Agostino scrisse: “Noi non avevamo nulla di nostro da cui ricevere la vita. Come Lui non aveva nulla da cui ricevere la morte. Donde lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita”. La Liturgia di questa II Domenica di Pasqua trasforma in preghiera l’intuizione di questo Santo così: “Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza della festa pasquale infiammi la fede del popolo a te consacrato, aumenta in lui la grazia che gli hai donato, perché tutti, con un’intelligenza giusta, comprendano da quale Battesimo sono stati purificati, da quale Spirito sono stati rigenerati, da quale Sangue sono stati redenti” (Colletta della Messa).

Poi, la liturgia della Parola di questa Domenica ci propone il bel vangelo dell’apparizione di Cristo risorto agli Apostoli e poi anche a San Tommaso, l’incredulo. Se Dio ha permesso che questo Apostolo dubitasse ancora, è per confermare la nostra fede nel mistero fondamentale della Risurrezione di Cristo. A questo riguardo San Leone Magno affermò: “Lo Spirito di verità non avrebbe permesso queste esitazioni nei cuori dei suoi predicatori se questa diffidenza, questi tentennamenti pieni di curiosità non avesse affermato i fondamenti della nostra fede, se questi “disturbi” non fossero stati guariti nella persona degli apostoli. In loro siamo stati premuniti contro le calunnie degli empi e contro gli argomenti della sapienza terrena. Ciò che loro hanno visto ci illumina, ciò che hanno ascoltato ci ha dà indicazioni, ciò che hanno toccato ci rende più fermi, più saldi. Loro hanno dubitato perché il nostro dubbio non fosse più possibile”.

La fragile, debole fede di San Tommaso fu rafforzata dalla misericordia di Cristo risorto che apparve una seconda volta nel Cenacolo principalmente per lui, non solo mostrando le sue piaghe “gloriose” ma chiedendo a questo apostolo di metterci il dito dentro. Ciò implicò un atto di fede immediato: “Signore mio e Dio mio”. Nell’oscurità e nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli, anche ciascuno di noi è chiamato a toccare con il dito della fede le sante stigmate di Cristo e a proclamare la sua risurrezione e la sua divinità. E questo può essere fatto in modo tutto particolare ricevendo la comunione eucaristica grazie alla quale, sotto il velo del sacramento, possiamo –per così dire- toccare la sostanza del Risorto.

Nella prima apparizione agli Apostoli Gesù mostrò le mani trafitte dai chiodi e il fianco trapassato dalla lancia, per “di-mostrare” che Lui è davvero il Crocifisso morto e risorto. Praticamente, in questo mostrare le mani e il fianco, Lui presenta la sua carta d’identità, la quale certifica che il Risorto che sta in mezzo a loro è quell’uomo che hanno visto morire in croce. Mostrando questo documento di identità, Gesù ci insegna anche che le sue mani che hanno lavato i piedi, sono le mani che sono state inchiodate in Croce, perché Lui sempre è a servizio dell’uomo. Il “potere” delle mani di Cristo Signore è di lavare i piedi e di lasciarsele inchiodare perché la nostra angoscia trovi rifugio in quelle mani “bucate” dall’amore: in croce Cristo si lascia inchiodare per servire e salvare l’uomo con il suo amore. “Le mani trafitte sono necessarie per sciogliere le mani misericordiose del Padre” (Jacques Maritain). Ed è lì che conosciamo il Signore e vediamo la sua misericordia in azione. E’ in queste mani che vediamo tutta la vita di Gesù, tutto ciò che Lui ha fatto. Contempliamo il segno del suo amore estremo in quelle mani inchiodate al servizio d’amore. Esse ci accolgono ogni volta che l’abisso del peccato ci minaccia: sono un’altissima manifestazione della misericordia di Dio. In queste ferite gloriose aperte anche in Paradiso c’è un mistero profondo: sono sempre aperte! “Perché da lì (da quelle piaghe) esce Dio verso l’uomo e da lì l’uomo entra in Dio. Sono il luogo di comunione tra l’uomo e Dio. Lì noi scrutiamo il mistero di Dio e da lì il mistero di Dio, nel suo amore, esce verso di noi” (P. Silvano Fausti, SI).

Sarà la contemplazione di queste mani che ci farà capire - sempre di più e sempre meglio - chi è il Signore per noi: il vero Dio e il Vero uomo che si è lasciato trafiggere a morte per amore nostro. Contempliamo stupiti le ferite d’amore di Dio che ci crea e ricrea e da cui fluiscono la pace e la gioia.

La gioia è il segno della presenza di Dio, che condivide con noi la sua pace. La gioia e la pace non solo sono il segno della presenza del Risorto, ma sono il segno che ciascuno di noi è partecipe già da ora della Risurrezione di Cristo.

La gioia di essere amati e perdonati diventa missione in obbedienza amorosa alla Parola di Gesù che dice: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Andate nel mondo e portate a tutti il perdono di Dio” (cfr Gv 20, 21-23). Oggi, Gesù il risorto, l’inviato dal Padre a rivelare il suo amore verso gli uomini, manda noi, figli nel Figlio, a portare l’annuncio dell’amore del Padre ai fratelli. La nostra missione è la stessa di Gesù. L’amore è sempre missione e ci manda verso il prossimo. In questo esodo pasquale siamo mandati verso l’altro per portargli con la misericordia l’amore di cui ha bisogno per ricominciare ad amare. A questo riguardo Papa Francesco insegna: “Bisogna uscire da noi stessi e andare sulle strade dell’uomo per scoprire che le piaghe di Gesù sono visibili ancora oggi sul corpo di tutti quei fratelli che hanno fame, sete, che sono nudi, umiliati, schiavi, che si trovano in carcere e in ospedale. E proprio toccando queste piaghe, accarezzandole, è possibile adorare il Dio vivo in mezzo a noi” (3 luglio 2013).


2) Il dubbio di San Tommaso.

L’informazione dell’assenza di San Tommaso alla prima apparizione di Gesù agli Apostoli, introduce la seconda parte del brano del vangelo di oggi, la quale porta a termine il cammino di fede richiesto a noi che leggiamo il racconto fatto da San Giovanni. Ognuno di noi è invitato a mettersi nei panni di Tommaso, anche noi non c’eravamo quando Gesù è apparso ai discepoli, anche noi dobbiamo fondare la nostra fede sulla testimonianza degli apostoli. E’ questo il senso della frase finale: “Tu (Tommaso) hai creduto perché hai visto. Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29).

A questo punto, penso sia importante proporre un’interpretazione circa San Tommaso, che ha lottato con il dubbio. Prima di tutto è da tenere presente che c’è dubbio e dubbio. C’è il dubbio di chi si allontana dalla verità, di chi cerca il pretesto o il diversivo per non credere, per lasciar l’interrogativo della mente e del cuore in sospeso, una domanda a cui non si vuole dare risposta per non cambiare vita. E’ il dubbio scettico, relativistico che dilaga in modo particolare oggi e che è caratteristico dei periodi di decadenza. E’ il frutto della sazietà materiale e della debolezza spirituale e morale, che mal sopporta o non sopporta più del tutto la tensione all’assoluto e la spinta dell’amore incondizionato di Dio.

Non fu questo il dubbio di San Tommaso. Lui aveva sofferto come gli altri Apostoli per la perdita del Maestro. Cercava sinceramente la verità, ma la voleva definitiva e di uno spessore che resistesse all’attacco di qualsiasi dubbio. In un certo senso, Tommaso voleva “verificare” la sua fede, rendendola salda. Per questo voleva vedere e toccare il suo Gesù nel “segno” dei buchi lasciati dai chiodi e mettere la mano nel costato aperto dalla lancia. Fu l’amore esasperato dal dolore, e non lo scetticismo che gli fece dire degli “spropositi”. Se Gesù era risorto scoperchiando il masso del sepolcro, se era entrato a porte chiuse superando la barriera fisica delle porte chiuse, perché doveva avere ancora le mani e i piedi e il costato piagati? E’ tipico dell’amore sragionare, e sono gli “spropositi” dell’amore che tengono in piedi questo mondo malato, consunto dai dubbi della ragione che vuol essere una misura e non una finestra aperta sulla realtà.

In fondo, San Tommaso aveva ragione. Di fronte all’amore spropositato di Cristo occorreva un’evidenza fisica, assoluta dell’identità tra il Cristo morto in Croce e il Risorto. Ci voleva una prova che attestasse ai sensi di San Tommaso l’effettiva continuità tra i buchi dei chiodi, la ferita del costato e le loro impronte gloriose. Queste sono le prove sensibili della morte: se Gesù era risorto, non gli facevano più male ma dovevano splendere nell’evidenza della nuova vita. Il Cristo esaudisce San Tommaso alla lettera e gli dice di toccare il Suo corpo, di contemplare le Sua ferite, segni di amore.

Ma cosa ha contemplato San Tommaso? Ha visto ciò che è contrario alla ragione: piaghe che non davano sangue ma luce e gioia, cioè un morto tornato alla vita con un corpo glorioso. In questo senso la cosa non avrebbe dovuto aiutarlo a credere: il che conferma che il dubbio di San Tommaso non era il frutto di scetticismo, ma dell’attesa accorata dell’amore tormentato. Il riconoscimento immediato di Cristo da parte di questo Apostolo mostra le fede di San Tommaso. La certezza dei sensi è un punto di partenza per affermare: “Signore mio e Dio mio”, per riconoscere la vera umanità di Cristo dicendo “Signore mio”, e aderendo alla divinità del Verbo incarnato, morto e risorto, affermando: “Dio mio”.

Chiediamo al Signore Gesù che confermi e accresca anche in noi una fede, che non abbia più bisogno di miracoli, una fede che viva dell’amore.

Un esempio contemporaneo di questa fede ci è testimoniata dalle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne dicono a Cristo: “Signore mio e Dio mio”, offrendosi completamente, anima e corpo a Lui. Queste vergini inoltre testimoniano a tutto il popolo di Dio che l’unione con il Cristo-sposo, implica una profonda felicità della vita. San Paolo accenna a questa felicità, quando dice che chi non è sposato si preoccupa in tutto delle cose del Signore e non si trova disunito tra il mondo e il Signore (cf. 1Cor 7,39-35). Ma si tratta di una felicità che non esclude e che non dispensa affatto dal sacrificio, poiché la castità consacrata comporta delle rinunce attraverso le quali chiama a conformarsi maggiormente a Cristo crocifisso. San Paolo ricorda espressamente che nel suo amore di sposo Gesù Cristo ha offerto il suo sacrificio per la santità della Chiesa (cfr. Ef 5,25). Alla luce della croce comprendiamo che ogni unione al Cristo-sposo è un impegno di amore al Crocifisso Risorto. In questo modo chi professa la castità consacrata testimonia che è possibile partecipare al sacrificio di Cristo per la redenzione del mondo. E ciò va fatto con il lieto e completo dono di se stessi. Questa offerta è resa permanente nella consacrazione, così che il “pane” della loro vita e il “vino” del loro amore unito alla carità di Cristo permette di vivere l’alleanza con Cristo come spirituale e vero matrimonio d’amore .



Lettura Patristica

Guerric d’Igny (ca 1070/1080 - 1157)

Sermo I, in Pascha, 4-5



Cristo e la vera risurrezione e la vita


       Come sapete, quando egli "venne" a loro "a porte chiuse e stette in mezzo a loro, essi, stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma (Jn 20,26 Lc 24,36-37); ma egli alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23). Poi, inviò loro dal cielo lo stesso Spirito, ma come nuovo dono. Questi doni furono per loro le testimonianze e gli argomenti di prova della risurrezione e della vita.


       È lo Spirito infatti che rende testimonianza, anzitutto nel cuore dei santi, poi per bocca loro, che "Cristo è la verità" (1Jn 5,6), la vera risurrezione e la vita. Ecco perché gli apostoli, che erano rimasti persino nel dubbio inizialmente, dopo aver visto il suo corpo redivivo, "resero testimonianza con grande forza della sua risurrezione" (Ac 4,33), quando ebbero gustato lo Spirito vivificatore. Quindi, più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che il vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa sui sensi dell’uomo interiore, di quanto non lo sia l’impressione degli oggetti corporei su quelli dell’uomo esteriore. Quale spazio, invero, resta per il dubbio allorché colui che dà testimonianza e colui che la riceve sono un medesimo ed unico spirito? (1Jn 5,6-10). Se non sono che un unico spirito, sono del pari un unico sentimento e un unico assenso...


       Ora perciò, fratelli miei, in che senso la gioia del vostro cuore è testimonianza del vostro amore di Cristo? Da parte mia, ecco quel che penso; a voi stabilire se ho ragione: Se mai avete amato Gesù, vivo, morto, poi reso alla vita, nel giorno in cui, nella Chiesa, i messaggeri della sua risurrezione ne danno l’annuncio e la proclamano di comune accordo e a tante riprese, il vostro cuore gioisce dentro di voi e dice: «Me ne è stato dato l’annuncio, Gesù, mio Dio, è in vita! Ecco che a questa notizia il mio spirito, già assopito di tristezza, languente di tiepidità, o pronto a soccombere allo scoraggiamento, si rianima». In effetti, il suono di questo beato annuncio arriva persino a strappare dalla morte i criminali. Se fosse diversamente, non resterebbe altro che disperare e seppellire nell’oblio colui che Gesù, uscendo dagli inferi, avrebbe lasciato nell’abisso. Sarai nel tuo diritto di riconoscere che il tuo spirito ha pienamente riscoperto la vita in Cristo, se può dire con intima convinzione: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!».


       Esprimendo un attaccamento profondo, una tale parola è degna degli amici di Gesù! E quanto è puro, l’affetto che così si esprime: «Se Gesù è in vita, tanto mi basta!». Se egli vive, io vivo, poiché la mia anima è sospesa a lui; molto di più, egli è la mia vita, e tutto ciò di cui ho bisogno. Cosa può mancarmi, in effetti, se Gesù è in vita? Quand’anche mi mancasse tutto, ciò non avrebbe alcuna importanza per me, purché Gesù sia vivo. Se poi gli piace che venga meno io stesso, mi basta che egli viva, anche se non è che per se stesso. Quando l’amore di Cristo assorbe in un modo così totale il cuore dell’uomo, in guisa che egli dimentica se stesso e si trascura, essendo sensibile solo a Gesù Cristo e a ciò che concerne Gesù Cristo, solo allora la carità è perfetta in lui. Indubbiamente, per colui il cui cuore è stato così toccato, la povertà non è più un peso; egli non sente più le ingiurie; si ride degli obbrobri; non tiene più conto di chi gli fa torto, e reputa la morte un guadagno (Ph 1,21). Non pensa neppure di morire, poiché ha coscienza piuttosto di passare dalla morte alla vita; e con fiducia, dice: «Andrò a vederlo, prima di morire».



 

sabato 16 aprile 2022

Una notizia sorprendente, ancora

 

Non cerchiamo Cristo tra i grandi, sono nei sepolcri.

Non cerchiamolo tra i maestri, sono nelle biblioteche.

Lui è vivo, cerchiamolo tra i viventi, perché è risorto.



Le cronache drammatiche di questi giorni portano spesso, troppo spesso, notizie cattive e di morte, che purtroppo sorprendono sempre meno.

Oggi, giorno di Pasqua, ci è riproposta un’informazione buona e di vita: una notizia sorprendente: il racconto di una sconfitta che riguarda un Uomo morto in Croce in mezzo a due ladroni, ma riferendosi ad una sepolcro vuoto, termina con la narrazione di una vittoria di un Crocifisso che è tornato in vita. Storia di un sepolcro che se fosse pieno sarebbe il segno della sconfitta dell’uomo e di Dio. Quella tomba vuota è il primo segno della vittoria di Dio e dell’uomo. Il sepolcro è vuoto e 20 secoli dopo lo commemoriamo ancora. Il sepolcro è vuoto e Cristo risorto si fa incontro.

L’amico che chiama per nome: “Maria”, asciuga le lacrime e mangia con gli Apostoli che erano tornati alla vita precedente, perché pensavano che la loro umana avventura con Gesù fosse finita. Invece questa storia di Cristo con loro è continuata e con l’umanità continua.

È una storia davvero sorprendente, in cui constatiamo che è Dio che ci vuole suoi, nonostante la nostra resistenza, dovuta al fatto che spesso si vede in Cristo un rivale.

Certi credenti pensano ad un Dio come l’Essere supremo, il Signore del tempo e della storia, cioè come un’entità e una legge che si impone all’individuo dall’esterno; nessun particolare della vita umana gli sfugge. L’essere umano ha le sue brame; desidera il piacere, il potere, il denaro, la roba d’altri. In questa situazione, Dio appare loro come colui che sbarra loro la strada con i suoi “Tu devi”, “tu non devi”. Invece di una volontà d’amore che vuole solo la felicità dell’uomo, la volontà di Dio appare loro come una volontà nemica.

All’origine di tutto c’è l’idea di Dio “rivale” dell’uomo che il serpente instillò nel cuore di Adamo ed Eva e che alcuni pensatori moderni si incaricano di tenere in vita, affermando che “dove nasce Dio muore l’uomo” (Sartre).

Certo, non si è mai ignorata, nel cristianesimo, la misericordia di Dio. Ma ad essa si è affidata soltanto il compito di moderare gli irrinunciabili rigori della giustizia. La misericordia era l’eccezione, non la regola. L’anno della misericordia è l’occasione d’oro per riportare alla luce la vera immagine del Dio biblico che non solo fa misericordia, ma è misericordia.


Cristo risorto è un Dio che, di volta in volta, si fa per noi:

  • creatore, compiendo il prodigio di trarci dall'abisso tenebroso del nulla:

  • liberatore dalla schiavitù "egiziana", sempre di attualità, della colpa, dell'errore, dell'insipienza;

  • alleato, vincolato a noi da un patto eterno;

  • salvatore, in virtù del sacrificio di Cristo che si conforma dolorosamente alla volontà del Padre fino ad accettare liberamente la morte di croce;

  • rinnovatore di tutto, perché con la risurrezione del Signore Gesù ogni cosa, ogni cuore, ogni attesa, ogni prospettiva si rinnova e si trasfigura.


Il sepolcro sigillato il venerdì sera è stato il segno della sconfitta dell'uomo e della sconfitta di Dio: dell'uomo, che la morte ghermisce e distrugge senza remissione; e di Dio, che nella tragedia del Golgota ci appare vinto, oscurato, estromesso, superato dal male. Il sepolcro scoperchiato e vuoto, che all'alba del terzo giorno si offre alle donne impaurite, è il segno della vittoria di Dio, che da qui comincia l'opera della restaurazione dell'universo, e insieme della vittoria dell'uomo.

L'uomo Cristo Gesù, Figlio di Dio e nostro fratello, oggi ritorna vivo tra i suoi, rassicurandoci che il baratro della morte non è l'ultimo atto del dramma umano: oltre ogni pena, oltre ogni vicenda, oltre la nebbia dei dubbi, delle confusioni, delle speranze infrante, oltre la morte, ci attende un destino di risurrezione, di gloria, di vita che non finisce.

Non cerchiamo Cristo tra i così detti grandi della storia: i grandi della storia sono tutti racchiusi nelle loro tombe polverose. Non cerchiamolo tra i cosi detti portatori di giustizia o tra i famosi maestri umani: essi non hanno avuto una sorte diversa da quella degli altri. Gesù solo è veramente vivo, e proprio per questo è per noi e per il mondo principio di vita. Il battesimo ci ha innestati in lui e ci ha resi partecipi della sua risurrezione. Proprio perché egli è vivo, da Cristo può partire l'unico vero rinnovamento degli uomini e delle loro condizioni di esistenza. ln lui noi siamo diventati uomini nuovi, da lui riceviamo la missione, la concreta possibilità, l'energia di rinnovare tutte le cose.

L'augurio di buona Pasqua e l'augurio di una reale e sostanziale novità di vita, che prima conquisti i nostri cuori e poi, dai cuori rinnovati, si muova a conquistare pacificamente la terra. Insomma, la Pasqua è la notizia sorprendente che solamente Dio esiste ed è vivo, ma è incontrabile e fa fiorire la vita, perché è il Dio del fiore vivo e non dei morti pensieri.


sabato 9 aprile 2022

Le Palme e la Croce.

 Rito Romano

Domenica delle Palme e della Passione del Signore – Anno C – 10 aprile 2022

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56.



Rito Ambrosiano

Domenica della Palme

Is 52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11



1) Innalziamo i cuori e non solo le palme.

Con questa Domenica, che è chiamata delle Palme e della Passione del Signore, entriamo nella Settimana Santa e Grande, in cui la liturgia ci farà rivivere il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo. Si tratta della Settimana Santa e tragica, ma che è pure Settimana della Vittoria e del trionfo, non solo perché Cristo vi entra da trionfatore salutato dalla gente, ma soprattutto perché vi esce vittorioso: risorto. L’amore trionfa, vince non nonostante la Croce, ma attraverso la Croce.

“Ciò che ci fa credere è la croce, ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce, la vittoria della vita” (Pascal).La croce è l'immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso. Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce” (Karl Rahner, SJ).

La Croce è al centro della liturgia di oggi e, partecipandovi, mostriamo che non abbiamo vergogna della Croce di Cristo, non la temiamo. Anzi la amiamo e la veneriamo, perché è segno di riconciliazione, segno dell’amore che è più forte della morte: è il segno del Redentore morto e risorto per noi. Chi crede in Gesù crocifisso e risuscitato porta la Croce in trionfo, come prova indubitabile che Dio è amore. Con il dono totale di sé, con la Croce appunto, il nostro Salvatore ha vinto definitivamente il peccato e la morte. Per questo accogliamo nella gioia il Redentore, “camminiamo anche noi insieme con colui che si affretta verso la sua passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone” (Sant’Andrea di Creta).

Dunque, come la folla festante di poco meno di duemila anni fa, oggi accogliamo Gesù che entra in Gerusalemme, e come discepoli, lo accompagniamo nella sua Pasqua, facendo nostra la preghiera della Messa: “Dio, onnipotente ed eterno, che, per dare al genere umano un esempio di umiltà, hai voluto che il nostro Salvatore assumesse la nostra carne e subisse la morte di croce, accordaci, nella tua bontà, di fare nostro l’insegnamento della sua passione e di avere parte alla sua resurrezione” (Colletta della Messa di oggi).


2) La passione secondo San Luca e gli altri Evangelisti.

Per aiutarci a fare nostro questo insegnamento della passione di Cristo, la Liturgia di oggi ci presenta la storia della passione di Gesù secondo San Luca, che la racconta facendo emergere la misericordia divina. A questo riguardo è utile ricordare che ogni Evangelista (Marco, Matteo, Luca e Giovanni) redige il suo vangelo partendo da un suo proprio e personale punto di vista teologico, catechetico.

Secondo San Marco, Gesù è il servo sofferente che muore per tutti, è l’abbandonato. Il Cristo abbandonato è il chicco seminato, che morendo porta molti frutti. Il grido d’abbandono: “Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15,34) non è un grido di disperazione. Infatti, l’abbandono dal Padre diventa subito un abbandono al Padre, e questo abbandono totale permette la riconciliazione universale, a partire dal buon ladrone che è riportato a casa in Paradiso, da Giovanni a cui è data una madre, alla Madre alla quale è donato un nuovo figlio (e tutti noi in lui). Ciò avviene grazie al fatto che Gesù rimette la sua anima al Padre, in un gesto di abbandono totale e di fiducia amorosa. In questo modo, come aveva promesso, dalla croce il Redentore attira e tutti a sé, a sé e al Padre, in una comunione profonda che si consuma nell’immolazione a Dio Padre.

Per quanto riguarda il vangelo secondo San Matteo, vediamo che in esso l’Apostolo e Evangelista risponde principalmente a questa domanda: “Chi è il colpevole della morte di Gesù?”.

Secondo San Matteo, tutti - a loro modo - contribuiscono alla morte del Signore. Tutti partecipano a questo dramma: chi direttamente, chi indirettamente; chi agendo e chi non agendo. Ma c’è soprattutto un brano della passione narrata da questo Apostolo, che mi pare molto importante da mettere in risalto.. E’ quello in cui San Matteo racconta ciò che accade subito dopo che Gesù muore (27,51-53). Dopo la morte c’è una serie di espressioni che sono solo di questo evangelista: “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo (questo è presente anche in San Marco, ma ora iniziano le novità di San Matteo), la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E, uscendo dai sepolcri dopo la risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti”. Cosa vuole comunicare San Matteo? Lui vuol dire che grazie alla morte di Gesù il dominio e il potere della Morte è frantumato. Per l’evangelista Matteo, la morte di Gesù è soprattutto la buona e lieta notizia (=evangelo) che il potere del peccato e della morte, fino a questo momento devastante e totale, è sconfitto. Dunque è possibile vivere una storia diversa: una storia di salvezza. Questa possibilità oggi è data a noi. L’importante è che non scappiamo da Cristo, che gli stiamo accanto, vegliando con lui e con lui pregando il Padre. In questo modo, portiamo a compimento l’esodo, il cammino guidato da Cristo, nuovo e vero Mosè, che ci conduce alla vita per sempre.

Per San Giovanni, Gesù è l’uomo consapevole che va incontro volontariamente al suo destino. Anche se viene giustiziato in realtà è Lui il vero re. E’ sovrano di se stesso e lancia una sfida: “Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie” (Gv 10,17-18). In estrema sintesi, secondo San Giovanni, per Gesù la croce non è un estremo abbassamento ma una “elevazione”. Infatti il verbo greco usato dall’Apostolo prediletto (“upsozènai”) esprime l’innalzamento al trono di un re. L’elevazione di Gesù sulla croce, dunque, è un’esaltazione regale, nella quale però, mentre il re innalzato al trono domina imponendosi, Gesù-Re domina attraendo: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). La condanna a morte per crocefissione di Gesù non è stata un caso, un incidente. Cristo stesso ha voluto offrire così la sua vita, essere l’ultimo degli ultimi, condividere la condizione dei più disgraziati e disprezzati e infelici: gli schiavi, neppure ritenuti “uomini”.

Insomma, la Croce è la rivelazione suprema dell’amore del Padre. Questo spiega la completa libertà di Gesù e la sua perfetta consapevolezza. Il Cristo compie l’opera di salvezza non come una vittima rassegnata e impotente, ma come colui che conosce il senso degli avvenimenti e li accetta liberamente. Questo è il vertice dell’amore ed anche il modello di ogni autentico amore: il completo dono di sé.

Analizziamo ora, brevemente, il racconto della passione che ci è proposto quest’anno. San Luca mostra soprattutto Gesù come colui che perdona tutti e usa misericordia verso tutti.

Questo evangelista presenta, se non in modo assolutamente positivo, almeno in modo misericordioso i vari personaggi: i discepoli sono rimasti fedeli a Gesù nelle prove (Lc 22,28); nel Getsemani si addormentano solo una volta e non tre (Id. 22,39-46) ed è un sonno di tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni come negli altri vangeli (Id. 22,66-70); Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché è innocente (Id. 23,13-25); il popolo è addolorato per ciò che succede (Id. 23,27) e perfino uno dei due ladroni accanto a Cristo in Croce è buono (Id. 23,39-43).

Nel racconto lucano, Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l’orecchio del servo durante l’arresto (Id. 22,50-51), si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario (Id. 23,28-31), perdona i suoi carnefici che lo flagellano e mettono in croce (Id. 23,34), e promette il paradiso al ladrone pentito (Id. 23,43). Il Redentore in San Luca è colui, che capisce i suoi nemici: fanno così perché vivono nel buio e nelle tenebre, altrimenti non potrebbero agire in questo modo così criminale. Con questo sguardo di misericordia Cristo in Croce prega: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Id. 23, 34).

Proprio perché vuol mettere in evidenza la misericordia divina che San Luca racconta la passione di Cristo come la storia di conversione. C’è la conversione del Signore, che si volta in dietro e guarda Pietro e Pietro si sente penetrato da uno sguardo di perdono, per cui si ricordò e pianse, e queste lacrime di dolore indicano la conversione del primo degli Apostoli. Guardiamo a Cristo e lasciamoci guardare da Lui, come ha fatto Pietro. Allora la Croce che contempliamo in questo inizio della Settimana Santa sarà fonte di conversione e di vita nuova, donata dalla misericordia.

Ma già all’inizio del vangelo di Luca possiamo vedere la misericordia in azione. In Gesù Cristo la misericordia di Dio si estende di epoca in epoca a tutti coloro che lo temono, secondo il Magnificat della Vergine Maria (Lc 1,50). Visitando Maria, Dio si è ricordato della sua misericordia, come aveva promesso. In Maria, la misericordia pianta la sua tenda messianica, rispondendo all’attesa di tutti i poveri d’Israele, quegli anawim, di cui noi siano i discendenti spirituali, e come loro siamo chiamati ad abbandonarci alla sua alleanza misericordiosa.

Al termine del Vangelo contempliamo ancora la misericordia in azione e tutto diventa miracolo. Al servo viene riattaccato l’orecchio, Pietro piange il suo tradimento, Gesù è riconosciuto “giusto” da Ponzio Pilato, il procuratore pagano, le donne vengono consolate e scosse, il ladro appeso alla croce perdonato e la folla torna a casa percuotendosi il petto. La morte di Cristo è piena di inattesa dolcezza.

L’importante è che, assistendo allo spettacolo drammatico della passione del Figlio di Dio che muore in Croce per amore, riconosciamo l’amato Amore, che si dona e perdona.

In questo ci sono di testimonianza le Vergini Consacrate nel mondo, la cui vocazione è di non distogliere lo sguardo dalla loro Sposo in Croce, e di stare con Maria, Vergine Madre, accanto a Cristo, dovunque lui ancora oggi soffre e muore. Questo donne hanno scelto di vivere nella ricerca del volto di Cristo, nell’ascolto della sua voce, dell’adempimento della sua volontà per essere feconde grazie al dono dello Spirito e generare nel cuore l’eterna Parola. Nascoste in Cristo, la loro vita è consacrata per essere lode costante della gloria divina, supplice voce per le necessità dei fratelli, dono offerto per tutta la Chiesa.

Nel giorno della consacrazione ricevendo il Crocifisso, ciascuna di loro ha detto: “Con gioia ricevo questo segno: Sulla croce il Signore mi ha amato e ha dato la vita per me” (Cfr. Gv 15, 13; 13, 35. 36-38). Nel giorno delle Palme e durante tutta la Settimana santa, queste donne consacrate ci invitano ad unirci a loro in questa accettazione di Cristo e della sua Croce, per portarla nel mondo come segno dell’amore di Gesù per l’umanità.





Lettura patristica

Dai «Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo

(Disc. 9 sulle Palme; PG 97, 990-994)

Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza.

Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E' disceso dal cielo, per farci salire con sé lassù «al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare» (Ef 1, 21). Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella spettacolarità, «Non contenderà», dice, «né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce» (Mt 12, 19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà.


Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell'ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.


Egli salì «verso oriente sopra i cieli dei cieli» (cfr. Sal 67, 34) cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura umana, innalzandola dalle bassezze della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese.


Per il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell'anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele»


sabato 2 aprile 2022

Incontro con il Perdono.

 

Rito Romano

V Domenica di Quaresima – Anno C – 3 aprile 2022

Is 43, 16 – 21; Sal 125; Fil 3, 8 – 14; Gv 8, 1 – 11



Rito Ambrosiano

V Domenica di Quaresima

Es 14,21-30 – Ef 2,4-10 – Gv 11,1-45

Domenica di Lazzaro



1) Misericordia giusta.

Anche il vangelo di questa domenica ci presenta l’incontro tra la misericordia e la miseria (cfr Sant’Agostino).

La settimana scorsa questo incontro ci è stato ricordato attraverso la parabola del figlio prodigo, chiamata anche “del Padre misericordioso”.

Oggi  la lettura evangelica ci presenta  Gesù che salva una donna adultera dalla condanna a morte perdonandola (Gv 8,1-11). Ancora una volta la Liturgia ci propone il consolante fatto della Misericordia di Dio che incontra una miseria salvando una povera donna, che i suoi correligionari vogliono lapidare per rispettare la legge di Dio. Per essere più precisi alcuni scribi e farisei portano da Gesù un’adultera non per amore della giustizia, ma per tendergli in tranello. Infatti, “per avere di che accusarlo" (Gv 8,6) questi scribi e farisei portano dal Messia una donna sorpresa in adulterio, fingendo di affidargli il giudizio secondo la Legge di Mosè.

In realtà, è proprio Cristo che vogliono mettere sotto accusa, mostrando che il suo insegnamento sull’amore misericordioso di Dio è in contrasto con la Legge mosaica, che puniva il peccato di adulterio con la lapidazione. Gesù, “pieno di grazia e verità” (Gv 1,14), salva la peccatrice e smaschera gli ipocriti, dicendo: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro questa donna” (Gv  8,7).

A questo riguardo attiro l’attenzione sul fatto che sembra un dettaglio di poco conto, ma che mi pare importante. Mentre gli accusatori parlavano, Gesù non risponde subito a costoro, ma si china a scrivere con il dito per terra. Come per dire che le parole di questi scribi e farisei sono come polvere che il vento porta via, e mostrare che Lui è il legislatore divino: “Infatti, Dio scrisse la legge col suo dito sulle tavole di pietra” (cfr. Sant’Agostino, Comm. In EvanVang. di Giov., 33, 5). Gesù dunque è il Legislatore della legge della libertà dal peccato. Lui è la Giustizia che si realizza completamente nella Misericordia. Anche con l’adultera Gesù proclama la giustizia con forza, ma al tempo stesso cura le ferite spirituali di questa donna con la sua misericordia, che redime, sana, nobilita ed eleva.

Giustizia e misericordia sono due realtà differenti soltanto per noi uomini, che distinguiamo un atto di giustizia da un atto d’amore misericordioso (cfr. Benedetto XVI). Per Dio non è così: in Lui giustizia e misericordia non sono contrapposte. La misericordia è la giustizia che ricrea la persona, la quale non è più delimitata dal proprio peccato, ma dall’amore di Dio che teneramente perdona. Infatti, se è vero che la correzione, e anche la punizione come strumento correttivo, può essere provvidenziale (e in tal senso la Bibbia spesso parla di Dio che corregge l'uomo), lo è solo in quanto tale misura è suggerita dall'amore di misericordia.

“In realtà solo la giustizia di Dio ci può salvare e la giustizia di Dio si è rivelata nella Croce. La croce è il giudizio di Dio su tutti noi e su questo mondo. E se la Croce è l’atto supremo con cui la giustizia di Dio si rivela, la misericordia deve essere la giustizia degli uomini: “Dio ci giudica -dice papa Francesco- dando la vita per noi! Ecco l’atto supremo di giustizia che ha sconfitto una volta per tutte il principe di questo mondo. E questo atto supremo di giustizia è proprio anche l’atto supremo di misericordia” (Papa Francesco).


2) Cristo giudica l’adultera perdonandola.

All’affermazione di Gesù: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” gli accusatori dell’adultera reagirono andandosene via e lasciando questa donna davanti a Cristo solo. Non c’è più l’agitazione di chi voleva condannare una persona e tendere un tranello a Colui che era venuto non per condannare, ma per salvare il mondo. In questo silenzio che è sceso nel piazzale del Tempio Gesù celebra il perdono come liberazione dalla condanna di morte: un perdono che genera vita nuova, orientata al bene

Gesù perdonò questa “imputata” delinquente come perdona ogni nostra colpa, facendo rifiorire nel cuore la gratitudine e la gioia. Nel perdono, da una parte, conosciamo chi è il Signore, l’Amore che ci ama senza condizioni. Dall’altra, conosciamo chi siamo noi nel perdono: persone amate infinitamente da Dio, senza condizioni. Dio si rivela nel Redentore come amore che perdona ed accoglie senza mettere condizioni.

Che cosa rivela Dio nel Vangelo di oggi, ma anche in tutta la Scrittura? Che Lui è misericordia, perdono, che al centro del mondo non ha messo l’albero della morte, ma quello della vita: la Croce.

Il figlio prodigo è riaccolto in casa, l'adultera non è lapidata, ogni nostro peccato è perdonato, ma per tutto ciò il Cristo ha pagato perché è lui che ha preso su di sè le nostre colpe e le ha portate sul legno della Croce: “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia” (1 Pt 2, 24). Dunque è Cristo la vera giustizia, Lui è la nostra giustizia, perché è lui che ci fa giusti davanti a Dio.

Perdonando, invece di aprire la porta della morte, Cristo apre la porta della vita, perché Lui stesso è la Porta. Il Signore della vita pronuncia sull’adultera il proprio giudizio e non solo le dice di non condannarla, ma le chiede anche di non peccare più.

Anche a ciascuno di noi peccatori perdonati il Redentore dice : “Va’ e d’ora un poi non peccare più”. Questo “comando d’amore” non è solamente un invito a non peccare più, ma è anche una richiesta di mettersi in cammino per le strade del mondo per essere testimoni della misericordia.

Il perdono non giustifica la persona lasciandola nel suo errore, ma indica un nuovo stile di vita che implica la rinuncia al peccato e alle sue conseguenze di morte per rimettersi in cammino con e per Cristo e portare agli altri il perdono e l’amore ricevuti.

Tutte le persone consacrate sono chiamate in modo particolare ad essere testimoni di questa misericordia del Signore, nella quale l’uomo trova la propria salvezza. Esse tengono viva l’esperienza del perdono di Dio, perché hanno la consapevolezza di essere persone salvate, di essere grandi quando si riconoscono piccole, di sentirsi rinnovate ed avvolte dalla santità di Dio quando riconoscono il proprio peccato. Per questo, anche per l’uomo di oggi, la vita consacrata rimane una scuola privilegiata della “compunzione del cuore”, del riconoscimento umile della propria miseria, ma, parimenti, rimane una scuola della fiducia nella misericordia di Dio, nel suo amore che mai abbandona. In realtà, più ci si avvicina a Dio, più si è vicini a Lui, più si è utili agli altri. Le persone consacrate sperimentano la grazia, la misericordia e il perdono di Dio non solo per sé, ma anche per i fratelli, essendo chiamate a portare nel cuore e nella preghiera le angosce e le attese degli uomini, specie di quelli che sono lontani da Dio” (Benedetto XVI).

In particolare, le vergini consacrate, che per vocazione vivono e lavorano nel mondo, sono chiamate allo specifico impegno di fedeltà nello “stare con il Signore”, Sposo che chiede tutto. Nella cerimonia di consacrazione il Vescovo chiede a ciascuna di loro:  “vuoi essere consacrata come sposa a Gesù Cristo?”. E la risposta è come quella che si deve dare nei matrimoni:  “Sì, lo voglio”. Esse mostrano che Cristo è stato capace di farle innamorare profondamente e che sono chiamate a rendere ragione alla società del perché vale la pena di dedicarsi completamente a Cristo, mostrando in parrocchia e, soprattutto sul posto di lavoro, che la loro vita è attraente e lieta. Per vocazione e missione queste donne consacrate “sono chiamate a frequentare le ‘periferie’ e le ‘frontiere’ dell’esistenza, dove si consumano i drammi di un’umanità smarrita e ferita” (Papa Francesco).

In un mondo in cui domina l’egoismo, che produce rivalità, inimicizie, gelosie, conflitti d’interesse e guerre, cioè, in una parola sola, l’odio, proclamano con la vita la Legge dell'Amore, che si diffonde e si dona con la misericordia. Questo amore di misericordia, ricevuto da Cristo-Sposo, allarga il loro cuore ad amare gli altri con purezza e verità, a perdonare le offese come il loro Sposo, che portando i peccati del mondo in Croce perdona, a servire gli altrui bisogni. Si sono consacrate a Lui, fonte dell’Amore puro e fedele, un Amore così grande e bello da meritare tutto, anzi, più del nostro tutto, perché non basta una vita intera a ricambiare ciò che Cristo è e ciò che ha fatto per noi.


Lettura Patristica

Sant’Agostino d’Ippona

Comment. in Ioan., 33, 4-8


Verità, bontà, giustizia e misericordia


       Considerate ora in qual modo la bontà del Signore fu posta alla prova dai suoi nemici. "Allora gli scribi e i farisei conducono una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero. «Maestro, questa donna è stata colta in adulterio. Ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare tali donne: tu che ne dici?». E questo dicevano per metterlo alla prova, in modo da poterlo accusare" (Jn 8,3-6).


       Accusarlo di cosa? Forse avevano colto anche lui in qual che delitto?... E siccome i suoi nemici, per invidia e per rabbia, non riuscivano a sopportare queste due qualità, cioè la sua dolcezza e la sua verità, cercarono allora di tendergli un tranello sulla terza, cioè sulla giustizia. In qual modo?


       La legge comandava che gli adulteri dovevano essere lapidati, e la legge non poteva comandare ciò che non era giusto: se qualcuno si opponeva a un precetto della legge, veniva accusato di prevaricazione. I Giudei avevano pensato tra sé: egli è ritenuto amico della verità e appare mansueto; dobbiamo cercare di coglierlo in fallo sulla giustizia: presentiamogli una donna colta in adulterio, e diciamogli che cosa stabilisce la legge in tali casi. Se egli ordinerà che sia lapidata, mostrerà di non essere affatto mansueto: se dirà che deve essere lasciata andare, mostrerà di non avere giustizia. Siccome non vorrà perdere - essi dicevano - l’aureola di mansuetudine, grazie alla quale è amato dal popolo, senza dubbio dirà che dobbiamo lasciarla andare. Così noi avremo l’occasione per accusarlo, per dichiararlo reo come prevaricatore e potremo dire di lui che è nemico della legge, che ha parlato contro Mosè o, meglio, contro colui che per mezzo di Mosè ci ha dato la legge; e quindi è degno di morte e deve essere lapidato insieme alla donna.


       Con queste parole e con questi ragionamenti la loro invidia si accresceva, ardeva il loro desiderio di accusarlo, diveniva più forte la voglia di condannarlo. Cosa li spingeva a parlare in questo modo, e contro chi parlavano? Era la perversità che tramava contro la rettitudine, la menzogna contro la verità, il cuore corrotto contro il cuore retto, la stoltezza contro la sapienza...


       Cosa rispose il Signore Gesù? Cosa rispose la verità, la sapienza, la stessa giustizia contro la quale era diretta l’insidia?


       Non disse: Non sia lapidata! Se lo avesse detto sarebbe apparso che egli andava contro la legge. Ma si guardò bene anche dal dire: Sia lapidata! Egli era venuto infatti per non perdere ciò che aveva trovato, anzi per trovare ciò che si era perduto (Lc 19,10). Cosa rispose? Considerate quanto la sua risposta sia contemporaneamente carica di giustizia, di mansuetudine e di verità! Disse: "Chi di voi è senza peccato scagli per primo una pietra contro di lei" (Jn 8,7).


       Risposta piena di saggezza! In che modo li costrinse a guardare dentro se stessi? Essi infatti calunniavano gli altri, ma non scrutavano in se stessi: vedevano l’adulterio della donna, non i loro peccati...


       L’avete sentita voi, farisei, dottori della legge, custodi della legge, ma non avete compreso il Legislatore.


       Che cosa ha voluto mostrarvi ancora, quando scriveva con il dito in terra? Ha voluto mostrarvi che la legge è stata scritta col dito di Dio e che, a causa della durezza dei cuori, essa è stata scritta sulla pietra (cf. Ex 31,18). E ora il Signore scriveva sulla terra perché cercava il frutto della legge. Voi avete inteso: «si compia la legge», «sia lapidata l’adultera»: ma nel punire la donna, la legge dovrà essere applicata da coloro che a loro volta debbono essere puniti? Ciascuno di voi consideri se stesso, entri in se medesimo, si ponga dinanzi al tribunale della sua anima, si costituisca alla sua coscienza, e obblighi se stesso a confessarsi. Egli solo sa chi è, poiché nessun uomo conosce i segreti di un altro, se non lo spirito medesimo dell’uomo che è dentro di lui. Ciascuno, guardando in se stesso, si scopre peccatore (1Co 2,11). Non c’è alcun dubbio su questo. Quindi, lasciate andare questa donna, oppure accettate con lei le pene previste dalla legge. Se il Signore avesse detto: Non lapidate l’adultera!, sarebbe stato accusato di ingiustizia; se avesse detto: Lapidatela!, non sarebbe apparso mansueto. Che formuli dunque una risposta che a lui si addice, che è mansueto e giusto: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei». Questa è la voce della giustizia: si punisca la peccatrice, ma non siano i peccatori a punirla; sia rispettata la legge, ma non siano i violatori della legge a imporne il rispetto. Ben a ragione è la voce della giustizia.


       Essi, colpiti da queste parole come da una freccia grossa quanto una trave, "uno dopo l’altro se ne andarono" (Jn 8,9). Restano solo loro due, la misera e la misericordia. E il Signore, dopo averli colpiti con la freccia della giustizia, non si degna neppure di stare a vedere la loro umiliazione, ma, voltando loro le spalle, "di nuovo col dito scriveva in terra" (Jn 8,8).


       Quella donna era dunque rimasta sola, poiché tutti se ne erano andati: Gesù allora levò i suoi occhi su di lei. Abbiamo udito la voce della giustizia, udiamo ora anche quella della dolcezza.


       Credo che quella donna fosse stata più degli altri colpita e spaventata dalle parole che avete sentito dire dal Signore: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei». I farisei esaminandosi e con la loro stessa partenza confessandosi colpevoli, avevano lasciato la donna con un così grande peccato, insieme a colui che era senza peccato. Ed essa, dopo avere udito: «Chi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei», temeva di essere punita da lui, nel quale non era peccato. Ma egli, dopo avere cacciato i suoi nemici con la voce della giustizia, levando su di lei gli occhi della mansuetudine, le chiese: "Nessuno ti ha condannato?" (Jn 8,10). E quella rispose: "Nessuno, o Signore" (Jn 8,11). Ed egli replicò: "Neppure io ti condannerò ()", tu che avevi temuto di essere punita da me, poiché in me non hai trovato peccato.


       «Neppure io ti condannerò». Che vuol dire questo, Signore? Tu favorisci dunque il peccato? No di certo. Sentite ciò che segue: "Va’ e d’ora innanzi non peccare più ()". In altre parole, il Signore condanna il peccato, non il peccatore. Infatti, se avesse perdonato il peccato, avrebbe detto: Neppure io ti condanno, va’ vivi come vuoi, sta’ sicura che io ti libererò; per quanto grandi siano i tuoi peccati, io ti libererò da ogni pena e da ogni sofferenza dell’inferno. Ma non disse così.


Intendano bene coloro che amano nel Signore la mansuetudine e temano la verità. Infatti è insieme "dolce e retto il Signore" (Ps 24,8).


       Tu lo ami perché è dolce, devi temerlo perché è retto. In quanto è mansueto disse: «Tacqui»; ma in quanto è giusto aggiunse: "Ma forse sempre tacerò?" (Is 42,14 secondo i LXX). "Il Signore è pietoso e benigno" (Ps 85,15). Senza dubbio è così. Aggiungi ancora «pieno di bontà» e ancora "tardo all’ira ()"; ma non dimenticare di temere ciò che sarà nell’ultimo giorno, cioè «verace». Egli sopporta ora le colpe dei peccatori, ma allora giudicherà chi lo ha disprezzato. "Ovvero disprezzi le ricchezze della sua bontà e della sua mansuetudine, ignorando che la pazienza di Dio ti spinge alla penitenza? Ma tu con la durezza del tuo cuore impenitente, ti attiri sul capo un cumulo di collera per il giorno dell’ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere" (Rm 2,4-6). Il Signore è mansueto, il Signore è longanime, è misericordioso; ma è anche giusto, è anche verace. Ti dà il tempo di correggerti, ma tu preferisci godere di questa dilazione piuttosto che emendarti. Fosti malvagio ieri? Sii buono oggi. Hai passato nel male la giornata di oggi? Deciditi a cambiare domani. Ma tu aspetti sempre a correggerti, sempre ti riprometti di usufruire della misericordia di Dio, come se colui che ti ha promesso il perdono in cambio del pentimento, ti avesse anche promesso una vita lunghissima. Come fai a sapere che per te ci sarà anche il giorno di domani? Hai ragione quando dici nel tuo cuore: quando mi correggerò, Dio mi rimetterà tutti i peccati. Non possiamo certo negare che Dio ha promesso il perdono a tutti coloro che si correggono e che si convertono. Ma in quella stessa profezia dove tu leggi che Dio promise indulgenza a chi si pente, non puoi leggere che Dio ti ha promesso anche una lunghissima vita.


       Contro due ostacoli gli uomini rischiano di naufragare la speranza presuntuosa e la disperazione; due ostacoli del tutto opposti, e che derivano da sentimenti diametralmente contrari. Uno dice: Dio è buono, è misericordioso, io posso perciò fare ciò che mi pare e piace, posso lasciare sciolte le briglie alle mie passioni, posso soddisfare tutti i miei desideri. Perché posso farlo? Perché Dio è misericordioso, è buono, è mansueto. Costoro corrono rischi proprio per la loro speranza, perché non si inducono mai a correggersi. Sono invece vittime della disperazione coloro che, avendo commesso gravi peccati, ritengono di non poter essere più perdonati e, considerandosi, senza dubbio alcuno, destinati alla dannazione, dicono: Saremo certamente dannati; perché non possiamo allora fare ciò che ci pare, come fanno i gladiatori che sanno di non avere scampo e che il loro destino è essere uccisi dalla spada? Per questo i disperati sono anche pericolosi: essi che credono di non avere più ormai niente da temere, debbono invece essere riguardati con timore. La disperazione li uccide, così come la speranza uccide gli altri.


       L’anima fluttua tra la speranza e la disperazione. Devi temere di essere ucciso dalla speranza, devi cioè temere che, mentre tranquillamente continui a sperare nella misericordia, tu non ti ritrovi d’improvviso di fronte al giudizio; altrettanto devi temere che la disperazione non ti uccida; devi temere cioè, poiché hai ritenuto di non poter ottenere il perdono per i gravi delitti che hai commesso e perciò non te ne sei pentito, di incorrere nel giudizio del tribunale della sapienza, che dice: "E io riderò della vostra sventura" (Pr 1,26).


       Cosa fa il Signore verso coloro che sono in pericolo per l’una o l’altra di queste due malattie? A coloro che corrono rischi per la troppa speranza dice: "Non tardare a convertirti a Dio, né differire di giorno in giorno; perché d’un tratto scoppia la sua ira e nel giorno del giudizio tu sei spacciato" (Si 5,7). E a coloro che corrono pericoli per la disperazione, che dice Dio? "In qualunque giorno l’iniquo si sarà convertito, tutte le sue iniquità io dimenticherò" (Ez 18,21 Ez 18,22 Ez 18,27). A coloro dunque che sono in pericolo per la disperazione egli indica il porto dell’indulgenza; per coloro che corrono rischi per la eccessiva speranza e si illudono di avere sempre tempo, fa incerto il giorno della morte. Tu non sai quando verrà l’ultimo giorno. Sei un ingrato, non riconosci la grazia di Dio, che ti ha dato anche il giorno di oggi affinché tu ti corregga.


       Questo è il senso delle parole che disse a quella donna: «Neppure io ti condannerò»: ora che sei tranquilla a proposito di quanto hai commesso in passato, abbi timore di quanto potrà accadere nel futuro. «Neppure io ti condannerò»: cioè ho distrutto ciò che hai commesso, ma osserva quanto ti ho comandato, al fine di ottenere quanto ti ho promesso.