Rito Romano
Domenica delle Palme e della Passione del Signore – Anno C – 10 aprile 2022
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56.
Rito Ambrosiano
Domenica della Palme
Is 52, 13-53,12; Sal 87; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11
1) Innalziamo i cuori e non solo le palme.
Con questa Domenica, che è chiamata delle Palme e della Passione del Signore, entriamo nella Settimana Santa e Grande, in cui la liturgia ci farà rivivere il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo. Si tratta della Settimana Santa e tragica, ma che è pure Settimana della Vittoria e del trionfo, non solo perché Cristo vi entra da trionfatore salutato dalla gente, ma soprattutto perché vi esce vittorioso: risorto. L’amore trionfa, vince non nonostante la Croce, ma attraverso la Croce.
“Ciò che ci fa credere è la croce, ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce, la vittoria della vita” (Pascal). “La croce è l'immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso. Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce” (Karl Rahner, SJ).
La Croce è al centro della liturgia di oggi e, partecipandovi, mostriamo che non abbiamo vergogna della Croce di Cristo, non la temiamo. Anzi la amiamo e la veneriamo, perché è segno di riconciliazione, segno dell’amore che è più forte della morte: è il segno del Redentore morto e risorto per noi. Chi crede in Gesù crocifisso e risuscitato porta la Croce in trionfo, come prova indubitabile che Dio è amore. Con il dono totale di sé, con la Croce appunto, il nostro Salvatore ha vinto definitivamente il peccato e la morte. Per questo accogliamo nella gioia il Redentore, “camminiamo anche noi insieme con colui che si affretta verso la sua passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone” (Sant’Andrea di Creta).
Dunque, come la folla festante di poco meno di duemila anni fa, oggi accogliamo Gesù che entra in Gerusalemme, e come discepoli, lo accompagniamo nella sua Pasqua, facendo nostra la preghiera della Messa: “Dio, onnipotente ed eterno, che, per dare al genere umano un esempio di umiltà, hai voluto che il nostro Salvatore assumesse la nostra carne e subisse la morte di croce, accordaci, nella tua bontà, di fare nostro l’insegnamento della sua passione e di avere parte alla sua resurrezione” (Colletta della Messa di oggi).
2) La passione secondo San Luca e gli altri Evangelisti.
Per aiutarci a fare nostro questo insegnamento della passione di Cristo, la Liturgia di oggi ci presenta la storia della passione di Gesù secondo San Luca, che la racconta facendo emergere la misericordia divina. A questo riguardo è utile ricordare che ogni Evangelista (Marco, Matteo, Luca e Giovanni) redige il suo vangelo partendo da un suo proprio e personale punto di vista teologico, catechetico.
Secondo San Marco, Gesù è il servo sofferente che muore per tutti, è l’abbandonato. Il Cristo abbandonato è il chicco seminato, che morendo porta molti frutti. Il grido d’abbandono: “Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15,34) non è un grido di disperazione. Infatti, l’abbandono dal Padre diventa subito un abbandono al Padre, e questo abbandono totale permette la riconciliazione universale, a partire dal buon ladrone che è riportato a casa in Paradiso, da Giovanni a cui è data una madre, alla Madre alla quale è donato un nuovo figlio (e tutti noi in lui). Ciò avviene grazie al fatto che Gesù rimette la sua anima al Padre, in un gesto di abbandono totale e di fiducia amorosa. In questo modo, come aveva promesso, dalla croce il Redentore attira e tutti a sé, a sé e al Padre, in una comunione profonda che si consuma nell’immolazione a Dio Padre.
Per quanto riguarda il vangelo secondo San Matteo, vediamo che in esso l’Apostolo e Evangelista risponde principalmente a questa domanda: “Chi è il colpevole della morte di Gesù?”.
Secondo San Matteo, tutti - a loro modo - contribuiscono alla morte del Signore. Tutti partecipano a questo dramma: chi direttamente, chi indirettamente; chi agendo e chi non agendo. Ma c’è soprattutto un brano della passione narrata da questo Apostolo, che mi pare molto importante da mettere in risalto.. E’ quello in cui San Matteo racconta ciò che accade subito dopo che Gesù muore (27,51-53). Dopo la morte c’è una serie di espressioni che sono solo di questo evangelista: “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo (questo è presente anche in San Marco, ma ora iniziano le novità di San Matteo), la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E, uscendo dai sepolcri dopo la risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti”. Cosa vuole comunicare San Matteo? Lui vuol dire che grazie alla morte di Gesù il dominio e il potere della Morte è frantumato. Per l’evangelista Matteo, la morte di Gesù è soprattutto la buona e lieta notizia (=evangelo) che il potere del peccato e della morte, fino a questo momento devastante e totale, è sconfitto. Dunque è possibile vivere una storia diversa: una storia di salvezza. Questa possibilità oggi è data a noi. L’importante è che non scappiamo da Cristo, che gli stiamo accanto, vegliando con lui e con lui pregando il Padre. In questo modo, portiamo a compimento l’esodo, il cammino guidato da Cristo, nuovo e vero Mosè, che ci conduce alla vita per sempre.
Per San Giovanni, Gesù è l’uomo consapevole che va incontro volontariamente al suo destino. Anche se viene giustiziato in realtà è Lui il vero re. E’ sovrano di se stesso e lancia una sfida: “Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie” (Gv 10,17-18). In estrema sintesi, secondo San Giovanni, per Gesù la croce non è un estremo abbassamento ma una “elevazione”. Infatti il verbo greco usato dall’Apostolo prediletto (“upsozènai”) esprime l’innalzamento al trono di un re. L’elevazione di Gesù sulla croce, dunque, è un’esaltazione regale, nella quale però, mentre il re innalzato al trono domina imponendosi, Gesù-Re domina attraendo: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). La condanna a morte per crocefissione di Gesù non è stata un caso, un incidente. Cristo stesso ha voluto offrire così la sua vita, essere l’ultimo degli ultimi, condividere la condizione dei più disgraziati e disprezzati e infelici: gli schiavi, neppure ritenuti “uomini”.
Insomma, la Croce è la rivelazione suprema dell’amore del Padre. Questo spiega la completa libertà di Gesù e la sua perfetta consapevolezza. Il Cristo compie l’opera di salvezza non come una vittima rassegnata e impotente, ma come colui che conosce il senso degli avvenimenti e li accetta liberamente. Questo è il vertice dell’amore ed anche il modello di ogni autentico amore: il completo dono di sé.
Analizziamo ora, brevemente, il racconto della passione che ci è proposto quest’anno. San Luca mostra soprattutto Gesù come colui che perdona tutti e usa misericordia verso tutti.
Questo evangelista presenta, se non in modo assolutamente positivo, almeno in modo misericordioso i vari personaggi: i discepoli sono rimasti fedeli a Gesù nelle prove (Lc 22,28); nel Getsemani si addormentano solo una volta e non tre (Id. 22,39-46) ed è un sonno di tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni come negli altri vangeli (Id. 22,66-70); Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché è innocente (Id. 23,13-25); il popolo è addolorato per ciò che succede (Id. 23,27) e perfino uno dei due ladroni accanto a Cristo in Croce è buono (Id. 23,39-43).
Nel racconto lucano, Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l’orecchio del servo durante l’arresto (Id. 22,50-51), si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario (Id. 23,28-31), perdona i suoi carnefici che lo flagellano e mettono in croce (Id. 23,34), e promette il paradiso al ladrone pentito (Id. 23,43). Il Redentore in San Luca è colui, che capisce i suoi nemici: fanno così perché vivono nel buio e nelle tenebre, altrimenti non potrebbero agire in questo modo così criminale. Con questo sguardo di misericordia Cristo in Croce prega: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Id. 23, 34).
Proprio perché vuol mettere in evidenza la misericordia divina che San Luca racconta la passione di Cristo come la storia di conversione. C’è la conversione del Signore, che si volta in dietro e guarda Pietro e Pietro si sente penetrato da uno sguardo di perdono, per cui si ricordò e pianse, e queste lacrime di dolore indicano la conversione del primo degli Apostoli. Guardiamo a Cristo e lasciamoci guardare da Lui, come ha fatto Pietro. Allora la Croce che contempliamo in questo inizio della Settimana Santa sarà fonte di conversione e di vita nuova, donata dalla misericordia.
Ma già all’inizio del vangelo di Luca possiamo vedere la misericordia in azione. In Gesù Cristo la misericordia di Dio si estende di epoca in epoca a tutti coloro che lo temono, secondo il Magnificat della Vergine Maria (Lc 1,50). Visitando Maria, Dio si è ricordato della sua misericordia, come aveva promesso. In Maria, la misericordia pianta la sua tenda messianica, rispondendo all’attesa di tutti i poveri d’Israele, quegli anawim, di cui noi siano i discendenti spirituali, e come loro siamo chiamati ad abbandonarci alla sua alleanza misericordiosa.
Al termine del Vangelo contempliamo ancora la misericordia in azione e tutto diventa miracolo. Al servo viene riattaccato l’orecchio, Pietro piange il suo tradimento, Gesù è riconosciuto “giusto” da Ponzio Pilato, il procuratore pagano, le donne vengono consolate e scosse, il ladro appeso alla croce perdonato e la folla torna a casa percuotendosi il petto. La morte di Cristo è piena di inattesa dolcezza.
L’importante è che, assistendo allo spettacolo drammatico della passione del Figlio di Dio che muore in Croce per amore, riconosciamo l’amato Amore, che si dona e perdona.
In questo ci sono di testimonianza le Vergini Consacrate nel mondo, la cui vocazione è di non distogliere lo sguardo dalla loro Sposo in Croce, e di stare con Maria, Vergine Madre, accanto a Cristo, dovunque lui ancora oggi soffre e muore. Questo donne hanno scelto di vivere nella ricerca del volto di Cristo, nell’ascolto della sua voce, dell’adempimento della sua volontà per essere feconde grazie al dono dello Spirito e generare nel cuore l’eterna Parola. Nascoste in Cristo, la loro vita è consacrata per essere lode costante della gloria divina, supplice voce per le necessità dei fratelli, dono offerto per tutta la Chiesa.
Nel giorno della consacrazione ricevendo il Crocifisso, ciascuna di loro ha detto: “Con gioia ricevo questo segno: Sulla croce il Signore mi ha amato e ha dato la vita per me” (Cfr. Gv 15, 13; 13, 35. 36-38). Nel giorno delle Palme e durante tutta la Settimana santa, queste donne consacrate ci invitano ad unirci a loro in questa accettazione di Cristo e della sua Croce, per portarla nel mondo come segno dell’amore di Gesù per l’umanità.
Lettura patristica
Dai «Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo
(Disc. 9 sulle Palme; PG 97, 990-994)
Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza.
Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E' disceso dal cielo, per farci salire con sé lassù «al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare» (Ef 1, 21). Venne non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e nella spettacolarità, «Non contenderà», dice, «né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce» (Mt 12, 19). Sarà mansueto e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà.
Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell'ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.
Egli salì «verso oriente sopra i cieli dei cieli» (cfr. Sal 67, 34) cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura umana, innalzandola dalle bassezze della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese.
Per il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell'anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele»
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