venerdì 22 febbraio 2019

Imparare la logica dell’amore


VII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 24 febbraio 2019

Rito Romano:
1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; 1Cor 15,45-49; Lc 6, 27-38

Rito Ambrosiano
Dn 9,15-19; Sal 106; 1Tm 1,12-17; Mc 2,13-17
Penultima Domenica dopo l’Epifania  detta “della divina clemenza”

 
            1) La felicità di amare il nemico.
            Le esigenze dell’amore, il comandamento nuovo, che Gesù ha portato nel mondo, “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi...” (Gv 19,12) sono la trama del brano del Vangelo di oggi, che è come il coronamento delle beatitudini, sulle quali abbiamo meditato domenica scorsa. Oggi Cristo ci dice:  “A voi, che ascoltate, io dico: amate...”.  Sul motivo conduttore dell’amore si articola tutto il discorso del Redentore, un discorso che manifesta la logica di Cristo e che non sempre è facile fare nostra, nelle concrete situazioni della vita.
            “Amate” dice Gesù, ma l’amore, di cui Lui parla, non ha i confini della famiglia, né della cerchia degli amici o delle persone gradevoli. L’amore di cui il Signore parla ha il sapore di una sfida: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano”, un amore, che non è solo sentimento, ma si realizza nella concretezza dei gesti: “Fate del bene a chi vi odia....pregate per chi vi maltratta...a chi vi percuote sulla guancia, porgete l’altra...date a chiunque chiede....e a chi prende del vostro, non richiedetelo”. Un amore senza limiti, dunque, ma non un assurdo, perché questo modo di amare è il modo di amare di Dio, che si è reso visibile nel suo Figlio Gesù.  Se, infatti, contempliamo la  passione di Cristo vediamo come Lui intravediamo la passione di Cristo, nella quale Lui mette in pratica le parole che oggi ci dice: parole di offerta, di amore e di perdono nei confronti del mondo che lo sta condannando a morte. Come Gesù preghiamo per i carnefici, offriamo la nostra a guancia, apriamo la porta del perdono come Lui ha aperto la porta del paradiso ad un ladrone.
Gesù è sempre colui che dà e che si dà. Così è chiamato ad essere anche il cristiano, guidato dalla regola d'oro: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fatelo a loro”.
            E teniamo presente che l’amore al nemico è il vertice dell’amore del prossimo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il “più lontano”: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.
            Dobbiamo tenere presente che la figura del nemico di cui Luca parla è, possiamo dire, quotidiana, normale: non si tratta del persecutore, ma più semplicemente di chi sparla di noi, ci odia e ci maltratta. Le esemplificazioni concrete sono numerose, e vanno al di là dello stretto ambito del nemico: si parla infatti non solo di chi odia, percuote, ruba, ma anche di chi chiede un prestito senza avere poi la possibilità di ridare. Luca è particolarmente interessato a sottolineare la gratuità dell'amore.
            Le motivazioni che giustificano l'amore al nemico sono due: distinguersi dai peccatori ed essere figli dell'Altissimo. Si tratta di comportarsi come il proprio Dio, “benevolo verso gli ingrati e i cattivi”. L'aggettivo “benevolo” in greco “χρηστός (chrestòs)” dice l’amore attento, accogliente, mite, che non fa pesare ciò che dona. E “ingrato” in greco ἀχαρίστos (acharìstos) sottolinea una volta di più l’assenza di ogni pretesa di reciprocità. Non si ama il lontano perché si avvicini. Lo si ama perché si vuole prolungare fino a lui la benevolenza di Dio. Anche se ci sembra paradossale, educhiamo in noi la capacità di amare l’altro senza suo merito, richiamando alla mente che Dio ci ha amati dall’eternità, e quindi ancor prima che nascessimo. Quindi Dio ci ha amato d’un amore eterno e continua ad amarci d’un amore fedele non per nostro merito, ma per purissimo e disinteressato suo amore. Non aveva bisogno di noi, ma ci ha creato per puro suo amore, allo scopo di farci felici come lo è Lui.

            2) Imparare la logica di Dio.
La logica di Cristo sconvolge totalmente la nostra logica. Il comando dell’amore dei nemici e del perdono è il più scandaloso, incomprensibile, illogico per i discepoli di Gesù di duemila anni fa come per noi oggi. Ci viene chiesto infatti di agire non secondo il nostro istinto e la nostra umanità, ma secondo Dio, come Dio. E “come Dio” significa: essere misericordiosi. Chi si vendica vuole una vittoria per se stesso. Chi perdona dà la possibilità all'altro di vincere, ossia di aprirsi alla vita di Dio.
            La logica di Dio è sempre “altra” rispetto alla nostra, come  Dio stesso rivela per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri,  le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo, seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda conversione, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è totale pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. La Vergine Maria è perfettamente “sintonizzata” con Dio: invochiamola con fiducia e imitiamola con generosità, seguendo con lei fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.
            La logica di Dio non è disumana, anzi fa fiorire la nostra umanità. Non dobbiamo, quindi, avere paura di assumere la logica di Dio, anche se è la logica della Croce,  che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita” (Papa Francesco).
La logica di Dio è diversa dalla nostra. Anche la sua onnipotenza è diversa: non si esprime come forza automatica o arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. In realtà, Dio, creando creature libere, dando libertà, ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il potere della nostra libertà,. Se assumiamo la logica di Dio useremo il nostro potere non con la violenza, né con la distruzione, ma con l’amore, nella misericordia, nel perdono. Questo modo di agire è solo apparentemente debole, perché in realtà “solo chi è davvero potente può sopportare il male e mostrarsi compassionevole; solo chi è davvero potente può esercitare pienamente la forza dell’amore. E Dio, a cui appartengono tutte le cose perché tutto è stato fatto da Lui, rivela la sua forza amando tutto e tutti, in una paziente attesa della conversione di noi uomini, che desidera avere come figli” (Benedetto XV).
“La logica di Dio è condivisione e misericordia., che non ragiona secondo premi o castighi, ma in base all’accogliere a tutti coloro che richiedono misericordia e perdono, e che tutti tornino a essere fratelli” (Papa Francesco).
Se impariamo la logica di Dio capiamo anche la verginità, che è imitazione di Cristo, Logos di Dio. Essa è la forma più alta d'immedesimazione con l’umanità del Redentore. Gesù ha vissuto una completa dipendenza amorosa dal Padre. Il Figlio e il Padre sono una cosa sola, egli fa quello che il Padre gli dice, quello che piace al Padre (cfr.  Gv , 8, 28-29; 10, 30; 14, 31). Questo è innanzitutto la verginità: vivere interamente per Dio, partecipare della sua volontà, dedicare tutte le proprie energie al suo regno nel mondo. 
Un esempio di vita vissuta nella logica della verginità  è quella delle vergini consacrate. In un tempo come il nostro, così denso di erotismo e di permissività sessuale, potrebbe risultare incomprensibile riflettere sulla verginità consacrata. Nei confronti della verginità, oggi, forse più che contestazione, c’è tanta confusione, accompagnata da poca fede e scarso coraggio di proporre la bellezza e la fecondità di questa scelta di vita cristiana. La verginità consacrata è un dono, un carisma, un evento di grazia per chi, in vista del Regno, instaura un rapporto personale ed esclusivo con Cristo, decidendo radicalmente di non possedere nulla, neanche il proprio corpo. La verginità consacrata, vissuta nella Chiesa locale, si nutre dell’innamoramento, non c’è altra spiegazione logica o razionale.
L’unica gioia della vergine è e sarà Cristo. Dunque le vergini consacrate sono chiamate a vivere questa vocazione testimoniando che La verginità cristiana si pone così nel mondo come segno manifesto del Regno futuro perché la sua presenza rivela la relatività dei beni materiali e la transitorietà del mondo stesso. In questo senso, come il celibato del profeta Geremia, essa è profezia della fine imminente, ma al tempo stesso, in forza del legame sponsale con Cristo, annuncia anche l’inizio della vita del mondo futuro, il mondo nuovo secondo lo Spirito. Il segno, così, come accade nella visione biblica, non è un riferimento puramente convenzionale o la pallida immagine di una realtà lontana, ma la realtà stessa nella sua manifestazione incipiente. Nel segno è contenuta, anche se ancora nascosta, la realtà futura.
La verginità consacrata si colloca perciò nell’orizzonte di una sponsalità, che non è teogamica (vale a dire di matrimonio con la divinità) ma teologale, cioè battesimale, perché riguarda l’amore sponsale di Cristo per la Chiesa (cf. Ef 5, 25-26). Si tratta di una realtà salvifica soprannaturale e non solo umana, che non può essere spiegata con la logica della ragione ma con la fede, perché – come ricorda la Scrittura – Tuo sposo è il tuo creatore (Is 54, 5). Essa è una delle grandi opere dell’ordine nuovo inaugurato con la Pasqua di Cristo e l’effusione dello Spirito, esperienza difficile da comprendere per l’uomo carnale e comprensibile solo a chi si lascia istruire dallo Spirito di Dio (cf. 1 Cor 2, 12-13) (Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum, Ecclesiae Sponsae Imago, n. 17).


Lettura patristica
Ambrogio
In Luc., 6, 73-77



 Amare i nemici

       La carità ci viene ordinata, quando ci viene detto: "Amate i vostri nemici" (Lc 6,27), e così si realizza quella parola della Chiesa di cui abbiamo parlato prima: "Ordinate in me la carità" (Ct 2,4), poiché la carità viene ordinata quando sono formulati i precetti della carità stessa. Osserva come si cominci dalle cose più elevate, e si volga le spalle alla legge dopo le beatitudini.

       La legge comanda il ricorso alla vendetta (cf. Ex 21,23-26); il Vangelo richiede per i nemici carità, bontà per l’odio, benedizioni per le maledizioni, invita a dare soccorso a chi ci perseguita, diffonde la pazienza tra gli affamati e la grazia della rimunerazione. Quanto è più perfetto di un atleta colui che non si risente per l’offesa.

       E, per non apparire come il distruttore della legge, il Signore ordina per le buone azioni la reciprocità che invece proibisce per le offese. Tuttavia, dicendo: "E come volete che gli uomini facciano a voi, cosi fate voi a loro" (Lc 6,31), mostra che il bene reso è maggiore, in quanto il valore dell’altro è adeguato alle intenzioni .

       Il cristiano si è formato a questa buona scuola e, non soddisfatto del diritto della natura, ne cerca anche la grazia. Se tutti anche i peccatori, sono d’accordo nel ricambiare l’affetto, colui che ha convinzioni più elevate deve applicarsi con maggiore generosità all’esercizio della carità, al punto da amare anche coloro che non lo amano. Infatti, benché l’assenza di ogni titolo a essere amati escluda l’esercizio dell’amore, non tuttavia esclude l’esercizio della virtù. E come tu ti vergogneresti di non ricambiare l’amore a uno che ti ama, e per ricambiare il bene ricevuto ti metti ad amare, così per virtù devi amare chi non ama, affinché, amando, per virtù, tu incominci ad amare chi non amavi. Poiché, mentre è futile e vuota la ricompensa dell’affetto, duratura è la ricompensa della virtù.

       Cosa c’è di più ammirevole che porgere l’altra guancia a chi ti colpisce? Questo, non significa spezzare l’impeto dell’uomo adirato e calmare la sua collera? Non puoi tu giungere forse, per mezzo della pazienza, a colpire più forte colui che ha colpito te, suscitando in lui il rimorso? Così tu respingerai l’offesa e otterrai l’affetto. Spesso grandi amicizie nascono per la dimenticanza d’una insolenza, o per un favore fatto in risposta ad una ingiuria.

       Ed ecco che le parole dell’Apostolo: "La carità è paziente, benigna, non è invidiosa, non si gonfia d’orgoglio" (1Co 13,4), appaiono perfette in questi precetti. Se essa è paziente, deve sopportare chi offende; se è benigna, non deve rispondere a chi maledice; se non cerca il bene per sé, non deve resistere a chi toglie; se non è invidiosa, non deve odiare il nemico. E tuttavia i precetti della carità divina vanno oltre quelli dell’Apostolo; dare è più che cedere, amare i nemici è ben più che non essere invidiosi. Tutto questo il Signore lo ha detto e fatto, egli che, oltraggiato, non ha restituito l’oltraggio; schiaffeggiato, non ha restituito gli schiaffi; spogliato, non ha opposto resistenza; crocifisso, ha chiesto perdono per gli stessi suoi persecutori, dicendo: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34), scusava del loro crimine i suoi accusatori: quelli preparavano la croce, ed egli diffondeva grazia e salvezza.



domenica 17 febbraio 2019

Le Beatitudini: la Legge della gioia


VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 17febbraio 2019

Rito Romano:
Ger 17,5-8; Sal 1; 1Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26

Rito Ambrosiano
Is 56,1-8; Sal 66; Rm 7,14-25a; Lc 6, 17,11-19
VI Domenica dopo l'Epifania

            Premessa:
Meditiamo le parole di Gesù che oggi ci dice: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti “(Lc6, 20 – 26).
Ascoltando queste parole, permettiamo a Cristo di toccare la nostra mentre ed il nostro cuore e di guarirci completamente, dalla radice dei nostri mali. Gesù infatti è venuto a portare l’amore e la vita, che vince l’egoismo e la morte. L’egoista cerca ricchezze e prende tutto, per dominare sugli altri ed essere superiore a tutti. Chi ama dà tutto, fino a dare se stesso, e serve gli altri con umiltà, ed è beato, felice qui sulla terra e per l’eternità.

1) Le beatitudini secondo Luca.
            Il versetto iniziale del Vangelo di oggi (Lc6,17) è molto solenne e preciso: dopo aver pregato tutta la notte e aver poi scelto i suoi dodici apostoli, il Redentore scende dalla montagna in un luogo pianeggiante e pronuncia il suo discorso circondato dai discepoli e dalla folla. Una folla venuta da ogni dove, persino dalle contrade pagane di Tiro e di Sidone. Il confronto con le beatitudini di Matteo (5,3-12) ci offre il modo di notare alcune particolarità proprie della narrazione di Luca, il cui modo di narrare è più personale di quello di Matteo, e coinvolge direttamente l'ascoltatore (“Beati voi poveri”). Inoltre Luca parla di poveri, di piangenti, di affamati, di perseguitati, senza precisare – come invece fa Matteo – che sono poveri nello spirito, affamati di giustizia. Infine Luca elenca tre “guai”, che imprimono al discorso un tono quanto mai drastico e radicale (6,24-26).
I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo in cui Dio si sarebbe preso cura dei poveri, degli affamati, dei perseguitati. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza: “Verrà un tempo in cui i poveri saranno beati”. Per Gesù è un presente: oggi i poveri sono beati. La ragione è una sola, fondamentale: il Messia, il Re dei re con il suo Regno è arrivato. È alla luce del Regno arrivato – un Regno che capovolge i valori comuni – che si giustifica la paradossalità di queste parole di Gesù.
            Mentre Matteo elenca otto beatitudini, mentre Luca ne propone che quattro e che riguardano: i poveri, i piangenti, gli affamati, i perseguitati. Partendo dalla stessa fonte Matteo e Luca ci offrono testi differenti, perché gli evangelisti non sono semplici cronisti, interessati solo a trasmettere fatti e parole, ma testimoni. Le parole di Gesù sono un fermento di vita: la Chiesa primitiva le trasmette soltanto avvolgendole nella sua propria vita (cfr. J. Dupont).
Nella modo di pensare e di vivere di Luca  per “povero” non si intende semplicemente chi è privo di mezzi, ma indica la situazione del mendicante trascurato, povero accanto a gente ricca, deriso: i piangenti e gli affamati sono sostanzialmente una ripetizione dei poveri. Più che a delle virtù (come invece Matteo) Luca sembra fare riferimento a delle situazioni di fatto, cioè alla moltitudine dei poveri che non hanno cercato la loro povertà e tuttavia sono chiamati a viverla. La quarta beatitudine (i perseguitati) è quella del discepolo, di colui che ha scelto di seguire Gesù, trovandosi coinvolto nel suo destino di persecuzione. Questa sintetiche spiegazioni fanno emergere un giudizio severo sul mondo ricco: un giudizio che si rafforza se si leggono i quattro guai: “Guai a voi ricchi, guai a voi che siete sazi, guai a voi che ora ridete, guai a voi che ora siete applauditi”.
Con le Beatitudini e i “guai” Cristo ci si presenta un altro criterio di valori. E mentre quella scala di valori che stiamo seguendo è esattamente il principio della violenza, della guerra, dell’uccisione, della morte, dell’uccisione dell’essere figli, dell’essere fratelli e dello sterminio dei beni della terra, non solo degli uomini, l’altro, invece, è il principio dell’amore, del dono, della solidarietà, della vita, della vita vivibile, dell’essere figli, dell’essere fratelli. 

2) “Beati i poveri, perché vostro è il regno di Dio” 
Se seguiamo la logica non cristiana, diciamo: “Beati i ricchi, beati i sazi, beati i gaudenti e beati gli onorati, i famosi. Chi dice il contrario è considerato come un pazzo o come uno che ha voglia di scherzare. 
Vediamo cosa vuol dire beato cristianamente parlando. Beato vuol dire: mi congratulo con te, hai vinto. Sei della parte giusta: beato te! Beato te: è forma di congratulazione. E Gesù si congratula con i poveri! Il vangelo di Luca in greco usa la parola “povero”. Il povero sarebbe il contrario del ricco. Il ricco è quello che ha tanto con poca fatica, idealmente senza fatica, molto di più allora. Il povero è quello che ha poco con tanta fatica. La parola usata in greco da Luca è “ptochoi”(=pitocco). Chi è il “pitocco”, è colui che ha niente ed ha tanta pena e che, quindi, vive di elemosina, vive di dono, vive di dipendenza. Di questi dice il motivo perché questi poveri sono beati: non perché sono poveri, ma perché “vostro è il Regno di Dio”. 
Questa beatitudine è al presente: il regno di Dio è già “vostro”. Cosa vuol dire che il regno di Dio è del pitocco, è del povero? Il regno di Dio è Dio stesso che regna sulla terra. Noi vediamo sulla terra che regnano i ricchi che dominano sugli altri. 
Ma Dio regna in un altro modo. Dio regna servendo perché è amore. E l’amore dona tutto fino a dar se stesso. E Dio è estremamente povero perché ama, dà tutto, fino a dar se stesso. 
Dio stesso è dono e il peccato è voler possedere il dono come ci pare e piace e così lo distruggiamo. Il dono è significativo perché è relazione con chi dona e, allora, non cadiamo nel feticismo, nell’idolatria delle cose. 
 Se viviamo del dono condividendolo, esso resta sempre dono e si ravviva. Se, invece, ci impossessiamo avidamente del dono, alla fine neghi la vita stessa che è dono. La vita è dono, tutte le cose fondamentali sono dono. Noi siamo chiamati a vivere di doni, come il povero. 
            L’accumulare è il far consistere il bene nelle cose, e credere che la nostra vita consiste nelle cose da tenere strette. Si diventa schiavi delle cose. Immoliamo la vita alle cose, i poveri muoiono di fame, i ricchi muoiono di di stress. Non è vita questa. 
Il desiderio delle cose ci divide gli uni dagli altri e ci distrugge. Per questo la povertà - come molto spesso fortunatamente Papa Francesco ci ricorda - è la cosa più sublime che ci sia da imparare oggi, per la salvezza del mondo. Altrimenti il mondo è perduto perché se tutti vogliamo possederci, alla fine ci distruggiamo. L’importante è capire la bellezza di questa povertà e capire  come ogni relazione vera è povera, perché non è un dominio sull’altro, perché l’altro non è un nostro possesso.
 Riceviamo l’altro gratuitamente, altrimenti che relazione é? E i figli sono amati gratuitamente, e il marito e la moglie si amano veramente quando si amano gratuitamente: uno  e dono per l’’altra e tutti e due sono un dono di Dio. 
A vivere e testimoniare questa vita di dono sono chiamate in modo particolare le Vergini consacrate e che con il dono totale di se stesse a Cristo Sposo diventano immagine concreta della Chiesa Sposa. Queste donne consacrate sono chiamate a vivere come la Vergine Maria: tenera e umile, povera di cose e ricca di amore. Consacrandosi, le vergini consacrate si riflette la natura della Chiesa, animata dalla carità tanto nella contemplazione quanto nell’azione; discepola e missionaria; protesa verso il compimento escatologico e allo stesso tempo partecipe delle gioie, delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini del proprio tempo soprattutto dei più fragili e poveri; immersa nel mistero della trascendenza divina e incarnata nella storia dei popoli” (Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica, Istruzione sull’Ordo Virginum,Ecclesiae Sponsae Imagon. 20).


venerdì 8 febbraio 2019

La vocazione è un dono dato con il perdono.


V Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 10 febbraio 2019

Rito Romano:
Is 6, 1-2.3-8; Sal 137; 1Cor 15, 1-11; Lc 5, 1-11

Rito Ambrosiano
Sir 18,11-14; Sal 102; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10
Ultima Domenica dopo l’Epifania detta «del perdono»
 


1) Da un incontro la vocazione.
Oggi le letture della Messa ci parlano di tre persone che hanno avuto un incontro vero, in cui è emersa la loro vocazione. Grazie all’incontro con Dio, Isaia si offrì di diventare Suo profeta, San Paolo accettò di esser il testimone del Vangelo a tutti i pagani e San Pietro aderì alla proposta di Cristo di diventare pescatore di uomini.
Per queste tre sante e vere persone quello del loro incontro con Dio non fu un giorno come un altro, per loro quel giorno fu come nessun altro: fu un avvenimento, che cambiò la loro vita e loro la misero a servizio di Dio.
E’ importante notare che in tutti e tre questi casi la vocazione fu per una missione di salvezza e che per Dio il peccato e la fragilità dei tre chiamati non furono un’obiezione alla chiamata che Lui faceva a loro. Li perdonò, li purificò e diede loro la forza per il compito a cui li invitava.
Tutti e tre ricevettero la pace del perdono e divennero missionari tra gli uomini, facendosi portavoce di Dio e del Suo Regno, che è regno di libertà, di giustizia, di verità, di pace e soprattutto di amore.
A Isaia che accolse il grido divino: «Chi manderò e chi andrà per noi?», il Signore cambiò il cuore perché potesse rispondere: «Ecco manda me». Questo grande profeta poté rispondere così perché il Serafino aveva purificato con il carbone incandescente le sue labbra. Ma questo gesto angelico è la conseguenza del fatto che Isaia aveva incontrato Dio ed aveva riconosciuto la sua condizione di peccatore.
A Paolo Cristo diede la sua grazia e gli disse “Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora.”(At. 26, 16b). Anche per l’Apostolo delle genti l’incontro con il Signore fu la condizione per cambiare il senso della vita e per viverla come missione. Da persecutore accanito Paolo divenne annunciatore infaticabile di Cristo.
A Pietro Gesù diede la forza salda come una pietra perché il primo degli apostoli lo seguisse senza cedimenti. Essendo stato co-protagonista della pesca miracolosa, Pietro disse a Gesù: “Signore, vattene via da me che sono peccatore. Non sono degno di avere un Santo nella mia barca” (cfr. Lc 5,8). Ma il Redentore gli rispose: “Non avere paura. Vieni con me, credi alla mia parola e ti farò pescatore di uomini” (cfr. Lc 5,10).E quell’umile pescatore di Galilea divenne colui che lavorò alla pesca degli uomini, tirandoli fuori dall’acqua avvelenata del peccato per metterli nell’acqua pura dell’amore di Cristo.
2) La vita come vocazione.
Lo stupore del miracolo, delle parole e soprattutto dell’incontro con Cristo non invase solo Pietro, ma tutti quelli che erano con lui per la pesca: in particolare Andrea, suo fratello, come pure Giacomo e Giovanni, soci di Pietro.
Gesù non era più solo. Quattro uomini, due coppie di fratelli che diventarono ancor più fratelli nella fede comune, lasciarono tutto, lavoro e famiglia, per diventare compagni di cammino di Cristo. Quattro poveri pescatori, quattro semplici uomini del lavoro, che non erano certo laureati furono chiamati da Gesù per condividere la sua missione di salvatore della grande famiglia umana.
Ma perché questi pescatori lasciarono tutto per seguire quest’Uomo che non prometteva né soldi né onori e parlava “solamente” di amore, di perfezione, di povertà e di gioia: “Beati i poveri, perché di loro è il Regno dei Cieli” ?
Lasciarono tutto, perché Cristo era diventato il centro affettivo della loro vita e solo Lui aveva parole di vita eterna. Lui è Vita della vita. L’incontro con Cristo aveva travolto la loro nullità. La scoperta di Cristo come centro di tutto eliminò la paura. Sperimentarono che chi segue Gesù non cammina nelle tenebre e si misero a servizio del Regno di Dio. Seguirono Cristo e vissero in comunità con Lui, che descriveva se stesso con la parabola del Buon Pastore, in cui la carità si manifesta in tutta la sua capacità di iniziativa, creatività e forza (cfr Lc 15, 4-6).
In breve, gli Apostoli accettarono la vita come vocazione e la missione di Cristo divenne la loro vocazione.

3) La vocazione di Zaccheo.
La profonda disponibilità di mettere la loro vita al servizio dell’amore di Cristo fu essenziale per capire la loro personale vocazione. Ma non sembra il caso di Zaccheo, di cui ci parla il vangelo ambrosiano di oggi (Lc 19,1-10).
Zaccheo era solo curioso di vederlo, non aveva intenzione di andare vicino a Cristo, anche perché essendo un pubblicano era accomunato con i peccatori e quindi non poteva accostarsi a un santo. Non sapeva ancora che Gesù era venuto a “chiamare” i peccatori, a dare loro la vocazione, cioè la proposta di essergli vicino per condividere la sua vita e la sua missione. Dunque, nel giorno in cui Cristo passava da Gerico questo uomo, attaccato ai soldi, salì su un albero per vedere il Messia, senza avvicinarsi.
E quel giorno per lui non fu un giorno come un altro. Fu il giorno dell’incontro tra lui e Cristo, che guardandolo con amore (Cristo ama i peccatori, è venuto per loro, quindi per noi) gli disse: “Oggi vengo a casa tua”. Chissà se Cristo non si è ispirato a Zaccheo per la parabola del fariseo e pubblicano, che non aveva il coraggio neanche di alzare gli occhi, pareva si vergognasse di comparire davanti al Signore, Sospirava e si picchiava il petto e non diceva altre parole che queste: “Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Forse per Zaccheo la domanda di perdono era implicita nel desiderio di vedere Gesù. Il resto lo fece il Signore, il cui sguardo salva. Lo sguardo di Cristo va oltre le apparenze, vede il cuore che anela risorgere. Non chiede a Zaccheo: “Cosa hai fatto?”, non gli rinfaccia il suo peccato. Lo chiama per chiedergli di essere ospitato in casa sua. E Zaccheo capisce che è una chiamata alla comunione con Gesù.
E’ naturale allora che quest’uomo si metta a disposizione dell’Uomo-Dio e della Sua missione messianica. Questo pubblicano “accolse Gesù con gioia” perché l’invito di Cristo aveva dato nuovo e vero senso alla sua vita. E imparò a guardare gli altri, come Gesù aveva guardato lui: fraternamente. Il prossimo non era più gente da sfruttare ma uomini con cui instaurare rapporti di giustizia, di perdono e, quindi, di fraternità vera.

4) La vocazione all’amore.
Questa nativa e fondamentale vocazione all'amore, propria di ogni uomo e di ogni donna, può realizzarsi pienamente nel matrimonio e nella verginità: essi sono «i due modi di esprimere e di vivere l'unico mistero dell'alleanza di Dio con il popolo» (Familiaris Consortio, n 11).
Il matrimonio e la verginità non sono in contrapposizione tra loro; sono piuttosto due doni diversi e complementari che convergono nell'esprimere l'identico mistero sponsale dell'unione feconda e salvifica di Cristo con la Chiesa.
Ma è importante ricordare che la Verginità è nella Chiesa la vocazione più alta, essa è il vertice dell’amore, è la risposta piena alla predilezione di Cristo, dentro la quale si guarda alle persone come le ha guardate Cristo. Di questo amore di predilezione le Vergini sono chiamata ad essere martiri (parola greca che vuole dire =testimoni), spose e madri nello spirito, capaci di dare la vita con passione perché Cristo sia conosciuto e l’incontro con lui cambi la vita.
«Voi che siete vergini per Cristo – esorta il Vescovo secondo il Rito di consacrazione dell’Ordo Virginum – diventerete madri nello spirito, facendo la volontà del Padre, cooperando con amore, perché tanti figli siano generati o ricuperati alla vita della grazia» (CV 29); «Il Signore Gesù Cristo / [...] renda feconda la vostra vita / con la forza della sua parola» (CV 56). «La Santa Madre Chiesa – si legge nell’omelia rituale – vi considera un’eletta porzione del gregge di Cristo; in voi fiorisce e fruttifica largamente la sua soprannaturale fecondità» (CV 29). In questo modo le Vergini consacrate collaborano alla pesca divina, generando e recuperando tanti figli e figlie alla vita di grazia e di amore portata da Cristo.



Lettura Patristica

DISCORSO 93
SULLE PAROLE DEL VANGELO DI MT 25, 1-13:

IL REGNO DEI CIELI SARÀ SIMILE ALLE DIECI VERGINI”

il testo integrale è su:

Ecco l’inizio:

Quali sono da intendere le dieci vergini della parabola.
1. 1. Voi che ieri eravate presenti vi ricordate che vi abbiamo fatto una promessa; ebbene oggi sarà adempiuta, con l'aiuto di Dio, non solo per voi ma anche per gli altri numerosi fedeli che si sono qui riuniti. Non è facile indagare quali sono le dieci vergini, di cui cinque sono prudenti e cinque stolte. Tuttavia attenendoci al contenuto dello stesso passo, che ho voluto fosse letto anche oggi alla Carità vostra, per quanto il Signore si degna di farmi capire, non mi pare che questa parabola o similitudine si possa riferire alle sole vergini che si chiamano così nella Chiesa per la loro particolare e più alta santità e che, con un termine più comune, siamo abituati a chiamare "Santimoniali", [ossia monache]; ma, se non vado errato, questa similitudine si riferisce a tutta quanta la Chiesa. D'altro canto, anche se intendessimo come vergini quelle sole che si chiamano "santimoniali", sono forse soltanto dieci? Dio non voglia che una sì grande moltitudine di vergini sia ridotta a un numero così piccolo! Qualcuno forse potrebbe dire: "E che dire se molte sono tali di nome ma tanto poche lo sono realmente da trovarsene appena dieci?". No, non è così. Poiché se il passo volesse farci intendere che solo dieci sono buone, non ci mostrerebbe tra esse cinque stolte. Se infatti sono molte quelle chiamate vergini, perché la porta del palazzo viene chiusa solo in faccia alle cinque stolte?
Le dieci vergini sono qualunque anima della Chiesa.
2. 2. Dovremo dunque, carissimi, intendere che questa parabola si riferisce a noi tutti, cioè assolutamente a tutta quanta la Chiesa, non ai soli superiori, dei quali abbiamo parlato ieri, né ai soli fedeli laici, ma a tutti assolutamente. Ma perché allora cinque vergini sagge e cinque stolte? Queste vergini, cinque sagge e cinque stolte, sono assolutamente tutte le anime dei cristiani. Ma, per dirvi ciò che pensiamo per ispirazione di Dio, non sono le anime di qualsiasi specie, ma le anime che hanno la fede cattolica e si vedono praticare le opere buone nella Chiesa di Dio, eppure di esse cinque sono sagge e cinque stolte. Prima dunque vediamo perché sono indicate come cinque e come vergini e dopo consideriamo il resto. Ogni anima nel corpo è denotata col numero cinque perché fa uso dei cinque sensi. Noi infatti col corpo non percepiamo alcuna sensazione se non attraverso una porta di cinque sportelli: o con la vista, o con l'udito, o con l'odorato, o col palato, o col tatto. Orbene, chi si astiene dal vedere, dall'udire, dall'odorare, dal gustare o dal toccare cose illecite, riceve il nome di vergine.
Non basta né la verginità, né le opere buone.
2. 3. Ma se è un bene astenersi dai moti illeciti dei sensi e perciò qualunque anima cristiana ha ricevuto il nome di vergine, per qual motivo cinque di esse vengono fatte entrare e cinque sono respinte? Sono vergini eppure sono respinte. Non basta che siano vergini, ma hanno anche le lampade. Sono vergini in quanto si astengono dalle sensazioni illecite, hanno le lampade in quanto fanno le opere buone. Di queste opere il Signore dice: La vostra luce risplenda davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro ch'è nei cieli 1. Ai discepoli dice ugualmente: Siate sempre pronti con la cintura ai fianchi e le lampade accese 2. Nei fianchi legati con la cintura è denotata la verginità, nelle lampade accese le opere buone.
È vergine ogni anima cristiana.
3. 4. È vero che non si è soliti parlare di verginità a proposito di persone coniugate, eppure anche nel matrimonio esiste la verginità della fedeltà, la quale produce la pudicizia coniugale. Mi spiego: perché la Santità vostra si convinca che ciascuno o ciascun'anima è chiamata, in modo non inopportuno, vergine in relazione ai sentimenti intimi e all'integrità della fede, con cui ci si astiene dalle cose illecite e si compiono le opere buone; [ricordatevi che] tutta la Chiesa, formata di ragazze e ragazzi, di donne maritate e di uomini ammogliati, è chiamata con il nome di vergine al singolare. Come proviamo quest'affermazione? Ascolta l'Apostolo che dice, non solo alle donne consacrate a Dio, ma assolutamente a tutta la Chiesa: Vi ho promessi in matrimonio a un solo sposo, a Cristo, per presentarvi a lui come una vergine pura 3. E poiché bisogna tenersi lontani dal diavolo ch'è il corruttore di tale verginità, lo stesso Apostolo, dopo aver detto: Vi ho promessi in matrimonio a un solo sposo, a Cristo, per presentarvi a lui come una vergine pura, soggiunge subito e dice: Temo però che, come il serpente con la sua malizia ingannò Eva, così i vostri pensieri vengano traviati dalla purezza riguardo a Cristo 4. Quanto al corpo sono pochi ad avere la verginità, ma tutti debbono averla nel cuore. Se dunque è cosa buona l'astensione dalle azioni illecite, e da ciò ha preso nome la verginità, e sono lodevoli le opere buone simboleggiate dalle lampade, perché mai sono fatte entrare solo cinque e le altre cinque sono respinte? Se uno è vergine e porta le lampade e tuttavia non vien fatto entrare, dove potrà veder se stesso chi non conserva la verginità astenendosi dalle cose illecite e, trascurando di praticare le opere buone, cammina nelle tenebre?
Oltre alla continenza e alle opere buone si richiede la carità.
4. 5. Di costoro, dunque, fratelli miei, di costoro piuttosto cerchiamo di trattare. Chi non vuol vedere né udire ciò ch'è male, chi distoglie l'odorato dagli effluvi illeciti che esalano dai sacrifici pagani e il palato dagli illeciti cibi dei sacrifici, chi fugge l'amplesso con la donna d'altri, spezza il pane agli affamati, ospita in casa i forestieri, veste gl'ignudi, mette pace tra i litiganti, visita i malati, dà sepoltura ai morti: ecco chi è vergine, chi ha le lampade. Che cosa vogliamo di più? Desidero qualcosa di più. "Che cosa vuoi ancora?" si dirà. Desidero ancora qualcosa. Ha destato la mia attenzione il santo Vangelo. Le stesse vergini che portavano anche le lampade, alcune le chiama sagge, altre stolte. Ma come possiamo discernerle? da che cosa possiamo distinguerle? Dall'olio. L'olio è il simbolo di qualcosa di grande, di molto importante. Non è forse la carità? Questa che vi faccio è una domanda, anziché un'affermazione precipitosa. Vi dirò perché mi pare che l'olio sia simbolo della carità. L'Apostolo dice: Io v'indico una via più sublime 5. Quale via più sublime addita? Se sapessi parlare le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come una campana che suona o un tamburo che rimbomba 6. Ecco la via più sublime, cioè la carità, che a giusto titolo è simboleggiata dall'olio. L'olio infatti rimane al di sopra di tutti i liquidi. Se si mette dell'acqua in un vaso e vi si versa sopra dell'olio, l'olio rimane alla superficie. Se ci metti olio e vi versi sopra acqua, l'olio rimane a galla. Se lo lasci al suo posto naturale l'olio sta sempre al di sopra; se tu volessi cambiare la sua posizione naturale tornerebbe sempre a galla. La carità non cadrà mai 7.

venerdì 1 febbraio 2019

Profeta non è chi predice il futuro ma chi dice la verità che l'amore di Dio gli ha rivelata.

IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 3 febbraio 2019

Rito romano
Ger 1,4-5.17-19; Sal 70; 1 Cor 12,31-13,3; Lc 4,21-30

Rito ambrosiano
Penultima Domenica dopo l’Epifania
Dn 9,15-19; Sal 106; 1Tm 1,12-17; Mc 2,13-17
Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre

1) Una premessa sulla voce: il profeta, e sulla Parola: Gesù.
I brani di oggi, il racconto di Geremia e l'esperienza di Gesù nel Vangelo (nel Rito Romano), mettono in risalto la vocazione e l'opera del profeta che parla della vita dell'uomo secondo il progetto di Dio e della sua realizzazione.
Quindi, penso che sia utile - come premessa - ricordare che il termine profeta deriva dal greco προφήτης (pronuncia: profétes), che è parola composta dal prefisso προ- (pro, “davanti, prima”, ma anche “per”, “al posto di”) e dal verbo φημί (femì, “parlare, dire”). Letteralmente quindi significa “colui che parla davanti” o “colui che parla per, al posto di” , sia nel senso di parlare “pubblicamente” (davanti ad ascoltatori), sia in quello di parlare “prima” (anticipatamente sul futuro).
E’ altrettanto utile sapere che il termine ebraico che designa il profeta, “nabi”, può significare sia “colui che è chiamato”, sia “colui che parla”: in questo duplice significato è inscritto tutto il senso della missione del profeta: un chiamato che diventa un porta-voce, un “porta-parola”, un servo della Parola di Dio. Inoltre Il profeta non è chiamato semplicemente a parlare in nome di Dio, ma a viverne l’amore divenendo profeta del Cuore di Dio, che è misericordia.
Il profeta non è la variante biblica dell’indovino, perché non ha lo scopo di comunicare gli avvenimenti di domani e così mettersi al servizio della curiosità o del bisogno di sicurezza degli uomini.
L'elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro. Pertanto non si tratta di predire l'avvenire nei suoi dettagli, ma di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare il cammino da prendere”. (Joseph Ratzinger, Intervista con Niels Christian Hvidt, 1997).
Per questo Cristo è il Profeta rivelatore definitivo (cfr Ebr. 1, 1-2) ed eminente. Egli non solo ci conduce a Dio attraverso la Parola e la Legge, ma ci assume in sé con la sua vita e la sua Passione, e con l'Incarnazione fa di noi il suo Corpo Mistico. Ciò significa che, nelle sue radici, la profezia è presente e continua nella Chiesa, popolo di Dio regale, sacerdotale e profetico (cfr Lumen Gentium, 12).


2) Un porta-voce e la Parola.
Cristo era veramente un profeta differente da quelli precedenti. Anche da Geremia (cfr I lettura di oggi), a cui il Nuovo Testamento allude mostrando le numerose corrispondenze tra lui e Gesù. Come l'antico profeta (Ger 11,18) anche Cristo, nella sua patria di Nazareth, viene contestato dai propri concittadini (Lc 4,29).
La delicatezza di Geremia (Id. 1,6), poi, lo avvicina al Gesù descritto da San Luca. Come Gesù (Id 23), questo profeta attaccò i detentori del potere religioso (Id 26,28) e il tempio (Id. 7,11 e Mt 21,13). Sono celibi entrambi, ed entrambi amanti dei semplici e dei puri di cuore (Ger 35). Flagellato (Id. 20,2), il profeta è condotto come agnello (Id. 11,19) alla sua passione. E persino il suo lamento su Gerusalemme (Id. 32,28), infine, si potrebbe accostare al pianto di Gesù sulla città prediletta (Mt 23,37).
Ma mentre Geremia era un porta-voce, che portava la Parola di Dio, un messaggero che si rivolgeva a chi aveva smarrito la via, Gesù Cristo è la Parola di Verità, che è Via che conduce alla vita.
Il lieto Messaggio del “profeta” Cristo è Lui stesso, fiore che germoglia a Nazareth (= giardino), frumento che si fa pane di vita e di misericordia a Betlemme (=Città del pane), sguardo che legge nel cuore tanto è penetrante, voce che scaccia il diavolo tanto è potente, parola che incanta i bambini tanto è dolce, agnello che porta il peccato e che assolve i peccatori tanto è forte di grazia e perdono.
L’insegnamento di Gesù era affascinante e autorevole e la gente accorreva ad ascoltarlo, ovunque Lui si trovasse, in una sinagoga (cfr il Vangelo del rito romano Lc 4, 21-30) o in riva al mare (cfr il Vangelo del rito ambrosiano Mc 12, 13-17).
Ma che cosa insegnava Gesù? Insegnava Dio. Annunciando la Buona Novella, parlava di Dio, ma ne parlava in modo nuovo. Ne parlava partendo dalla sua esperienza, dall’esperienza che lui stesso aveva di Dio e della vita. Gesù viveva in Dio. Egli rivelava un Dio che è Giudice di misericordia, un Dio che è vicino, sempre. Cristo, l’Uomo che vive tra gli uomini per rivelare il Cuore di Dio, è profeta della felicità (cfr le Beatitudini).


3) Profeti piccoli, non minori.
Se come Geremia, il profeta più solo e tra i profeti il più simile a Cristo (almeno secondo me), risponderemo alla nostra vocazione dicendo a Dio Padre: “Mi hai sedotto ed io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7), anche noi saremo profeti, magari non grandi, non famosi, ma non meno importanti. Noi cristiani siamo chiamati ad essere profeti – non importa se piccoli o grandi -, l’importante è che siamo veri testimoni di Gesù, Profeta del Volto di Dio.
Se stiamo davanti a Dio con la semplicità dei bambini e la domanda del povero, vivremo il Vangelo e ci accorgeremo che altri “vangeli piccoli”, altre buone notizie apparentemente poco rilevanti sono, con Cristo, tra noi: la bontà dei nostri familiari e amici, la bellezza seminata nella valli e nelle montagne, sui mari e nelle foreste. Anche questo, come i gigli del campo e l’acqua trasformata in vino, fa parte del Vangelo cioè della lieta Notizia che Cristo è il Redentore dell’uomo e del cosmo, che l’incarnazione ha fatto della Parola una presenza di verità e di salvezza.
Il grande pittore Van Gogh diceva che amava guardare i bambini nella culla, perché i loro occhi innocenti riflettono il cielo. Se diventeremo come bambini potremo avere aver gli occhi pieni di cielo e sguardi di Vangelo, allora scorgeremo la presenza evangelica di Cristo nelle piccole e grandi cose della vita, e diventeremo suoi profeti.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega “Il popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo. Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il popolo, laici e gerarchia, quando « aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi » e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo” (CCC, n 785).
Dentro questo popolo ci sono persone che sono chiamate in modo particolare a vivere questa dimensione profetica nel quotidiano, in ciò che più che storia sembra polvere di storia: si tratta delle Vergini Consacrate.
Il matrimonio è un grandissimo valore, ma la verginità è una profezia tale che, lungi dall'essere contro gli sposati, è invece anzitutto per loro, a loro beneficio. Ad essi ricorda che il matrimonio è santo, è bello, è creato da Dio e redento da Cristo, è immagine dello sposalizio tra Cristo e la Chiesa, ma che non è tutto. Con una chiamata particolare Dio chiama queste donne consacrate a vivere una più grande intimità con Lui e ad essere nel mondo le testimoni profetiche di questa presenza divina mediante la verginità.
Mi sembra che questo sia uno dei compiti principali della verginità consacrata. E in ciò sono di conforto
  • San Cipriano (n. ca 210 – m. 258) che alle prime vergini cristiane scriveva: “Voi avete cominciato a essere ciò che noi tutti un giorno saremo” (S. Cipriano, Sul comportamento delle Vergini, cap. 1),
  • il Rituale della Consacrazione delle Vergini che dice: “Il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo” (dalle Premesse al Rito di Consacrazione, n. 2, 1970) e
  • il Papa emerito Benedetto XVI che afferma: “La vita consacrata è chiamata a tale testimonianza profetica, legata alla sua duplice attitudine contemplativa e attiva. Ai consacrati e alle consacrate è dato infatti di manifestare il primato di Dio, la passione per il Vangelo praticato come forma di vita e annunciato ai poveri e agli ultimi della terra. “In forza di tale primato nulla può essere anteposto all’amore personale per Cristo e per i poveri in cui Egli vive. ... La vera profezia nasce da Dio, dall’amicizia con Lui, dall’ascolto attento della sua Parola nelle diverse circostanze della storia” (Giovanni Paolo II, Esortazione post-sinodale ‘Vita Consecrata’, 84). In questo modo la vita consacrata, nel suo vissuto quotidiano sulle strade dell’umanità, manifesta il Vangelo e il Regno già presente e operante” (Benedetto XVI, Omelia per i Vespri – Festa della Presentazione di Gesù al Tempio, 2 febbraio 2011).
  • Papa Francesco insegna: “La la vita consacrata ha -come nota caratteristica- la profezia. Le persone consacrate i seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. È questa la priorità che adesso è richiesta: «essere profeti che testimoniano come Gesù ha vissuto su questa terra … Mai un religioso deve rinunciare alla profezia.Il profeta riceve da Dio la capacità di scrutare la storia nella quale vive e di interpretare gli avvenimenti: è come una sentinella che veglia durante la notte e sa quando arriva l’aurora (cfr Is 21,11-12). Conosce Dio e conosce gli uomini e le donne suoi fratelli e sorelle. È capace di discernimento e anche di denunciare il male del peccato e le ingiustizie, perché è libero, non deve rispondere ad altri padroni se non a Dio, non ha altri interessi che quelli di Dio. Il profeta sta abitualmente dalla parte dei poveri e degli indifesi, perché sa che Dio stesso è dalla loro parte”(Lettera apostolica sulla vita consacrata, 24 novembre 2014)




Lettura Patristica
 
S. Ambrogio alle Vergini
Tu che sei una di quelle vergini che fanno risplendere d'una luce spirituale la bellezza stessa del loro corpo; tu che giustamente sei paragonata alla Chiesa, tu, dico, che vegli durante la notte nella tua stanza: pensa sempre a Cristo e spera a ogni istante la sua venuta. Cristo entra a porte chiuse e non può mancare di venire perché l'ha promesso. Abbraccia dunque colui che hai cercato; avvicinati e ne sarai illuminata. Trattienilo. Pregalo di non partire subito, di non allontanarsi. La parola di Dio se ne va rapida; non si lascia prendere dai sonnolenti, né ritenere dai negligenti. La tua anima le vada incontro. Segui le tracce della parola divina poiché passa via rapidamente. [...] Colei che cerca così Cristo, può dire: Lo abbracciai e non lo lascerò più finché non lo introdurrò alla casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha generata (Ct 3,4). La casa di tua madre o la sua stanza è l'intimità più segreta del tuo cuore. Conoscila questa casa e tienila pulita. Quando sarà pulita e la tua coscienza sarà pura da ogni macchia, questa casa spirituale si innalzerà poggiata sulla pietra angolare e lo Spirito Santo abiterà in lei. Chi cerca così Cristo e lo prega, non è abbandonata, ma, al contrario, viene spesso da lui visitata.
(da Ambrogio, La verginità, 12-13)