sabato 26 dicembre 2015

Il Vangelo della Famiglia

Domenica fra l’Ottava di Natale:
La Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe - Anno C - 27 dicembre 2015

Rito Romano

Rito Ambrosiano
1Gv 1,1-10; Sal 96; Rm 10,8c-15; Gv 21,19c-24
III giorno dell’ottava di Natale – San Giovanni Apostolo ed Evangelista


1) Da un Tempio all’altro.
A pochissimi giorni dalla Solennità del Santo Natale, la liturgia di oggi ci fa celebrare la Santa Famiglia di Nazareth. In questo modo siamo invitati a contemplare e imitare la vita della famiglia “terrena” di Gesù. Cosa vediamo? Il Vangelo di San Luca ci fa mostra che in questa singolare famiglia non emerge solamente la figura del Figlio di Dio, la Persona divina che assume totalmente l'umanità delle Sue creature, il Dio con noi, il Principe della Pace. L’evangelista pone in evidenza la Mamma di Gesù, Maria, e Giuseppe, lo sposo di lei, collaboratore del disegno di salvezza per gli uomini e “custode della Redenzione” (S. Giovanni Paolo II).
Come può una famiglia così unica essere di modello per le nostre famiglie. E’ un nucleo familiare solo apparentemente simile a tutte le altre, ma così irripetibile che ci spinge a pensare che è inimitabile: un Figlio che è Dio, una mamma che è la Vergine Immacolata, e un papà che è il giusto per eccellenza.
E cosi Gesù, il Dio fatto uomo, ci dà un esempio di figlio, all'interno della sua famiglia, per diventare modello per tutte le famiglie di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Gesù non ebbe fretta nel presentarsi come Messia. In una piccola cittadina della periferia dell’Impero romano, nel nascondimento di una semplice famiglia questo Figlio visse una vita normale, ma crescendo in grazia e spirito, fino al momento in cui giunse l’ora di iniziare la missione che il Padre gli aveva affidato: una missione che lo porterà alla morte e alla resurrezione, facendo di noi, da un popolo senza domani, un popolo chiamato a seguirlo nella santità e nella gioia della pienezza della Vita, oggi e per sempre.
Guardando alla Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, credo che le nostre famiglie siano spinte ad essere sempre di più “piccole chiese domestiche”, dove Dio è presente e dove si impara a vivere, camminando alla Luce del Vangelo, la Buona Novella, come sola guida sicura, in un mondo che ha perso lo sguardo sulla Luce del Cielo e guarda solo alle luci della Terra.
Ai genitori che lo cercavano da tre giorni Gesù risponde che loro dovevano sapere che il cammino della sua vita era quello di fare ciò che sta a cuore a suo Padre,. Quindi era rimasto per tre giorni nel tempio di suo Padre, occupandosi appunto delle cose del Padre suo (cfr Lc 2, 49). Poi, siccome il Vangelo è da vivere nella quotidianità della vita, ritorna con Maria e Giuseppe nella quotidianità di Nazareth. Scese con i genitori a Nazareth e stava loro sottomesso. Lascia il Tempio per il “tempio domestico”, dove tutto era organizzato per la Sua presenza divina e dove la Sua umanità cresce in sapienza e grazia.
Il Redentore ha lasciato i maestri della Legge che insegnavano nel Tempio di Gerusalemme, per stare con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita in quella scuola speciale che è la loro casa a Nazareth. Il Figlio di Dio impara da loro l’arte di essere uomo. Guarda la mamma Maria che è teneramente forte, ma mai passiva. Guarda Giuseppe, il padre legale di Gesù, il padre putativo che ebbe “per speciale dono del Cielo, tutto quell'amore naturale, tutta quell'affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere” (frase di Papa Pio XII citata nella Redemptoris Custos, n. 8).



2) La Santa Famiglia come scuola e modello reale e non solo ideale della famiglia.
Una vita semplice, quella di Gesù, Maria e Giuseppe, che tanto assomiglia alle nostre. Maria è la mamma, come le nostre mamme, attenta e vigile, ma soprattutto, in quanto Immacolata e quindi tutta di Dio, avrà educato il figlio al vero senso della vita, che è compiere la missione che il Padre gli aveva affidato, inviandolo tra di noi. Quindi la Casa di Nazareth non fu una scuola solamente per Gesù, ma lo è anche per noi, come insegna il B. Papa Paolo VI: “La casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare” (Omelia a Nazareth, 5 gennaio 1964).
Il Vangelo di San Luca ci racconta la vita quotidiana e santa di Giuseppe e Maria che nella loro esitazione, nei loro interrogativi, nei loro atteggiamenti, nella loro debolezza, lungi dalla perfezione e dall’ideale, assomigliano a tanti genitori. Al tempo stesso sono il modello reale e originario di famiglia, dove coesistono verginità, sponsalità e genitorialità. Ora, agli sposi cristiani il Signore chiede che, mediante la loro unione, si realizzi il duplice fine del matrimonio: il bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita. Non si possono disgiungere questi due significati o valori del matrimonio, senza alterare la vita spirituale della coppia e compromettere i beni del matrimonio e l'avvenire della famiglia. Agli sposi cristiani è chiesto di vivere nella castità matrimoniale. A questo riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: “Gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono onorevoli e degni, e, compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano, ed arricchiscono vicendevolmente in gioiosa gratitudine gli sposi stessi” [cfr Gaudium et spes, 49]” (n. 2362).
La verginità, però, in senso proprio, appartiene ai consacrati e rimanda all’eternità. Ma la verginità è pure costitutiva della famiglia originaria, quindi esiste un indissociabile legame tra gli sposi cristiani ed i consacrati per il Regno di Dio e questo legame è nella Santa Famiglia di Nazareth.
Le vergini consacrate nel mondo testimoniano che la verginità non è non avere affetti, anche se implica il rinunciare a una famiglia carnale, al rapporto fisico, per essere totalmente disponibili al compito di fecondità spirituale, ma concreta, al quale il Signore le ha chiamate. Cristo è al cuore del matrimonio cristiano e le vergini consacrate testimoniano che se si da tutto a Cristo la vita è davvero feconda. Come la Vergine Maria custodiscono nel loro cuore un mistero più grande di loro, lo portano nel mondo.
Sant’Agostino acutamente insegna l’importanza della maternità spirituale non in contrasto con maternità carnale: “La Chiesa ricopia gli esempi della madre del suo Sposo e del suo Signore, ed è, anche lei, madre e vergine. Se infatti non fosse vergine, perché tanto preoccuparci della sua integrità? E, se non fosse madre, di chi sarebbero figli coloro ai quali rivolgiamo la parola? Maria mise al mondo fisicamente il capo di questo corpo; la Chiesa genera spiritualmente le membra di quel capo. Nell’una e nell’altra la verginità non ostacola la fecondità; nell'una e nell'altra la fecondità non toglie la verginità. La Chiesa è, tutt’intera, santa nel corpo e nell'anima, ma non tutta intera è vergine nel corpo, anche se lo è nell’anima. Di quale santità non dovrà dunque rifulgere in quelle sue membra che conservano la verginità nel corpo e nell'anima? Un giorno - racconta il Vangelo - la madre e i fratelli di Gesù (cioè i suoi cugini) si fecero annunziare, ma rimasero fuori casa perché la folla non permetteva loro di avvicinarsi [al Maestro]. Gesù uscì in queste parole: Chi è mia madre? e chi sono i miei fratelli? E stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: Ecco i miei fratelli! Poiché, chiunque fa la volontà del Padre mio, questi è mio fratello e madre e sorella” (La Santa Verginità, 2.2-3.3).
Le Vergini consacrate mostrano che l’esempio di Maria, Vergine e Madre, è attuale e praticabile anche oggi e sono chiamate a vivere una maternità di Grazia.
Maria ha aperto la strada a tutte le donne che, al suo seguito, accoglieranno la chiamata divina a dare tutto il loro cuore al Signore nella verginità. Certo, non sono chiamate solo le donne alla vita verginale; va ricordato che Cristo si è impegnato egli stesso in questa via e vi ha impegnato anche i suoi apostoli.
Tuttavia, l’espressione “sposarsi con Dio”, conviene di più alla donna. Le vergini cristiane sono state considerate, fin dall'antichità, come spose di Cristo. Si può dire che esse rappresentano, nella maniera più appropriata e più completa, la qualità di sposa di Cristo che si attribuisce alla chiesa. Nelle vergini consacrate si personifica questa relazione di sposa con il Cristo.

Lettura Patristica
Origene
In Luc., 19, 2-7


       Dice il Vangelo che «cresceva». Si era infatti "umiliato assumendo la natura del servo" (Ph 2,7), e con la stessa potenza con la quale «si era umiliato» cresce. Era apparso debole, perché aveva assunto un corpo debole, ed è proprio per questo che nuovamente si fortifica. Il Figlio di Dio si era umiliato e per questo è poi ricolmato di sapienza. «E la grazia di Dio era su di lui». Egli aveva la grazia di Dio non quando raggiunse l’adolescenza, non quando insegnava apertamente, ma anche quando era ancora fanciullo; e come ogni cosa in lui era ammirabile, così lo fu anche la sua fanciullezza, fino al punto da possedere la pienezza della sapienza di Dio.

       "Andavano dunque i suoi genitori, secondo la consuetudine, a Gerusalemme per celebrare il giorno della Pasqua. Gesù aveva dodici anni" (Lc 2,41-42). Osserva con attenzione che, prima di aver compiuto i dodici anni, era ricolmato della sapienza di Dio e degli altri doni di cui si parla nel Vangelo. Quando ebbe dunque compiuto - come abbiamo detto - i dodici anni, e furono celebrati, secondo il costume, i giorni della solennità, e quando i parenti erano sulla via del ritorno, "il fanciullo rimase a Gerusalemme senza che i suoi genitori se ne accorgessero" (Lc 2,43). Comprendi che qui c’è qualcosa di sublime che varca i limiti della natura umana. Infatti non «rimase» semplicemente mentre i suoi genitori non sapevano dove fosse; ma, allo stesso modo in cui nel Vangelo di Giovanni (cf. Jn 8,59 Jn 10,39) è detto che allorquando i Giudei lo insidiavano egli sfuggì di mezzo a loro senza farsi vedere, così credo che ora il fanciullo sia rimasto a Gerusalemme, mentre i suoi genitori non sapevano dove fosse rimasto. E non dobbiamo stupirci di sentir chiamare genitori coloro che avevano meritato il titolo di madre e padre, l’una per averlo partorito, e l’altro per la devozione paterna.

       Continua: «Noi ti cercavamo addolorati». Non credo che essi si siano addolorati perché credevano che il fanciullo si fosse perduto o fosse morto. Non poteva accadere che Maria, la quale sapeva di averlo concepito dallo Spirito Santo, che era stata testimone delle parole dell’angelo, della premura dei pastori e della profezia di Simeone, nutrisse il timore di aver perduto il fanciullo che si era smarrito. Si deve assolutamente scartare un simile timore dalla mente di Giuseppe al quale l’angelo aveva ordinato di prendere il fanciullo e di andare in Egitto, di Giuseppe che aveva sentito le parole: "Non temere di prendere Maria in sposa, perché colui che è nato da lei è frutto dello Spirito Santo" (Mt 1,20): non poteva temere di aver perduto il fanciullo, che sapeva essere Dio. Il dolore e la sofferenza dei genitori ci suggeriscono un senso diverso da quello che può intendere il lettore comune.

       Così come tu, se qualche volta leggi la Scrittura, ne cerchi il significato con dolore e tormento, non perché pensi che la Scrittura abbia sbagliato, oppure che essa contenga qualcosa di falso, ma perché essa ha in sé una verità spirituale e tu non sei capace di scoprire questa verità; ebbene è proprio in questo modo che essi cercavano Gesù, temendo che egli si fosse allontanato da loro, che li avesse abbandonati e fosse andato altrove, e che -questa soprattutto è la mia opinione - fosse tornato in cielo per discenderne di nuovo un’altra volta quando gli fosse piaciuto.

       «Addolorati», dunque, cercavano il Figlio di Dio. E cercandolo, non lo trovarono «tra i parenti». La famiglia umana non poteva infatti contenere il Figlio di Dio. Non lo trovarono tra i conoscenti, perché la potenza divina sorpassa qualsiasi conoscenza e scienza umana. Dove lo trovano dunque? «Nel tempio»; lì si trova infatti il Figlio di Dio. Quando anche tu cercherai il Figlio di Dio, cercalo dapprima nel tempio, affrettati ad andare nel tempio, ed ivi troverai il Cristo, Verbo e Sapienza, cioè Figlio di Dio.

       Siccome era ancora piccolo, è trovato «in mezzo ai dottori» mentre li santificava e li ammaestrava. Siccome, ripeto, era piccolo, egli sta «in mezzo» a loro, non insegnando, ma interrogando, e fa così perché noi, considerando la sua età, apprendiamo che ai fanciulli conviene - anche se sono sapienti ed eruditi - ascoltare i maestri piuttosto che voler insegnare loro, evitando cioè di mettersi in mostra con vana ostentazione. Interrogava i maestri - io dico - non per imparare qualche cosa, ma per istruirli interrogandoli. Dalla stessa sorgente della dottrina derivano infatti sia l’interrogare che il rispondere sapientemente; è caratteristica della stessa scienza sapere che cosa chiedere e che cosa rispondere. Era necessario che dapprima il Salvatore c’insegnasse come porre sagge domande, e poi come rispondere alle questioni secondo la sapienza e la Parola di Dio.



mercoledì 23 dicembre 2015

Natale di Luce: La luce fatta Uomo per dare luce al cuore dell’uomo.

Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
Messa di Mezzanotte
25 dicembre 2015

1) Di notte, in una grotta, la Vergine Maria dà alla luce la Luce.
Il primo Natale1 di Gesù fu celebrato in grotta utilizzata come stalla, perché Dio ha voluto entrare nel mondo dal punto più basso. In questo modo nessun essere umano è più in basso di lui e, a partire da chi è più in basso, tutti sono raggiunti dal Suo abbraccio di luce, di amore e di pace. Sì, il Figlio di Dio nasce per noi in una stalla a Betlemme. Lui, che è luce pura, splendore della verità e dell’amore, comincia a splendere in un umile, povera, vera stalla. Il primo luogo dove il Figlio di Dio fatto Uomo è accolto è dove l’uomo mette gli animali. Una stalla con paglia e fieno e con l’odore acre e sgradevole che tanto esprime la nostra piccolezza di fronte alla grandezza di Dio. Un Dio che non ha paura di farsi avvolgere da quegli odori e che accoglie ogni uomo nella sua debolezza e fragilità. Questa stalla reale diventa un’abitazione regale, dove il neonato Re dei re è accolto. Questo piccolo, che è armato della sua Innocenza, è deposto nella mangiatoia, segno del destino di questo Bambino che si fa pane per essere mangiato dagli uomini.  
Andiamo anche noi con la mente e con il cuore a Betlemme (che vuol dire Casa del Pane). Questo bambino è stato “messo” in una mangiatoia. Mi pare che questo segno abbia anche questo significato: Gesù neonato “mette” fra noi la presenza delicata e pacificante di Dio, perché Lui è il Dio fra noi, Lui è l’Emmanuele, , il “Dio con noi” per sempre. 
E’ un bambino avvolto in fasce, che non può fare niente. E’ un infante (=non parlante), che  non può dire niente: “può” solamente essere presente. Non è un’utopia, è una presenza, che porta la pace senza imporla con le armi: questo Bambino è Dio potente, ma disarmato. 
E’ pacificante e disarmato il Figlio di  Dio: Gesù (che vuol dire Dio salva) ci salva per mezzo della sua mitezza e umiltà, che il mistero del suo Natale in una stalla esprime molto bene. 
E’ nostro Fratello: “Gesù neonato è nostro fratello di sangue”(Card. Albert Vanhoye, S.I.), dunque, la sua presenza è una presenza fraterna. Gesù ci dona questa presenza fraterna, che ci riconcilia con la nostra modesta esistenza quotidiana e ci riconcilia con gli altri. Investire in fraternità è l’unico investimento che produce una vera crescita umana.
E così il sogno utopico dell’umanità cominciato nel Paradiso terrestre - quello di voler essere come Dio, di potere tutto e di non morire - si realizza in modo inaspettato non per la grandezza dell’uomo che non può farsi Dio, ma per l’umiltà di Dio che scende e così entra in noi nella sua umiltà e ci eleva alla vera grandezza del suo essere.
Nel silenzio della notte, lontano dai rumori e dalle luci della mondanità, raccogliamoci per scorgere la luce della salvezza che inizia. Con le orecchie del cuore ascoltiamo l’invito degli angeli a riconoscere che il nostro Dio è Luce vera e Vita d’Amore e vuole indicarci la sua Via per raggiungerla. Allora anche noi ci uniremo al canto degli Angeli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”.

2)Scossi dalla luce e dal canto degli Angeli.
La notte del primo Natale fu illuminata da luce e canti. Ma prima che ciò accadesse, per Maria e Giuseppe dovette certamente comportare turbamento e insicurezza il fatto di trascorrere la notte a Betlemme, cittadina periferica dell’Impero romano, in una grotta-stalla, perché non c’era posto nell’albergo. Ma è corretto pensare che tali sentimenti siano scomparsi man mano che cresceva in loro la gioia portata dal Bambino Gesù, che si trovavano ad accogliere in un luogo così povero e periferico.
Scossi dalla luce e dal canto angelico, anche i pastori furono sorpresi dalla gioia. Quella notte che doveva essere di sorpresa e turbamento divenne notte di luce, di gioia e contentezza inesprimibili, quando arrivarono trafelati alla mangiatoia. Hanno dato ascolto all’annuncio degli angeli non per ubbidire a un comando, ma per esigenza di infinito del loro cuore. Il cielo e la terra finalmente si incontravano.
Raggiunta la grotta, i pastori videro il Bambino e credettero. Lo guardarono con gli occhi e contemplarono con il cuore puro, semplice e povero, è così seppero riconoscere negli occhi del Neonato quelli di Dio, nella Sua fame quella di Dio, nelle Sue manine tese le mani tese di Dio verso di loro. E perciò i pastori fecero festa perché era loro “apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri umani e a vivere con sobrietà, pietà e giustizia in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nuovo grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tito 2, 11-14).
Anche noi siamo invitati a fare festa e che ogni nostra festa provi ad assomigliare a quella in cui i pastori, uomini semplici e poveri, si sono rallegrati con Giuseppe e Maria per la nascita di quel bambino che è venuto a portare la gioia e la pace nel mondo. La luce festosa del Bambino non sta semplicemente davanti a loro ma li avvolge, entra nella loro vita, essi accolgono quell’annuncio che non è per loro soli, ma è una luce che è per tutto il popolo. Custodi di un gregge ora sono custodi di un mistero da conoscere e poi irradiare a tutti. Imitiamoli.
Come imitarli ci è detto dalle letture della Messa della Notte, citate all’inizio. I testi sacri della liturgia ci dicono che quando si ascolta la Parola e la si accoglie come hanno fatto la Madonna, Giuseppe e i pastori, la fede ci guida nelle tenebre. Se questa Parola poi è calata nella nostra vita, essa ci fa muovere come accadde la notte del primo Natale. Questo cammino si trasforma in un incontro che nella notte di Natale diventa vero, perché il Verbo si è fatto carne, ma non come possiamo immaginare noi, ma in un bambino piccolo e fragile che deve crescere.
Il brano di Isaia ci parla di una grande “luce”, che è scesa sulla terra. Il Profeta ci presenta la figura di un liberatore che reca con sé i doni della luce, della gioia e della liberazione, per un popolo che è nelle tenebre e non ha più speranza. Finalmente quella luce è arrivata: è nato il figlio di Dio, Gesù, venuto a portare la gioia e la pace, che devono nascere in primo luogo nel nostro cuore per poi propagarsi a tutti quelli che incontriamo ogni giorno in famiglia, negli ambienti di lavoro, nelle nostre comunità, nella Chiesa. 
Dio, che si è fatto come noi per farci come lui, ci offre questo bambino che è fratello nostro; noi dobbiamo riconoscerlo, amarlo, curarlo, sostenerlo e lasciarlo tra noi e in noi. Oggi il Verbo si fa carne per aiutarci a crescere ogni giorno.
Colui che nel prologo del suo Vangelo San Giovanni chiama in greco “O Logos” – tradotto in latino “Verbum” e in italiano “il Verbo” - significa anche “il Senso”. Quindi potremmo intendere l’espressione di Giovanni così: il “Senso eterno” del mondo si è fatto tangibile ai nostri sensi e alla nostra intelligenza: ora possiamo toccarlo e contemplarlo” (Benedetto XVI). Il “Senso o Significato” si è fatto carne. Non si tratta di un’idea per spiegare il mondo, è “Parola” rivolta a noi. E’ la Parola che dà la vita, che è la vita. E’ la comunicazione fatta ad ogni essere di qualcosa della vita di Dio. Non è un linguaggio morto e sclerotizzato, un ordine stabilito una volta per tutte come l’ordine di un cimitero. E’ una Persona che si interessa di ogni singola persona: è il Figlio del Dio vivo, che si è fatto uomo a Betlemme e che per tutti gli essere umani è luce, luce d’amore, d’amore misericordioso e di gioia. 
Apriamo gli occhi a questa luce e cerchiamo di portarle nel mondo ai nostri fratelli e sorelle in umanità, mettendo tutta la nostra vita sotto il segno della misericordia e della fedeltà, soprattutto in questo Anno della Misericordia che Papa Francesco ci ha donato.
Le Vergini consacrate nel mondo sono speciali testimoni di questa vita vissuta sotto il segno della misericordia e della fedeltà. Queste donne hanno consacrato se stesse perché sanno che l’amore di Cristo, loro Sposo, è ricco di inesauribile fedeltà e misericordia. 
Misericordia cioè perdono e giustizia che ricrea il cuore dell’essere umano e lo rende capace di donare gratuitamente. 
Fedeltà, cioè impegno perseverante e incondizionato. Dio si è donato una volta per tutte nella sua Parola. Consacrazione verginale è donarsi completamente e solamente alla sua Parola, impegnarsi verso Colui che si è impegnato verso di noi senza ripensamenti. Ciò implica essere fedeli, perseveranti, tenaci in tutto, sapendo che la fedeltà umana ha il suo nido nel cuore di Dio. 
Essere vergini consacrate vuol dire essere segno della misericordia e della fedeltà, essere “luogo” di misericordia dove la vita di Cristo donata genera vita qui sulla terra  e per l’eternità.


1 -Siamo nel tempo liturgico del Natale, che inizia la sera del 24 dicembre con la vigilia e si conclude con la celebrazione del Battesimo del Signore (questa volta è il 10 gennaio 2016). Larco dei giorni è breve, ma denso di celebrazioni e di misteri e si raccoglie tutto intorno alle due grandi solennità del Signore: Natale ed Epifania. Possiamo quasi dire che nella festa del Natale si sottolinea il nascondimento di Dio nellumiltà della condizione umana, nel Bambino di Betlemme. NellEpifania, invece, si evidenzia il suo manifestarsi, lapparire di Dio attraverso questa stessa umanità.



Letture Patristiche
Basilio di Cesarea
Epist. 234, 2
La conoscenza di Dio

       «Ma, dice, se ignori la sua essenza (di Dio), ignori lui». Tu però controbatti: «Se dici di conoscere l’essenza, non conosci lui». Infatti, chi, morso da un cane rabbioso, vede il cane nel bicchiere, non vede meglio di quelli che sono sani; ma proprio per questo è degno di compassione, in quanto crede di vedere ciò che non vede. Non ammirarlo dunque per ciò che promette, ma stimalo degno di pietà per la sua follia. Pertanto, abbi certo che la frase: «Se ignori l’essenza di Dio, veneri ciò che ignori», è di gente che vuol scherzare. Io invece so che esiste: quale ne sia poi l’essenza, la ritengo cosa al di sopra dell’intelligenza. Come mi salvo dunque? Attraverso la fede? La fede basta a farci sapere che Dio c’è, non a dirci cosa egli sia; e che egli ricompensa quanti lo cercano. La conoscenza dell’essenza (di Dio) consiste dunque nella considerazione che non possiamo comprenderlo. Veneriamo ciò di cui sappiamo non quale sia l’essenza, ma che questa essenza esiste.


Leone Magno
Sermoni, 21
Cristo potenza e sapienza di Dio

       Il Verbo di Dio, dunque, Dio, Figlio di Dio che "era all’inizio presso Dio e per mezzo di cui tutto è stato fatto e senza di Lui nulla è stato fatto" (Jn 1,2-3), si è fatto uomo, per liberare l’uomo dalla morte eterna; e si abbassò ad accettare la nostra umiltà, senza diminuire la sua maestà, in modo che restando quello che era e assumendo quello che non era, unì in sé una vera natura di servo alla natura sua, nella quale è identico a Dio Padre. Le unì con un legame tanto stretto, che la gloria non consumò la natura inferiore né l’assunzione diminuì la natura superiore. Restando integra ogni proprietà di ambedue le nature e convenendo in un’unica persona, dalla maestà viene assunta l’umiltà, dalla forza l’infermità, dall’eternità la mortalità; e per cancellare il debito della nostra condizione, la natura passibile si è unita alla natura inviolabile: il Dio vero e l’uomo vero sono presenti nell’unico Signore; così, come richiedeva la nostra redenzione, l’unico e identico mediatore tra Dio e l’uomo poté morire per l’uno e risorgere per l’altro. A buon merito dunque il parto salutare non recò corruzione all’integrità verginale: preservò il pudore e propagò la verità. Una tale nascita si convenne a Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio: per essa, fu simile a noi nell’umanità e tanto superiore a noi nella divinità. Se infatti non fosse stato vero Dio, non avrebbe portato a noi rimedio; se non fosse stato uomo vero, non ci avrebbe dato l’esempio. Per questo gli angeli, esultando, alla nascita del Signore cantano: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli" mentre si annuncia "sulla terra pace agli uomini di buona volontà" (Lc 2,14). Vedono infatti che con le genti di tutto il mondo vien costruita la celeste Gerusalemme; e di questa ineffabile opera della divina bontà, quanto deve rallegrarsi l’umiltà degli uomini, dato che tanto gode la sublimità degli angeli?

       Perciò, carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre, per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, che per la sua grande misericordia con cui ci amò ha avuto pietà di noi ed "essendo noi morti al peccato, ci vivificò in Cristo" (Ep 2,5), affinché fossimo in lui una nuova creatura, una nuova struttura (Ep 2,10). Spogliamoci dunque del vecchio uomo con le sue azioni (Ep 4,22 Col 3,8) e, partecipi della nascita di Cristo, rinunciamo alle opere della carne.

       Riconosci o cristiano la tua dignità e, consorte ormai della divina natura, non tornare alla bassezza della tua vita antecedente, depravata. Ricordati di quale capo e di quale corpo tu sei membro. Rammenta che sei stato strappato dal potere delle tenebre e sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio. Col sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo (1Co 3,16): non cacciare da te con le azioni cattive un ospite tanto degno e non assoggettarti di nuovo alla schiavitù del demonio: il tuo prezzo è il sangue di Cristo. Ti giudicherà nella verità, come ti ha redento per misericordia, egli, che con il Padre e lo Spirito Santo regna nei secoli dei secoli.


       
Agostino
In Ioan. 15, 19
Dio luce della mente

       Dunque, fratelli miei, avere l’anima, e non avere l’intelligenza - cioè non farne uso né vivere secondo essa -significa vivere da bestie. C’è in noi qualcosa di bestiale, in effetti, per il quale viviamo nella carne: ma l’intelletto deve governarlo. L’intelletto, infatti, governa dall’alto i moti dell’anima che si muove secondo la carne e brama effondersi senza freno nei piaceri carnali. A chi dev’essere dato il nome di marito? A colui che governa, o a colui che è governato? Senza alcun dubbio, quando la vita è ben ordinata, l’anima è governata dall’intelletto, che appartiene all’anima stessa. L’intelletto non è infatti qualcosa di diverso dall’anima; esso è qualcosa dell’anima; come l’occhio non è qualcosa di altro dalla carne, ma è qualcosa della carne. Ma pur essendo l’occhio qualcosa della carne, esso solo gioisce della luce; le altre membra del corpo possono esser inondate dalla luce, ma non possono percepirla. Soltanto l’occhio può essere inondato dalla luce e insieme gioirne. Così nella nostra anima c’è qualcosa che è chiamato intelletto. Questa parte dell’anima che è chiamata intelletto e spirito, è illuminata da una luce superiore. Questa luce superiore da cui la mente umana è illuminata, è Dio. Era la vera luce che illumina ogni uomo che viene al mondo (Jn 1,9).

venerdì 18 dicembre 2015

Una visita storica.

Rito Romano
Domenica di Avvento Anno C20 dicembre 2015
Mi 5,1-4; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45


Rito Ambrosiano
Domenica di Avvento
Is 62,10-63,3b; Sal 71; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a
Domenica dellIncarnazione o della Divina Maternità della Beata Vergine Maria

1) Un di fede che si fa cammino di carità.
Dopo aver rispostoallannuncio portatole dallangelo Gabriele, la Vergine Madre di colui che sarà chiamatoFiglio dellAltissimova dalla cugina Elisabetta, che - anche se molto avanti con gli anni - attendeva un figlio. Lanziana parente non appena vede arrivare Maria, grazie al sussulto di gioia del bambino che porta in grembo, riconosce che davanti a lei vi è qualcuno di grande. Elisabetta è colmata di Spirito Santo e il suo benvenuto a Maria esclamando a gran voce:Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo(cfr Lc 1, 41-42). Benedetta1 e beata perché ha creduto nelladempimento delle parole del Signore.
Il brano del Vangelo di oggi è centrato sulla scena dell’incontro tra la Vergine Maria e la cugina Elisabetta. Per fare questo incontro di carità la Madonna si è messa in cammino di carità mossa da uno stupore pieno di gratitudine per quanto le è accaduto e che porta nel suo grembo. È grazie ai passi della Madonna che, ancor prima di nascere, Gesù è in cammino sulle strade del mondo andando verso gli uomini. Questo cammino è esempio per il nostro “dovere” di metterci in cammino sulle strade degli uomini per portare la luce del Vangelo a quanti non lo conoscono.
L’evangelista Luca non riporta le parole di saluto, che Maria rivolge ad Elisabetta quando arriva in casa sua. Questo silenzio è denso di significato. Proprio perché senza parole, il saluto di Maria mette in primo piano la sua persona, non ciò che eventualmente ha da dire. In primo piano è la voce (cfr. Lc 1,44): non le parole di Maria hanno fatto sussultare il bambino, ma la sua voce. E’ nella voce di Maria che il bambino Giovanni percepisce la presenza del Messia atteso.
Il saluto di Maria, dunque, non è una semplice forma di cortesia, ma un’espressione di amore. Il saluto di Maria tocca tutto l’essere di Elisabetta, causando in lei il trasalimento di gioia, il sussulto di Giovanni nel grembo della madre una volta sterile. E’ un saluto che allude a quella vita nuova che è germogliata nel grembo di entrambe, e che è segno della salvezza inaugurata da Dio. Anche Elisabetta è piena di stupore per quanto le sta accadendo e per la visita del Signore portato dalla cugina Maria. Il suo è uno stupore che si fa domanda: “A che devo che la Madre del mio Signore venga a me?” A questo interrogativo la Madonna risponde intonando il suo inno di fede e di ringraziamento a Dio, il Magnificat, che si trova subito dopo il brano del Vangelo di oggi. Forse questo Cantico è nato in Maria durante il viaggio a piedi - lungo circa 150 chilometri – per arrivare fino ad Ain Karim, villaggio a 7-8 chilometri da Gerusalemme, dove abitavano Zaccaria ed Elisabetta.
Quando recitiamo il Magnificat, soprattutto la sera alla fine dei Vespri, cerchiamo di immedesimarci in Maria e di guardare alla nostra vita come lei guardava alla sua: con occhi di fede. Cerchiamo di imitare Maria, che ebbe una fede salda, una carità delicata, un’umiltà sincera e la gioia di portare Cristo al mondo.

2) Un umile e verginale, quindi materno.
Nel Magnificat la Madonna manifesta le due fondamentali direttrici, lungo le quali Dio agisce nella storia. Innanzitutto, la consapevolezza che la salvezza deriva unicamente dalla gratuita iniziativa di Dio e dalla sua fedeltà misericordiosa. In secondo luogo – contrariamente alla logica umana – questa salvezza si attua nella storia degli “anawim” biblici, cioè di quei fedeli che si riconoscono “poveri” non solo nel distacco da ogni idolatria della ricchezza e del potete, ma anche nell’umiltà profonda del cuore. E’ tramite i “poveri”, i puri e semplici di cuore, gli umili che Dio porta avanti il suo disegno di salvezza per l’umanità.
La Vergine Maria nel suo inno canta come l’umiltà sia gradita a Dio e come lei sia stata scelta per essere la Madre di Gesù perché umile. L’umiltà di Maria fu il terreno adatto per la realizzazione del progetto di Dio. In una bella omelia, San Bernardo di Chiaravalle mette in luce la grandezza dell’umiltà in Maria, non esitando ad attribuire ad essa – l’umiltà – un’importanza prioritaria anche di fronte alla stessa verginità.  “Bella unione – scrive l’abate di Chiaravalle – della verginità con l’umiltà. Molto piace a Dio quell’anima in cui l’umiltà da pregio alla verginità, e la verginità adorna l’umiltà… Senza umiltà oso dire che neppure la verginità di Maria sarebbe stata gradita a Dio… Se dunque Maria non fosse stata umile, non sa­rebbe disceso in lei lo Spirito Santo… È dunque chiaro che, perché essa concepisse per opera dello Spirito Santo, ‘Dio, come lei canta, ha riguardato l’umiltà della sua serva’ (Lc 1,48), piuttosto che la sua verginità. E se piacque a causa della sua verginità, concepì però per la sua umiltà. Anzi, è chiaro anche che se la verginità piacque, certamente fu in vista della sua umiltà”.
Ma l’umiltà non è fine a se stessa, è finalizzata allo splendore della carità e in Maria vi era l’unione “di un’altissima carità e di una profondissima umiltà”(San Bernardo di Chiaravalle).
Nella visitazione ad Elisabetta, Maria, “Vergine Madre, umile e alta più che creatura” (Dante), porta in grembo il Verbo fatto carne e si fa, in qualche modo, “tabernacolo” – il primo “tabernacolo” della storia – dove il Figlio di Dio, ancora invisibile agli occhi degli uomini, si concede all’adorazione di Elisabetta, quasi “irradiando” la sua luce attraverso gli occhi e la voce di Maria” (San Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucarestia, n. 5).
La Madonna non è tanto una creatura che sa, quanto una creatura che crede perché dotata di grazia, di fede e così diventa figura della Chiesa che, nella fede, accoglie il proprio Salvatore e lo porta nel mondo, perché l’umanità intera possa gioirne.
In questa pastorale della Visitazione, ci sono di esempio le Vergini consacrate nel mondo, che con il loro lavoro “secolare” si fanno missionarie dell'amore camminando quotidianamente con i fratelli e sorelle in umanità, che così possono avere la gioia di essere considerati e amati.

Tale interessamento è ispirato dall'amore verginale per il Signore Gesù, amato sopra ogni cosa e fatto amare. Queste donne consacrate testimoniano che il cristiano autentico trasforma in carità tutte le cose che tocca: trasforma in carità il lavoro, la vita, la preghiera, il rapporto con gli altri. Qualunque cosa il cristiano pratichi viene come rinnovata, santificata, trasformata dalla forza dell’amore
L’importante è che nella nostra preghiera il grazie umile e amoroso abbia il primato. Come ha fatto Maria che con il suo Magnificat ha detto “grazie”, annunciando il Vangelo della Gioia: la lieta notizia dell'innamoramento di Dio, che si fa carne per noi.
L’importante è che ognuno risponda con umiltà e secondo le sue capacità. Se guardiamo alla scena della Visitazione vediamo Zaccaria che risponde con la sua fatica a credere, Elisabetta che benedice, Maria che loda, Giovanni che “danza”. In vari modi ognuno di loro riconosce e porta il Signore nel mondo. Viviamo questo avvento in modo che sia pronunciata per ciascuno di noi la parola: Benedetto - Benedetta sei tu perché porti il Signore, come Maria. Allora capiremo meglio quanto dice Santo Ambrogio: “Se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il Verbo di Dio” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27).
L’importante è verginalmente custodire e alimentare la memoria di Dio, custodendola in noi stessi e cercando di risvegliarla negli altri. “E’ bello questo: fare memoria di Dio, come la Vergine Maria che, davanti all’azione meravigliosa di Dio nella sua vita, non pensa all’onore, al prestigio, alle ricchezze, non si chiude in se stessa. Al contrario, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo e aver concepito il Figlio di Dio, che cosa fa? Parte, va dall’anziana parente Elisabetta, anch’essa incinta, per aiutarla; e nell’incontro con lei il suo primo atto è la memoria dell’agire di Dio, della fedeltà di Dio nella sua vita, nella storia del suo popolo, nella nostra storia: «L’anima mia magnifica il Signore … perché ha guardato l’umiltà della sua serva … di generazione in generazione la sua misericordia» (Lc 1,46.48.50). Maria ha memoria di Dio” (Papa Francesco, 29 settembre 2015).

1 Benedire nella tradizione biblica significa – in primo luogo - dire bene di qualcuno,lodare,complimentarsi e, poi, significa dire bene a qualcuno ovvero augurare. La benedizione come lode fa riferimento ad una realtà attuale, mentre la benedizione come augurio chiama in causa ed impegna il futuro. Il significato augurale della benedizione, il benedire è esercitare sovranità sulla storia di qualcuno, impegnare e decidere il futuro. L'uso ebraico utilizza spesso questo verbo “benedire” nella vita e accompagna le persone amate con il suo augurio, la sua benedizione.

Lettura Patristica
Origene
In Luc., 7, 1-6


La visita di Maria a Elisabetta

       I più buoni vanno dai meno buoni per procurare loro qualche vantaggio con la loro venuta. Così anche il Salvatore andò da Giovanni, per santificare il suo battesimo, e Maria, dopo aver udito il messaggio dell’angelo, cioè che stava per concepire il Salvatore e che la sua cugina Elisabetta era incinta, "si alzò e si recò in fretta alla montagna, ed entrò nella casa di Elisabetta" (Lc 1,39-40). Gesù, che era nel seno di lei, aveva fretta di santificare Giovanni che si trovava nel grembo della madre.

       Prima che venisse Maria per salutare Elisabetta, il fanciullo non «esultò nel seno»; ma non appena Maria ebbe pronunziata la parola che il Figlio di Dio, nel suo seno, le aveva suggerito, "esultò il fanciullo per la gioia", e da allora Gesù fece, del suo precursore, un profeta.

       Era necessario che Maria, che era quanto mai degna di essere madre del Figlio di Dio, salisse alla montagna dopo il colloquio con l’angelo, e dimorasse sulle vette. Per questo sta scritto: «In quei giorni Maria si alzò e si recò alla montagna».

       Doveva del pari, non essendo affatto pigra nel suo zelo, affrettarsi sollecitamente, e, ricolma di Spirito Santo, essere condotta sulle vette, essere protetta dalla potenza di Dio la cui ombra l’aveva già ricoperta.

       Venne dunque "in una città di Giuda, nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta. E accadde che quando Elisabetta udì il saluto di Maria, esultò il fanciullo nel suo seno ed ella fu ricolmata di Spirito Santo" (Lc 1,39-41).

       Non v’è perciò alcun dubbio che colei che fu allora ricolmata di Spirito Santo, lo fu a causa di suo figlio. Non fu infatti la madre a meritare per prima lo Spirito Santo; ma quando Giovanni, ancora chiuso nel seno materno, ebbe ricevuto lo Spirito Santo, Elisabetta, a sua volta, dopo la santificazione del figlio, «fu ricolmata di Spirito Santo». Potrai accettare questa verità quando saprai che qualcosa di simile è accaduto per il Salvatore. Si legge, come abbiamo trovato in molti esemplari, che la beata Maria ha profetato. Ma non ignoriamo che, secondo altri codici, fu Elisabetta a pronunziare anche queste parole profetiche. Maria fu dunque ricolmata di Spirito Santo dal momento in cui cominciò ad avere nel seno il Salvatore. Non appena ricevette lo Spirito Santo, creatore del corpo del Signore e il Figlio di Dio cominciò a vivere in lei, anche Maria fu ricolmata di Spirito Santo.

       Orbene, esultò il fanciullo nel seno di Elisabetta ed ella, ricolmata di Spirito Santo, "gridò a grande voce e disse: Tu sei benedetta tra le donne" (Lc 1,42). A questo punto, per evitare che gli spiriti semplici siano ingannati, dobbiamo confutare le abituali obiezioni degli eretici. Di fatto io non so chi si è abbandonato ad una tale follia da affermare che Maria fu rinnegata dal Salvatore, per essersi unita, dopo la nascita di lui, a Giuseppe; chi così ha parlato, risponda delle sue parole e delle sue intenzioni. Voi, se qualche volta gli eretici vi fanno una tale obiezione, dite loro per tutta risposta: proprio in quanto era stata ricolmata di Spirito Santo, Elisabetta disse: «Tu sei benedetta fra le donne». Se Maria è stata dunque dichiarata benedetta dallo Spirito Santo, in qual modo il Signore ha potuto rinnegarla? Quanto a coloro che hanno sostenuto che ella contrasse il matrimonio dopo il parto, non hanno prove per dimostrare la loro tesi; infatti i figli che erano attribuiti a Giuseppe, non erano nati da Maria, e non c’è alcun testo della Scrittura che lo affermi.

       "Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del ventre tuo. E donde a me la grazia che venga a me la madre del mio Signore?" (Lc 1,42-43). Dicendo: «Donde a me la grazia?», non mostra affatto di ignorare donde viene tale grazia, quasi che Elisabetta, ricolma di Spirito Santo, non sappia che la madre del Signore è venuta da lei obbedendo alla volontà di Dio, ma vuol dire: Che cosa ho fatto di buono? Quali grandi opere ho compiuto per cui la madre del Signore giunga fino a me? Per quale giustizia, per quali buone azioni, per quale fedeltà interiore ho meritato che la madre del mio Signore venga fino a me?

       "Ecco, appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il fanciullo ha trasalito di gioia nel mio seno" (Lc 1,44). L’anima del beato Giovanni era santa: ancora chiuso nel seno di sua madre e sul punto di venire al mondo, conosceva colui che Israele ignorava; per questo esultò, e non soltanto esultò, ma esultò nella gioia. Aveva compreso che il Signore era venuto per santificare il suo servitore, ancor prima che nascesse dal ventre materno.

       Voglia il cielo che capiti anche a me, che ho fede in tali misteri, di essere trattato da pazzo dagli increduli. I fatti stessi e la verità hanno dimostrato chiaramente che io ho creduto non ad una pazzia ma alla sapienza, perché ciò che è consideralo follia da costoro è per me motivo di salvezza.

       Se la nascita del Signore non fosse stata tutta celeste e beata, se essa non avesse avuto niente di divino e di superiore alla natura umana, la sua dottrina non si sarebbe affatto diffusa per tutta la terra. Se fosse stato soltanto un uomo colui che era nel seno di Maria, e non il Figlio di Dio, come poteva avvenire che in quel tempo ed anche ora venissero guarite non solo le più diverse malattie dei corpi, ma anche quelle delle anime? Chi di noi non è stato insensato, di noi che ora, per misericordia divina, abbiamo l’intelligenza e la conoscenza di Dio? Chi di noi non ha mancato di fede nella giustizia, di noi che ora, per mezzo di Cristo, possediamo e seguiamo la giustizia? Chi di noi non è stato nell’errore e nello sconforto, di noi che oggi, per l’avvento del Signore, non conosciamo più né esitazioni né turbamenti, ma siamo sulla via, cioè siamo in Gesù che ha detto: "Io sono la via" (Jn 14,6)?