martedì 30 ottobre 2018

Alla fine della vita saremo giudicati sull'amore


Riflessioni per tre feste:
1 novembre 2018, Solennità di tutti i Santi, Ap 7,2-4.9-14; Salmo 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12  
2 novembre 2018, Commemorazione dei defunti,
4 novembre 2018, Domenica XXXI del Tempo Ordinario – Anno B –
Rito Romano
Dt 6,2-6 - Sal 17(18) - Eb 7,23-28 - Mc 12,28b-34 
Alla fine della vita saremo giudicati sull'amore (San Giovanni della Croce)
Rito Ambrosiano
II Domenica dopo la Dedicazione del Duomo
Is 56,3-7; Sal 23; Ef 2,11-22; Lc 14,1a.15-24
Il Signore si rivela a chi lo ama.

A - LA FESTA DI TUTTI I SANTI.
1) La Ognissanti, festa della felicità.
Le letture di questa festa ci aiutano a capire chi è veramente il cristiano. Cristiano è colui che come Cristo vive le beatitudini da Lui pronunciate nel gran discorso della montagna (Vangelo). Cristiano è chi porta il sigillo di Dio sulla fronte e indossa la bianca veste lavata nel sangue dell'Agnello (prima lettura). Cristiano è colui che è stato fatto figlio di Dio e vive con l'ardente speranza dell'incontro definitivo con il Padre (seconda lettura).

Penso sia giusto leggere o ascoltare le Beatitudini come autoritratto di Gesù e come indicazioni autorevoli per poter far parte di questo ritratto di una Persona felice che porta la felice notizia che Dio è presente tra noi e in noi.

 “Beati...” cioè “Felici”; è la nostra vocazione; una vocazione che, sicuramente abbiamo visto realizzata in tante persone, che hanno fatto parte della nostra vita, della nostra piccola storia personale, o che sono ancora presenti in essa: persone che ci mostrano concretamente la via da percorrere, persone che ci incoraggiano e ci aiutano, con la loro testimonianza, a camminare sulla via di una santità quotidiana, seria e generosa.

2) Perché una festa di Ognissanti?
Per celebrare Dio, facendo memoria di uomini veri, che hanno accolto Dio pienamente nella loro vita. La festa di Ognissanti è un grandioso invito all’autenticità, è una presa di coscienza del mistero infinito della nostra vita: Dio è Amore, ci ama e siamo santi quando siamo radicati e fondati in questo vero Amore per fare memoria che “tutto è Grazia” e per rendere vera in ogni fedele la frase con la quale Bernanos termina il suo libro “Diario di un Curato di campagna”: “Ho una nostalgia sola, quella di non essere santo”.
Purtroppo oggi la parola “santo” sembra fuori moda, inadeguata all’oggi. Suona come un’eco di un mondo passato, lontano. Spesso viene usata in modo ironico, per dire che uno è un ingenuo. Si preferisce l’espressione “buon uomo” per indicare che uno si dedica generosamente al bene comune, e “galantuomo” per dire che una persona è moralmente ineccepibile: un modello da imitare.
Per i cristiani il “modello” da imitare è il Santo, che non è solo un protettore a cui ricorrere in caso di bisogno. Un modello non solo di vita buona spesa per gli altri, ma di risposta all’amore di Dio. E’ un modello di uomo vero, autentico che aderisce a cristo e con Cristo diventa pietra angolare per il mondo intero.
I santi non sono una categoria particolare di uomini, separati dagli altri da una grata e guardati da noi spettatori, che li osserviamo dal basso e dal di fuori. Essi mostrano con la loro vita che il programma dell’amore, che Gesù sviluppa nel Discorso della Montagna in cui enuncia pure le Beatitudini, è di una semplicità e chiarezza travolgente.


3) Come diventare santi?
Rispondo dando quattro suggerimenti.
Prima di tutto, domandandolo umilmente e quotidianamente al Signore. In secondo luogo, chiedendo al buon Dio la grazie di credere alle Beatitudini e di praticarle. Terzo, facendo nostra la frase di Paul Claudel nell’ “Annuncio a Maria” : “Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più alto”. Infine “contemplare il volto dei Santi e trovare conforto nei loro discorsi”, e capiremo che “tutto è grazia”. E’ una chiamata a riscoprire che noi siamo autentici, veri, che noi raggiungiamo il perfetto compimento della nostra vocazione di uomini quando entriamo in un dialogo d’amore in cui ci si “perde” in Dio, facendo la sua volontà cioè realizzando il suo amore.
Santa Teresa del Bambin Gesù (morta a 24 anni) ha mostrato che essere santi, non è il risultato di uno sforzo dell’uomo, ma un dono di Dio da condividere. Questa Santa Suora di Lisieux è universalmente conosciuta come la Santa che ha insegnato al mondo la "Piccola via dell’infanzia spirituale" e ha parlato spesso della necessità di "farsi piccoli davanti a Dio" e di aver trovato "una via tutta dritta, molto breve, una piccola via tutta nuova" per andare in cielo.

B) LA COMMEMORAZIONE DI TUTTI I MORTI
1) Ricordare i nostri morti anche come maestri.
La santità non è una anormalità, essa è la norma La santità non è una connotazione morale, ma il frutto della grazia di Dio nella persona umana e nella Chiesa. Ma se i santi sono modelli e maestri di vita cristiani, non va dimenticato che anche i morti lo sono. Che senso avrebbe andare al cimitero per visitare le tombe dei nostri defunti, se non credessimo nella Risurrezione e se non coltivassimo la fede nella risurrezione nostra e dei nostri cari, che ci hanno preceduto nella vita e nella fede?
Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, non grande paese della mia diocesi di Cremona, diceva che il cimitero può essere «la prima chiesa del villaggio, cioè una scuola, una casa di giustizia e una casa di riparazione. Se anche tacessero le campane sul campanile, se la chiesa domani non fosse più e il prete non potesse più parlare, finché rimarrà il cimitero in un paese, Dio avrà il suo profeta e la religione i suoi preti. Perché i morti sono i profeti e gli angeli di Dio, i quali gridano a noi: fratelli la vita non è qui, ma lassù».
Rechiamoci dunque al Cimitero non per commemorare i defunti come ombre, ma come persone che trovandosi al cospetto di Dio ci possono fare capire la sua parola d’amore, di Padre che tutti accoglie.
2) La preghiera santifica.
E preghiamo per i nostri morti. Anche S. Agostino sottolinea la grande importanza delle preghiere per i defunti dicendo: "Una lacrima per i defunti evapora, un fiore sulla tomba appassisce, una preghiera, invece, arriva fino al cuore dell’Altissimo". E stiamo sereni perché “non si pèrdono mai coloro che amiamo, perché possiamo amarli in Colui che non si può perdere” (Sant'Agostino).
Ricordiamo i defunto soprattutto con la Santa Messa, perché i morti sono santificati come i vivi dai doni dell’altare. A questo riguardo Nicola Cabasilas scrisse “Questo divino e sacro rito della Messa risulta doppiamente santificante. In primo luogo per l’intercessione. Infatti i doni offerti, per il solo fatto di essere offerti, santificano coloro che li offrono e coloro per i quali sono offerti e rendono misericordioso Dio nei loro riguardi. In secondo luogo santificano per mezzo della Comunione, poiché sono un vero cibo ed una vera bevanda, secondo la parola del Signore.
        Di queste due maniere la prima è comune ai vivi ed ai morti, poiché il sacrificio si offre per entrambe le categorie. Il secondo modo vale per i soli vivi, poiché i morti non possono né mangiare né bere. Che dunque? Per questa ragione i defunti non beneficeranno di questa santificazione e sono meno avvantaggiati dei vivi? Per nulla. Poiché il Cristo si comunica a loro nel modo che egli sa” (Da “Spiegazione della Divina Liturgia”, cap. XLII).

C) XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno – 4 novembre 2012.

1) Il comando dell’Amore illumina il cuore e la mente.
La liturgia del 1° e del 2 novembre ci insegnano che se crediamo all’Amore eterno di Dio, possiamo comprendere che Cielo e Terra sono aperti uno sull’altro. Il Vangelo di oggi ci insegna che Cristo ci comanda un amore aperto verso il cielo e verso la terra, un amore che si fa luce ai nostri passi.
All'interrogativo dello scriba «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». (Mc 12,28), Gesù risponde citando due testi che ricorrono nella meditazione di Israele: un passo del Deuteronomio («Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua forza»), e un passo del Levitico («Amerai il tuo prossimo come te stesso»). I doveri dell'uomo sono certamente molti, ma Gesù invita l'uomo a non smarrirsi nel labirinto dei precetti: l'essenza della volontà di Dio è semplice e chiara: amare Dio e gli uomini.
È giusto che la legge si occupi dei molti e svariati casi della vita, a patto però che non perda di vista quel centro, che dà vita e slancio a tutta l'impalcatura. Questo centro è l'amore. 
Gesù risponde allo scriba che il primo dei comandamenti non è uno solo, ma due, però strettamente congiunti, come due facce della stessa realtà. È nella capacità di mantenere uniti i due amori - l'amore a Dio e l'amore al prossimo - la misura della vera fede e della genialità cristiana.
C'è chi per amare Dio si estranea dagli uomini, e c'è chi per lottare a fianco degli uomini dimentica Dio.
A quale Dio ci riferiamo, se diciamo di amarLo e trascuriamo il prossimo, non avendo cura dei nostri fratelli e sorelle in umanità? Non certo al Dio di Gesù Cristo. E se diciamo di amare il prossimo e di essere al suo servizio, ma poi rifiutiamo di amare l'unico Signore, allora – ci insegna la Bibbia - cadiamo facilmente in potere degli idoli.
Senza dire - e questo è, in un certo senso, ancora più grave - che proprio mentre vogliamo aiutare l'uomo ad essere più uomo, rischiamo di allontanarlo dal suo bisogno più profondo, dalla sua ricerca più essenziale che è - appunto - la ricerca di Dio. 
L'evangelista Marco riporta alcune parole che invece Matteo e Luca tralasciano: «Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è l'unico Signore». Dio è l'unico Signore, Lui solo è da adorare. Il prossimo è da amare, ma non da adorare. La dedizione al prossimo non esaurisce la sete di amore dell'uomo. È l'apertura a Dio che conduce a compimento l'apertura al prossimo. È Dio infatti il punto a cui il nostro essere tende, del quale abbiamo un'insopprimibile nostalgia, come il seme tende con tutto se stesso a uscire dalla terra. E’ questo l’insegnamento che ci viene anche dal Vangelo proposto oggi dalla liturgia ambrosiana, il cui tema principale è che “Dio si rivela a chi lo ama”.
In conclusione.
A questo punto sorge spontanea la domanda come acquisire per noi e accrescere in noi la carità di Dio?
Per rispondere mi servo di San Tommaso d’Aquino, il quale insegna che
a) per acquisire la carità, dono di Dio occorre:
  1. l’ascolto diligente della Parola di Dio,
  2. il costante pensiero di cose buone,
b) per accrescere in noi la carità è necessario:
  1. il distacco dalle cose terrene (che implica almeno la separazione del cuore dei beni materiali),
  2. ferma pazienza nelle avversità.

Queste 3 feste celebrano la Carità, che santifica, che vivifica, che illumina il cammino nostro da qui all’eternità.



Queste tre feste ci richiamano la dimensione escatologica della Chiesa, dimensione che è particolarmente vissuta nell’Ordo Virginum, di cui il Beato Giovanni Paolo II ha detto: “È motivo di gioia e di speranza vedere che torna oggi a fiorire l'antico Ordine delle vergini, testimoniato nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici. Consacrate dal Vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano, pur restando nel mondo. Da sole o associate, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l'amore per Cristo Sposo.” (Esortazione Ap. Post-Sinodale, Vita consacrata, n. 7, 25 marzo 1996).
Le Vergine consacrate hanno una spiritualità escatologica, perché la loro vita tende alla visione di Dio e loro sono chiamate a vivere e testimoniare in modo particolare un’esistenza che deve sempre essere ordinata alla realtà ultima e definitiva, cioè escatologica.

Sintetico commento etimologico
Come lo evidenzia G. Kittel nel Grande Lessico del Nuovo Testamento, III, 995-1000, la parola eschatos (ultimo), nelle sue differenti forme (aggettivo, sostantivo, avverbio) è varie volte usata nel Nuovo Testamento per indicare la definitività della salvezza in Cristo, nella tensione “presente-futuro”.
Il termine “escatologia” ha differenti sfumature, che lasciano intravedere l’insieme dei significati che la parola ha: dal significato classico di escatologia come discorso sulle realtà ultime a quello di discorso sul futuro della storia aperta all’uomo da Dio., a quella dell’escatologia come definitività alla riflessione teologica sulla Speranza.
Nella “ultime cose” – Novissima, i Novissimi: morte, giudizio, inferno, paradiso – si ha la conclusione della vita dell’uomo nuovo, salvato da Cristo, e la sua ragione d’essere.

Meditiamo su questo brano della preghiera della Consacrazione delle Vergini:

« Tu vuoi non solo renderle alla loro innocenza originaria ma anche condurle fino all’esperienza dei beni del mondo a venire. E già da ora tu le chiami a permanere alla tua presenza come gli angeli davanti al tuo volto»


venerdì 26 ottobre 2018

Per vedere con gli occhi del cuore.


Domenica XXX del Tempo Ordinario – Anno B – 28 ottobre 2018
Rito Romano

Rito Ambrosiano
At 8,26-39; Sal 65; 1Tm 2,1-5; Mc 16,14b-20
Prima Domenica dopo Dedicazione del Duomo di Milano.

  1. Un salto nella luce.
Il Vangelo è un dono, è sempre l’annuncio di un dono, è il dono di poter vedere, di poter contemplare la passione di Cristo e di esserne salvati. Il Vangelo di questa domenica, che precede il racconto della passione, offre alla nostra meditazione la guarigione di un cieco, che anche se ha un nome: “Bartimeo”, rappresenta ciascuno di noi, che gridiamo a Cristo. In questo mendicante cieco che grida a Gesù, possiamo riconoscere la nostra incapacità di vedere, non tanto dal punto di vista fisico, ma soprattutto da quello spirituale. Possiamo vedervi la nostra incapacità di “vedere” Dio nella nostra vita, al punto da sentirci spesso smarriti e nel buio spirituale.
Ma se noi mendichiamo la guarigione, Cristo ascolta il nostro grido. Ci guarisce e ci salva, e così possiamo seguirlo sulla strada della luce che gli occhi del cuore miracolati possono vedere.
Con la vista e la luce Bartimeo aveva ricevuto Cristo, “per conoscere a un tempo Dio e l’uomo” (Clemente d'Alessandria, Esortazione ai pagani, 11) e gli è ovvio seguire Gesù “sulla strada” della passione, morte e resurrezione a Gerusalemme. 
Bartimeo rappresenta in questo contesto la “creazione che soffre e geme per le doglie del parto” (Rm 8) e che nel suo lamento produce un urlo di dolore che sale a Dio perché l’ascolti. Il “conoscere a un tempo Dio e l’uomo” di Clemente alessandrino sta così a ricordarci che è proprio dell’uomo implorare la guarigione, la nascita dell'uomo nuovo divinizzato dallo Spirito e dunque ritenere il pellegrinaggio terreno necessario a questo fine, mentre è proprio di Dio, il più prossimo di ogni nostro prossimo, ascoltare il gemito che gli proviene dalla persona umana, che, anche se è la più perfetta delle sue creature, ha bisogno della grazia per portare a compimento il suo destino e camminare sulla strade della speranza” (Papa Francesco).
Il Vangelo di oggi è preparato dalla prima lettura tratta dal libro della consolazione di Geremia: sono pagine pervase da una speranza profonda. Dio annuncia al profeta ciò che sembra impossibile al cuore umano: il popolo in esilio potrà ritornare sui monti di Samaria. “Ecco li riconduco dal paese del settentrione
e li raduno all'estremità della terra;
fra di essi sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente;
ritorneranno qui in gran folla” (Ger. 31,8). E’ Dio che agisce in prima persona, è Dio che guida, che conduce. Per assicurare che è opera Sua, Dio specifica che in questo popolo di salvati non spiccano i potenti e i nobili, ma piuttosto i sofferenti, (i ciechi, gli storpi), i deboli e coloro che, nella loro semplicità, racchiudono in sé il futuro del popolo: le donne incinte e le partorienti.
Nel brano evangelico poi ci propone l’esperienza del cieco Bartimeo, che quando “sente” Gesù, gli grida “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” e, essendo cieco, salta a tentoni verso Cristo e per gettarsi nella luce, che ancora non ha, getta anche il poco che aveva: il mantello. E passò dalla cecità alla vista, quella vista grandiosa che è la fede nell’Uomo, il Figlio di Davide: in Gesù Cristo, Figlio di Dio salvatore
Ecco allora che possiamo guardare al vedente Bartimeo come modello di credente. Il vangelo odierno di San Marco non vuole tanto raccontarci un miracolo, quanto parlarci di un cammino di fede che nasce dall'ascolto e, passando per il riconoscimento della propria infermità e impossibilità di farcela da solo, chiede pietà. Ma c’è di più: il neo-vedente risponde ad una chiamata lasciando d’impeto tutte le sue sicurezze (il mantello), per incontrare il Signore e, poi, seguirlo per le strade della carità missionaria. Travolto dalla pietà che aveva implorato, colmo della carità di Dio che si era fatto a lui prossimo, Bartimeo si mette al seguito di Cristo, che l’ha guarito e salvato dalle tenebre fisiche e da quelle spirituali.
Quali sono state (e lo sono anche oggi) le condizioni perché questo miracolo di luce accadesse? La preghiera (“Gesù, abbi pietà di me” – Mc 10, 47) e la fede (“Va, la tua fede ti ha salvato” – Mc 10, 52), tutte e due sono espressioni della libertà. La libertà del cieco che “sente” la presenza del Salvatore e intuisce che vale la pena di aderire alla Verità dell’amore di Cristo, che si ferma quando sente il grido del cieco Bartimeo. La libertà di Gesù che “libera” la sua commozione. Il grido di pietà urlato dal cieco ferma Gesù che passa per strada e compie il miracolo implorato.
Mettiamo davanti agli occhi del cuore la scena evangelica. Bartimeo, uomo povero e cieco, è raggomitolato al lato della strada, vergognoso di mendicare per vivere. E’ seduto, si è fermato come fa chi cede a causa delle ondate della vita. Ma nel villaggio dove questo mendicante chiedeva la carità, un bel giorno, improvvisamente, passa Gesù, che è la carità fatta carne. Questo cieco sente il rumore della gente che circonda il Messia, avverte una Presenza sanante e intuisce che può riprendere il cammino della vita nella luce. Allora Bartimeo si affretta (letteralmente fa un balzo) verso Gesù e Lo prega gridando: “Abbi pietà di me!”(l’invocazione “Signore pietà” –“Kyrie eleison” della Messa trova qui la sua origine). Alcuni lo sgridano e gli dicono di stare calmo, ma lui grida di più, prega ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”.
Non chiede qualcosa di materiale, chiede la pietà di Dio sulla sua vita. Anche noi affrettiamoci verso Cristo e, come il cieco, ciascuno di noi implori: “Abbi pietà di me, Figlio di Davide, e apri gli occhi della mia anima, perché io veda la Luce del mondo che sei tu, o Dio mio (cfr. Gv 8,12), e diventi anch’io figlio di quella luce divina (cfr. Gv 12,36). O clemente, manda il Consolatore anche su di me, affinché lui stesso mi insegni (cfr. Gv 14,26) ciò che riguarda te e ciò che è tuo, o Dio dell’universo. Dimora anche in me, come hai detto, perché io diventi a mia volta degno di dimorare in te (cfr. Gv 15,4).”(Simeone il Nuovo Teologo - Etica – nato nel 949 – morto nel 1022).

 Corriamo da Gesù e otterremo la vista del cuore e della mente. Avviciniamoci e dopo aver ottenuto da Cristo la vista, saremo anche irradiati dallo splendore della sua luce. Più ci avvicineremo al Messia, esponendoci più da vicino allo splendore della sua luce, più magnificamente e splendidamente si irradierà il suo fulgore, come rivela Dio stesso per mezzo del profeta: Avvicinatevi a me e io mi avvicinerò a voi, dice il Signore (Zac 1, 3); e dice ancora: Io sono un Dio vicino e non un Dio lontano (Ger 23, 23).
Non è però che tutti andiamo a Lui nella stessa maniera, ma ciascuno va a Lui secondo le proprie capacità e possibilità (cfr. Mt 25, 15).
L’importante è andare da Lui come ci è possibile. A Lui ciò basta per salvarci. Facciamo nostra la preghiera del Salmo: “Rialzaci, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal 79,20).
L’importante è essere lungo la strada dove passa Gesù Nazareno. E’ la via dell’amore che porta a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua di passione e resurrezione, alla quale il Redentore va incontro per noi. E’ la strada del suo ritorno alla Casa del Padre, del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via di riconciliazione che conduce al Cielo, “Terra” di giustizia e di amore, di pace e di luce. Dio è luce e creatore della luce. Noi esseri umani siamo figli della luce, fatti per vedere la luce, che non vediamo perché accecati dal nostro peccato e dalla nostra mancanza di fede. Se siamo realisti non ci resta che mendicare e allora, il Signore Gesù, che mendica la nostra fede e il nostro amore, ci guarisce e ci rende partecipi del Regno dei Cieli, che “non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole” (Rm 14, 17-19).

2) Una domanda amorevole e una richiesta di compassione.
Bartimeo, come ciascuno di noi, ha bisogno di essere voluto bene e ha la fortuna di sentirsi fare da Gesù una domanda amorevole: Non “che vuoi fare?” gli chiede Gesù, ma : “Cosa vuoi che io ti faccia?”. E una domanda che nasce dal cuore di Cristo e manifesta la sua compassione.
Se un giorno sentissimo queste stesse parole rivolte a noi, che cosa chiederemmo al Signore? Personalmente io rivolgerei a Cristo la stessa domanda di Bartimeo: “Signore, abbi pietà di me”, ma subito aggiungerei questa seconda preghiera: “Vieni, Signore Gesù” e continuerei così: “Vieni, Signore, nella tua immensa bontà, abita in me per la fede e illumina la mia cecità. Rimani con me e difendi la mia fragilità. Se tu sei con me chi mi potrà ingannare? Se tu sei con me, che cosa non potrò in te che mi dai forza? Se tu sei per me, chi sarà contro di me? Tu sei venuto al mondo, Gesù, per abitare in me, con me e per me, per schierarti dalla mia parte, per essere il mio Salvatore. Grazie, Signore Gesù.” (San Bernardo di Chiaravalle).
Immedesimiamoci in Bartimeo e così potremo guardare gli occhi di Cristo che ci guarda con amore e compassione. Se chiediamo al Signore di accrescere la nostra fede, potremo guardare con gli occhi della fede ed essere ricolmi dalla compassione di Cristo.
Non dimentichiamo, però, che per vedere Dio occorrono cuore e occhi puri. Non si può pretendere di vedere Dio se si è impuri. Ma come è possibile purificarci? Invocando nel dolore il perdono e contemplando nella confidenza la bontà misericordiosa del Signore. La nostra purificazione, la nostra fiducia e la nostra giustizia stanno nella fede che ci fa contemplare la grandezza del Signore buono1, compassionevole e accogliente.
In effetti, il brano del vangelo di oggi2, prima di narrare il miracolo, racconta di Gesù che accoglie il mendicante cieco. Come tutti, per prima cosa quest’uomo ha bisogno di essere accolto. Ma Cristo fa ancora di più lo sorprende ricolmandolo di amore che sana occhi e cuore. Investe quest’uomo di luce e con la luce delle fede. Bartimeo riconosce in Gesù Cristo il Dio fatto uomo. Con questo miracolo l’amore efficace di Dio invade la sua vita per sostenerlo istante per istante con la Sua Presenza. Anche noi, con la vista guarita dal Redentore stampiamo gli occhi su di Lui e chiediamogli la forza di appoggiarci solamente su Lui, in nulla poggiando su noi stessi, “perché presso nel Signore è la sorgente della vita. Nella sua luce vediamo la luce” (cfr. Sal 36/35, 10).
In questa luce non dobbiamo smettere di mendicare Cristo. Come il cieco, lasciamo quel pezzo di strada dove si è seduti per mendicare la vita e facciamoci, anche noi medicanti di Cristo e, quindi, discepoli della Vita. Con il miracolo di poter vedere Bartimeo è afferrato in una relazione nuova e sorprendente, che lo attrae e lo seduce. Ora il non-più-cieco segue Cristo, con il cuore e gli occhi rivolti a Lui, origine (alfa) e compimento (omega) di tutto: famiglia, lavoro, amicizie. Ora egli sa a Chi mendicare; lo seguirà in un cammino di fede e di illuminazione che durerà per tutta la vita, per imparare ad andare “diritto davanti a sé”.

3) La strada.
La strada del cieco è la nostra strada, e Cristo ci passa sempre, fino alla fine: perché Lui è venuto per il cieco, per ciascuno di noi e, finché ci sarà un cieco, Lui sarà sulla strada. Lui è la Via e la fede permette al cieco guarito, come a ciascuno di noi, di camminarvi sopra. La fede è un cammino di illuminazione: parte dall’umiltà di riconoscersi bisognosi di salvezza e giunge all’incontro personale con Cristo, che chiama a seguirlo sulla via dell’amore che coincide con la via delle Croce.
La modalità per eccellenza di seguire il Redentore su questa via è la verginità consacrata. Con la consacrazione le vergini entrano con passo deciso sulla via dell’amore, perché con l’offerta totale, spirituale e fisica, di se stesse seguono Cristo sulla via della Croce, che è strada del sacrificio. Consacrano a Cristo anche il loro corpo per essere anime pure a sua piena disposizione. Grazie al loro amore verginale e devoto adorano il Corpo di Cristo che sta sull’altare o nel tabernacolo, “avendo cura delle sue membra che sono i poveri” (San Gregorio Magno). Queste spose di Cristo non parlano dell’amore: amano, testimoniando che è possibile imitare Cristo che ha dato la vita con un amore profondo, sofferente, dolce, “tenero cioè attento alla totalità del nostro essere” (San Giovanni Paolo II).


1  Cfr. Guglielmo di Saint-Thierry (circa 1085-1148), La Contemplazione di Dio, 1-2 ; SC 61.

2  E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc10, 46-52).

Lettura Patristica
San Gregorio Magno (540-604)
Hom. in Ev., 2, 1-5.8


       Il nostro Redentore, prevedendo che gli animi dei suoi discepoli si sarebbero turbati a causa della sua Passione, predisse loro con molto anticipo sia lo strazio della Passione che la gloria della sua Risurrezione, affinché, vedendolo morente, così come era stato predetto, non avessero dubitato che sarebbe anche risorto. E siccome i discepoli erano ancora carnali e del tutto incapaci di comprendere le parole del mistero, il Signore operò un miracolo. Davanti ai loro occhi, un cieco riacquistò la vista, perché coloro che non capivano le parole dei misteri celesti per mezzo dei fatti celesti venissero consolidati nella fede. Però, fratelli carissimi, i miracoli del Signore e Salvatore nostro vanno considerati in modo tale da credere che non soltanto accaddero realmente, ma vogliono altresì insegnarci qualcosa con il loro simbolismo. I gesti di Gesù, invero, oltre a provare la sua divina potenza, con il mistero insito in loro ci istruiscono. Noi non sappiamo in verità chi fosse quel cieco, però sappiamo cosa egli significa sul piano del mistero. Il cieco è simbolo di tutto il genere umano, estromesso dal paradiso terrestre nella persona del primo padre Adamo. Da allora, gli uomini non vedono più lo splendore della luce superna, e patiscono le afflizioni della loro condanna. E nondimeno, l’umanità è illuminata dalla presenza del suo Salvatore, sì da poter vedere - almeno nel desiderio - il gaudio della luce interiore, e dirigere così i passi delle buone opere sulla via della vita.

       Una cosa è degna di nota a questo punto ed è il fatto che il cieco riacquista la vista allorché Gesù si avvicina a Gerico. Gerico sta per luna, e luna, secondo la Scrittura, indica le deficienze della umana natura. Il motivo è forse da ricercare nel fatto che essa va soggetta ogni mese a fenomeni di decrescenza, cosicché è stata designata quale espressione della fragilità della nostra carne mortale. Sta di fatto che mentre il nostro Autore si appressa a Gerico, il cieco riacquista la vista. Il che vuol dire che allorché il Signore assunse la debolezza della nostra natura, il genere umano riacquistò la luce che aveva perduto. La risposta al gesto di Dio, che incomincia a patire le umane debolezze, è il nuovo modo di essere dell’uomo, elevato ad altezze divine. Ecco perché, a buon diritto, il Vangelo dice che il cieco sedeva lungo la via a mendicare. Gesù, infatti, che è la Verità, afferma: "Io sono la via" (Jn 14,6).

       Chi perciò ignora lo splendore dell’eterna luce è cieco; se, però, già crede nel Redentore, egli siede lungo la via; se però, pur credendo, trascura di pregare per ricevere l’eterna luce, è un cieco che siede lungo la via, senza mendicare. Solo se avrà creduto e avrà conosciuto la cecità del suo cuore, pregando per ricevere la luce della verità, egli siede come cieco lungo la via e mendica. Chiunque perciò riconosce le tenebre della propria cecità, chiunque comprende cosa sia questa luce di eternità che gli fa difetto, invochi con le midolla del cuore, invochi con tutte le espressioni dell’anima, dicendo: "Gesù, Figlio di David, abbi pietà di me". Ma occorre anche ascoltare quanto segue al clamore del cieco: "Coloro che gli camminavano innanzi lo rimproveravano affinché tacesse" (Lc 18,38-39).

       Cosa mai significano quei tali che precedono Gesù che viene, se non le turbe dei desideri carnali e il tumulto dei vizi che, prima che Gesù arrivi al nostro cuore, con le loro suggestioni dissipano la nostra mente e confondono le voci del cuore in preghiera? Spesso, quando intendiamo far ritorno a Dio dopo il peccato, e ci sforziamo di pregare per la remissione di quelle colpe che abbiamo commesso, si presentano alla vista i fantasmi dei nostri peccati e accecano l’occhio dell’anima, turbano lo spirito e soffocano la voce della nostra orazione. Si spiega così il fatto che coloro che precedevano Gesù imponevano al cieco di tacere; infatti, prima che Gesù arrivi al nostro cuore, i peccati commessi si impadroniscono del nostro pensiero invadendolo con le loro immagini e turbandoci nella nostra preghiera.

       Prestiamo attenzione ora a quel che fece allora quel cieco che anelava ad essere illuminato. Continua il Vangelo: "Ma il cieco con più forza gridava: Figlio di David, abbi pietà di me!" (Lc 18,39). Vedete? Quello stesso che la turba rimproverava perché tacesse, grida con lena centuplicata, a significare che tanto più molesto risulta il tumulto dei pensieri carnali, tanto più dobbiamo perseverare nella preghiera. Sì, la folla ci impone di non gridare, perché i fantasmi dei nostri peccati spesso ci molestano anche nel corso della preghiera. Ma è assolutamente necessario che la voce del nostro cuore tanto più vigorosamente insista quanto più duramente si sente redarguita. In tal modo, non sarà difficile aver ragione del tumulto dei pensieri perversi e, con la sua assidua importunità, la nostra preghiera perverrà alle orecchie pietose di Dio.

       Ritengo che ognuno potrà trovare in se stesso la testimonianza di quanto vado dicendo. Quando ritraiamo l’anima dal mondo per orientarla a Dio, quando ci votiamo all’orazione, succede che molte cose, fatte per l’innanzi con piacere, ci diventino pesanti, moleste e importune nella preghiera. Allora, sì e no riusciamo a scacciare il pensiero di tali cose, allontanandole dagli occhi del cuore, pur usando la mano del santo desiderio. Sì e no riusciamo a vincere certi molesti fantasmi, pur levando gemiti di penitenza.

       Però, allorché insistiamo con vigore nella preghiera, fermiamo nella nostra anima Gesù che passa. Per questo viene aggiunto: "Gesù si fermò e ordinò che il cieco gli fosse condotto dinnanzi" (Lc 18,40). Ecco, colui che prima passava, ora sta. È così, perché fintanto che sopportiamo le turbe dei fantasmi, sentiamo quasi che Gesù passa. Quando invece insistiamo con forza nell’orazione, Gesù si ferma per ridarci la luce. Infatti, se Dio si ferma nel cuore, la luce smarrita è riacquistata...

       Ma ormai è tempo di ascoltare cosa fu fatto al cieco che domandava la vista, o anche cosa fece egli stesso. Dice ancora il Vangelo: "Subito recuperò la vista e si mise a seguire Gesù" (Lc 18,43). Vede e segue chi opera il bene che ha conosciuto; vede, ma non segue chi del pari conosce il bene, epperò disdegna di farlo. Se pertanto, fratelli carissimi, conosciamo già la cecità del nostro peregrinare; se, con la fede nel mistero del nostro Redentore, già stiamo seduti lungo la via; se, con la quotidiana orazione, già domandiamo la luce del nostro Autore; se, inoltre, dopo la cecità, per il dono della luce che penetra nell’intelletto siamo illuminati, sforziamoci di seguire con le opere quel Gesù che conosciamo con l’intelligenza. Osserviamo dove il Signore si dirige e, con l’imitazione, seguiamone le orme. Infatti, segue Gesù solo chi lo imita...

       E siccome noi scadiamo dall’interiore gaudio verso il piacere delle cose sensibili, egli volle mostrarci con quale sofferenza si debba ritornare a quel gaudio. Che cosa non dovrà patire l’uomo per il proprio vantaggio, se Dio stesso ha tanto patito per gli uomini? Chi dunque ha già creduto in Cristo, ma va ancora dietro ai guadagni dell’avarizia, monta in superbia per la propria dignità, arde nelle fiamme dell’invidia, si sporca nel fango della libidine, o desidera le prosperità mondane, disdegna di seguire quel Gesù nel quale ha creduto. Uno al quale la sua Guida ha mostrato la via dell’asprezza, percorre una strada diversa, perciò se ricerca gioie effimere e piaceri.

venerdì 19 ottobre 2018

Una prospettiva nuova: il servizio come carriera.


Domenica XXIX del Tempo Ordinario – Anno B – 21 ottobre 2018
Rito Romano

Rito Ambrosiano
Is 26,1-2.4.7-8; 54,12-14a; [Ap. 21,9a.c-27]; Sal 67; 1Cor 3,9-17; Gv 10,22-30
Dedicazione del Duomo di Milano.


1) Un Dio che serve.
Il brano evangelico di questa domenica (Mc 10,35-45) sembra che ripeta alcune parole che Cristo ha già detto in precedenza: “Chi vuole essere grande si faccia servo di tutti” (cfr. Mc 9,35), che però i discepoli continuano a non comprendere, come non capiscono Cristo che annuncia la sua passione. La reazione degli Apostoli alla terza predizione della Passione è peggiore delle precedenti.
Dopo la prima ci fu una discussione tra Gesù e Pietro. Questi pensava ancora secondo gli uomini e non secondo Dio e, quindi, voleva convincere Cristo a non andare a morire.
Dopo la seconda ci fu l’incomprensione di tutti gli apostoli, intenti a litigare su chi fosse il più grande.
Dopo la terza è come se Gesù non avesse detto nulla. Anzi, Giacomo e Giovanni, che Lui prediligeva, invece di fare la sua volontà, vogliono che Lui faccia la loro. In effetti, chiedono a Gesù: “Vogliamo sedere uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” (cfr. Mc 10, 37), mentre gli altri si arrabbiano per questa richiesta.
Reazione non è certamente in linea con l’amore umile, predicato dal Maestro. Gesù paziente raccoglie intorno a sé anche gli altri apostoli e rivolgendosi sia ai due, che cercavano potere e onore, che agli altri dieci, che erano irritati da questa richiesta forse perché era stata fatta prima che loro potessero fare altrettanto, spiega che l’Apostolo più grande è quello che serve.
Per far meglio comprendere il suo pensiero ai discepoli, Gesù si serve di due paragoni, uno negativo e uno positivo. Li invita a non esercitare la loro autorità come fanno i principi del mondo (questo è il paragone negativo), poi continua chiedendo loro di comportarsi come Lui, che è «il Figlio dell'uomo (ecco il paragone positivo) il quale non è venuto a farsi servire, ma a servire e dare la propria vita in riscatto per le moltitudini».
Dunque nel Regno di Dio è grande chi serve e il miglior servizio è quello di dare la vita. Già il servire è un po’ morire, è la croce quotidiana. Ma se si accetta questa croce ci uniamo al servizio che Cristo offre a tutta l’umanità, manifestando l’amore gratuito e misericordioso di Dio.
Se il dare la vita è il modo più alto di servire, nella vita quotidiana servire vuol dire almeno essere utili in modo gratuito, senza calcolo, disinteressatamente. Servire significa organizzare la propria intera esistenza in modo da prendersi a carico dell’altro fino al completo dono di sé. Servire con autorità vuol dire mettersi a disposizione della persona amata perché cresca (autorità viene dal latino ‘augere’ che vuol dire far crescere). E’ un servizio d’amore che opera “in riscatto” della moltitudine, come fanno, in modo meraviglioso i missionari.
L'espressione «in riscatto» non va intesa anzitutto come se significasse «per saldare il debito», bensì come «solidale con» o «al posto di»: cioè l'idea prevalente non è quella del debito, che deve assolutamente essere pagato, costi quello che costi, bensì l'idea della solidarietà che intercorre tra il Figlio dell'uomo e le moltitudini (Gesù, in altre parole, è il Fratello maggiore, buono –nulla impedisce di pensare con il Papa emerito Benedetto XVI che ci sia un terzo figlio oltre ai due, di cui parla la parabola del Padre Misericordioso- che si sente coinvolto e prende sulle proprie spalle la situazione del fratello minore, prodigo). Il Figlio di Dio e dell'uomo è venuto per vivere questa solidarietà, divenendo in tal modo la trasparenza visibile, toccabile con mano, dell'amore di Dio e della sua alleanza. E come mi diceva una volta un missionario: “La più grande solidarietà, la più grande carità che noi possiamo fare agli altri è di annunciare loro che Cristo è risorto” e cambia la vita, perché l’amore di Cristo risorto non è “qualcosa di individualistico, unicamente spirituale, riguarda la carne, riguarda il mondo e deve trasformarlo” (Benedetto XVI, 28 giugno 2007). Siamo quindi chiamati a “servire il Vangelo nella solidarietà e nella comunione … Una vocazione che dobbiamo compiere indossando il grembiule del servizio, come ha fatto Gesù nell’Ultima Cena con suoi Apostoli (Papa Francesco, 16 novembre 2017.
    Con pazienza, Gesù insegna che per essere grandi con Lui e come Lui occorre esercitare l’autorità come fa Lui: servendo. “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Questa frase è il punto di forza dell'intero insegnamento di Cristo. E’ una frase che va molto al di là del semplice esercizio dell’autorità fatto con pazienza, dolcezza e umiltà. E così la commenta l’autore dell’Imitazione di Cristo: “Se vuoi regnare con Gesù, porta con Lui la croce. Solo i servi della croce trovano la via della beatitudine e della vera luce” (cfr. Cap. 56)
Per partecipare alla sua grandezza, Gesù non ci chiede solo di fare come Lui, ma di essere come Lui: servi. “Ognuno può essere grande, perché ognuno può servire. Non è necessario avere una laurea per servire. Non è necessario concordare soggetto e verbo per servire. E' necessario solamente un cuore pieno di grazia” (Martin Luther King), rigenerato dall’amore di Cristo in Croce.

2) L’autorità è di chi ama e l’esercita con il servizio1.
L’autorità nel Cristianesimo è concepita e vissuta come esercizio dell’amore, perché per Cristo chi Lo ama, questi è colui che può e deve guidare gli altri suoi amici, facendosi loro servitore.
    E’ questo l’insegnamento che viene dal testo di San Marco che stiamo esaminando oggi. Ai discepoli che chiedono a Gesù di condividere la Sua grandezza, Lui risponde insegnando che la grandezza sta nel servizio e che il servizio è un cammino di croce cioè di dono di sé perché l’amico viva. Non è bello soffrire, ma è doveroso, bello e gioioso “servire” anche se ha come prezzo la rinuncia di sè. “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).Insegnamento, questo, che viene anche da un non cristiano come il poeta indiano Tagore: Sognavo che la vita fosse gioia. Mi sono svegliato. La vita era servizio. Ho servito e nel servizio ho trovato la gioia”. E la Beata M. Teresa di Calcutta ha completato dicendo: “Dove c’è Dio, lì vi è amore. E dove c’è amore, vi è sempre servizio. Il frutto dell’amore è il servizio e il frutto del servizio è la pace”.
    La vera grandezza, che è quella di Dio, è quella di essere servo dell’amore, perché servire è, nel Nuovo Testamento, la traduzione concreta di amare. Amare vuol dire servire l’altro. Come l’egoismo vuol dire servirsi dell’altro.
Nella mentalità dominante l’autorità è concepita e praticata come potere, quasi sinonimo di dominazione e, in questo senso, essa è il contrario del servizio. Ma teniamo presente che anche se Gesù ha goduto di profonda autorità e ha agito con autorità2: eppure Gesù è stato anche colui che il Nuovo Testamento ha presentato soprattutto ricorrendo all’inno del servo sofferente (Is 52,13-53,12), come uno che ha dato la sua vita per gli altri, esprimendo al massimo grado la verità che non c'è miglior amico di colui che dona la sua vita per gli altri. “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio” (Is 42,1) E’ Dio che parla e presenta il “suo” servo; è Lui che lo ha “scelto”, è Lui che lo sostiene.
Ogni elezione nella Scrittura è sempre in vista di una missione per affrontare la quale c’è bisogno della grazia. Dio dice che il suo servo è “cosa buona” e che ha posto in lui il suo Spirito. “Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.”(Is 49,2) Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all'ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. (Ibid.)
In sintesi per noi il servo è un uomo, scelto tra gli uomini; non è migliore degli altri né più capace; è Dio che gli va incontro, che lo purifica e lo rende capace di dirgli di sì; la chiamata ad essere santo si concretizza nella missione agli altri, quale inviato di Dio; questa missione consiste soprattutto nell'annunziare la Parola, nel prestare la voce a Dio, nell’essere suo testimone. Secondo il Vangelo, l’autorità è, quindi, una qualifica che Dio dà per un servizio. Se volessimo esprimerci con una pagina del Vangelo di San Giovanni, potremmo rifarci alla lavanda dei piedi, la sera dell'ultima cena nel Cenacolo.
L’episodio della lavanda dei piedi ci rimanda al vangelo di Marco, dove Gesù è preoccupato di non assimilarsi ai grandi della terra: non vuole essere servito, ma servire. Donando la sua vita vuol dimostrare che sa portare sino alle estreme conseguenze la verità in cui crede e la missione che il Padre gli ha affidato. Non solo ma ci vuole far capire che la vita cristiana è vita nella gioia, perché servire Dio, il prossimo, e la Chiesa, dà gioia. “Chi dà agli altri lo faccia con semplicità, chi aiuta i poveri lo faccia con gioia!” (Rm 12, 7-8).

3) L’autorevole servizio delle vergini consacrate3.
Riflettendo su come le vergini consacrate sono grandi e su come esercitino l’autorità dell’amore servizievole, ho pensato che oggi sia importante sottolineare quanto segue. Le vergini consacrate nel mondo dedicano la loro vita e tutte le loro forze di amore a Dio e al suo Regno. Loro testimoniano che ogni vocazione è accoglienza della carità di Dio e risposta a Lui nel servizio degli altri. Esse ricordano la sorgente teologale dell’amore soprattutto attraverso la verginità che richiama quella verginità del cuore e degli affetti che nasce e si alimenta dell’intima e feconda comunione con il Signore.
Questa donne seguono in modo particolare l’esempio della Madonna. Maria Vergine ha risposto "Si" alla proposta di “essere per l’altro”. Non solo ha capito la portata e la grandezza della chiamata di Dio ma nelle sue parole:” Eccomi sono la serva del Signore” ha interpretato in modo esemplare il vero atteggiamento al servizio chiesto da Dio. Un servizio operoso, silenzioso, che sotto la croce si è fatto cooperante della volontà del Padre, e forse mai come in quel momento sono ancora risuonate nel suo cuore quelle parole: “Eccomi sono la serva del mio Signore”.
Chi ama serve tutti e va in cerca, come Cristo, particolarmente degli esclusi, dei diseredati, dei peccatori, e con la vita casta proclamano che Dio li guarda, li ama, li salva.
La loro importanza non è misurata da ciò che essi producono, in termini di efficienza, ma dallo spirito e dallo stile che li anima e dalla comunione ecclesiale che vivono.
La loro è una vocazione al servizio, che mostra mediante la consacrazione e la vita che ne deriva che si può passare da un “io” possessivo ad un “io oblativo.
Queste donne mostrano come si fa ad amare il prossimo come se stessi. Basta amare Gesù, perché chi ama davvero vuol bene anche a coloro che l’Amato ama.
Questo insegna pure il Rito della Consacrazione delle vergini. Grazie a questo Rito la Chiesa celebra la decisione di una donna di donare a Cristo Sposo la propria verginità e, invocando su di lei il dono dello Spirito, la dedica per sempre al servizio cultuale del Signore e a un servizio di amore in favore della comunità ecclesiale e del mondo.
  La consacrazione è una risposta alla chiamata di Dio Padre “sorgente purissima da cui scaturisce il dono della integrità verginale”. Per mezzo di Cristo Lui chiama le vergini “per un disegno d’amore […] per unirle più intimamente a sé e metterle al servizio della Chiesa e dell’umanità” (Rito della Consacrazione delle Vergini, n. 29 – Omelia). Per questo la Chiesa invoca su di loro tutte le virtù, grazie e carismi di cui hanno bisogno per vivere la loro vocazione, pregando cosi: “Concedi, o Padre, per il dono del tuo Spirito, che siano prudenti nella modestia, sagge nella bontà, austere nella dolcezza, caste nella libertà. Ferventi nella carità, nulla antepongano al tuo amore; vivano con lode senza desiderare la lode.” (Ibid, n 38 – Dalla preghiera di consacrazione).


1  Si pensi all’episodio in cui dopo la risurrezione, sulla riva del lago di Tiberiade Gesù Cristo chiede a Pietro: “Mi ami tu?”. “Sì”. “Pasci le mie pecore”.

2  E’ proprio Marco che ci riferisce come Gesù sin dall'inizio insegnava con autorità (1,27).

3  L’Ordo Virginum è una forma di vita consacrata; nel Codice di Diritto Canonico è inserita col can. 604 nella parte III “Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica” (Liber II: “De Populo Dei”): “A queste diverse forme di vita consacrata si aggiunge l’ordine delle vergini le quali, emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito liturgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa”.

Lettura Patristica
Sant’Ambrogio da Milano
De fide, 5, 56s., 60-65, 77-84



       Quanto è paziente e clemente il Signore; che alta sapienza e benevola carità! Volendo, infatti, far vedere che Giacomo e Giovanni non avevano chiesto una cosetta da niente, ma una cosa tale che non l’avrebbero potuta ottenere, fece ricorso alla prerogativa della benevolenza del Padre; e non temé una derogazione al suo diritto, al diritto di "colui che non credette di fare un torto dichiarandosi uguale a Dio" (Ph 2,6). Amando però i suoi discepoli - "li amò sino alla fine" (Jn 13,1) - non volle dar loro l’impressione che negasse loro quanto chiedevano. Santo e buono il Signore, che preferisce dissimulare il suo diritto, piuttosto che detrarre qualche cosa alla sua benevolenza: "La carità", infatti, "è paziente è benigna, non vuol sopraffare, non si gonfia, non reclama diritti" (1Co 13,4).

       Perché finalmente vi rendiate conto che l’espressione "non è cosa mia darlo" vuole suggerire indulgenza più che mancanza di autorità, osservate che, in Marco (Mc 10,40), dove non si parla della madre, non si fa alcuna menzione del Padre, ma è detto soltanto: "Non è cosa mia darlo a voi, ma a coloro per i quali è stato preparato". In Matteo, invece, dove è la madre che prega, vien detto: "Per i quali è stato preparato dal Padre mio" (Mt 20,23); e l’aggiunta "Padre mio" è fatta perché l’amore materno richiedeva una maggiore indulgenza.

       Ammettiamo che fosse stato possibile per degli uomini ottenere ciò che si chiedeva, che cosa significa quel: "Non è cosa mia darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra" (Mt 20,23)? Che vuol dire cosa "mia"? Più sopra disse: «Il mio calice lo berrete», poi dice: «Non è cosa "mia"». Il "mio" unito a calice, ci fa luce per capire che cosa vuol dire qui cosa "mia".

       Pregato da una donna, come uomo, di far sedere i suoi figli alla sua destra e alla sua sinistra; dal momento ch’ella s’era rivolta a lui, come a un uomo, anche il Signore, solo come uomo, accennando alla sua passione, risponde: "Potete bere il calice, che io berrò?"

       Perciò, poiché parlava secondo la carne della passione del suo corpo, volle dimostrare che ci lasciava un esempio di una passione da soffrire nella carne. "Non è cosa mia" va inteso come l’altra espressione: "La mia dottrina non è mia" (Jn 7,16), non è mia secondo la carne, perché le cose divine non sono oggetto del parlare della carne.

       Rivelò tuttavia subito la sua indulgenza verso i suoi amati discepoli, chiedendo: «Ma il mio calice lo berrete?». Così, non potendo dar loro ciò che chiedevano, fece un’altra proposta, per poter dir loro un sì, prima di un no; perché capissero ch’era mancata più a loro l’equità nella richiesta fatta, che non la generosità nella risposta del Signore.

       "Il mio calice, sì, lo berrete", cioè affronterete la passione della mia carne, perché potete imitare ciò che deriva in me dalla natura umana; vi ho dato la vittoria della passione, l’eredità della croce; "ma non è cosa mia il darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra". Non dice semplicemente: "Non è cosa mia dare", ma "darvi", cioè dare a voi. E questo dovrebbe significare che non si tratta di mancanza di potere in lui, ma di merito nelle creature.

       Si può anche intendere così: "Non è cosa mia", di me che venni a insegnar l’umiltà, di me che venni non per essere servito, ma per servire; di me, che seguo la giustizia, non favoritismi.

       Poi appellandosi al Padre aggiunse: "Per i quali è stato preparato", per dire che il Padre non guarda le raccomandazioni, ma i meriti, perché Dio non fa preferenze di persone (Ac 10,34). Perciò l’Apostolo dice: "Coloro che sapeva lui e che predestinò" (Rm 8,29); prima li conobbe e poi li predestinò, vide i meriti e predestinò il premio...

       A ragione, dunque, è ripresa la donna che chiese delle cose impossibili, e domandò che fossero ridotte a speciale privilegio quelle cose che il Signore voleva dare non solo a due apostoli, ma a tutti i suoi discepoli, e non a titolo di una particolare raccomandazione, ma per sua volontaria generosità, come sta scritto: "Voi dodici siederete sopra troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele" (Mt 19,28).