venerdì 30 novembre 2018

Educare la mente e il cuore all’attesa


Rito Romano – I Domenica di Avvento. – Anno C - 2 dicembre 2018
Ger. 33, 14-16; 1Tess. 3, 12-4, 2; Lc. 21, 25-28, 34-36
Innalzate nei cieli lo sguardo.

Rito Ambrosiano – III Domenica di Avvento.
Is 45,1-8; Sal 125; Rm 9,1-5; Lc 7,18-28
Grandi cose ha fatto il Signore per noi.



1) Un cuore d'Avvento.
Anche quest’anno 
l'Avvento, l’attesa del Salvatore si ripresenta puntuale alla considerazione dei cristiani, quasi una scadenza abituale, eppure mai ripetitiva, perché esso segna la nuova tappa di un cammino, che rende sempre più forte e chiara la fede nel Redentore che viene. Si tratta di un cammino che si fa sequela sempre più perfetta, fino a che non si giunga all'incontro ultimo e definitivo col Signore Gesù.
Nel vangelo di questa prima Domenica di Avvento tutto è descritto come se si trattasse di una catastrofe cosmica, che scuote le stelle e getta gli uomini nella massima confusione (Lc 21, 25-26).
Luca non intende necessariamente annunciare la fine del mondo. Egli ricorre al genere letterario delle apocalissi per dire che la caduta di Gerusalemme sarà una tappa decisiva per instaurare il Regno di Dio sul mondo.
La conclusione che i primi cristiani hanno tratto dall’avvenimento della distruzione di Gerusalemme è: la fine della Città Santa non ha coinciso col ritorno finale del Signore. Dunque, il ritorno del Signore non è facile da prevedere, però i segni del suo accadere possono essere riconosciuti da chi ha “un cuore d’Avvento” (Don Primo Mazzolari), un cuore tutto proteso verso Dio che viene e che si dona.
Un cuore d’Avvento che si prepara bene per accogliere degnamente il Salvatore, il desiderato dalle genti, l’atteso vivamente dal Popolo eletto. Cristo è quel " germoglio" di cui Geremia parla, l'uomo nuovo, l'inviato da Dio, che ristabilisce la giustizia, non una giustizia punitiva, ma un dono di misericordia che ridona dignità di figlio ad ogni uomo, e riannoda la comunione con quel Dio che è Padre.
Nell’odierna Liturgia della Parola di Dio –dono sempre nuovo che ci fa comprendere la fedeltà di Dio- ci è proposto questo messaggio di preparazione alla venuta del Signore, dell’Emmanuele: il Dio con noi. Il testo del Vangelo è emblematico al riguardo e non ammette confusioni di alcun genere. Cristo verrà sulle nubi del cielo con la potenza divina che gli appartiene. Siamo certi di questa venuta e per questo siamo chiamati a prepararci nella preghiera, che nel caso specifico non è solo il moltiplicare i tempi di preghiera, ma vivere in un atteggiamento orante costante. Infatti solo chi si pone con l'umiltà del cuore davanti a Dio e pone la sua fiducia in Lui può attendere la venuta di Cristo senza paura e scossoni.
Però, oltre alla preghiera, è necessaria una vita buona, che si concretizza in comportamenti e atteggiamenti degni della luce, come ci ricorda l’Apostolo Paolo: “E' ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno” (Rm 13, 11b.12-13a).

2) Un cuore d’Avvento che si fa culla.
L’invito dell’Avvento è principalmente: “Alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28), apriamo dunque l’intelligenza ed il cuore per accogliere Colui che è atteso dal mondo intero: Gesù. Alziamo gli occhi al Signore e viviamo nell’attesa, vigilanti nella preghiera perché ogni momento è gravido di salvezza.
La liturgia ci dice da dove veniamo e dove andiamo. Quando si celebra un Battesimo, c'è all’inizio un dialogo fra il sacerdote e i genitori del neonato: "Cosa chiedete alla Chiesa per questo bambino?". "La vita eterna", è la risposta. Fin dall'inizio conosciamo il punto di approdo. L'inizio e la fine sono indissolubilmente uniti. La nostra vita non sarà, dunque, l'odissea di Ulisse ma l'esodo di Israele dalla schiavitù alla libertà in una terra promessa, dove si pratica la libertà dell'amore disinteressato a Dio e del servizio generoso ai fratelli. 
Alle nostre mani, così fragili, al nostro cuore che si fa culla è consegnato Dio che si fa carne, per amore. Se viviamo nella carità, ogni attimo è quello della presenza, della venuta del Signore in noi. Se viviamo la carità, Dio dimora nel nostro cuore sempre: a sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino.
In ogni istante è nascosto l'attimo dell'incontro. Vegliare, dunque, per cogliere il senso delle cose. Vegliare sul senso del tempo. Vegliare sui tempi della vita. Perché l'Avvento è il tempo benedetto in cui Dio viene. L'Avvento, tempo di attesa, è tempo di gioia perché ogni venuta di Cristo è dono di grazia e di salvezza, che ci spinge a vivere il presente come tempo di responsabilità e di vigilanza. La “vigilanza” vuol dire la necessità - l'urgenza - di un'attesa viva, operosa e certa, perché sappiamo di poter contare sul Dio fedele.

3) E se fosse il Cuore di Dio ad attenderci?
Nell’Avvento la Chiesa ci chiede di vivere l’attesa di Dio che si fa incontro a noi e ci vuole un cuore veramente puro per riconoscere l’Infinito che si incarna in un Bambino deposto in una mangiatoia. Come non essere lieti di un Dio così vicino, che nasce a Betlemme (città del pane) per farsi Pane di Vita.
Un fatto è certo: noi possiamo vivere ignorando Dio o mettendoLo nell'angolo delle cose da non valutare, e quindi superflue, ma Dio non ci abbandona. Lui, per riguardo alla nostra libertà, che ci ha donata, resta in attesa che noi apriamo gli occhi, sapendo finalmente scoprire il grande inganno che il diavolo ha imbastito avvolgendo e accecando il nostro cuore con le cose. Quante volte, purtroppo rispondiamo al desiderio di infinito con una infinità di cose (Cfr Solgenistin). Possono essere felicità le cose senz'anima, come il denaro o altro? 
Se siamo sinceri, sentiamo che nella vita ci manca 'Qualcuno'. Niente ci affascina a lungo, né tantomeno ci riempie. Alla fine, se siamo onesti, dobbiamo affermare quanto dice il libro dei Proverbi: 'Vanità, tutto è vanità'. 
Abbiamo davvero bisogno di Chi ci conduca oltre la vanità e povertà di questa terra, ma non sappiamo o non vogliamo metterci in ricerca. 
L'Avvento è proprio il tempo in cui dovremmo aprire porte e finestre della nostra anima per sentire i 'passi' di Dio, che sta per venire tra di noi. 
Non è da saggi nascondere a noi stessi la nostalgia del Padre, di quel Padre che ci attende come il Padre misericordioso ha atteso ogni giorno il figlio prodigo. E venne un bel giorno in cui questo figlio perduto (ciascuno di noi) tornò è fu “natale”, perché il figlio morto era tornato alla vita.
Viviamo l’avvento con la certezza di essere attesi da Dio: alla grotta di Betlemme, al Cenacolo, sul Calvario, in Chiesa e, infine, a Casa Sua e nostra.
L'atteggiamento del credente non è quello del sognatore ingenuo, perché non si fonda sulle forze umane o sul caso, ma di chi sa che la vita cambia con l’incontro con la Vita.
L’attesa è di non vivere ripiegati su se stessi, è guardarsi attorno e rendersi conto che ci sono tanti fratelli e sorelle che come noi sono "mendicanti d'amore" e con loro guardare in alto.
La vita quotidiana può appesantire il cuore, ma se la si vive nella dedizione a Dio e nella condivisione con il prossimo il cuore resta leggero. In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate, che imitano la consacrazione di Maria Vergine e Madre. La Madonna, “la Vergine dell’attesa e Madre della speranza” (Benedetto XVI), è la protagonista dell’avvento e la “Porta”, che il Figlio ha varcato per entrare nel mondo.
Questa donne consacrate sono chiamate a vivere nella vigilanza. (Rituale della Consacrazione delle Vergine, n. 21, nella preghiera conclusiva delle litanie, prima della decisione della verginità il Vescovo prega per loro così: « Conducile nella via della salvezza, perché loro desiderano ciò che ti piace e siano sempre vigilanti per compierlo »). Di conseguenza, le Vergini consacrate sono chiamate a perseverare nel loro zelo verso Dio, donandosi a Cristo, e contribuiscono così a donare Cristo ai fratelli ed alle sorelle, servendo Dio e la Chiesa (Rituale di Consacrazione n. 36:: « Lo Spirito Santo, che fu dato alla vergine Maria e che oggi ha consacrato i vostri cuori, vi animi con la sua forza per il servizio di Dio e della Chiesa »).

Consigli pratici:
1) Oltre alla preghiera ed alla mortificazione nel mangiare, allestiamo un presepe in casa. Ciò ci aiuterà ad alzare lo sguardo, a fare memoria dell’inizio dell’abitare di Dio in mezzo a noi, a non soffocare la nostalgia di Dio, evitando la sclerosi degli occhi e del cuore.

2) Per chi ha più tempo propongo i Sermoni sull’Avvento di San Bernardo di Chiaravalle:
http://it.scribd.com/doc/10918675/San-Bernardo-Sermoni-Avvento

oppure

3) Per chi ha meno tempo suggerisco la lettura di questa poesia di Clemente Rebora con commento di Mons. Luigi Giussani:
http://www.tracce.it/default.asp?id=266&id2=263&id_n=7791

Dall'immagine tesa
vigilo l'istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell'ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
 un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d'improvviso,
quando meno l'avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
Avvento significa "venuta, arrivo" ed è subito chiaro di chi aspettiamo l'arrivo, la venuta: del Signore Gesù.


Lettura Patristica
San Gregorio Magno (540 circa - 604)
Sermo 1, 1-3


       Fratelli carissimi, il nostro Signore e Redentore, volendoci trovare preparati e per allontanarci dall’amore del mondo, ci dice quali mali ne accompagnino la fine. Ci scopre quali colpi ne indichino la fine, in modo che se non temiamo Dio nella tranquillità, il terrore di quei colpi ci faccia temere l’imminenza del suo giudizio. Infatti alla pagina del santo Vangelo che avete ora sentito, il Signore poco prima ha premesso: "
Si leverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno terremoti, pestilenze e carestie dappertutto" (Lc 21,10-11); e poi ancora: "Ci saranno anche cose nuove nel sole, nella luna e nelle stelle; sulla terra le genti saranno prese da angoscia e spavento per il fragore del mare in tempesta" (Lc 21,25); dalle cui parole vediamo che alcune cose già sono avvenute e tremiamo per quelle che devono ancora arrivare. Che le genti si levino contro altre genti e che la loro angoscia si sia diffusa sulla terra l’abbiam visto più ai nostri tempi che non sia avvenuto nel passato. Che il terremoto abbia sconquassato innumerevoli città, sapete quante volte l’abbiam letto. Di pestilenze ne abbiamo senza fine. Di fatti nuovi nel sole, nella luna e nelle stelle, apertamente per ora non ne abbiam visto nulla, ma che non siano lontani ce ne dà un segno il cambiamento dell’aria. Tuttavia prima che l’Italia cadesse sotto la spada dei pagani, vedemmo in cielo eserciti di fuoco, cioè proprio quel sangue rosseggiante del genere umano, che poi fu sparso. Di notevoli confusioni di onde e di mare non ne abbiamo ancora avute, ma poiché molte delle cose predette già si sono avverate, non c’è dubbio che avvengano anche le poche, che ancora non si sono avverate; il passato è garanzia del futuro.

       Queste cose, fratelli carissimi, le andiamo dicendo, perché le vostre menti stiano vigilanti nell’attesa, non s’intorpidiscano nella sicurezza, non s’addormentino nell’ignoranza e vi stimoli alle opere buone il pensiero del Redentore che dice: "
Gli abitanti della terra moriranno per la paura e per il presentimento delle cose che devono avvenire. Infatti le forze del cielo saranno sconvolte" (Lc 21,26). Che cosa il Signore intende per forze dei cieli, se non gli angeli, arcangeli, troni, dominazioni, principati e potestà, che appariranno visibilmente all’arrivo del giudice severo, perché severamente esigano da noi ciò che oggi l’invisibile Creatore tollera pazientemente? Ivi stesso si aggiunge: "E allora vedranno venire il Figlio dell’uomo sulle nubi con gran potenza e maestà". Come se volesse dire: Vedranno in maestà e potenza colui che non vollero sentire nell’umiltà, perché ne sentano tanto più severamente la forza, quanto meno oggi piegano l’orgoglio del loro cuore innanzi a lui.

       Ma poiché queste cose sono state dette contro i malvagi, ecco ora la consolazione degli eletti. Difatti viene soggiunto: "
All’inizio di questi avvenimenti, guardate e sollevate le vostre teste, perché s’avvicina il vostro riscatto". È la Verità che avverte i suoi eletti dicendo: Mentre s’addensano le piaghe del mondo, quando il terrore del giudizio si fa palese per lo sconvolgimento di tutte le cose, alzate la testa, cioè prendete animo, perché, se finisce il mondo, di cui non siete amici, si compie il riscatto che aspettate. Spesso nella Scrittura il capo sta per la mente, perché come le membra son guidate dal capo, così i pensieri sono ordinati dalla mente. Sollevare la testa, quindi, vuol dire innalzare le menti alla felicità della patria celeste. Coloro, dunque, che amano Dio sono invitati a rallegrarsi per la fine del mondo, perché presto incontreranno colui che amano, mentre se ne va colui ch’essi non amavano. Non sia mai che un fedele che aspetta di vedere Dio, s’abbia a rattristare per la fine del mondo. Sta scritto infatti: "Chi vorrà essere amico di questo mondo, diventerà nemico di Dio" (Jc 4,4). Colui che, allora, avvicinandosi la fine del mondo, non si rallegra, si dimostra amico del mondo e nemico di Dio. Ma non può essere questo per un fedele, che crede che c’è un’altra vita e l’ama nelle sue opere. Si può dispiacere della fine di questo mondo, chi ha posto in esso le radici del suo cuore, chi non tende a una vita futura, chi neanche sospetta che ci sia. Ma noi che sappiamo dell’eterna felicità della patria, dobbiamo affrettarne il conseguimento. Dobbiamo desiderare d’andarvi al più presto possibile per la via più breve. Quali mali non ha il mondo? Quale tristezza e angustia vi manca? Che cosa è la vita mortale, se non una via? E giudicate voi stessi, fratelli, che significherebbe stancarsi nel cammino d’un viaggio e tuttavia non desiderare ch’esso sia finito.




venerdì 23 novembre 2018

Cristo regna dalla Croce e accoglie tutti noi con infinita misericordia.


25 novembre 2018
Rito Romano
XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B - Solennità di Cristo Re dell’Universo
1Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37

Rito Ambrosiano
II Domenica di Avvento
Is 19,18-24; Sal 86; Ef 3,8-13; Mc 1,1-8
Popoli tutti, lodate il Signore!

1) Re non dell’altro mondo, ma del mondo vero.
Gesù non è solo Re di un regno diverso, è un Re diverso, che ha come scopo di servire la verità della carità, che rende liberi. Infatti l'esercizio della sua regalità non ci schiavizza, non ci rende suoi sudditi al modo umano, ma piuttosto ci innalza a Sé, ci fa partecipi della sua medesima vita. “La Regalità di Cristo è il contrario dell’esercizio del potere. E’ servizio, è dono di sé fino alla morte” (Maurice Zundel) per donarci la vita.
Nel vangelo di oggi Cristo a Ponzio Pilato che gli chiede se Lui è re, risponde: «Io sono re: per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità». Dunque, la regalità di Cristo è completamente sottomessa alle esigenze della verità, parola che nel linguaggio dell'evangelista Giovanni indica la verità di Dio, il suo amore per l'uomo, la sua tenerezza per ogni uomo.
Nel suo breve e serrato dibattito con Pilato, Gesù afferma un'altra cosa importante: «Chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce». Per comprendere la regalità di Gesù e per partecipare al suo Regno (e potremmo aggiungere per correttamente annunciare e festeggiare questa regalità) occorre aver scelto la verità.
Ma che cos’è la Verità? E’ Cristo!
Gesù Cristo è l’unico uomo che nella storia umana abbia detto: « Io sono la verità » (Gv 14,6). E a tutti noi affamati della verità su Dio, sull’uomo e sul mondo, Cristo si offre come Parola di verità, pronunciata da Dio stesso, come risposta a tutti gli interrogativi del cuore umano.
Come Parola che non solo ha creato il mondo ma che lo regge: ne è il Re, un Re da conoscere non solo con la ragione ma con il cuore. Ben a ragione Sant’Agostino scriveva: “Non si entra nella verità se non attraverso la carità”.
Cristo è testimone regale della verità, perché regge l’uomo e il mondo in modo autentico. Non lo domina, non lo governa con lo scettro e il trono, o meglio il suo trono è la Croce, vero segno di amore infinito, e il suo scettro non è un bastone di comando ma sempre la Croce che diventa un “pastorale”, mediante il quale guida le sue “pecorelle” e le corregge (reggere con) non perché le punisce, ma perché le mette sulle sue spalle (=le regge con e sulle sue spalle).
Questo è il suo modo di regnare, che è spiegato anche da questo esempio: Nell’atrio di una clinica di Maternità a Monaco di Baviera sul muro c’è scritto a caratteri cubitali: “La mano che muove una culla muove il mondo intero”. Ognuno di noi è una “simbolica culla” e Cristo si è assunto il “materno” compito di muoverla con le sue mani “regali”, perché con il ritmo lento del tempo, noi diventiamo adulti in Lui.
Per imparare da lui a reggere e servire il mondo in questo modo, preghiamo spesso il Salmo 84 (85), che vv 11 e 12 dice: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La Verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo” ed avremo così un mondo vero. Un mondo nuovo, in cui l’amore di Dio e la sua fedeltà si manifestano, dove la verità germoglia in una rinnovata primavera e la giustizia si affaccia dal cielo per iniziare il suo cammino in mezzo all’umanità.
La regalità di Cristo è sorgente di misericordia, fa sbocciare la verità fa fiorire la giustizia e risplendere la pace. Sant’Agostino scrive: “ ‘La verità è sorta dalla terra’: Cristo, il quale ha detto: ‘Io sono la verità’ (Gv 14,6), è nato da una vergine. ‘E la giustizia si è affacciata dal cielo’: chi crede in colui che è nato non si giustifica da se stesso , ma viene giustificato da Dio. ‘La verità è sorta dalla terra’ poiché il ‘Verbo si è fatto carne’ (Gv 1, 14). “E la giustizia si è affacciata dal Cielo’: perché ‘ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto discendono dall’alto’ (Gc 1,17). ‘La verità è sorta dalla terra’, cioè ha preso un corpo da Maria” (S. Agostino, Discorsi, 185,2).

2) Testimone della verità.
Salendo in Croce e morendovi, Cristo non è stato sconfitto dal mondo. L’ha conquistato con il suo amore. Egli ha introdotto nel mondo un Regno vero: la Signoria caritatevole di Dio. Nei cuori degli uomini. L’amore divino, grazie a Cristo, è diventato di casa sulla terra. Nei cuori dei poveri, dei bambini, dei misericordiosi, nei cuori puri: nei santi, quelli che sono stati canonizzati e quelli che solo il cuore di Dio conosce. Tutti questi, e noi con loro, formiamo un Regno di cui si vedono almeno dei pezzetti. E tutti capiscono che questi “santi” non vogliono conquistare il mondo per usarlo avidamente, e non si organizzano per costruire una potenza mondiale. Essi voglio fare regnare l’amore di Dio vero nel e sul mondo.
Si potrebbe obiettare che questo messaggio di Dio sia astratto che l’uomo non può capirlo, che la Presenza regale di Cristo sia poco concreta. Ma nel Vangelo di oggi Gesù ridice: “Io sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, e chiunque che è dalla parte della verità ascolta la mia voce”. Chiunque cioè tutti e non solo chi ha studiato il catechismo o ha ascoltato prediche e conferenze o fatto teologia. Cristo Re si fa ascoltare e capire da tutti, parlando dalla Croce parole di perdono.
Ognuno può ascoltare questa voce di verità, che afferma che solo l’amore può dare senso alla vita. E noi cristiani non abbiamo il monopolio di questa verità abbiamo il compito di continuare a portare nel mondo, esplicitamente e consapevolmente, la testimonianza di questa verità che si fa perdono.
Per essere come Cristo testimoni della verità, recitiamo spesso il “Padre nostro”, chiedendo intensamente che “venga il Regno” di Dio: se la sua Signoria si afferma non solo in cielo ma anche sulla terra il cuore di Dio pulserà in mezzo a questo mondo senza cuore.
Segno di riconoscimento della Regalità di Cristo e di dedizione al Cuore di Dio è il velo che le Vergini consacrate ricevono nel giorno della loro consacrazione. Il velo è simbolo di intimità, velo è simbolo di verginità, è simbolo di consacrazione. E quando le Vergini lo ricevono il Vescovo dice: “Care figlie, ricevete questo velo, segno della vostra consacrazione; non dimenticate mai che siete votate al servizio del Cristo e del suo corpo, che è la chiesa” (RCV, 25). Questo servizio è testimonianza di verità, che si propone al mondo come dono di sé. Nel mito pagano di Atlante, questo gigante sostiene il mondo sulle sue spalle, ma lo fa controvoglia, perché è una punizione della sua ribellione contro Giove. Al contrario Cristo vuole andare in Croce, in obbedienza amorosa al Padre e con la Croce sostiene il mondo, amandolo, manifestando l’amore infinito e tenero di Dio per l’umanità intera.
La Croce di Cristo è il punto fermo, in mezzo ai mutamenti e agli sconvolgimenti del mondo. La vita del cristiano partecipa della stabilità della Croce, che è quella di Dio, del suo amore fedele. Rimanendo saldamente uniti a Cristo, come tralci alla Vite, anche noi, siamo associati al suo mistero di salvezza, come la Vergine Maria, che presso la Croce stava unita al Figlio nella stessa oblazione d’amore, che oggi regna.

3) Convertirsi a questo amore.
La seconda domenica di Avvento ambrosiano ci invita ad essere figli del Regno, convertendoci a questo amore vero. Il peccato dell’uomo è che pensa di essere vero senza Dio e si vive soffocando il cuore. La conversione per vivere l’avvento è ritornare all’amore del Padre, domandando perdono e lasciandoci amare dall’amore esigente di Dio.
Convertiamoci perché così potremo essere fra quelli a cui Cristo Gesù dirà: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo” (MT 25,34).




Nota sul velo

La simbologia del velo ha origini antiche e viene adoperata nell'arte cristiana anche per mettere in risalto gli insegnamenti dogmatici. Il velo è simbolo del cielo - rammentiamo la tenda del tempio tessuta, secondo gli apocrifi, da Maria, che si strappa nel momento della morte di Gesù (Mt 27, 51 ; Mc 15, 38, Lc 23, 45) e questo "aprirsi" del velo significa che la morte di Cristo apre la via verso il Santo dei Santi, verso la Gerusalemme celeste per tutti gli uomini.
Il simbolismo del velo è strettamente legato al culto mariano: il fedele entra nel Regno di Dio, «attraverso il velo, cioè la carne di Cristo», come scrive San Paolo (Eb 10, 20), e fu Maria, sua Madre, in cui il Verbo si fece carne.

Etimologia di Re:

dal verbo latino régere: reggere, governare, dominare, dunque la persona che regge, governa, domina.




Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona (350 – 430)
Comment. in Ioan., 115, 1-3



Gesù Re e Pilato

       In questo discorso dobbiamo esaminare e spiegare che cosa disse Pilato a Cristo, e cosa egli rispose a Pilato.

       Dopo aver detto ai giudei: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge», e dopo che essi gli ebbero risposto: «Non è permesso a noi dare la morte ad alcuno», "
Pilato rientrò nel pretorio, e chiamò Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei giudei?». Rispose Gesù: «Da te lo dici, ovvero altri te l’hanno detto di me?»" (Jn 18,33-34). Il Signore sapeva bene quel che chiedeva a Pilato, come pure sapeva cosa egli gli avrebbe risposto; tuttavia, volle che fosse detto ciò, non per sapere quanto già sapeva, ma perché fosse scritto quanto voleva che giungesse a nostra conoscenza. "Rispose Pilato: «Sono io forse giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me: che hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero certamente combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei giudei; invece il mio regno non è di quaggiù»" (Jn 18,35-36).

       Questo è quanto il buon maestro ci volle insegnare: ma prima era necessario dimostrarci quanto vana fosse l’opinione che del suo regno avevano sia i gentili sia i giudei, dai quali Pilato l’aveva appresa. Essi pretendevano che egli dovesse esser messo a morte perché aveva cercato di impadronirsi ingiustamente del regno; oppure perché sia i romani che i giudei dovevano temere, come avverso al loro potere, il suo regno, in quanto appunto i detentori del potere sono soliti temere ed esser gelosi di chi potrebbe prendere il loro posto. Il Signore avrebbe potuto rispondere subito alla prima domanda di Pilato: «sei tu il re dei giudei?», dicendo: «il mio regno non è di questo mondo». Ma egli, chiedendo a sua volta se quanto Pilato domandava, lo diceva da sé, cioè fosse la sua opinione personale, oppure l’avesse inteso da altri, volle che fosse palese, attraverso la risposta di Pilato, che erano i giudei a formulare tale accusa contro di lui. Egli ci mostra così la vanità dei pensieri degli uomini (
Ps 93,11), che ben conosceva, e rispondendo loro, giudei e gentili insieme, con parole più opportune ed efficaci, dopo quanto ha detto Pilato, dice: «Il mio regno non è di questo mondo».

       Se avesse fatto questa dichiarazione subito dopo la prima domanda di Pilato, si sarebbe potuto pensare che egli rispondesse, non anche ai giudei ma ai soli gentili, come se fossero stati solo questi ad avere di lui una tale opinione. Poiché invece Pilato risponde: «Sono io forse giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me», allontana da sé ogni sospetto che si possa ritenere che egli abbia spontaneamente detto, e non piuttosto sentito dai giudei, che Gesù aveva affermato di essere re dei giudei. E Pilato, inoltre, col chiedergli: «che hai tu fatto?», lascia intendere che egli era stato condotto a motivo di un delitto. È come se Pilato dicesse: Se non sei re, che hai fatto di male da essere consegnato a me? Quasi non fosse già straordinario il fatto che si consegnasse al giudice per essere punito chi diceva di essere re, ecco che se non avesse detto ciò, il giudice deve chiedere cos’altro abbia fatto di male per essere condotto da lui ad essere giudicato.

       Ascoltate dunque, giudei e gentili, ascoltate circoncisi e incirconcisi; tutti i regni della terra prestino orecchio: Io non danneggio il vostro potere in questo mondo, dice in sostanza il Signore, perché «il mio regno non è di questo mondo». Non fatevi prendere dall’assurdo timore che colse Erode, quando apprese la nascita di Cristo, e si spaventò tanto che fece uccidere tutti i neonati, sperando di uccidere anche Gesù tra quelli, mostrandosi così sanguinario e crudele più per la paura che non per la collera (
Mt 2,3-16). «Il mio regno» - dice il Signore - «non è di questo mondo». Che volete di più? Venite dunque nel regno che non è di questo mondo; venite credendo, e guardatevi dalla crudeltà ispirata dalla paura. È vero che in una profezia, il Figlio, parlando di Dio Padre, ha detto: "Sono stato consacrato re da lui su Sion, il sacro suo monte" (Ps 2,6), ma questo monte e quella Sion non sono dl questo mondo. Di chi è composto il suo regno, se non di coloro che credono in lui, ai quali egli ha detto: «Non siete del mondo, così come io non sono del mondo»? Senza dubbio egli voleva che essi dimorassero nel mondo, e per questo chiese al Padre: «Non domando che tu li tolga via dal mondo, ma che li custodisca dal male». Notate che anche ora non dice: Il mio regno non è in questo mondo; ma dice: «il mio regno non è di questo mondo». E dopo aver provato la sua asserzione, soggiungendo: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero certamente combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei», non dice: invece il mio regno non è qui, ma dice: «il mio regno non è di quaggiù». In realtà, il suo regno è qui, sulla terra, fino alla fine dei secoli, dove la zizzania è mischiata al buon grano sino alla mietitura che sarà alla fine dei tempi quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo regno tutti gli scandalosi (Mt 13,38-41). E questo non potrebbe accadere, se il suo regno non fosse sulla terra. Tuttavia, esso non è di quaggiù, perché è esiliato nel mondo. È al suo regno, cioè a questi pellegrini nel mondo, che egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo». Essi erano del mondo, quando ancora non facevano parte del suo regno ma appartenevano al principe di questo mondo. Tutto quanto negli uomini è stato creato da Dio, ma che ha avuto origine dalla stirpe colpevole e dannata di Adamo, appartiene al mondo; e tutto quanto è stato rigenerato in Cristo fa parte del regno e non appartiene più al mondo. È in questo modo che Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre (Col 1,13) e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. Ed è appunto di questo regno che egli dice: «Il mio regno non è di questo mondo», oppure: «Il mio regno non è di quaggiù».

       "
Gli disse allora Pilato: «Dunque tu sei re?». E Gesù rispose: «Tu dici che io sono re»" (Jn 18,37).

       Il Signore non teme di riconoscersi re, ma la sua espressione: «tu lo dici», è così calibrata che non nega di essere re (re, si intende, il cui regno non è di questo mondo), ma neppure afferma di esserlo, in quanto ciò potrebbe far pensare che il suo regno è di questo mondo. In questo senso infatti pensava Pilato, col dire: «dunque tu sei re?». Gesù risponde: «tu lo dici», cioè tu sei della terra, e secondo la carne così ti esprimi.
       


venerdì 16 novembre 2018

Non la fine di tutto, ma incontro con il Tutto

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario – Anno B – 18 novembre 2018
Rito Romano

Rito Ambrosiano
Is 13,4-11; Sal 67; Ef 5,1-11a; Lc 21,5-28
I Domenica di Avvento
La venuta del Signore
 
  1. Un futuro segnato dalla certezza di un incontro definitivo.
L'anno liturgico sta per terminare. Domenica prossima celebreremo la solennità di Cristo Re e quella successiva sarà la I domenica d’Avvento che darà inizio al nuovo anno liturgico.
Oggi, la Chiesa ci invita a prestare la nostra attenzione, non tanto alla fine di questo anno liturgico, ma alla fine del mondo, che per noi coincide con la fine della nostra vita terrena. È su questo ultimo punto che la Chiesa invita tutti a prestarvi la più grande attenzione possibile, perché dopo saremo sottoposti a giudizio.
La fine del mondo non è la distruzione di tutto, ma l’incontro di noi tutti con Dio, il Tutto che si incontra con noi definitivamente accogliendoci nella sua misericordia. Ci incontriamo con Cristo, il Volto buono del Destino, il Figlio dell’uomo. Lui è il Signore che perdona, lo Sposo che ci ama, il Signore del sabato: Lui è colui che si mette nelle nostre mani e tutto ci dona, fino a dare la vita per noi.
La fine del mondo è per noi come un ladro che ci ruba tutto o l’incontro con lo Sposo che ci dà tutto? A questa domanda risponde il brano del discorso di Gesù, che è proposto dalla Liturgia di oggi, e che ha un linguaggio che gli esperti chiamano “apocalittico”. Questo aggettivo viene dal sostantivo “apocalisse”, che letteralmente vuol dire rivelazione. Tuttavia nel linguaggio comune il termine ha perso il significato originario di “rivelazione” e, soprattutto fuori dall'ambiente religioso, è passato a indicare qualsiasi evento di grande calamità o un succedersi di eventi disastrosi. Ciò è accaduto perché è un linguaggio ricco di immagini forti e spesso inquietanti, che hanno lo scopo di suscitare un ascolto rispettoso e attento perché venato di timore.
Infatti, nel Vangelo di oggi Gesù afferma: “Il sole e la luna si oscureranno e le stelle cadranno e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli (Gesù, il Figlio dell’uomo) manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13, 24-27).
Dunque, con le parole apocalittiche (letteralmente rivelatrici) dei vv 24-25 di Marco 13, il Cristo ci dice che il mondo e l’umanità che lo abita sono fragili: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo. Ma nei vv 26- 27, Gesù fa intuire che se c'è un mondo che muore, c’è anche un mondo nuovo che nasce per Lui e in Lui. Dunque non stiamo andando verso la fine, verso il nulla, ma ci prepariamo all’incontro definitivo con Cristo, il fine della vita, il compimento del mondo. Noi implicitamente pensiamo che andiamo a finire male, per questo abbiamo paura e cerchiamo di non contare i nostri giorni perché poi dopo è la fine. Invece in questo racconto che è fondamentale per la fede cristiana, si presenta il termine della storia, di tutta quanta la storia e il termine della nostra vicenda personale come l’incontro con il Signore.
Il fine di tutta la storia è l’incontro con Lui e tutta la creazione è in cammino verso quest’incontro e tutta la vicenda umana nostra personale e dell’universo non è altro che l’andare avanti sempre più fino a quando traspare nel mondo la gloria del Figlio. Siamo figli, ciò che apparirà alla fine è la nostra gloria, allora vedranno il Figlio dell’uomo venire con molta potenza e gloria. Il senso della storia è la rivelazione del Figlio dell’uomo e in Lui di ogni uomo, nella potenza piena della vita e nella gloria stessa di Dio.
Quindi, il Messia non vuole tanto raccontare la fine del mondo, quanto rivelare il senso della storia. Lui ci dice ha la fine del mondo non è la distruzione di tutto, ma l’incontro di noi tutti con il Figlio dell’uomo. Egli è il Signore che perdona, lo Sposo che ci ama, il Signore del sabato: è colui che si mette nelle nostre mani e tutto ci dona, fino a dare la vita per noi. La fine del mondo non è come l’arrivo di un ladro che ci ruba tutto, ma l’incontro con lo Sposo che ci dà tutto, perché sulla croce di Gesù è già finito il mondo vecchio – si è oscurato il sole – ed è nato il mondo nuovo.
Come ogni essere umano, il cristiano sa che un giorno il sole si spegnerà, ma sa anche che la Luce di Dio risplenderà sempre. La fine del mondo non è la distruzione di tutto, ma l’incontro di noi tutti con il Figlio dell’uomo, con il Redentore dell’uomo e del mondo. Lui è il Signore che perdona. Lui è colui, che si mette nelle nostre mani e tutto ci dona, fino a dare la vita per noi. Insomma la fine del mondo non è un furto di un ladro che mi ruba tutto, è l’incontro con lo Sposo che ci dà tutto. Quindi, non è che andiamo verso il nulla, verso il vuoto, l’Apocalisse negli ultimi due capitoli rappresenta l’incontro proprio come quello della sposa con lo sposo. La Chiesa è la sposa che attende l’arrivo dello Sposo. Non dovremmo avere paura di incontrare l’Amore che viene da noi.


2) Non tanto quando, ma come.
La Chiesa continua a proclamare, in particolare al termine dell’anno liturgico, il fatto di questo incontro d’amore è da vivere nell’attesa. Dando peso alle parole di Cristo: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (Mc 13, 32), la Liturgia ricorda a noi fedeli che siamo chiamati ad essere sempre in attesa di Colui che è venuto secoli fa e che verrà alla fine dei tempi, ma che anche viene ogni giorno, nella nostra vita, nel nostro oggi. Per questo un inno del Breviario ci fa cantare “Notte, tenebre e nebbia,
fuggite: entra la luce,
viene Cristo Signore.

Il Sole di giustizia
 trasfigura ed accende
l’universo in attesa” (Inno delle Lodi, II settimana, mercoledì).

In effetti, in questa trasfigurazione del mondo anche, e soprattutto, il nostro cuore è dilatato così che il Cielo vi trovi più spazio, così che abbia una più viva attenzione, nel senso più letterale del termine di tensione costante al Signore. Egli viene sempre, ma spesso l'incontro non avviene perché noi viviamo una vita superficiale sul piano spirituale, una certa dissipazione: le cose di quaggiù ci attraggono così tanto da rendere indisponibile l'anima a questo meraviglioso incontro. Solo raramente ci troviamo in condizioni spirituali tali da percepire questo "venire" di Dio. Di qui cosa ne viene? Non certo che cambi il Signore, Lui che sempre si fa presente, ma che cambi la nostra anima, in modo da vivere sempre un'attesa, una speranza.
La questione quindi è non tanto sul “quando” (perché Dio ci raggiunge in ogni istante), quanto sul “come”. Quindi, oggi mi permetto di proporre come rispondere a questa domanda: “Come attendere la venuta definitiva del Regno?”
Due sono gli atteggiamenti possibili: quello della paura e quello della speranza.
Se ci si ferma alla drammaticità di certe immagini del Vangelo di oggi, sembrerebbe che debba prevalere la paura. Ma Cristo aggiunge: “Imparate dalla pianta di fico: quando il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, voi sapete che ‘'l'estate è vicina” (Mc 13, 28). Se, da una parte, c'è la descrizione di distruzione, dall’altra, c’è la promessa di una vita tenera e nuova, simboleggiata dall'immagine della pianta di fico le cui nuove foglie insegnano che la morte dell’inverno è sconfitta è la vita dell’estate sta per fiorire e dare frutti di vita.
Paura e speranza si alternano sempre nella vita dell'uomo, anche del credente, tanto da formare una situazione ambigua e irrisolta.
La speranza umana è attesa di qualche cosa che deve venire ma nessun essere umano può disporre del futuro.
La speranza ebraica attendeva il Messia che doveva venire.
La speranza cristiana già fa presente il regno di Dio in noi, già implica la presenza di Dio nel nostro cuore e la presenza di Dio in noi ci rende capaci della vita eterna. “Mediante la speranza noi siamo già in paradiso, anche se il nostro cuore ha ancora paura” (Divo Barsotti).
Per sconfiggere questa paura possiamo riandare ai tanti passi della Bibbia in cui c’è l'invito a non temere, a non avere paura. Per esempio, pensiamo a Pietro, che camminava sulle acque incontro a Gesù, ma poi cedette alla paura del vento e delle onde e affondò. E si ritrovò quella Mano tesa su di lui, che lo rialzò, lo perdonò e gli diede nuova forza.
Tutto questo ci spinge a coltivare la speranza e non la paura, la fiducia e non lo sconforto.
Un modo importantissimo per vivere questo “come”, questa speranza è quello delle Vergini Consacrate nel mondo. Queste donne si impegnano a vivere la verginità perché in questo modo attendono Cristo con speranza piena. Innamorate di Cristo, come “spose” che da tempo non vedono lo Sposo, Lo attendono ogni giorno non solo con speranza, ma anche con ansia e con passione. Ogni giorno pregano per vederLo tornare, di incontrarLo per sempre. Queste donne consacrate vivono la verginità con dedizione completa perché la verginità mantiene l’anima desta e tesa a Cristo. Si dedicano alla preghiera frequente, fatta nel silenzio, per tenere il cuore vigilante. In questo modo ci testimoniano come tutta la nostra persona si debba protendere verso il Signore, che viene a noi, che si dona a noi e che fa rinascere le nostre persone.


Lettura patristica
San Cirillo di Gerusalemme
Catech., 15, 1-3

1. Il ritorno di Cristo

       Annunciamo la venuta di Cristo, non la prima solo, ma anche una seconda, molto più bella della prima. La prima fu una manifestazione di pazienza, la seconda porta il diadema della regalità divina. Tutto è per lo più duplice nel Signore nostro Gesù Cristo: doppia la nascita, una da Dio prima dei secoli, una dalla Vergine alla fine dei secoli; doppia la discesa: una oscura, come (rugiada) sul vello (cf. Jg 6,36-40 Ps 71,6), l’altra piena di splendore: quella che verrà. Nella prima venuta fu avvolto in panni nella mangiatoia, nella seconda è circondato di luce come d’un mantello. Nella prima subì la croce, subì disprezzi e vergogna; nella seconda viene sulle schiere degli angeli che l’accompagnano, pieno di gloria. Non fermiamoci dunque alla prima venuta solamente, ma aspettiamo anche la seconda. Nella prima abbiam detto: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore" (Mt 21,9), e nella seconda lo ripeteremo ancora: insieme con gli angeli andremo incontro al Padrone, ci getteremo ai suoi piedi e diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Viene il Salvatore non per essere nuovamente giudicato, ma per chiamare in giudizio quelli che lo condannarono. Egli, che tacque la prima volta quando fu giudicato, lo ricorderà agli scellerati che osarono crocifiggerlo, dicendo: "Questo facesti, e tacqui" (Ps 49,21). Per la divina economia, venne allora ad ammaestrare gli uomini con la persuasione; ora invece per regnare su di loro a forza, anche se non lo vogliono.

       Di queste due venute dice il profeta Malachia: "E subito verrà al suo tempio il Signore, che voi cercate" (Ml 3,1). Ecco la prima venuta. Invece della seconda venuta dice: "E l’angelo del testamento che voi cercate. Ecco, viene il Signore onnipotente: chi sosterrà il giorno della sua venuta, chi sopporterà la sua vista? Si appresserà infatti come il fuoco della fornace, come la soda dei lavandai, si siederà per fondere e pulire" (Ml 3,2s). E subito dopo il Salvatore stesso dice: "Vi verrò incontro per fare giustizia, e sarò un testimone pronto contro gli avvelenatori e gli adulteri, contro quelli che nel mio nome giurano il falso" (Ml 3,5). Già Paolo allude a queste due parusie scrivendo a Tito: "È apparsa la grazia di Dio, salvatore di tutti gli uomini, e ci ha insegnato a rinnegare l’empietà e le cupidigie mondane, e a vivere in questo mondo con temperanza, con giustizia e pietà, aspettando la beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e salvatore Gesù Cristo" (Tt 2,11-13). Per questo nella fede che a noi è annunciata anche oggi ci è tramandato di credere in colui «che è asceso al cielo, siede alla destra del Padre, e verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».

       Viene dunque il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli; viene nella gloria alla fine di questo mondo, nell’ultimo giorno; ci sarà infatti la fine di questo mondo e il mondo creato sarà rinnovato. Infatti la corruzione, il furto, l’adulterio e ogni specie di delitto si è effuso sulla terra e nel mondo si è mescolato sangue al sangue, affinché perciò questa mirabile dimora non resti oppressa dall’iniquità, se ne va questo mondo perché ne sia inaugurato uno migliore. Vuoi una dimostrazione di ciò dai detti scritturistici? Odi Is che dice: "Il cielo si avvolgerà come una pergamena e tutte le stelle cadranno come le foglie dalla vite, come cadono le foglie dal fico" (Is 34,4). E il Vangelo dice: "Il sole si oscurerà la luna non darà più il suo splendore e gli astri cadranno dal cielo" (Mt 24,29). Non affliggiamoci come se noi soli dovessimo finire: anche le stelle finiscono, ma forse di nuovo risorgeranno. Il Signore arrotola i cieli, non per distruggerli, ma per farli risorgere più belli. Ascolta il profeta David che dice: "In principio tu, Signore, hai fondato la terra, e opera delle tue mani sono i cieli. Essi periranno, ma tu rimani" (Ps 101,26).

       Ma qualcuno obietterà: «Però dice chiaramente che periranno». Ma ascolta in che senso dice «periranno»: è chiaro da ciò che segue: "E tutti invecchieranno come un vestito e tu li avvilupperai come un mantello: ed essi muteranno" (Ps 101,27). Si parla infatti come di una morte di un uomo, come sta scritto: "Vedete in che modo perisce il giusto, e nessuno se la prende a cuore" (Is 57,1), ma se ne aspetta la risurrezione; così aspettiamo quasi la risurrezione dei cieli. "Il sole si muterà in tenebre e la luna in sangue" (Jl 2,31 Ac 2,20). Notino questo i convertiti dal manicheismo: non attribuiscano più la divinità agli astri, né ritengano empiamente che questo sole, il quale si oscurerà, sia Cristo. E ascolta ancora il Signore che dice: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Mt 24,25). Le parole del Signore non possono paragonarsi alle realtà create. Le realtà visibili passano e vengono le realtà che aspettiamo, più belle delle presenti: ma nessuno ne ricerchi curiosamente il tempo: "Non sta in voi" - è detto infatti - "conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato in suo potere" (Ac 1,7). Non osare dunque di stabilire il tempo in cui ciò avverrà; ma neppure, al contrario, non adagiarti supinamente: "Vigilate" - è detto infatti -, "perché nell’ora in cui non aspettate, il figlio dell’uomo verrà" (Mt 24,44).

      

venerdì 9 novembre 2018

Dio ama chi dona con gioia.


Rito Romano
XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B- 11 novembre 2018.
1 Re 17, 10-16; Sal.145; Eb 9, 24-28; Mc 12, 38-44 
Lietamente diamo tutto e riceveremo di più nella gioia.

Rito Ambrosiano
Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo
Is 49,1-7; Sal 21; Fil 2,5-11; Lc 23,36-43
Dal legno della Croce regna il Signore.


1) Il Regno di Dio non ha prezzo, però esso vale tutto ciò che uno possiede (S. Leone Magno, Sermone 32,2)
Delle due donne, di cui si parla nella prima lettura e nel vangelo, sappiamo che sono vedove e quindi senza un sicuro sostentamento né umano né economico, ma che hanno due caratteristiche, che ogni credente dovrebbe avere: abbandono totale a Dio, come ben si vede nella disponibilità piena che la prima ha di accogliere e fare quello che il profeta le chiede, e amorosa fiducia in Dio, per il quale rinunciano a ciò che serve per vivere.
Ma prima di continuare la riflessione, credo sia utile ricordare che nel cortile del Tempio di Gerusalemme, al quale avevano accesso anche le donne, erano allineate tredici ceste, in cui venivano gettate le offerte. C’erano molti ricchi che facevano sostanziose offerte, di cui il sacerdote ripeteva ad alta voce l'entità, suscitando l'ammirazione dei presenti.
Nel vangelo di oggi vediamo che c'è anche una povera vedova che offre poche monete, tutto quanto possiede. Nessun mormorio di ammirazione. Ma Gesù la scorge e richiama l'attenzione dei discepoli con parole che Lui riserva per gli insegnamenti più importanti: «In verità vi dico». Gesù ha finalmente trovato ciò che cercava: un gesto autentico. Un'autenticità garantita da due qualità: la totalità e la fede.
Quella povera, evangelica vedova non ha dato qualcosa del suo superfluo, ma tutto ciò che aveva. Donare del proprio superfluo non è ancora amare. E neppure fede. Donare, invece, fino al punto da mettere allo sbaraglio la propria vita, questa è fede. Questa vedova non solo getta nel tesoro del Tempio tutto quello che ha, ma getta in Dio tutto quello che è. Quel tutto ciò che questa vedova ha ed è e che lei offre totalmente, ci richiama alla mente quella misura dell’amore di Cristo, che è dare la propria vita. L’amore vero è dare tutto, senza calcoli, senza tornaconti, senza misure, come in questo caso, come sempre fa il Signore con noi.
Nella sua semplicità la vedova nel Tempio sapeva, credeva che “il Regno di Dio, invero, non ha prezzo; però esso vale tutto ciò che uno possiede. Nel caso di Zaccheo, esso valse la metà dei suoi beni, perché l’altra metà egli se la riservò per restituire il quadruplo a coloro che aveva defraudato (Lc 19,8); nel caso di Pietro e Andrea, valse le reti e la barca (Mt 4,20); per la vedova, valse solo due spiccioli (Lc 21,2); per un altro, sarà valso magari un semplice bicchiere d’acqua fresca (Mt 10,42)” (Leone Magno, Sermone 32, 2)). Quindi, il Regno di Dio vale tutto quello che uno possiede.
      E se non abbiamo niente? “Supponiamo però di non avere neppure un bicchiere d’acqua fresca da dare al povero Cristo; ebbene, anche in questo caso ci aiuta la Parola di Dio. Alla nascita del Redentore, si mostrarono gli Angeli, cittadini del cielo, cantando: "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buon volere" (Lc 2,14). Davanti a Dio, la nostra mano non è sprovvista di doni, se l’arca del cuore è piena di buona volontà. Ecco perché il Salmista dice: ‘In me sono, o Dio, i voti che ti rendo, a te si levano le mie lodi (Ps 55,12)” (Ibid.).
A parte il fatto che Dio non ha bisogno di niente e che pure le ricchezze, che eventualmente abbiamo, è Lui che le ha create e donate, dobbiamo essere certi che Dio non si “alimenta” con i nostri doni, ma è commosso dall’offerta del nostro cuore.


2) Dio non pesa la quantità, ma il cuore.
A questo riguardo Paolino da Nola scrisse: “Il Signor nostro, il solo buono, come il solo Dio, non vuol ricevere per un calcolo di avarizia, ma per generosità di affetto. Che cosa manca, infatti, a colui che dà tutte le cose? O che cosa non possiede, colui che è padrone dei possidenti? Tutti i ricchi sono nelle sue mani, ma la sua immensa giustizia e bontà vuole che gli si faccia dono dei suoi stessi doni, per avere ancora un titolo di misericordia verso di te, perché è buono. E davvero ti prepari lui un merito di cui tu sia degno, perché egli è giusto!” (Epist., 34, 2).
Chi riesce ad esercitare veramente e continuamente la virtù della povertà evangelica crea in se stesso un “vuoto”, cioè quella disposizione spirituale necessaria ed indispensabile per rendersi idoneo e capace di amare Dio veramente come Lui vuole essere amato e si incammina così sulla via della santità.

In tale situazione l’anima pone tutta la sua fiducia e la sua speranza in Dio; si rende padrona di se stessa; si libera dalle angustie di questo mondo, ottenendo quel grado di pace e di serenità più alto che si può ottenere in terra. Ecco perché Gesù ci ha detto: «Beati i poveri in spirito, poiché di essi è il regno dei cieli» (Mt. 5,3). Ecco perché S. Francesco d’Assisi, che aveva capito bene il richiamo di Gesù, si è distaccato da tutto e da tutti e ha sposato: «Madonna Povertà».
Povertà di spirito è un “vuoto” che solo l’Infinito può colmare. I poveri di spirito più che una categoria di uomini è un modo di essere uomini o, meglio ancora, il modo di essere figli di Dio.
Mi spiego con un esempio, che prendo dalla vita di San Francesco d’Assisi. Questo santo, prima di convertirsi, spendeva in feste con gli amici i soldi del padre, Bernardone, che era un ricco mercante. Quando comincio a vivere con altri amici, che con lui seguivano il Vangelo come regola, viveva poveramente. Suo padre Bernardone, preoccupato di questo cambiamento del figlio ed anche preoccupato che “usasse male” , per i poveri, i soldi di famiglia, fa ricorso all’autorità della Chiesa. Così davanti al Vescovo chiede a Francesco di scegliere tra la famiglia “vecchia” e quella “nuova”, evangelica. Se non fosse tornato a casa, Francesco avrebbe dovuto ridare a papà Bernardone le sue ricchezze. Francesco senza esitazione restituì al padre anche il vestito. Il Vescovo allora coprì con il suo mantello il nudo Francesco. Secondo me, il Santo di Assisi non fece una pura e semplice rinuncia di beni materiali: con quel gesto scelse Dio come Padre e la Chiesa come madre, e sposando “Madonna Povertà” divenne il santo della letizia.
A questo riguardo per le Vergini consacrate il Rituale di consacrazione fa pregare così: “Dio sempre fedele, sii la loro fierezza, la loro gioia e il loro amore; sii per loro consolazione, luce e soccorso, nella povertà, la loro ricchezza, nella privazione il loro nutrimento, nella malattia, la loro guarigione… In te, esse possiedono tutto, perché è te che loro preferiscono a tutto” (n. 24).
E San Giovanni Paolo II sempre riguardo alla povertà delle persone consacrate scrisse: “In realtà, prima ancora di essere un servizio per i poveri, la povertà evangelica è un valore in se stessa, in quanto richiama la prima delle Beatitudini nell'imitazione di Cristo povero. Il suo primo senso, infatti, è testimoniare Dio come vera ricchezza del cuore umano. Ma proprio per questo essa contesta con forza l'idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose. Per questo, oggi più che in altre epoche, il suo richiamo trova attenzione anche tra coloro che, consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la sobrietà, l'imposizione di un doveroso freno ai propri desideri. Alle persone consacrate è chiesta dunque una rinnovata e vigorosa testimonianza evangelica di abnegazione e di sobrietà, in uno stile di vita fraterna ispirata a criteri di semplicità e di ospitalità, anche come esempio per quanti rimangono indifferenti di fronte alle necessità del prossimo.” (Vita consecrata, 25 marzo 1996, n. 90).
Inoltre, le vergini consacrate nel mondo devono dunque ispirarsi all’esempio di questa donna per vivere la loro vocazione sponsale. Anche loro come questa donna sono chiamate a testimoniare che ormai nessun’altra presenza può trovare posto in loro e che come questa donna mettono tutto a disposizione di Dio e del suo Regno. La loro vita diventa così risposta concretissima a Cristo che dice loro: “Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo” (Ct 4,9) e sempre con la loro vita chiedono come la sposa del Cantico dei cantici al suo Diletto: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!” (Ct 8,6). Infatti: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me” (Ct 6,3). La verginità, che rivela l’integrità, la santità e la verità di una persona, permette di vivere per il Signore, di testimoniare che il cuore umano è fatto da Dio e per Dio, di servire Dio con cuore indiviso in una dedizione totale, partendo dal dono di due monetine.


3) Dio ama chi dona con gioia.
Un altro esempio di persona che ha dato tutto è Madre Teresa di Calcutta, una donna il cui volto aveva la freschezza e la pace di quelli a cui la povertà ha insegnato che non hanno niente da difendere. Lei amava ripetere: “La povertà è amore prima di essere rinuncia. Per amare occorre donare. Per donare è necessario essere liberi dall’egoismo”. Ogni volta che ho avuto la fortuna di incontrare Madre Teresa l’ho vista lieta, perché libera. Viveva la libertà della povertà, non tanto perché non aveva beni materiali, ma perché mendicava l’amore di Cristo nella preghiera e nella condivisione. Stare accanto a lei era come essere davanti ad una finestra aperta sul cielo, vederla in attività si intuiva che prestava le sue mani a Dio per soccorrere i più poveri dei poveri.
Il Beato Giovanni Paolo II scrisse: “La povertà confessa che Dio è l'unica vera ricchezza dell'uomo. Vissuta sull'esempio di Cristo che «da ricco che era, si è fatto povero» (2 Cor 8, 9), diventa espressione del dono totale di sé che le tre Persone divine reciprocamente si fanno. È dono che trabocca nella creazione e si manifesta pienamente nell'Incarnazione del Verbo e nella sua morte redentrice” (Esortazione Ap. Post-Sinodale Vita Consacrata, n 21).
Si possiede veramente la povertà evangelica quando si considerano i beni di questo mondo «un nulla, una spazzatura», come dice S. Paolo, oppure si valutano solo in quanto possono diventare strumenti utili per conseguire i beni celesti: si ritengono mezzo per raggiungere il Signore: “Ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil. 3,8).

Comunque, noi saremo come le vedove di cui parlano le letture bibliche di oggi, se doneremo con gioia quello che siamo capaci di dare, poco o tanto che sia. “Dio ama chi dona con gioia, dona di più colui che dona con gioia” (Madre Teresa di Calcutta).
Per fare così, basterà recitare spesso il Magnificat, ricordandoci che quando doniamo qualcosa ai poveri “prestiamo” a Dio quello che abbiamo ricevuto da Lui: “Che cos’hai che non abbia ricevuto?” (1 Cor 4,7).

4) Cristo Re sul povero trono della Croce.
La liturgia ambrosiana ha sei domeniche di Avvento, quindi oggi essa celebra l’ultima festa dell’anno liturgico che è dedicata a Cristo Re.
Ecco due brevi pensieri per legare questa festa alla meditazione domenicale “romana”: Cristo è Re non perché domina con un potere che fa paura, ma perché regge l’universo sulla Croce, segno “povero” del suo immenso amore per noi.
Portiamo la nostra croce quotidiana, coscienti che essa è un frammento di quella di Cristo. Facciamo spesso il segno di Croce, consapevoli che ogni benedizione è sempre legata a questo segno che i sacerdoti fanno sul popolo di Dio e poi devotamente preghiamo come faceva Madre Teresa di Calcutta:
Gloria
al Padre - Preghiera
e al
Figlio – Povertà
e allo
Spirito Santo – Amore per le Anime
Amen – Maria.



Lettura Patristica
Gregorio Magno
Hom. in Ev., 5, 1-3


Il Regno di Dio vale tutto ciò che uno possiede

       Avete udito, fratelli carissimi, che Pietro e Andrea non appena furono chiamati, al primo suono del comando, lasciarono le reti e seguirono il Redentore. Non l’avevano ancora visto operare alcun prodigio; ancora non l’avevano ascoltato in tema di premio eterno; e nondimeno, al primo cenno del Signore, dimenticarono tutto quello che poteva costituire il loro possesso...

       Mi sembra, peraltro, di sentire qualcuno che dice tra sé: Pietro e Andrea erano pescatori, non possedevano nulla o quasi. Cosa mai lasciarono al comando del Signore? Ma, in questo caso, fratelli carissimi, dobbiamo guardare più all’affetto che al valore del censo. Certamente, molto lascia chi non trattiene nulla per sé; molto lascia chi abbandona completamente tutto quel che possiede. Noi, invece, siamo aggrappati gelosamente a quanto possediamo e desideriamo avidamente quel che non abbiamo. Pietro e Andrea lasciarono davvero molto, dal momento che rinunciarono persino al desiderio di possedere. Sì, questi apostoli lasciarono molto, rinunciando non solo alle cose ma altresì al desiderio di esse. Tanto lasciarono, ponendosi al seguito di Cristo, quanto avrebbero potuto desiderare, se non avessero intrapreso la sua sequela.

       Nessuno dica, quindi, allorché vede che altri han lasciato tutto: imiterei volentieri questi spregiatori del mondo, però non ho nulla da lasciare. Infatti, fratelli, anche voi rinunciate a molto, se rinunciate ai desideri terreni. Lasciando il poco che possedete, è quanto basta per far contento il Signore: egli guarda il vostro cuore, non il vostro patrimonio. Non guarda quanto gli offriamo in sacrificio, bensì l’amore con cui glielo offriamo. Se guardiamo al patrimonio terreno, dobbiamo dire che quei due santi mercanti acquistarono la vita eterna degli angeli, in cambio delle reti e della barca.

       Il Regno di Dio, invero, non ha prezzo; però esso vale tutto ciò che uno possiede. Nel caso di Zaccheo, esso valse la metà dei suoi beni, perché l’altra metà egli se la riservò per restituire il quadruplo a coloro che aveva defraudato (
Lc 19,8); nel caso di Pietro e Andrea, valse le reti e la barca (Mt 4,20); per la vedova, valse solo due spiccioli (Lc 21,2 Mc 12,42); per un altro, sarà valso magari un semplice bicchiere d’acqua fresca (Mt 10,42). Quindi, il Regno di Dio, come ho già detto, vale tutto quello che uno possiede.

       Riflettete, dunque, fratelli, sul valore del regno dei cieli: niente vi è di meno costoso nell’acquisto e niente di più prezioso nel possesso. Supponiamo però di non avere neppure un bicchiere d’acqua fresca da dare al povero; ebbene, anche in questo caso ci soccorre la parola divina. Alla nascita del Redentore, si mostrarono i cittadini del cielo, cantando: "
Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buon volere" (Lc 2,14). Davanti a Dio, la nostra mano non è sprovvista di doni, se l’arca del cuore è piena di buona volontà. Ecco perché il Salmista dice: "In me sono, o Dio, i voti che ti rendo, a te si levano le mie lodi" (Ps 55,12). È come se dicesse: «Anche se non trovo fuori di me doni da offrire, nondimeno trovo nel mio intimo qualcosa da porre sull’altare della tua lode, poiché tu non ti pasci del nostro dono, ma ti lasci placare dall’offerta del cuore.