venerdì 28 agosto 2015

Un cibo per il cuore.

Domenica XXII del Tempo Ordinario – Anno B – 30 agosto 2015
Rito Romano
Dt 4,1-2.6-8; Sal 14; Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

Rito Ambrosiano
Is 29,13-21; Sal 84; Eb 12,18-25; Gv 3,25-36
I Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.

1) Religione pura.
Dopo averci proposto -suddiviso in cinque domeniche- il capitolo sesto di Giovanni, la liturgia riprende la lettura di San Marco, il cui Vangelo ci accompagna nelle Domeniche del Tempo Ordinario di questo Anno B. Nel brano evangelico di oggi - capitolo 7º di Marco, Gesù aiuta la gente ed i discepoli ad approfondire il concetto di purezza e le leggi della purezza. A questo riguardo, siamo aiutati anche dalla Lettera di San Giacomo che scrive: “Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27 – II lettura della Messa di oggi).
Da secoli agli ebrei era proibito di entrare in contatto con i pagani e di mangiare con loro, per non contrarre impurità legale.
Convinti che la religione consistesse nel rituale esteriore della religione venuta da Dio, i farisei si scandalizzano che i discepoli di Cristo “prendevano cibo con mani impure” (Mc 7,2). Credendo di obbedire alle leggi di Dio, questi obiettori del Maestro non mangiavano se non si lavavano le mani (Mc 7,3). Identificavano la fedeltà al “Dio vicino” (Dt 4,7) di cui parlava Mosè con quelle “altre cose” che loro facevano “per tradizione” (Mc 7,4).
La prima cosa da notare è che Gesù non insegna affatto a disobbedire alla legge. Insegna a combattere l’ipocrisia e il formalismo, a dare più importanza alle disposizioni del cuore, piuttosto che ai gesti e ai riti esteriori. Quindi, da una parte, Cristo condanna la lontananza da Dio del cuore degli uomini, che pensano di onorarlo con l’osservanza scrupolosa di regole prescritte dalla legge, dall’altra, insegna che la “purezza” non è questione di mani lavate o di labbra purificate con dei riti, ma di cuore.
Nessun cibo che da fuori entra nell’essere umano potrà renderlo impuro, perché non va fino al cuore, bensì allo stomaco e finisce nella fogna. Ciò che rende impuri, dice Gesù, è ciò che dal di dentro, dal cuore esce per avvelenare il rapporto umano.
Ciò che è sporco, immondo o impuro non sono le cose esterne, ma le cattive azioni e intenzioni, che vengono da un cuore cattivo e lontano da Dio. Dio non è presente dove è assente il cuore, perché distratto, chiuso nella paura.
Come far tornare il cuore a Dio? Come avvicinarci a Lui?
A Dio ci avviciniamo “con il frequente lavacro delle elemosine, delle lacrime e degli altri frutti della giustizia che rendono il cuore e il corpo puri per poter partecipare ai misteri celesti.” (San Beda il Venerabile).
Insomma, la religione proposta da Gesù non è riducibile a riti esterni, ad una morale o a una dottrina: è la rivelazione del volto di Dio nell’umanità di Gesù che viene a dirci che nessuna legge, grande o piccola che sia ha senso e valore se non nasce dall’amore, se non è accompagnata dall’amore e se non si consuma nell’amore. Cristo, e il suo Vangelo, porta l’amore e la sua legge al cuore dell’uomo e lo ricrea.
Il culto cristiano non è riducibile all’esecuzione di alcuni riti per una commemorazione di eventi passati, e nemmeno una particolare esperienza interiore, ma essenzialmente è un incontro con il Signore risorto nel profondo del cuore purificato e attirato da una presenza che gratuitamente si fa incontro e gratuitamente si fa riconoscere.
Dobbiamo comprendere che la nostra salvezza (possiamo anche dire la nostra felicità, perché il riverbero umano della salvezza è la felicità, il riverbero umano della grazia di Cristo è il piacere della Sua grazia) non dipende dalle opere buone compiute secondo la legge. Benedetto XVI ha sottolineato che la salvezza non dipende dalle opere buone, compiute secondo la legge, opere buone, come buona e santa è la legge (cfr. Rm 7, 12)], ma dal fatto che Gesù era morto anche per ciascuno di noi peccatori: “Ha amato me e ha dato sé stesso per me” (Gal 2, 20)], ed era, ed è, risorto. L’importante che come San Paolo il nostro cuore riconosca che siamo “un nulla amato da Gesù Cristo”. “Io sono un nulla”, dice San Paolo di sè stesso al termine della seconda Lettera ai Corinzi (2Cor 12, 11) e nella Lettera ai Galati: “Ha amato me e ha dato sé stesso per me” (Gal 2, 20). Un cuore così umile e contrito è un cuore puro e pratica una religione pura, vera.

2) Cuore1 vergine.
La vera religione inizia con il ritorno al cuore, al quale Dio parla nella solitudine, si veda Osea 2, 16: “Ti porterò nel deserto e parlerò al tuo cuore”.
Se il deserto è il luogo “preferito” da Dio per parlarci, tuttavia è importante ricordare che i modi di parlare di Dio sono molti (cfr. Lettera agli Ebrei, 1,1). In questa meditazione ne sottolineo tre.
Il primo di essi è la natura. Il cielo e terra cantano la gloria di Dio e l’essere umano può coglierla, capirla, ammirarla. Il primo modo di parlare di Dio, quindi è la realtà. Il creato donatoci da Dio è il dono che ci parla del Donatore.
Il secondo modo è la Parola, la storia, la Bibbia, la Rivelazione, dove Dio comunica direttamente se stesso.
Il terzo modo è il parlare di Cristo al nostro cuore, dentro il cuore di ciascuno di noi. È il cuore che gioisce, sono gli occhi che diventano luminosi, è la dolcezza che si sente dentro. Cioè Dio parla soprattutto al cuore, dando quei sentimenti che fanno vivere: sentimenti di gioia, di luce e di dolcezza che danno significato, direzione e senso alla vita.
E’ quindi fondamentale capire quale è la Parola che diventa Pane che diventa vita e quale è la parola che diventa morte. Per fare questo è necessario un cuore vergine. Perché non è solo con l’intelligenza che comprendiamo la parola, ma anche con il cuore, che ce la fa sentire e amare. E quando uno ha la Parola nel cuore e la ama, liberamente la realizza2.
Per le Vergini consacrate nel mondo questa realizzazione è apostolica. E’ autenticamente apostolica non in quanto comporti una specifica “opera di apostolato”, ma perché si riconduce all’insegnamento e all’azione degli apostoli, per servire la Chiesa nel mondo. Le Premesse al Rito di consacrazione delle Vergini affermano: “Così il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo” (Premesse, 2). Nella Chiesa ogni dono o carisma assume il volto di ministero. Nel caso della verginità consacrata questo ministero, consegnato e vissuto mediante una pubblica consacrazione, è un “lavoro” di servizio, quindi ministeriale, e una testimonianza “nel cuore della Chiesa e del mondo”. Nella Chiesa locale le Vergini consacrate rappresentano “l’esistenza cristiana come unione sponsale fra il Cristo e la Chiesa, che è fondamento sia della verginità consacrata che del sacramento del matrimonio” (Premesse, 1) cioè delle due vocazioni, nelle quali è raffigurato l’amore di Cristo. L’amore verginale è “richiamo alla transitorietà delle realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri” (Premesse, 1) dentro le vicende del mondo. Così la vergine consacrata è icona della Chiesa locale “presente nel mondo e tuttavia pellegrina” (Premesse, 1). Le Vergini consacrate sono icone di come sia possibile seguire Cristo-Sposo, di cui ascoltano la parola con costanza e di cui si nutrono nell’Eucaristia. Con la mente ed il cuore nutrito di Cristo, queste donne vivono e lavorano nel mondo portandovi con cuore vergine il Vangelo della verginità, “crescendo nell’amore a Gesù e nel servizio ai fratelli, ministero fatto con dedizione libera, cordiale e umile” (cfr. Premesse). Questa umiltà attecchisce sulla verginità del cuore, della persona che fa sì che in lei tutto “è” donato, tutto “è” disponibilità del proprio essere a Gesù.


1 La parola “Cuore” nella Bibbia è usata quasi mille volte. Raramente (circa il 20% dei casi) è usata per indicare l’organo fisico che batte nel petto dell’uomo.
Alla domanda: “Perché Dio ci ha dato un cuore?”, la risposta più comune è: “Per amare”. Nella Bibbia la risposta è che Dio ci ha dato un cuore per pensare e per conoscere:Il Signore non vi ha dato un cuore per comprendere...Occhi per vedere...Orecchi per udire? (Dt 9,3).
Il primo significato della parola “Cuore” nella Bibbia è, quindi, quello di comprendere, conoscere e sapere: Insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore (Sal 90,12); Alcuni scribi pensarono in cuor loro...Gesù disse loro: perché pensate così nei vostri cuori?(Mc. 2,6); Sciocchi e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti (Lc 24,25)
Il secondo significato che la Bibbia dà alla parola cuore è memoria. Anche nella nostra lingua la parola ricordare viene da cuore. Nella bibbia il cuore e la memoria sono legati ed hanno un forte riferimento alla vita di fede: ricordare significa essere fedeli. Sappi dunque e conserva nel cuore che il Signore è Dio...E non ve n’è un altro (Dt 4,39); Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore (Dt 6,6); Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (Lc 1,66-2,19-2,51).
La parola Cuore, infine, è usata nella Bibbia anche per indicare i sentimenti, ma tutti i sentimenti e non solo l’amore. Gioia, desiderio, gratitudine: Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente (Sal 84,3); amarezza: Mi si spezza il cuore nel petto...Il mio cuore geme (Ger 23,9-48,36); fiducia: Si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore(Sal 27); l’amore di Dio per noi ed il nostro amore per Lui: Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio...Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore... (Dt. 6,4 ss.)
Per questa ricchezza di significato spesso nella Bibbia la parola cuore rappresenta la persona nella sua totalità: “Il mio cuore esulta nel Signore...” = “Io esulto nel Signore...” (1Sam 2,1)
Il significato è lo stesso, ma quando si evidenzia il cuore la persona è vista nella sua interiorità: pensieri, sentimenti intimi, progetti segreti e la stessa razionalità, cioè la ragione con cui l’uomo sceglie di vivere la propria vita, per la Bibbia risiedono nel cuore umano. Il cuore dell’uomo è il luogo dove l’essere umano è veramente e totalmente se stesso, senza maschere né ipocrisie: Porrò la mia legge nel profondo del loro essere, la scriverò sul loro cuore...Allora tutti mi conosceranno(Ger. 31,33 ss.). In maniera antropomorfa questa visione del cuore viene poi applicata a Dio stesso:Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione(Os 11,8).


2 Per la Sacra Scrittura il cuore non è solo un’immagine letteraria che simboleggia sentimenti o emozioni, al contrario è il luogo dove si concentra tutto il nostro essere, la parte interiore di noi stessi, da dove hanno origine le nostre decisioni ultime e dove si vivono le nostre esperienze decisive.
Il cuore è la fonte di tutto ciò che l’uomo è o decide di essere o di fare:
  • "Di te ha detto il mio cuore: cercate il suo volto...” (Sal 27,8);
  • “Laceratevi il cuore e non le vesti, e ritornate al vostro Dio” (Gl 2,13);
  • “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me...” (Is 29,13);
  • “L’uomo guarda le apparenze, il Signore guarda al cuore” (1Sam 16,7);
  • “Dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive: furti, omicidi, adulteri...” (Mc 7,21);
  • “Là dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (Lc 12,34);
  • “Con il cuore infatti si crede per ottenere giustizia” (Rm 10,10).

Lettura Patristica
Beda il Venerabile,
Evang. Marc., 2, 7, 1-4

       E si radunarono presso di lui i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme. I quali avendo visto alcuni dei discepoli di lui che mangiavano il pane con mani impure, cioè non lavate, li rimproverarono (Mc 7,1-2).

       Quanto è giusta quella lode che rivolge al Padre il Signore dicendo: "Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai saggi e le hai rivelate ai piccoli!" (Mt 11,25). Gli uomini della terra di Gennesaret, che erano considerati uomini ignoranti, non soltanto personalmente accorrono dal Signore, ma portano con sé i loro infermi, anzi li trasportano sulle lettighe, affinché possa capitare loro almeno di toccare la frangia del suo vestito ed essere salvati: per questo ottengono subito la meritata ricompensa della salvezza che avevano desiderata. Al contrario, i farisei e gli scribi, che dovevano essere maestri del popolo, accorrono dal Signore non per ascoltare la sua parola, non per ottenere la guarigione, ma soltanto per sollevare questioni e contrasti. Rimproverano i discepoli di non aver lavate le mani del corpo, benché non riuscissero a trovare nelle loro opere, compiute con le mani o con le altre membra del corpo, alcuna impurità; avrebbero fatto meglio a incolpare sé stessi, che pur avendo le mani ben lavate con l’acqua, recavano la coscienza insozzata dall’invidia.

       I farisei infatti e tutti i giudei, attaccati alla tradizione degli antichi, non mangiano se non si sono accuratamente lavate le mani, e non prendono cibo, di ritorno dal mercato, se non si sono prima purificati (Mc 7,3-4).

       E una superstiziosa tradizione quella di lavarsi ripetutamente, dopo essersi già lavati, per mangiare il pane, e non prendere cibo di ritorno dal mercato senza essersi prima purificati. Ma è necessario l’insegnamento della verità, secondo il quale coloro che desiderano aver parte al pane della vita che discende dal cielo, debbono purificare le loro opere con il frequente lavacro delle elemosine, delle lacrime e degli altri frutti della giustizia, per poter partecipare ai misteri celesti in purezza di cuore e di corpo. È necessario che le impurità di cui ciascuno si macchia nell’occuparsi degli affari terreni, siano purificate dalla successiva presenza dei buoni pensieri e delle buone azioni, se egli desidera godere dell’intimo ristoro di quel pane. Ma i farisei che accoglievano carnalmente le parole spirituali dei profeti - i quali ordinavano la purificazione del cuore e delle opere dicendo: "Lavatevi, siate puri, e purificatevi (Is 1,16) voi che portate i vasi del Signore" (Is 52,11) - osservavano tali precetti soltanto purificando il corpo. Ma invano i farisei, invano i giudei tutti si lavano le mani e si purificano tornando dal mercato, se rifiutano di lavarsi alla fonte del Salvatore. Invano osservano la purificazione dei vasi coloro che trascurano di lavare la sporcizia dei loro cuori e dei loro corpi, quando è fuor di dubbio che Mosè e i profeti - i quali ordinarono sia di lavare con l’acqua i vasi del popolo di Dio, sia di purificarli col fuoco, sia di santificarli con l’olio - non stabilirono tali prescrizioni per un motivo generico o per ottenere la purificazione di questi oggetti materiali, ma piuttosto per comandarci la purificazione e la santificazione degli spiriti e delle opere e la salvezza delle anime.

venerdì 21 agosto 2015

Stare con chi dà vita alla vita.

Domenica XXI del Tempo Ordinario – Anno B – 23 agosto 2015
Rito Romano
Gs 24,1-2.15-17.18; Sal 33; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69

Rito Ambrosiano
2 Mac 7,1-2.20-41; Sal 16; 2Cor 4,7-14; Mt 10,28-42
Domenica che precede il martirio di San Giovanni il Precursore.


1)Una domanda inquietante che scavalca i secoli.
L’insegnamento di Gesù sul pane di vita, che abbiamo ascoltato nelle ultime quattro domeniche ci ha comunicato la realtà stessa del grande amore di Dio per noi. Cristo ha parlato di un amore, che non è solamente parola. Si tratta di un Amore che va oltre ogni possibile attesa, oltre ogni nostra povera immaginazione. Il Salvatore è l’Amore che dà se stesso, che diventa parte della nostra stessa vita, anzi ci fa parte della Sua stessa Vita: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6, 54).
Questa proposta di un cibo d’amore, purtroppo, suscita una reazione negativa. Gesù non fu capito allora e da troppi non è capito neppure oggi. Oggi come allora, molti dicono: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla? … e “molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con Lui” (Gv 6,60.66).
La parola di Gesù non è “dura”1. È il nostro cuore che è duro, il mio cuore, perché spesso sa solo chiudersi e non vuole ascoltare. La parola del Signore è dolce più del miele (cfr Sal 119, 103). Essa non è neppure troppo difficile da accogliere e da mettere in pratica. Certo è un insegnamento esigente con il quale Cristo ci offre una vita felice, non facile. Dunque alla domanda fatta dal Salvatore con tenerezza, dolore e fermezza: “Volete forse andarvene anche voi?” (Gv 6,67), rispondiamo con prontezza: “Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita vera”, quindi felice.
In effetti, questa domanda di Cristo scavalca i secoli e giunge fino a noi, ci interpella personalmente e sollecita una decisione. Ma se stiamo meditando questo brano del Vangelo è perché ci riconosciamo nell’affermazione dell’apostolo Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68). Di parole intorno a noi ne risuonano tante, ma soltanto Cristo ha parole che resistono all’usura del tempo, che spiegano la vita e che restano per l’eternità.
Come ha fatto San Pietro, dunque, aderiamo alle parole di Cristo senza riserve né esitazioni di qualsiasi tipo.
Come San Pietro rispondiamo al Messia con parole che esprimono la nostra fede di discepoli: “Tu solo hai parole di verità”, perché riconosciamo con fede che Lui è l’unico salvatore, l’unico che rende la salvezza di Dio presente in mezzo a noi.
Come San Pietro siamo certo consapevoli della nostra umana fragilità e come questo Apostolo anche noi possiamo ripetere la sua risposta, fiduciosi nella potenza dello Spirito Santo, che si esprime e si manifesta nella comunione con Gesù. La fede è dono di Dio all’uomo ed è, al tempo stesso, libero e totale affidamento dell’uomo a Dio; la fede è docile ascolto della parola del Signore, che è “lampada” per i nostri passi e “luce” sul nostro cammino (cfr Sal 119, 105).
A questa inquietante provocazione che ci risuona nel cuore, ciascuno di noi deve dare a Gesù una risposta personale. Il Messia, infatti, non si accontenta di un’appartenenza superficiale e formale. Non Gli è sufficiente una prima ed entusiastica adesione. Occorre, al contrario, prendere parte per tutta la vita “al suo pensare e al suo volere”. SeguirLo riempie il cuore di felicità e dà senso pieno alla nostra esistenza. ma comporta fatiche, rinunce e difficoltà, perché molto spesso si deve andare controcorrente.
2) Parole di Vita che fanno viva la vita.
La risposta di San Pietro alla domanda di Gesù “Volete andarvene anche voi?” non termina con l’espressione “Tu solo hai parole di vita eterna”. Il Capo degli Apostoli, parlando a nome degli altri, aggiunse: “e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Gv 6,69).  Espressione che Sant’Agostino spiega così: “Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. Tu hai parole di vita eterna. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo e il tuo sangue. E noi abbiamo creduto e conosciuto. Non dice: abbiamo conosciuto e creduto, ma abbiamo creduto e conosciuto. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? Che tu sei il Cristo Figlio di Dio, cioè che tu sei la stessa vita eterna, e nella carne e nel sangue ci dai ciò che tu stesso sei” (Commento al Vangelo di Giovanni, 27, 9).
L’atteggiamento che sintetizza le parole di Pietro è quello di mettersi davanti al Ss.mo Sacramento in adorazione umile e silenziosa, coltivando nel cuore non il dubbio, ma il desiderio di chi desidera la comunione piena  con Lui.
L’Amen, che la Chiesa ci fa dire quando riceviamo la Comunione acquista così un significato profondo, perché ripete la stessa professione di fede di Pietro: Non senza ragione dici Amen riconoscendo che prendi il corpo di Cristo; quando ti presenti per riceverlo il Vescovo ti dice: il corpo di Cristo! E tu rispondi: Amen! Cioè: è vero. Il tuo animo custodisca ciò che la tua parola riconosce.” (S. Ambrogio).
La Madonna che ha detto il suo fiat, il suo, ci ottenga l’umiltà di cuore per riconoscere il desiderio e la grandezza del Dono divino datoci nel Pane di Vita.
Anche San Pietro con la risposta sulla quale stiamo meditando rinnova il suo fiat, il suo a Cristo. Come possiamo imitarlo? Affidandoci completamente a Cristo rinnovando anche noi il nostro sì, con la preghiera, con l’adorazione eucaristica, con la comunione per ricevere la quale diciamo: “Amen”, cioè “Sì”.
Seguendo l’esempio della Vergine Maria e di San Pietro, fidiamoci di Cristo.
La liturgia di oggi ci offre anche un altro esempio. Quello degli gli Israeliti a Sichem, prima di entrare nella Terra promessa (Gs 24,1-2.15-17.18 – prima lettura): davanti alla scelta prospettata da Giosuè – “Scegliete oggi chi volete servire” – davanti ad una simile alternativa, gli Israeliti si fidarono della buona testimonianza dei loro padri, che erano stati liberati dalla schiavitù dell'Egitto. Si fidarono e scelsero di servire il Signore, anche se non vedevano ancora tutto chiaro su di lui e sulla sua parola.
Un altro particolare esempio di come mettere Cristo al centro della vita è dato dalle Vergini consacrate nel mondo. Queste donne hanno capito che il Signore è colui che ha parole che fanno viva la vita e con la loro vita consacrata testimoniano che Cristo è il cuore del mondo.
Ogni giorno ognuna di loro dice a Cristo: “Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68) non tanto con le parole ma con la propria vita offerta pienamente allo Sposo. La loro vita verginale, infatti rimanda a Cristo, si alimenta alla Sua Parola di vita e si nutre del Suo Pane che non perisce.
Queste donne mostrano che Cristo ha “parole di vita eterna” non solo perché guarisce l’anima e il corpo, ma perché Cristo è il senso dell’umano, la sua stella polare, professano l’orgogliosa coscienza che Cristo è l’uomo nuovo. Il suo progetto di vita è la via e la verità dell’esperienza umana, perché ne è la vita in pienezza. E possono dirlo mostrando prima di tutto in loro che questo le fa crescere, sperare e amare. Se Cristo è il medico, lo è perché è il dono del Padre per ogni uomo e ogni donna. Se Cristo è la verità, lo è perché si fa valere come una verità attraente per il cuore di ciascuno. Se Cristo è la via, lo è perché ci ha dato lo Spirito dell’amore che ci conduce nel cuore di Dio. Se Cristo è tutto questo, allora è la vita, sì: la vita buona e piena. Insomma loro sono testimoni che solo Cristo “parola di vita” dà vita, pace e gioia: si sono date all’Amore e ricevono amore da diffondere nella vita quotidiana.
Lo stesso possiamo fare noi, davanti all’Eucaristia domenicale, davanti a questo gesto che a volte ci appare duro e lontano. La tentazione di sospenderne la pratica in attesa di comprenderla meglio indica una prospettiva illusoria: infatti soltanto praticando il sacramento noi possiamo approfondirne il significato. Soltanto ascoltando Cristo e affidandoci a Lui, che si affida a noi nella comunione, capiremo che solo il Signore ha parole che fanno viva la vita.

1 Il discorso duro” di cui parla il Vangelo non si riferisce solamente all'Eucaristia, cioè alla presenza reale del Cristo nel pane e nel vino, una presenza giudicata impossibile. Il discorso difficile si riferisce a tutto il contenuto del capitolo sesto di San Giovanni:
  • l’offerta di una salvezza che supera le egoistiche attese della folla;
  • la presenza del Figlio di Dio nel figlio del falegname; soprattutto
  • la necessità di condividere la Sua esistenza in dono.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona,
Comment. in Ioan., 11, 5; 27, 9

       L’evangelista ci racconta che il Signore restò con dodici discepoli, i quali gli dissero: "Ecco, Signore, quelli ti hanno abbandonato". E Gesù rispose: "Anche voi ve ne volete andare?" (Jn 6,67), volendo dimostrare che egli era necessario a loro, e non loro erano necessari a Cristo.

       Nessuno s’immagini d’intimorire Cristo, rimandando di farsi cristiano, quasi che Cristo sarà più beato se ti farai cristiano. Diventare cristiano, è bene per te: perché, se non lo diverrai, con ciò non farai del male a Cristo. Ascolta la voce del salmo: "Ho detto al Signore: Tu sei il mio Dio, poiché non hai bisogno dei miei beni" (Ps 15,2). Perciò «Tu sei il mio Dio, poiché non hai bisogno dei miei beni». Se tu non sarai con Dio, ne sarai diminuito; ma Dio non sarà più grande, se tu sarai con lui. Tu non lo fai più grande, ma senza di lui tu diventi più piccolo. Cresci dunque in lui, non ritrarti, quasi ne ricavasse una diminuzione. Se ti avvicini a lui, ne guadagnerai; ti distruggi, se ti allontani da lui. Egli non subisce mutamento, sia che tu ti avvicini, sia che tu ti allontani.

       Quando, dunque, egli disse ai discepoli: «Anche voi ve ne volete andare?», rispose Pietro, quella famosa pietra, e a nome di tutti disse: "Signore, a chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna" (Jn 6,68)...

       Il Signore si rivolse a quei pochi che erano rimasti: "Perciò Gesù disse ai dodici" - cioè a quei pochi che erano rimasti -: «"Anche voi ve ne volete andare?"» (Jn 6,67).

       Anche Giuda era rimasto. La ragione per cui era rimasto era già chiara al Signore, mentre a noi sarà chiara solo più tardi. Pietro rispose per tutti, uno per molti, l’unità per la molteplicità: "Gli rispose Simone Pietro: «Signore, a chi andremo?"» (Jn 6,68). Se ci scacci da te, dacci un altro simile a te. «A chi andremo?». Se ce ne andiamo da te, da chi andremo?

       "Tu hai parole di vita eterna" (Jn 6,68). Vedete in qual modo Pietro, con la grazia di Dio, vivificato dallo Spirito Santo, ha capito le parole di Cristo. In che modo ha capito se non perché ha creduto? «Tu hai parole di vita eterna». Cioè, tu ci dai la vita eterna, nell’offrirci la tua carne e il tuo sangue.

       "E noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto" (Jn 6,69). Non dice Pietro, abbiamo conosciuto e abbiamo creduto, ma «abbiamo creduto e abbiamo conosciuto». Abbiamo creduto per poter conoscere; infatti se prima volessimo sapere e poi credere, non saremmo capaci né di conoscere né di credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? "Che tu sei il Cristo Figlio di Dio (Jn 6,69)", cioè che tu sei la stessa vita eterna, e tu ci dai, nella carne e nel sangue tuo, ciò che tu stesso sei.


giovedì 13 agosto 2015

Pane del Cielo, nato da Maria Vergine, Assunta in Cielo.

- Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria – 15 agosto 2015
Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1 Cor 15,20-27a; Lc 1, 39-56

- Domenica XX del Tempo Ordinario – Anno B – 16 agosto 2015
Rito Romano
Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58

Rito Ambrosiano
Ger 25, 1-13; Sal 136; Rm 11, 25-32; Mt 10, 5b-15
XII Domenica dopo Pentecoste



Premessa.
Quest’anno 2015, la solennità dell’Assunzione1, 15 agosto, cade di sabato e, quindi, è immediatamente seguita dalla Domenica 20ª del Tempo Ordinario, che propone il brano evangelico, in cui il pane non simboleggia più soltanto la Parola di Gesù da accogliere nella fede, ma il sacramento dell'Eucaristia (Gv 6, 51-58). Si tratta di due feste, che hanno come centro Maria portata in cielo e Cristo portatore di Cielo. Quindi, penso che sia utile presentarle insieme.

  1. ASSUNZIONE
1) Maria, arca dell’alleanza - donna eucaristica.
La solennità dell’Assunzione è – credo - la più importante tra le feste della Madonna, perché in essa la Chiesa celebra il mistero della nostra risurrezione che nella persona di Maria è già avvenuto. La festa di oggi ci mostra che Maria, la Vergine Madre, è colei che ha vissuto appieno la sua vita in Cristo. La tradizione, soprattutto quella orientale, infatti non parla della morte della Madonna ma della sua “dormizione”: ella cioè non muore alla vita, la compie in modo tale che Dio la “porta in cielo”. Con la celebrazione liturgica della Vergine assunta in cielo, la liturgia ci insegna che la Madre di Dio è la persona umana che in cielo condivide la pienezza della gloria e gode della felicità stessa di Dio. Nello stesso tempo, chiede anche a noi di diventare “arche” viventi del Dio sempre con noi, “dimore” della presenza di Dio dove gli uomini possono incontrarLo e così possano vivere in comunione con Lui e conoscere la realtà del Cielo, gioiosamente.
La solennità di oggi è una festa di gioia, perché l’amore ha vinto. La Vita ha vinto.. L’amore dimostra di essere più forte della morte. Dio ha la vera forza e la sua forza è bontà e amore. Il corpo della Vergine Maria non poteva conoscere la corruzione della tomba, perché aveva portato in sé l’Autore della Vita. Guardando a quel corpo, trasfigurato subito dalla gloria di Dio, noi possiamo intuire il destino di questo nostro corpo. La morte non è l’ultima parola sulla vita. Essa - ci assicura il mistero dell'Assunzione della Vergine - è transito verso la Vita incontro all’Amore.
Quindi l’Assunzione è pure la nostra festa perché celebra ciò che saremo, ciò che in noi deve ancora avvenire ma che certamente avverrà.
E’, dunque, una festa di speranza gioiosa per tutti noi, perché in Maria Assunta contempliamo il fatto che la vita non finisce nel nulla ma nel cuore di Dio. Questo Cuore è la meta verso la quale andiamo, quando leghiamo la nostra vita a quella di Gesù. Seguendo Cristo come ha fatto la Madonna, saremo, per sempre, anche noi accanto a Lui in Dio, perché in Dio “c’è spazio per l’uomo”.
Ma è vero anche che “nell’uomo c’è spazio per Dio” (Papa Francesco). Nessuno più di Maria ha fatto spazio a Dio, tant’è vero che uno dei nomi con i quali la preghiamo è: “Arca dell’Alleanza”. La Madonna è arca vivente dell’alleanza. E già San Giovanni Damasceno (676 – 749) riferendosi a questo mistero in un’Omelia insegnava: “Oggi la santa e unica Vergine è condotta al tempio celeste … Oggi l’arca sacra e animata del Dio Vivente, [l’arca] che ha portato in grembo il proprio Artefice, si riposa nel tempio del Signore, non costruito da mano d’uomo” (Omelia II sulla Dormizione, 2, PG 96, 723) e continua: “Bisognava che colei che aveva ospitato nel suo grembo il Logos (Parola) divino, si trasferisse nei tabernacoli del Figlio suo … Bisognava che la Sposa che il Padre si era scelta, abitasse nella stanza nuziale del Cielo” (ibid., 14, PG 96, 742).
Maria, primo tabernacolo della Presenza reale di Dio nel mondo, è la nuova arca dell’alleanza, davanti alla quale il cuore esulta di gioia, come Giovanni il Precursore esultò nel grembo di Elisabetta quando la Madonna rese visita a sua madre nel piccolo paese di Ain Karim, a pochi chilometri da Gerusalemme.
Maria, la Madre di Dio, ci insegna a non tenere per noi questa Presenza di cielo, ma a offrirla portando la luce del bene nell’oscurità che c’è nel mondo. Il Pane del Cielo condiviso tra fratelli e sorelle è cibo per il nostro esodo d’amore verso il Cielo.


B) XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINADRIO
2) Maria, Donna eucaristica.
Con l’Assunzione celebriamo la Madre di Cristo, che entra nella Gerusalemme celeste per incontrare il volto del Padre e di suo Figlio: il cammino da lei iniziato andando dalla cugina Elisabetta termina in cielo. Per la precisione devo affermare che, nel viaggio della vita, Maria mai si è staccata dal suo Figlio. Fin dall’inizio, dopo averlo messo al mondo a Betlemme, fuggì con il piccolo Gesù in Egitto. Tornata in patria a Nazareth Lo portò adolescente a Gerusalemme. Inoltre a Nazareth per trent’anni contribuì al Suo umano divenire adulto. Poi Lo seguì quando lasciò questo villaggio di Galilea per predicare nei paesi e città di Israele. Infine lo accompagnò fin sotto la croce, “soffrendo con il suo Figlio e associandosi con animo materno al sacrificio di lui” (Lumen Gentium 58).
Stando fedelmente sotto la Croce, Maria si unì completamente al sacrificio di offerta del suo Figlio. In questo modo Lei visse “una sorta di eucaristia anticipata, si direbbe una comunione spirituale di desiderio e di offerta, che ebbe il suo compimento nell’unione col Figlio nella passione” (Ecclesia de Eucharistia, 56).
Il Vangelo di questa 20ª domenica del Tempo Ordinario, in cui Cristo parla di sé quale pane vivo è ben commentato dalla antifona gregoriana “Ave, verum Corpus, natum de Maria Virgine” (Ti saluto, o vero Corpo, nato da Maria Vergine - sec. XIV), che indica il rapporto essenziale della Madre di Gesù con l’Eucaristia, creduto e cantato dalla Chiesa. Senza dubbio il riferimento a Maria è garante della retta fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Per esempio, quando Berengario (+1088) propose un’interpretazione simbolica dell’Eucaristia svuotando il realismo del corpo di Cristo, il Concilio Romano del 1079 gli impose di sottoscrivere che il pane e il vino dopo la consacrazione sono “il vero corpo di Cristo che è nato dalla Vergine” (DS 700).
Si evidenzia così il ruolo della Madre che è all’origine della vera umanità del Figlio. Maria ci ricorda che il Verbo incarnato nel suo seno è lo stesso pane di vita offerto in cibo ai fedeli. Lei svolge la funzione preziosa di collegare il Sacramento dell’Eucaristia con il mistero dell’Incarnazione. Perciò San Bernardo di Chiaravalle si fece interprete della riconoscenza dei fedeli che ricevono l’Eucaristia, verso la Madre di Gesù dicendo: “Qui vi prego di considerare quanto siamo debitori alla beata Genitrice di Dio e quanti ringraziamenti dobbiamo a lei dopo che a Dio. Quel corpo di Cristo che la beatissima Vergine generò, tenne in grembo con amore, avvolse in fasce, nutrì con materna sollecitudine, quello stesso e indubbiamente non un altro ora riceviamo al santo altare e il suo sangue attingiamo nel Sacramento della nostra redenzione” (Sermo 2 de Natali Domini).
Sull’esempio della Madonna, le Vergini consacrate nel mondo sono anch’esse donne eucaristiche che coltivano in sé stesse in modo speciale i due atteggiamenti indispensabili per vivere l’eucaristia: quello dell’amore e quello dell’offerta. Queste donne ci insegnano ad immedesimarci nei sentimenti di Maria quando partecipava alla Messa e faceva la comunione. Sentimenti ben espressi da S. Giovanni Paolo II “Quel corpo dato in sacrificio e ripresentato nei segni sacramentali era lo stesso corpo concepito nel suo grembo! Ricevere l’eucaristia doveva significare per Maria quasi un riaccogliere in grembo quel cuore che aveva battuto all’unisono col suo e un rivivere ciò che aveva sperimentato in prima persona sotto la Croce (Ecclesia de Eucharistia, 56).
Come la Madonna, le vergini consacrate partecipano alla celebrazione dell’Eucaristia con la gioia che proviene dalla fede (cf At 8,8.39; 13,48.52; 16,34) che ella aveva sperimentato ed espresso nel Magnificat (Lc 1,46-47) e la semplicità di cuore che è propria del povero di Yahvé e delle persone che vivono evangelicamente.
Queste donne consacrate ci mostrano di aver capito come sia ineludibile donarsi a Cristo, che nell’Eucaristia dà se stesso, il suo amore. Questo amore mira all’eternità e la vita che Gesù ci comunica, facendosi pane, è la vita eterna. Questa vita vera non è solo per l’aldilà ma già da ora restituisce dignità ai giorni terreni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del provvisorietà.

1Anche se la proclamazione del dogma dell’Assunzione è abbastanza recente (1950), questa festa è molto antica e nella tradizione delle Chiese Orientali è chiamata “Dormizione”. Le prime indicazioni sull’Assunzione di Maria risalgono al periodo compreso tra la fine del secolo IV e quella del V. Per esempio, Sant’Efrem il Siro (306 – 373) sosteneva che il corpo di Maria non aveva subito corruzione dopo la morte.



Lettura Patristica
Guigone II, Certosino,
Meditatio X


       "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna" (Jn 6,55). Insegnaci, Maestro buono (Mc 10,17), tu che solo insegni all’uomo la sapienza (Ps 93,10); insegnaci come dobbiamo mangiare la tua carne e bere il tuo sangue...

       Quando mangiamo quel pane corporeo e sensibile, noi mettiamo in bocca anzitutto un frammento staccato da un pane, che poi trituriamo con i denti, liquefacciamo con la saliva e ingoiamo, affinché il nutrimento, entrando dentro, distribuisca alimento e forza a tutto il corpo. Ora, il pane dell’anima è Cristo, "pane vivo disceso dal cielo" (Jn 6,41), che nutre i suoi, al presente nella fede, nel mondo futuro con la visione (2Co 5,7). Infatti, Cristo abita per la fede in te, e la fede in Cristo è Cristo stesso nel tuo cuore (Ep 3,17). Nella misura in cui credi in Cristo, in quella stessa misura tu lo possiedi. E Cristo è in verità un solo pane, poiché vi è un solo Signore, una sola fede (Ep 4,5) per tutti i credenti, benché del dono dell’unica fede alcuni ricevano di più e altri di meno. Epperò non vi sono tante fedi quanti sono i credenti, altrimenti non sarebbero i fedeli ad essere sottomessi alla fede, bensì questa a loro. Ora, come è una la verità, del pari una sola fede nell’unica verità guida e nutre tutti i credenti e un solo e medesimo Spirito distribuisce a ciascuno i suoi doni in particolare, secondo il suo beneplacito (1Co 12,11).

       Viviamo tutti dunque dello stesso pane (1Co 10,17), e ciascuno di noi riceve la sua porzione; tuttavia, Cristo è tutto intero per tutti, eccettuati coloro che lacerano l’unità. Non dico tutto intero nel senso che tu gusti Cristo così come lui stesso si gusta, il che non possono fare né gli angeli in cielo, né alcun’ altra creatura. Però nel dono da me ricevuto, io posseggo tutto il Cristo, e Cristo mi possiede interamente, come il singolo membro appartiene a tutto il corpo e possiede in cambio il corpo nella sua interezza.

       Perciò, la porzione di fede da te ricevuta è come il pezzettino di pane nella tua bocca; però, se tu non mediti frequentemente e piamente il contenuto stesso del tuo credere, se con i tuoi denti, ovvero con i sensi dell’anima, non lo macini triturandolo, esso non andrà oltre la gola, come dire che non arriverà mai alla tua intelligenza. Come potrebbe essere compreso, in effetti, quel che viene raramente e con negligenza meditato, tenendo conto poi che si tratta di cosa tanto sottile quanto invisibile? La fede infatti propone cose invisibili, ed occorre compiere un grande sforzo di mente prima che alcunché possa essere deglutito e assimilato. Se, invero, la saliva della sapienza, scendendo dall’alto dal Padre dei lumi (Jc 1,17), non ammorbidisce e liquefa quel nutrimento disseccato, tu fatichi invano (Ps 126,1), perché le riflessioni da te coagulate non penetrano nell’intelligenza...

       Attraverso l’intelligenza, difatti, il cibo stesso passa nell’affetto del cuore, affinché tu non trascuri tutto ciò che hai compreso, e anzi tu lo raccolga con diligenza per mezzo dell’amore. Infatti, se tu non ami ciò che hai compreso, la tua intelligenza avrà lavorato invano: la sapienza, invero, sta nell’amore.

       In effetti, l’intelligenza precede lo spirito di sapienza e non gusta che in maniera del tutto transitoria: l’amore, invece, assapora cibo solido. Nell’amore ha sede tutta la forza dell’anima; in esso si raccoglie tutto il nutrimento vitale, ed è da qui che la vita viene diffusa per tutte le membra che sono le virtù. "Con ogni cura vigila sul cuore, perché da esso sgorga la vita" (Pr 4,23).

       L’amore, dunque, al pari del cuore, è posto al centro, verso il quale convergono le tre cose che lo precedono e cioè la fede, la meditazione e l’intelligenza, e qui si consolidano; da qui stesso poi, procedono e vengono dirette le successive conseguenze. In primo luogo, dall’amore procede l’imitazione. Chi infatti non desidera imitare ciò che ama? Se non amerai Cristo, non lo potrai imitare, e cioè non potrai seguirlo. Disse infatti a Simon Pietro, dopo aver indagato sul suo amore: "Seguimi" (Jn 21,19)...

       Occorre, dunque, seguire Cristo, aderire a lui. "Il mio bene" - è scritto - "è aderire a Dio" (Ps 72,28); e: "A te si stringe l’anima mia e la forza delta tua destra mi sostiene" (Ps 62,9). "Chi si unisce al Signore forma", infatti, "con lui un solo spirito" (1Co 6,17). Non soltanto un sol corpo, ma anche un solo spirito. Dello spirito di Cristo tutto il suo corpo vive. Attraverso il corpo di Cristo, si perviene al suo spirito. Cerca quindi di stare nel corpo di Cristo e sarai un giorno un solo spirito con lui. Già, per la fede, sei unito al suo corpo; per la visione, poi, sarai unito anche al suo spirito. Tuttavia, né la fede, quaggiù, può stare senza lo spirito, né lo spirito potrà stare, lassù, senza il corpo, poiché i nostri corpi non saranno allora degli spiriti, bensì spiritualizzati (1Co 15,44). "Voglio, o Padre" - dice infatti Gesù - "che come tu sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola, perché il mondo creda (Jn 17,21). Ecco l’uomo per fede. E poco dopo: "Perché anch’essi siano perfetti nell’unità, e il mondo conosca" (Jn 17,23). Ecco l’unione per visione.

       Questo significa mangiare spiritualmente il corpo di Cristo: avere in lui una fede pura, e cercare sempre con l’attenta meditazione della stessa fede: e trovare ciò che cerchiamo con l’intelligenza; amare poi ardentemente ciò che si è trovato; imitare ciò che amiamo con tutte le nostre forze, e imitando aderire costantemente a lui; e aderendo, esservi perennemente uniti.




venerdì 7 agosto 2015

Il Pane vero è il Corpo di Cristo.

Domenica XIX del Tempo Ordinario – Anno B – 9 agosto 2015
Rito Romano
1 Re 19, 4-8; Sal 33/34; Ef 4,30-5,2; Gv 6, 41-51


Rito Ambrosiano
1Re 18,16b-40a; Sal 15; Rm 11,1-15; Mt 21, 33-46
XI Domenica dopo Pentecoste


1) Pane di Vita eterna.
Due domeniche fa abbiamo visto il dono del pane che Gesù fa sul lago di Tiberiade, moltiplicando cinque pani per condividerli con numerosa gente che lo seguiva. Domenica scorsa, abbiamo visto questa gente cercare perché voleva ancora mangiare di quel pane moltiplicato e condiviso. Oggi, il Messia spiega che l’importante non è il pane della terra, ma il Pane del cielo, cioè Lui stesso. Di fronte a questa affermazione di Gesù: “Sono io il pane disceso dal cielo” (Gv 6, 48), i giudei reagiscono mormorando. Non riescono a convincersi dell’origine divina di Gesù. Per loro che pensano di conoscerlo bene, è solamente il figlio di Giuseppe e allora come poteva essere sceso dal cielo? Di fronte alle mormorazioni dei giudei, Gesù non discute, ma riafferma: “Sono io il pane disceso dal cielo”, “Sono io il pane della vita”.
Non è il pane di Mosè che dà la vita per sempre: “I vostri padri mangiarono la manna nel deserto, eppure sono morti” (Gv 6, 49). Gesù - e solo Gesù - è il “Pane”, la Parola e la sapienza di cui l’essere umano ha fame. Più avanti si comprenderà che il pane è anche l’Eucaristia, ma ora - a questo punto del discorso – l’insistenza è sulla Parola. L’Antico Testamento è tutto percorso da un'ansiosa ricerca della Parola di Dio che rischiara il cammino della vita e ne rivela il senso. Nella tradizione giudaica la manna era divenuta il simbolo della Parola. E i giudei lo attendevano di nuovo in dono, abbondantemente. Il nostro passo evangelico afferma che proprio Gesù, il figlio del falegname, riassume in sé tutta questa attesa e la porta a compimento. Di fronte al rifiuto dei giudei Gesù non si limita a denunciare l’incredulità, né si accontenta di indicarcene la ragione. Ci svela l’origine e le condizioni della fede. Il pensiero è tanto importante che Gesù lo ripete due volte: “Chi ascolta il Padre e si lascia da lui istruire viene a me”, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”. Nessuno può andare da Cristo, se il Padre non lo attira. Non si diventa cristiani se non per questa attrazione, non certo per via di indottrinamento. Noi diventiamo cristiani per attrazione: siamo attirati da un Dio buono come il pane, umile come il pane, cibo inesauribile che alimenta la vita, ogni vita, tutta la vita.
Nel cuore di ogni uomo c’è l’attrazione al Figlio, esercitata dal Padre. La struttura fondamentale dell’uomo è essere figlio. Anche il desiderio di fraternità indica la necessità di un padre (Gesù è la prima persona che ha vissuto nel corpo la realtà di Figlio del Padre e di fratello di tutti.). E cosa vuole un figlio dal padre? Vuole la vita nell’amore. Vuole essere amato incondizionatamente dal Padre. Tutto ciò è inscritto nel cuore di ogni persona umana ed è questo desiderio dell’amore del Padre che ci fa figli e ci attira al Figlio, fratello nostro, fonte inesauribile di vita, di bene e grazia.
Il Padre ci attira non con la costrizione ma con il dono di suo Figlio, un’offerta che suscita la libertà del destinatario: la manna è dono e domanda (manna viene da man hu: che cos’è?); il dono che Gesù è, suscita a sua volta alcune domande sulla sua identità (“chi è?”: cfr. Gv 6,42). Così, le domande incredule di coloro che conoscendo l’origine umana di Gesù non accedono alla fede in lui quale rivelatore di Dio, non dicono solamente il peccato di chi le formula, ma esprimono anche il carattere non coercitivo e non obbligante del dono che Gesù è e fa. Il vero dono si espone alla libertà del destinatario, anche al possibile rifiuto. Anche all’umiliazione dell’indifferenza o del rigetto.

2) Mangiare.
Il Vangelo di oggi, nei versetti finali, 48-51, parla di carne da mangiare. E credere sarà sostituito dal mangiare e dal bere. Credere è qualcosa di molto concreto: è mangiare. Mangiare è il processo di assimilazione, così anche il bere. L’Eucaristia è l’assimilazione del Figlio e vedremo come avviene.
Credo, dunque, che sia corretto dire che il verbo principale del Vangelo di oggi è “mangiare”. Esso indica un gesto semplice, quotidiano, ma vitale. Mangiare è questione di vita o di morte e Dio è questo: è una questione di vita o di morte. Ne va della nostra vita. Il segreto, il senso ultimo nel tempo e nell’eterno è vivere di Dio. Cristo non si dà da mangiare solo per farci diventare più buoni, ma per farci diventare Dio, figli nel Figlio. Mangiare il corpo e il sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo (Leone Magno).
Il corpo di Cristo, il suo essere uomo tra noi, la povera umanità che ha assunto, è il Pane che dà la vita eterna. E l’uomo è strappato alla morte ed è risuscitato “nell'ultimo giorno”, ma già ora chi crede in Cristo possiede la vita eterna. “Come il legno della vite, piantato in terra, dà frutto a suo tempo, come il grano di frumento, caduto in terra e marcito, sorge molteplice, allo stesso modo i nostri corpi, nutriti dell'Eucaristia, deposti in terra e qui dissolti, risorgeranno a suo tempo perché il Verbo di Dio elargirà loro la risurrezione a gloria di Dio Padre. Dio non ha... tollerato che ci dissolvessimo nella terra” (Ireneo di Lione).
Gesù è venuto a portare molto più del perdono dei peccati: ha portato se stesso, ha dato se stesso, offrendosi come cibo. Tutta la vita del Figlio fu ed è Eucaristia, quindi tutto è da Lui visto come Eucaristia. Mangiare la carne e il sangue di Cristo, non si riduce perciò al rito della Messa. Il corpo di Cristo non sta solo sull’altare - del suo Spirito è piena la terra - Dio si è vestito d’umanità, al punto che l’umanità intera è la “carne” di Dio. Infatti Lui disse: “Quello che avete fatto a uno di questi l’avete fatto a me”. “Mangiare il pane di Dio” è nutrirsi di Cristo e di Vangelo, è mangiare quel pane buono, costantemente.
Domandiamoci allora: noi di che cosa ci nutriamo? Di che cosa alimentiamo cuore e pensieri? Stiamo mangiando generosità, bellezza, profondità? O stiamo nutrendoci di superficialità, miopie, egoismi, intolleranze, insensatezze? Se accogliamo in noi pensieri degradati questi ci riducono come loro; se accogliamo pensieri di Vangelo, di bontà e di bellezza essi ci fanno uomini e donne della bellezza. Se ci nutriamo di Vangelo, il Vangelo dà forma al nostro pensare, al sentire, all’amare. Se ci nutriamo del Corpo di Cristo, ci assimiliamo a Lui e diventiamo ciò che ci abita.
Un esempio particolare di vita eucaristica è quello che ci è offerto dalla Vergini Consacrate nel mondo. Queste donne sono consapevoli che “la vita consacrata ritrova la sua identità quando lascia trasparire nei fatti la "memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli. Essa è vivente tradizione della vita e del messaggio del Salvatore” (Vita Consecrata, n. 22). Per questa ragione aderiscono a Cristo, loro Sposo in modo speciale mediante la comunione. Alcuni Maestri spirituali distinguono tre tipi di comunione che permettono di aderire a Dio: l’Eucarestia, la contemplazione e l’obbedienza.
Questi tre tipi non si oppongono tra di loro e la vita delle Vergini consacrate mostra come essi siano tra loro uniti e fruttuosi.
Prima di tutto la comunione eucaristica quotidiana che assicura alla Consacrate la presenza e l’azione vivificante del Corpo e del Sangue, dell’anima e della divinità di Cristo che si immola, che, dunque, diffonde la sua vita. In secondo luogo la contemplazione. Essa è la preghiera che diventa sguardo e con essa la persona consacrata si espone alla luce del Verbo fatto carne, luce che ci trasforma di chiarore in chiarore. Infine, l’obbedienza che non è vissuta dalle Vergini consacrate come sottomissione esteriore o come semplice esecuzione di un ordine, ma il ripetere nella vita di ogni giorno il “sì” di Maria al Signore che chiede di dimorare in loro e, tramite loro, nel mondo.


Lettura Patristica
Sant’Agostino d’Ippona
Comment. in Ioan., 26, 2.4.10.13



Solo un cuore che ama può comprendere

       "Non mormorate tra voi: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato" (Jn 6,43-44).

       Con queste parole il Signore ci annunzia una grande grazia. Nessuno va a lui se non è attirato. Non cercare di giudicare chi è che sarà attirato e chi è che non lo sarà, né di stabilire perché uno sarà attirato e un altro non lo sarà, se non vuoi sbagliare. Accetta queste parole e cerca di capirle. Non sei attratto dal Signore? Prega per esserlo. Cosa veniamo a dire, fratelli? Che se siamo attirati a Cristo, allora crediamo nostro malgrado, cioè è per effetto della costrizione, non per effetto della nostra libera volontà? In verità, si può entrare nella chiesa contro la propria volontà, e, contro la propria volontà si può essere indotti ad avvicinarci all’altare e a ricevere i sacramenti; ma non si può credere contro la propria volontà...

       Quando ascolti: «Nessuno viene a me se non è attirato dal Padre», non pensare di essere attirato tuo malgrado. La tua anima è attirata anche dall’amore. Non dobbiamo temere di essere rimproverati da quanti stanno attenti alle parole, ma restano lontanissimi dalla interpretazione delle cose divine, i quali, a proposito di questo passo delle sante Scritture, potrebbero dirci: In qual modo credo di mia volontà se sono attirato da Dio? Io rispondo: Non sei attirato per mezzo della volontà, ma per mezzo della gioia. Che significa essere attirati per mezzo della gioia? "Metti nel Signore la tua gioia, ed egli ti darà ciò che domanda il tuo cuore" (Ps 36,4). Si tratta di una certa qual gioia interiore, cui è nutrimento quel pane celeste.

       Se il poeta ha potuto dire: «Ciascuno è attirato dal suo piacere» (Virgilio, Egl., 2), - ho detto piacere, non necessità, gioia, non costrizione -, con quanta maggior ragione possiamo dire noi che l’uomo è attirato a Cristo, in quanto in esso trova la gioia della verità, della beatitudine, della giustizia, della vita eterna, tutto ciò insomma che è Cristo medesimo? Se il corpo ha i suoi piaceri, perché l’anima non dovrebbe avere i suoi? Se l’anima non avesse i suoi piaceri, il salmista non direbbe: "I figli dell’uomo spereranno sotto la protezione delle tue ali; si inebrieranno per l’abbondanza della tua casa, e, tu darai loro da bere alla fonte delle tue delizie; perché presso di te è la fonte della vita e nella tua luce vedremo la luce" (Ps 35,8ss).

       Dammi un cuore che ama, ed egli capirà ciò che io dico. Dammi un cuore che desidera, un cuore affamato e assetato che si sente in esilio in questa solitudine terrena, un cuore che sospira la fonte della sua eterna dimora ed egli confermerà ciò che dico. Ma se io parlo a un cuore gelido, egli non potrà capirmi. E tali erano coloro che mormoravano...

       "In verità, in verità vi dico, chi crede in me ha la vita eterna" (Jn 6,47). Ha voluto rivelare la sua natura. Avrebbe potuto dire più brevemente: Chi crede in me avrà me stesso. Cristo è infatti vero Dio e vita eterna. Chi crede in me, egli dice, viene in me; e chi viene in me, ha me stesso. Cosa intende, Cristo, dicendo «ha me stesso»? Intende, avere la vita eterna.

       Colui che è vita eterna accettò la morte, ha voluto morire: ma nella tua natura, non nella sua. Egli ha ricevuto la natura carnale da te, in modo da morire per te. Ha preso la carne dagli uomini, ma non nel modo in cui la prendono gli uomini. Egli, che ha il Padre nel cielo, scelse una madre in terra: in cielo è nato senza madre, in terra è nato senza padre. La vita ha accettato la morte, affinché la vita uccidesse la morte. Dunque «chi crede in me - dice - ha la vita eterna»; non la vita che appare manifesta, ma quella che sta nascosta. Perché la vita eterna, cioè il Verbo, «in principio era presso Dio, ed era Dio il Verbo, e la vita era la luce degli uomini».

       Lui che è vita eterna, ha dato la vita eterna alla carne che aveva assunto. È venuto per morire e nel terzo giorno è risuscitato. Tra il Verbo che accetta di farsi carne, e la carne che risuscita, la morte è annientata...

       "Io sono il pane vivo, io che sono disceso dal cielo" (Jn 6,51). Cioè sono vivo perché discendo dal cielo. Anche la manna era discesa dal cielo: ma la manna era un simbolo, questo pane è la verità. "Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo ()".

       Come la carne, cioè gli uomini, potevano comprendere il Signore che dava al pane il nome di carne? Egli chiamava carne ciò che la carne non può comprendere, e tanto meno lo comprende in quanto chiama il pane carne. Per questo essi inorridirono, e dissero che era troppo, e che non era possibile. «È la mia carne - disse -per la vita del mondo».

       I fedeli conosceranno il corpo di Cristo, se non trascureranno di essere essi stessi il corpo di Cristo. Che divengano il corpo di Cristo, se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Solo il corpo di Cristo vive del suo Spirito. Cercate di capire, fratelli, quanto ho detto. Tu sei un uomo, hai lo spirito e hai il corpo. Chiamo spirito ciò che è chiamato anima, grazie alla quale l’uomo è uomo: infatti l’uomo consta di anima e di corpo. Hai dunque uno spirito invisibile, mentre il corpo è visibile. Dimmi: è il tuo spirito che vive del tuo corpo, o il tuo corpo che vive del tuo spirito? Mi rispondano coloro che vivono (e chi non può rispondere, io non so se egli vive); è il corpo che vive del mio spirito. Tu vuoi vivere dello Spirito di Cristo? Sii nel corpo di Cristo. Forse che - obietti - il mio corpo vive del tuo spirito? Il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. Questo ci dice l’apostolo Paolo quando ci spiega la natura di questo pane: "Un solo pane, un solo corpo siamo noi, anche se siamo molti" (1Co 10,17).

       Oh, grande mistero d’amore! grande simbolo di unità! grande legame di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, e ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri nel corpo, e parteciperà alla vita. Non fugga la unione con gli altri membri, non sia un membro corrotto che merita di essere tagliato, non sia un membro difforme di cui il corpo debba vergognarsi, sia bello, sia composto, sia sano, si unisca al corpo e viva di Dio e per Dio: si affaticherà sulla terra, ma per regnare, dopo, in cielo.